Capitolo 11
Betty si sentì sollevata quando vide che la sua auto non era nel garage nel momento in cui Marsha accostò nel vialetto d’ingresso.
«Oggi sei molto silenziosa», notò Marsha parcheggiando la macchina. «Sei sicura che vada tutto bene?».
Betty tirò su col naso. «Come ti ho detto, è stata una settimana un po’ stressante».
«Spero che la festa del nostro anniversario non ti abbia stressato ancora di più».
«No, no, assolutamente. A dire il vero, Avery si è proprio divertita ad aiutarmi».
«Sono così impaziente di vedere cos’ha preparato».
Betty annuì. «Anch’io».
«E adesso è meglio che vada in lavanderia». Marsha diede un’occhiata all’orologio. «Ci credi che non ho ancora finito di fare le valigie?»
«Oh, quasi mi ero dimenticata che Jim ha prenotato la crociera». Betty prese la borsetta e allungò la mano verso la maniglia della portiera. «Quand’è che partite?»
«Domenica mattina. Ci mancherà la messa di Natale in chiesa».
«Anche tu mi mancherai». Betty sospirò quando aprì lo sportello.
«Almeno ci sarà Avery a farti compagnia». Marsha le diede una pacca sulla spalla. «Per me è confortante saperlo. Ho detto a Jim che ero così triste al pensiero che quest’anno passavi il Natale da sola».
Betty si sforzò di sorridere. Non aveva intenzione di dire a Marsha che forse Avery, alla fine, se ne sarebbe andata a casa. Perché farla preoccupare? «Avery ha messo gli addobbi natalizi e vuole che cuciniamo un tacchino. Sai che non preparo il tacchino da anni?». Betty era uscita dalla macchina. «Ci vediamo domani, Marsha. E grazie di nuovo per avermi aiutato col cane».
Marsha la salutò con la mano mentre faceva marcia indietro.
Betty entrò in casa, passando dal garage. Si fermò davanti alla lavanderia, dove c’erano ancora le cose del cane, come se potesse tornare a casa da un momento all’altro. In fretta, prese il plaid e le ciotole e le ripose nello scaffale più basso del garage. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. O almeno così si augurò.
Poi si fece una tazza di tè e si accomodò sulla poltrona reclinabile per rilassarsi. Ma mentre se ne stava seduta là, non faceva altro che pensare a quello stupido cane. E persino quando chiuse gli occhi, sperando di farsi un sonnellino, le sembrò che quegli occhi canini, marroni e liquidi, le si fossero stampati indelebilmente nella mente. Alla fine allungò la mano verso il telecomando e accese la tivù, facendo zapping tra i soliti canali, finché non comparve la sagoma di una pattinatrice.
«Eccomi», annunciò a gran voce Avery entrando in salotto.
Betty aprì gli occhi, strizzandoli alla luce.
«Scusa, nonna. Ti ho svegliato?»
«No, tranquilla». Sorrise a sua nipote, e la osservò mentre si toglieva il parka e si srotolava la sciarpa dal collo.
«Fuori fa così freddo». Avery si sfregò le mani. «Credo proprio che nevicherà».
«Forse hai ragione». Betty mise giù il poggiapiedi, e si drizzò a sedere. «Allora, dimmi, com’è andato l’addobbo della sala?».
Gli occhi di Avery si illuminarono. «Splendidamente, nonna; è venuto proprio fico».
«Fico?», fece Betty, incassando.
«Meglio di quanto mi aspettavo. Nessuno si renderà conto di essere nello scantinato di una chiesa. Laggiù adesso è un altro mondo».
«Un altro mondo?». Betty non sapeva come interpretarlo. Un altro mondo come il Messico, o il covo dei pirati, o forse Marte? Eppure, era determinata a non mostrare il minimo segno di sfiducia.
«Dov’è Ralph?», chiese Avery.
Betty si alzò lentamente.
«Nonna?», fece Avery con voce ora preoccupata. «Dov’è? L’hai trovato? Sta bene?»
«Avery…». Betty guardò la nipote dritta negli occhi. «Devo dirti una cosa».
«È stato ferito?». Avery era davvero sconvolta.
«No, sta benissimo».
Avery sembrò sollevata. «Ah, bene. Ma dov’è? Fuori?»
«Non è qui».
Avery si accigliò. «Dov’è, nonna?».
Betty andò in cucina. Si rendeva conto che stava prendendo tempo, ma non ci aveva pensato a fondo. Non aveva pensato a come spiegare a Avery ciò che aveva appena fatto. Come farle capire?
«Nonna?». Avery la seguì.
«Il cane è scappato di nuovo», cominciò Betty. «L’ho cercato in tutto il quartiere, Avery. Ero piuttosto preoccupata, e alla fine l’ho trovato. Era con Jack, sul suo furgone».
«L’ha preso Jack?»
«No».
«Allora, cos’è successo?», domandò Avery. «Dov’è Ralph?»
«So che stavi pensando di andare a casa per Natale, Avery. Anzi, credo proprio che sia quello che dovresti fare, e…».
«Cosa c’entra questo con Ralph?»
«Be’, come sai, non posso tenere un cane. A gennaio andrò da Susan, e potrei addirittura vendere la mia…».
«Per favore, nonna. Taglia corto. Dov’è Ralph?»
«L’ho portato al rifugio per animali».
«Al canile? L’hai abbandonato al canile?»
«È un rifugio per animali», sottolineò Betty. «Si prenderanno cura di lui e gli troveranno una casa e forse i suoi veri padr…».
«Sempre che il rifugio non sia sovraffollato», ringhiò Avery. «Allora, potrebbero sopprimerlo».
«Oh, no», si affrettò ad aggiungere Betty. «Sono brave persone. E ho anche lasciato dei soldi per comprare il cibo per i cani. Non gli faranno del male». Ma persino mentre pronunciava quelle parole, non lo sapeva per certo. E l’idea di qualcuno che potesse fargli del male, o di essere responsabile, la ferì come un coltello.
Avery adesso piangeva. Si accasciò su una sedia della cucina: si teneva la testa tra le mani e singhiozzava. «Amo quel cane, nonna. Ho bisogno di lui».
Betty non sapeva che dire. E quando squillò il telefono, si sentì sollevata per quella distrazione. Finché non si rese conto che all’altro capo c’era la madre di Avery. Si era completamente dimenticata che Avery le aveva promesso di prendere una decisione entro sera.
«Ciao, Stephanie», disse Betty con voce piatta.
«Posso parlare con Avery, per favore?».
Betty lanciò un’occhiata a Avery, che stava singhiozzando al tavolo della cucina. «Avery sta, ehm, bene, ma in questo momento non può rispondere al telefono».
«Non può? O non vuole?»
«È un po’ sconvolta», spiegò Betty.
«Sconvolta? Perché? Cosa sta succedendo, Betty?»
«È triste perché ho portato un cane randagio al rifugio per animali».
«Tutto qui? Per favore, passamela. Ho bisogno di parlarle».
Betty allungò il filo del telefono fin dove era seduta Avery. Coprendo la cornetta, Betty disse sottovoce: «È tua madre, tesoro. Vuole parlarti».
Avery alzò lo sguardo, aveva gli occhi umidi. «Non voglio parlare con lei». Poi si alzò, ma prima che uscisse dalla stanza aggiunse: «E nemmeno con te».
Betty sentì un nodo alla gola mentre riportava il telefono all’orecchio. «Mi dispiace, Stephanie, ma Avery non vuole proprio parlarti in questo momento».
«Be’, e quando vuole parlare?»
«Non te lo so dire, cara». Betty sentì la porta d’ingresso aprirsi e chiudersi.
«Perché dobbiamo risolvere le cose. Gary ha appena trovato un biglietto aereo online. Non è economico, ma è comunque meglio di quanto ci aspettavamo».
«È una buona cosa».
«È una buona cosa solo se Avery torna a casa».
«Già, hai ragione». Betty guardò fuori, dalla finestra della cucina, e scrutò l’oscurità, preoccupata perché sua nipote era uscita a piedi, da sola, in una fredda sera d’inverno.
«E non sappiamo se Avery tornerà a casa. Non ha senso sprecare soldi per un biglietto aereo se Avery non ha intenzione di tornare. Capisci cosa ti sto dicendo, Betty?». Stephanie lo domandò come se stesse parlando con una bambina.
«Certo che sì».
«Allora, mi dici cosa dovremmo fare? Devo dire a Gary di comprare il biglietto?»
«Proprio non lo so».
«Mi prometti che ti assicurerai che Avery arrivi in aeroporto e che salga sull’aereo? È un volo notturno».
«Notturno?»
«Sì, l’aereo parte alle dieci e un quarto, alla tua ora locale».
«Di sera, quindi?»
«Certo, altrimenti non avrei detto notturno, Betty».
«Ah, già». Si immaginò mentre accompagnava Avery in aeroporto di sera. Betty non vedeva bene al buio, e l’aeroporto era a circa un’ora di macchina.
«Allora, Betty, lo dobbiamo prenotare o no, quest’aereo?». La voce di Stephanie era sempre più impaziente: le fece pensare a un elastico troppo teso.
«Non posso prendere questa decisione, non posso proprio».
«Be’, qualcuno la deve prendere».
«E credo che quel qualcuno debba essere Avery».
«Allora, passami Avery!».
«Non posso».
«Perché non è qui».
«Ma prima hai detto…».
«Nel frattempo è uscita».
«Ma è sera, e anche da te dev’essere già buio».
«Sì, è buio. Mi dispiace, Stephanie, ma non so come aiutarti. Dovete decidere tu e Gary riguardo al biglietto aereo».
In qualche modo, Betty riuscì a districarsi da quella conversazione telefonica, poi indossò in fretta il cappotto e uscì a vedere se trovava Avery. Fece su e giù per la strada, guardando qua e là: si sentiva sciocca, vecchia e stanca. Davvero, che possibilità aveva lei di trovare una ragazza giovane?
Infine tornò a casa, sconfitta. Per curiosità, controllò in camera di Avery. Si sentì sollevata quando vide che la ragazza non si era portata dietro niente. Nemmeno la borsetta. Forse stava solo facendo una passeggiata per sbollire la rabbia. E considerate le temperature, che quella sera stavano scendendo sotto lo zero, l’avrebbe sbollita in fretta.
Erano quasi le otto quando infine Betty si preparò un po’ di fiocchi d’avena per cena, anche se in realtà non aveva fame. Dov’era Avery? Stava bene? Doveva chiamare la polizia e denunciare la comparsa della nipote? Ma le avrebbero dato ascolto? Non c’era una regola che diceva che una persona doveva essere scomparsa da più di un giorno prima di poter iniziare a cercarla? Ma Betty poteva sempre spiegare alla polizia che sua nipote era sconvolta, forse addirittura depressa. In quel caso, l’avrebbero cercata? Se Marsha e Jim non erano indaffarati a fare le valigie e a prepararsi per il loro grande giorno, nonché per la crociera d’anniversario, Betty li avrebbe chiamati per chiedere aiuto.
Dopo qualche cucchiaio di porridge, mollò la ciotola e cominciò a pulire la cucina. Alle nove, decise di telefonare alla polizia. Insomma, non faceva certo male. Ma come si era aspettata, era ancora presto per una denuncia di scomparsa.
«Quasi tutti i casi simili si risolvono da soli», le disse la poliziotta al telefono. «Probabilmente sua nipote sta già tornando a casa».
«Ma…».
«Se la farà sentire meglio, dirò alle nostre pattuglie che sua nipote è in giro».
«Oh, sì, sarei molto contenta». Betty le diede una descrizione di Avery, la ringraziò ancora e poi riattaccò. Guardò alla finestra del soggiorno: fuori era buio e sperò che, come le aveva assicurato la poliziotta al telefono, Avery sarebbe tornata all’improvviso a casa.
Poi provò a guardare un po’ di tivù e alla fine se ne andò a letto, ma era troppo preoccupata per dormire. Allora pregò. Pregò che in qualche modo Dio sbrogliasse quella matassa sempre più intricata che aveva creato lei stessa. Pregò Dio affinché prendesse ciò che pareva il male e lo trasformasse in bene.
E giusto qualche minuto dopo le undici, Betty sentì la porta d’ingresso che si apriva e si richiudeva. L’aveva lasciata aperta apposta, nella speranza che Avery tornasse a casa. Ma in quel momento si allarmò. E se un perfetto estraneo si fosse intrufolato in casa sua? E se magari era quello strano vicino, Jack?
Betty rimase immobile, aveva quasi paura di respirare mentre ascoltava i passi silenziosi. E poi sentì quei passi andare in camera di Avery e chiudere la porta. Certo che doveva essere la nipote. Ma, giusto per essere sicura, Betty sgusciò fuori dal letto e andò in sala da pranzo in punta di piedi. Dallo schienale di una sedia penzolava il parka di Avery, e c’era anche la sua sciarpa rossa. La ragazza era al sicuro.