CAPITOLO VII

 

Fu solo la domenica, il dopodomani dell'eccidio di Sainte-Roure, che le truppe ripassarono per Plassans. Il prefetto e il colonnello, che il signor Garçonnet aveva invitati a pranzo, entrarono essi soli in città. I soldati fecero il giro dei bastioni e andarono ad accamparsi nel sobborgo, sulla strada di Nizza. Calava la notte. Il cielo, coperto fin dalla mattina, aveva degli strani riflessi gialli, che rischiaravano la città con una luce incerta, simile a quei lampi color rame che preannunciano la tempesta. L'accoglienza degli abitanti fu contrassegnata da paura. Quei soldati, ancora macchiati di sangue, che passavano, stanchi e muti, nel crepuscolo torbido, ispirarono disgusto ai piccoli borghesi ben vestiti del Corso; quei signori, tenendosi a distanza, si raccontavano a bassa voce spaventose storie di fucilate, di feroci rappresaglie, di cui il paese serba tuttora il ricordo. Incominciava il terrore del colpo di Stato, terrore vago, opprimente, che fece rabbrividire il Mezzogiorno della Francia per mesi e mesi. Plassans, nell'ora dello sgomento e dell'odio contro gli insorti, aveva accolto le truppe, al loro primo passaggio, con grida d'entusiasmo; ma adesso, davanti a quel reggimento truce, pronto a sparare a un ordine del comandante, anche i redditieri e perfino i notai della città nuova interrogavano se stessi con ansia, si chiedevano se avessero commesso qualche peccatuccio politico meritevole di fucilazione.

Le autorità erano rientrate la mattina, su due carrette prese in affitto a Sainte-Roure. Il loro arrivo imprevisto non aveva avuto niente di trionfale. Rougon restituì senza troppa tristezza al sindaco la sua poltrona. Il gioco era fatto: egli aspettava da Parigi, febbrilmente, la ricompensa del suo civismo. La domenica - egli ci sperava soltanto per il giorno dopo - ricevette una lettera di Eugène. Fin da giovedì Félicité si era affrettata a mandare a Eugène i numeri della «Gazette» e dell'«Indépendant», che, in una seconda edizione, avevano raccontato la battaglia notturna e l'arrivo del prefetto. A volta di corriere, Eugène rispondeva che la nomina di suo padre a ricevitore particolare stava per essere firmata; ma, aggiungeva, desiderava già annunciargli immediatamente una buona notizia: aveva ottenuto per lui il nastro della Legion d'onore. Félicité pianse. Suo marito decorato! I suoi sogni ambiziosi non si erano mai spinti fin là. Rougon, pallido di gioia, disse che quella sera stessa bisognava dare una grande cena. Non stava più a far conti: per celebrare quel bel giorno, avrebbe gettato al popolo dalle due finestre del salotto giallo le sue ultime monete da cento soldi.

«Stammi a sentire», disse a sua moglie, «inviterai Sicardot: è già tanto tempo che mi scoccia mettendo in mostra la sua decorazione, quell'individuo! Poi Granoux e Roudier, ai quali non mi dispiace di far capire che, con tanti soldi che si ritrovano, non riusciranno mai ad avere la croce. Vuillet è uno strozzino, ma il trionfo dev'essere completo; avvertilo, come tutta la marmaglia del suo stampo... Dimenticavo: andrai personalmente a invitare il marchese; lo metteremo alla tua destra, sarà un grande onore per la nostra tavola. Tu sai che Garçonnet frequenta assiduamente il colonnello e il prefetto. È per farmi capire che io non sono più nulla. Me ne infischio, io, della sua carica di sindaco: non gli rende un soldo! Mi ha invitato, ma gli dirò che ho degli invitati anch'io. Lo vedrai ridere verde, domani... E metti i piattini nei piatti grandi. Fa' venire tutto dall'Hôtel de Provence. Bisogna che la cena del sindaco faccia una figura meschina in confronto».

Félicité si mise al lavoro. Pierre, benché fuori di sé dalla gioia, provava ancora una vaga inquietudine. Certo, il colpo di Stato pagava i suoi debiti; Aristide si pentiva dei propri errori; e lui, Rougon, si sbarazzava finalmente di Macquart; ma temeva qualche sciocchezza da parte di suo figlio Pascal, e soprattutto era molto inquieto quanto alla sorte a cui sarebbe andato incontro Silvère. Non aveva per Silvère alcuna commiserazione, tutt'altro; ma temeva che l'affare del gendarme andasse a finire davanti alla Corte d'Assise. Ah, se una pallottola intelligente avesse potuto sbarazzarlo di quel piccolo scellerato! Come Félicité gli aveva fatto osservare fin dalla mattina, gli ostacoli erano caduti dinanzi a lui: quella famiglia che era il suo disonore aveva, all'ultimo momento, lavorato per innalzarlo: i suoi figli, Eugène e Aristide, quei mangiapane a ufo dei quali egli aveva rimpianto amaramente i mesi di collegio, pagavano finalmente gli interessi del capitale speso per i loro studi. E bisognava proprio che il pensiero di quel maledetto Silvère turbasse quell'ora di trionfo!

Mentre Félicité correva di qua e di là per gli inviti a cena, Pierre apprese che i soldati erano arrivati e si decise ad andare a informarsi. Sicardot, al quale egli aveva chiesto notizie al suo ritorno, non sapeva nulla: Pascal doveva essersi trattenuto per curare i feriti; quanto a Silvère, non era stato nemmeno visto dal maggiore, che lo conosceva poco. Rougon si recò al sobborgo, ripromettendosi di profittare dell'occasione per dare a Macquart gli ottocento franchi che era riuscito a mettere insieme con molti sforzi. Ma quando fu nella ressa dell'accampamento, e vide di lontano i prigionieri seduti in lunghe file sulle travi dell'aia di SaintMittre e guardati a vista dai soldati col fucile spianato, ebbe paura di compromettersi e sgusciò via pian piano verso la casa di sua madre, con l'intenzione di mandare la vecchia a cercar notizie.

Quando entrò nella catapecchia, era già quasi calata la notte. Dapprima vide soltanto Macquart, che fumava e beveva a piccoli sorsi.

«Sei tu? Non è una cattiva cosa», mormorò Antoine, che si era rimesso a dare del tu al fratello. «Mi sento tremendamente vecchio qui. Hai il denaro?».

Ma Pierre non rispose. Aveva visto suo figlio Pascal, chino sul letto. Lo interrogò con inquietudine. Il medico, meravigliato di tanta preoccupazione, che in un primo momento attribuì a tenerezza paterna, gli rispose con calma che i soldati l'avevano preso e che l'avrebbero, fucilato se non fosse intervenuto un brav'uomo che egli non conosceva affatto. Salvato dalla sua qualifica di medico, era ritornato con le truppe. Fu un gran sollievo per Rougon: ancora un altro che non lo avrebbe compromesso. Gli stava testimoniando la propria gioia con ripetute strette di mano, quando Pascal lo interruppe, dicendo con voce triste:

«Non rallegratevi. Ho trovato la mia povera nonna in condizioni molto brutte. Le riportavo questa carabina, alla quale lei è affezionata; e, vedete, era là e non si è più mossa».

Gli occhi di Pierre si erano abituati all'oscurità. Allora, negli ultimi bagliori della sera, egli vide la zia Dide rigida, come morta, sul letto. Quel povero corpo, squassato dalle nevrosi fin dalla culla, era sopraffatto da un'ultima crisi. I nervi avevano, si può dire, divorato il sangue; il sordo lavoro di quella carne ardente, che si esauriva e si distruggeva da sé in una tardiva castità, giungeva a compimento, riduceva la poveretta a un cadavere galvanizzato ancora soltanto da scosse elettriche. In quel momento, sembrava che un dolore atroce avesse affrettato la lenta decomposizione del suo organismo. Sul suo pallore di monacella, di donna fiaccata dall'ombra e dalle rinunce del convento, spiccavano macchie rosse. Col viso sfigurato, con gli occhi orribilmente aperti, con le mani raggrinzite e contorte, essa stava lì lunga distesa, e il vestito faceva apparire, con le sue pieghe angolose, la magrezza delle membra. Con le labbra strette, essa diffondeva, in fondo alla stanza nera, l'orrore di un'agonia muta.

Rougon fece un gesto di malumore. Quella vista straziante fu per lui spiacevolissima; aveva invitati a casa sua quella sera, sarebbe stato un bel guaio per lui essere triste! Davvero sua madre le inventava tutte per metterlo in difficoltà. Avrebbe potuto scegliere un altro giorno per avere la crisi! Perciò volle assumere un atteggiamento del tutto tranquillo; disse:

«Bah! Non sarà nulla. L'ho veduta cento volte in queste condizioni. Bisogna lasciarla riposare, è l'unico rimedio».

Pascal scosse la testa.

«No, questa crisi non somiglia alle altre», disse. «L'ho studiata spesso, e mai ho notato sintomi come quelli di ora. Guardatele gli occhi: hanno una fluidità particolare, dei chiarori pallidi molto preoccupanti. E la maschera facciale! Che spaventosa contorsione di tutti i muscoli!».

Poi, chinandosi ancora, osservando più da vicino i tratti del volto, continuò a bassa voce, come parlando a sé stesso: «Facce simili le ho viste solamente a persone assassinate, morte in un momento di terrore Deve aver avuto qualche emozione terribile».

«Ma come mai la crisi è venuta?», domandò Rougon impazientito, non sapendo più come svignarsela da quella camera.

Pascal non lo sapeva. Macquart, versandosi un altro bicchierino di liquore, raccontò che, avendo voglia di bere un po' di cognac, l'aveva mandata a comprarne una bottiglia. Lei era rimasta fuori pochissimo tempo. Poi, nel rientrare, era caduta a terra, irrigidita, senza dire una parola. Macquart aveva dovuto portarla sul letto.

«Quello che mi meraviglia», disse Macquart a conclusione del racconto, «è che, cadendo, non abbia mandato in pezzi la bottiglia».

Il giovane medico rifletteva. Dopo qualche momento di silenzio, riprese a dire:

«Ho udito due colpi d'arma da fuoco, mentre venivo qua. Forse quei miserabili hanno ancora fucilato qualche prigioniero. Se lei ha attraversato in quel momento le file dei soldati, la vista del sangue ha potuto produrle questa crisi... Senza dubbio ha sofferto terribilmente».

Per fortuna aveva la cassetta di pronto soccorso che portava a tracolla fin dalla partenza degli insorti. Cercò d'introdurre fra i denti serrati della zia Dide qualche goccia di un liquore rossastro. Nel frattempo, Macquart chiese di nuovo a suo fratello:

«Hai il denaro?».

«Sì, eccolo, chiudiamo questa faccenda», disse Rougon, lieto di questa diversione.

Allora Macquart, vedendo che stava per esser pagato, si mise a piagnucolare. Aveva capito troppo tardi le conseguenze del suo tradimento; se no, avrebbe voluto una somma due o tre volte maggiore. E protestava. In verità, mille franchi erano troppo pochi. I suoi figli l'avevano abbandonato, lui era solo al mondo e costretto ad abbandonare la Francia. Per poco non scoppiò in lacrime parlando del suo esilio.

«Ma insomma, volete gli ottocento franchi?», disse Rougon, che aveva fretta d'andarsene.

«No, siamo seri, raddoppia la somma. Tua moglie mi ha raggirato. Se mi avesse detto chiaro e tondo quel che si aspettava da me, non avrei mai corso un rischio di questo genere per una simile bazzecola».

Rougon sciorinò sulla tavola gli ottocento franchi d'oro.

«Vi giuro che non ne ho di più», disse. «Più tardi mi darò da fare per voi. Ma, mi raccomando, partite fin da stasera».

Macquart, bestemmiando, biascicando lagnanze, portò la tavola davanti alla finestra, e, alla luce morente della sera, si mise a contare le monete d'oro. Faceva cadere sulla tavola dall'alto le monete, che gli solleticavano deliziosamente la punta delle dita, e il cui tintinnio riempiva la penombra con una musica chiara. S'interruppe un istante per dire:

«Mi hai promesso un posto, ricordatene. Io voglio rientrare in Francia... Un posto di guardia campestre non mi dispiacerebbe, in un bel paesino scelto da me...».

I «Sì, si, d'accordo», rispose Rougon. «Dunque, avete verificato di aver ricevuto ottocento franchi?».

Macquart si rimise a contare. Gli ultimi luigi tintinnavano, quando uno scoppio di risa stridule li fece voltare. La zia Dide era in piedi davanti al letto, scomposta, coi capelli bianchi sciolti, la faccia pallida chiazzata di rosso. Tendeva le braccia, era scossa da un gran brivido, scuoteva la testa, delirava.

«Il prezzo del sangue, il prezzo del sangue!», disse più volte. «Ho sentito tintinnare l'oro... E sono essi, essi, quelli che lo hanno venduto. Ah, assassini! Sono lupi».

Scostava i capelli che le scendevano sugli occhi, si passava le mani sulla fronte, come per leggere dentro se stessa. Poi continuò:

«Era tanto che lo vedevo con la fronte bucata da una pallottola. C'erano sempre, nella mia testa, dei figuri che lo aspettavano al varco con dei fucili. Mi facevano segno che stavano per sparare... È terribile: li sento, che mi spezzano le ossa e mi vuotano il cranio. Oh, pietà, pietà!... Vi supplico: lui non la vedrà più, non l'amerà più, mai mai! Lo terrò chiuso in casa, gli impedirò d'andar dietro alla sua gonnella. No, pietà, non sparate... Non è colpa mia... se sapeste...».

Si era messa quasi in ginocchio, piangente, supplicante; tendeva le sue povere mani tremanti verso qualche apparizione terribile che scorgeva nella penombra. Tutt'a un tratto si rialzò, gli occhi si spalancarono ancor più, dal petto convulso le usci un grido tremendo, come se qualche scena che essa sola vedeva l'avesse riempita d'un terrore folle.

«Oh, il gendarme!», disse con voce soffocata, facendosi indietro, venendo a ricadere sul letto dove si rivoltolò con lunghi scoppi di risa che risonavano pazzamente.

Pascal seguiva la crisi con occhio attento. I due fratelli, sbigottiti, capaci di capire soltanto frasi sconnesse, s'erano rifugiati in un angolo della stanza. Quando Rougon intese la parola «gendarme», credette di comprendere: fin dall'uccisione del suo amante al confine, la zia Dide nutriva un odio profondo contro i gendarmi e i doganieri, che essa accomunava in un solo desiderio di vendetta.

«Ma è la storia del bracconiere quella che ci sta raccontando», mormorò.

Pascal gli fece segno di stare zitto. La moribonda, con uno sforzo penoso, si rialzò ancora una volta. Guardò attorno a sé come stupita. Rimase muta per un istante, cercando di riconoscere gli oggetti, come se si trovasse in un luogo sconosciuto. Poi, con un'ansia improvvisa, domandò:

«Dov'è il fucile?».

Il medico le mise tra le mani la carabina. Lei emise un leggero grido di gioia; la guardò a lungo, dicendo a bassa voce, con un tono cantilenante da ragazzina:

«E questo, oh!, lo riconosco... È tutto macchiato di sangue. Oggi, le macchie sono di sangue fresco... Le sue mani rosse han lasciato sul calcio delle strisce sanguinose... Ah, povera, povera zia Dide!».

Il suo cervello malato passò ad un altro pensiero. Diventò meditabonda.

«Il gendarme era morto», mormorò, «e io l'ho visto, è ritornato... Non muoiono mai, quei maledetti!».

Riafferrata da un attacco di cupo furore, agitando la carabina, si avanzò verso i due figli, addossati alla parete, muti d'orrore. La sua gonna sciolta si strascicava per terra, il corpo contorto si raddrizzava, seminudo, crudelmente scavato dalla vecchiaia.

«Siete stati voi a sparare!», gridò. «Ho sentito tintinnare l'oro... Sciagurati! Non ho messo al mondo che dei lupi... tutta una famiglia, tutta una covata di lupi... C'era soltanto un povero ragazzo, e lo hanno divorato; ciascuno gli ha dato un morso; hanno ancora le labbra piene di sangue... Ah, maledetti! Hanno rubato, hanno ammazzato. E fanno una vita da signori perbene. Maledetti! maledetti! maledetti!».

Cantava, rideva, gridava e ripeteva «Maledetti!» su uno strano motivo musicale, simile al rumore lacerante d'un colpo di fucile. Pascal, con le lacrime agli occhi, la prese tra le braccia, la rimise a letto. Lei lasciò fare, come una bambina. Continuò il suo canto, accelerando il ritmo, battendo il tempo sulla coperta del letto con le mani ossute.

«Ecco quello che temevo», disse il medico, «è impazzita. Il colpo è stato troppo violento per una povera creatura come lei, predisposta alle nevrosi acute. Morirà in un manicomio, come suo padre».

«Ma che cosa ha potuto vedere?», chiese Rougon, decidendosi a venir fuori dall'angolo dove s'era nascosto.

«Io ho un dubbio che mi angoscia», rispose Pascal. «Quando siete entrati, volevo parlarvi di Silvère. Prigioniero. Bisogna rivolgersi al prefetto, salvarlo, se siamo ancora in tempo».

Rougon guardò suo figlio impallidendo. Poi, in fretta:

«Stammi a sentire: veglia su di lei. Io, stasera, ho troppi impegni. Verremo domani, per farla trasportare al manicomio delle Tulettes. Voi, Macquart, bisogna che partiate questa notte stessa. Giuratemelo! Io vado a trovare il signor Blériot».

Balbettava, non vedeva l'ora di essere fuori di li, nel freddo della strada. Pascal fissava uno sguardo penetrante sulla demente, su suo padre, su suo zio; il distacco dello studioso aveva il sopravvento: studiava quella madre e quei figli con l'attenzione d'un naturalista che osserva le metamorfosi d'un insetto. E pensava a quella discendenza d'una famiglia, d'un ceppo da cui si dipartono rami diversi, e la cui linfa acre trasporta gli stessi germi fin nei ramoscelli più lontani, curvati in modo diverso a seconda che si trovino all'ombra o al sole. Per un istante, come alla luce d'un lampo, a Pascal sembrò di vedere il futuro dei Rougon-Macquart, come una muta di cani lanciati contro la preda e satollati, in uno sfavillio d'oro e di sangue.

Intanto, appena aveva udito il nome di Silvère, la zia Dide aveva smesso di cantare. Stette in ascolto per un istante, an gosciata. Poi incominciò a lanciare delle urla agghiaccianti. La notte era calata; la stanza, tutta nera, triste, vaniva nel buio. Le grida della demente, ormai invisibile, uscivano dalle tenebre, come da una tomba chiusa. Rougon, preso dal panico, fuggì, inseguito da quei singhiozzi che nell'ombra risonavano ancora più laceranti.

Mentre usciva dal vicolo SaintMittre, esitante, chiedendosi se era rischioso cercar di ottenere dal prefetto la grazia per Silvère, Rougon vide Aristide che gironzolava attorno al deposito delle travi. Appena ebbe riconosciuto suo padre, Aristide corse verso di lui, con un'aria inquieta, e gli disse alcune parole all'orecchio. Pierre impallidì; gettò uno sguardo spaventato verso il fondo dell'aia, dove le tenebre erano chiazzate soltanto dalla luce rossastra di un fuoco di zingari. E padre e figlio infilarono rue de Rome, affrettando il passo come se avessero commesso un omicidio, e alzando il colletto del cappotto per non essere riconosciuti.

«Quel che è successo mi fa risparmiare una corsa dal prefetto», borbottò Rougon. «Andiamo a cena; ci aspettano».

Quando arrivarono, il salotto giallo risplendeva. Félicité si era fatta in quattro. Tutti erano là: Sicardot, Granoux, Roudier, Vuillet, i commercianti d'olio, i commercianti di mandorle, tutta la combriccola. Soltanto il marchese aveva preso a pretesto della propria assenza i dolori reumatici; del resto, stava per partire per un breve viaggio. Quei borghesi sporchi di sangue offendevano la sua delicatezza, e si diceva che il suo parente, il conte di Valqueyras, lo aveva pregato di andare per un po' di tempo a farsi dimenticare nella sua proprietà di Corbière. L'assenza del marchese indispettì i Rougon. Ma Félicité si consolò ripromettendosi di ostentare un lusso ancora più grande: prese a nolo due candelabri, ordinò due antipasti e due portate in più, per compensare la mancanza del marchese. La tavola, per dare alla cena più solennità, fu collocata nel salotto. L'Hôtel de Provence aveva fornito l'argenteria, le porcellane, la cristalleria. La tavola era già imbandita fin dalle cinque, in modo che gli invitati, arrivando, potessero godere il colpo d'occhio. Alle due estremità, sulla tovaglia bianca, c'erano due mazzi di rose artificiali, in vasi di porcellana dorata, con fiori dipinti.

I frequentatori abituali del salotto, quando furono riuniti, non poterono nascondere l'ammirazione causata da un simile spettacolo. Quei signori sorridevano con un atteggiamento imbarazzato, scambiandosi degli sguardi reticenti che evidentemente volevano dire: «Questi Rougon sono pazzi, buttano giù dalla finestra il loro denaro». La verità era che Félicité, recandosi a fare gli inviti, non aveva potuto tenere la lingua a posto. Tutti sapevano che Pierre aveva ricevuto una decorazione e che stava per avere qualche nomina; ciò faceva fare il muso lungo più che mai agli altri, per ripetere le parole di Félicité. E Roudier diceva: «Quella bruttaccia si dà troppe arie». Giunto il momento delle ricompense, la cricca di quei borghesi che si erano lanciati sulla Repubblica agonizzante, tenendosi d'occhio a vicenda, vantandosi ciascuno di avere azzannato il nemico con più forza di quanto avesse saputo fare il vicino, consideravano ingiusto che i loro ospiti del salotto giallo ricevessero tutti gli allori della vittoria. Anche quelli che avevano fatto la voce grossa per mero istinto, senza chiedere nulla all'Impero nascente, erano profondamente irritati nel vedere che, grazie al loro appoggio, il più povero, il più scalcagnato di tutti stava per ostentare il nastro rosso all'occhiello. Almeno si fosse data la decorazione a tutto il salotto!

«Non che io tenga alla decorazione», disse Roudier a Granoux, che aveva tratto in disparte nel vano d'una finestra. «L'ho rifiutata ai tempi di Luigi Filippo, quando ero fornitore della Real Casa. Ah, Luigi Filippo era un buon re, la Francia non ne troverà mai uno uguale!».

Roudier ridiventava orleanista. Poi soggiunse, con la furbastra ipocrisia di un vecchio cappellaio di rue Saint-Honoré:

«Ma voi, caro Granoux, non credete che il nastro rosso starebbe bene all'occhiello della vostra giacca? Dopo tutto, voi avete salvato la città non meno di Rougon. Ieri, personaggi molto onorevoli stentavano a credere che aveste potuto far tanto frastuono con un martello».

Granoux balbettò un ringraziamento, e, arrossendo come una verginella che riceve la prima dichiarazione d'amore, si chinò all'orecchio di Roudier, dicendo a bassa voce:

«Non dite nulla a nessuno, ma ho motivo di credere che Rougon chiederà per me la Legion d'onore. È un brav'uomo».

Il vecchio cappellaio assunse un'espressione seria e, da quel momento, si mostrò molto ossequioso. Vuillet gli si era avvicinato, e gli parlò della. meritata ricompensa che il loro amico Rougon aveva ricevuto; Roudier rispose a voce molto alta - in modo che lo udisse Félicité, seduta a qualche passo di distanza - che uomini come Rougon «onoravano la Legion d'onore». Il libraio si affrettò a dargli ragione: quella mattina aveva ricevuto formale assicurazione che avrebbe riavuto la clientela del Collegio per l'acquisto dei libri. Quanto a Sicardot, da principio provò un certo disappunto nel constatare che non era più l'unico componente della cricca reazionaria insignito d'una decorazione. Secondo lui, al nastro della Legion d'onore avevano diritto soltanto i militari. Il coraggio di Pierre lo aveva meravigliato. Ma, di temperamento non astioso com'era, si rianimò e finì col gridare che i Napoleònidi sapevano riconoscere gli uomini dotati di audacia e di energia.

Perciò, al loro arrivo, Rougon e Aristide furono accolti con entusiasmo; tutte le mani si tesero verso di loro. Si arrivò fino agli abbracci. Angèle era seduta sul divano, accanto alla suocera, felice, guardando la tavola con lo stupore di una mangiona che non aveva mai veduto tanti piatti ripieni tutti insieme. Aristide si avvicinò, e Sicardot si rallegrò con suo genero per il superbo articolo dell'«Indépendant». Gli ridava la sua amicizia. Alle domande che, con tono paterno, Sicardot gli rivolgeva, il giovane rispose che il suo desiderio era di partire per Parigi con tutta la famigliuola; là Eugène, suo fratello, gli avrebbe fatto far carriera. Ma avrebbe avuto bisogno di cinquecento franchi. Sicardot glieli promise: con l'immaginazione vedeva già sua figlia ricevuta da Napoleone III alle Tuileries.

Frattanto Félicité aveva fatto un cenno a suo marito. Pierre, circondato da tutti, frastornato da gente che si preoccupava affettuosamente nel vederlo così pallido, riuscì appena per un minuto a sfuggire all'assedio. Disse a sua moglie in un orecchio che aveva riveduto Pascal e che Macquart se ne sarebbe andato durante la notte. Abbassò ancor più la voce per informarla della follia di sua madre, posandosi un dito sulla bocca, come per dire: «Non una sola parola riguardo a questo: turberebbe la nostra bella serata». Félicité strinse le labbra. Si scambiarono uno sguardo nel quale lessero il pensiero comune ad entrambi: d'ora in poi, la vecchia non avrebbe più causato preoccupazioni; si sarebbe rasa al suolo la stamberga del bracconiere, così come si erano rasi al suolo i muri di cinta della proprietà dei Fouque; ed essi avrebbero goduto per sempre il rispetto e la stima di tutta Plassans.

Ma gli invitati lanciavano occhiate alla tavola. Félicité invitò tutti a sedersi. Fu una delizia. Mentre ciascuno afferrava il suo cucchiaio, Sicardot, con un gesto, chiese di parlare per un momento. Si alzò, e, con tono grave, disse:

«Signori, io voglio, in nome della nostra società, dire al nostro ospite quanto siamo felici delle ricompense che egli ha meritato per il suo coraggio e per il suo patriottismo. Riconosco che Rougon ha avuto dal Cielo un'ispirazione che lo ha fatto rimanere a Plassans, mentre quei miserabili ci conducevano prigionieri di strada in strada. Perciò plaudo di tutto cuore alle decisioni del Governo... Lasciatemi finire... Vi congratulerete poi col nostro amico. Sappiate dunque che il nostro amico, nominato cavaliere della Legion d'onore, avrà inoltre la mansione di una ricevitoria particolare».

Vi fu un grido di meraviglia. Tutti si aspettavano un posto più modesto. Alcuni abbozzarono un sorriso agrodolce. Ma la vista della tavola imbandita contribuiva a smorzare i piccoli rancori, e i rallegramenti ricominciarono più che mai.

Sicardot chiese di nuovo un po' di silenzio.

«Aspettate», riprese, «non ho finito.. Una parola sola... È probabile che il nostro amico rimarrà tra di noi, qui a Plassans, in seguito alla morte del signor Peirotte».

Mentre i convitati si profondevano in esclamazioni, Félicité provò un sussulto al cuore. Sicardot le aveva già narrato la morte del ricevitore particolare; ma, rammentata all'inizio di quella cena trionfale, quella morte subitanea e terribile le fece passare sul viso un leggero soffio gelido. Si ricordò il suo augurio: era lei che aveva ammazzato quell'uomo. E intanto, i convitati, con l'accompagnamento della musica festosa dell'argenteria, cenavano allegramente. In provincia si mangia molto e con frastuono. Finita la minestra, quei signori parlavano tutti contemporaneamente; davano il calcio dell'asino ai vinti, si scambiavano adulazioni, commentavano con frasi ingiuriose l'assenza del marchese: i nobili erano gente intrattabile; Roudier finì addirittura per insinuare che il marchese non era venuto perché la paura degli insorti gli aveva fatto venire l'itterizia. Alla seconda portata, fu un arraffa-arraffa. I commercianti d'olio, i commercianti di mandorle erano i salvatori della Francia. Si fecero brindisi alla gloria dei Rougon. Granoux, tutto rosso, cominciò a balbettare, e Vuillet, pallidissimo, era completamente brillo. Ma Sicardot continuava a riempire i bicchieri, mentre Angèle, che aveva già preso un'indigestione, si preparava dei bicchieri d'acqua zuccherata. La gioia di essere salvi, di non tremare più, di ritrovarsi nel salotto giallo attorno a una buona tavola, sotto la luce abbagliante dei due candelabri e del lampadario, che per la prima volta essi potevano scorgere senza il paralume cosparso di cacatine nere, produceva in quei signori un lussureggiare d'imbecillità, una pienezza di gioia larga e grossolana. Nell'aria calda del salotto, le loro voci si levavano grasse, sempre più adulatrici a ogni piatto che arrivava, ingarbugliate nell'inventare complimenti, fino a dire - fu un vecchio conciatore in pensione l'inventore di questa graziosa frase - che quella cena era «un vero festino di Lucullo».

Pierre era raggiante, dalla sua grossa faccia pallida trasudava la gioia del trionfo. Félicité, ormai senza falsa modestia, diceva che avrebbero senza dubbio preso in affitto l'alloggio del povero signor Peirotte, in attesa di poter comprare una casetta nella città nuova, e con l'immaginazione collocava già i futuri mobili nelle stanze della ricevitoria. Prendeva possesso delle sue Tuileries! A un certo momento, mentre il frastuono delle voci diventava assordante, un ricordo improvviso sembrò presentarsi alla sua mente. Si alzò e andò ad accostarsi all'orecchio di Aristide:

«E Silvère?», gli chiese.

II giovane, meravigliato per questa domanda, trasalì.

«È morto», rispose a bassa voce. «Ero presente quando il gendarme gli ha fracassato la testa con un colpo di pistola».

Félicité ebbe a sua volta un leggero brivido. Aprì la bocca per domandare a suo figlio come mai non aveva impedito quell'assassinio, implorando la salvezza del ragazzo; ma non disse nulla, rimase lì, interdetta. Aristide, che aveva letto la domanda sulle sue labbra tremanti, borbottò:

«Intendiamoci, io non ho detto niente... Tanto peggio per lui, del resto! Io ho agito bene. Essersene sbarazzati è una buona cosa».

Questa brutale franchezza non piacque a Félicité. Anche Aristide, come suo padre, come sua madre, aveva un cadavere sulla coscienza. Senza dubbio, egli non avrebbe confessato con una tale disinvoltura che si era trovato ad aggirarsi nel sobborgo e che aveva lasciato fracassare la testa a suo cugino, se i vini dell'Hôtel de Provence e i castelli in aria che egli stava costruendo sul suo prossimo arrivo a Parigi non lo avessero fatto uscire dalla sua consueta ipocrisia taciturna. Una volta che quella frase gli era uscita di bocca, si mise a dondolarsi sulla sedia. Pierre, che di lontano seguiva il dialogo tra sua moglie e suo figlio, capi, scambiò con essi uno sguardo di complice che implora il silenzio. Fu come un ultimo soffio di terrore che corse tra i Rougon, in mezzo ai rumori e alle calde gioie della tavola. Mentre tornava a riprendere il suo posto, Félicité vide dall'altra parte della strada, dietro una vetrata, un cero che ardeva: vegliavano il cadavere di Peirotte, trasportato da Sainte-Roure quella mattina. Félicité si sedette, sentendo, dietro di lei, quel cero bruciarle la schiena. Ma le risate si facevano più fragorose, e il salotto giallo risonò di un grido d'estasi quando apparve il dessert.

 

In quel momento stesso, il sobborgo era ancora tutto sbigottito per il dramma che aveva insanguinato l'aia di SaintMittre. Il ritorno delle truppe, dopo il massacro della piana delle Nores, fu contrassegnato da atroci rappresaglie. Alcuni uomini furono accoppati a colpi di calcio di fucile dietro un muro, altri ebbero la testa spaccata dalla pistola d'un gendarme, in fondo a un burrone. Affinché il terrore riducesse tutti al silenzio, i soldati seminavano cadaveri lungo la strada. Si sarebbe potuto seguirli osservando la striscia rossa che lasciavano dietro di sé. Fu un lungo scannamento. A ogni sosta, alcuni insorti venivano massacrati. Ne furono uccisi due a Sainte-Roure, tre a Orchères, uno al Béage. Quando le truppe furono accampate a Plassans, sulla strada di Nizza, fu stabilito di fucilare ancora un prigioniero, il più compromesso. I vincitori giudicarono buona cosa di lasciar dietro di loro quest'altro cadavere, per incutere alla città il rispetto dell'Impero nascente. Ma i soldati erano stanchi di ammazzare; nessuno si presentò per eseguire il sinistro compito. I prigionieri, gettati sulle travi del cantiere come sulle brande d'un accampamento, incatenati due a due con le manette, ascoltavano, aspettavano, con un'incoscienza stanca e rassegnata.

In quel momento il gendarme Rengade si fece largo con forza tra la folla dei curiosi. Da quando aveva saputo che le truppe ritornavano con parecchie centinaia d'insorti, si era alzato, tremante per la febbre, rischiando la vita in quel freddo nero di dicembre. Quando fu uscito, la ferita gli si riaprì, la fascia che ricopriva l'orbita vuota dell'occhio si macchiò di sangue; fili rossi di sangue gli colarono sulla guancia e sui baffi. Spaventoso a vedersi, pieno di collera silenziosa, con la testa pallida avviluppata in un panno insanguinato, si recò di corsa a guardare in viso, a lungo, ciascuno dei prigionieri.

Camminò così lungo le travi, chinandosi, andando avanti e indietro, facendo trasalire anche i più coraggiosi con quella sua improvvisa apparizione. E ad un tratto:

«Ah! Il bandito, eccolo!», gridò.

Aveva afferrato con una mano una spalla di Silvère. Silvère, accovacciato su una trave, col viso cadaverico, guardava lontano, dinanzi a sé, nel crepuscolo scialbo, con uno sguardo dolce e trasognato. Questo sguardo vuoto lo aveva avuto fin dalla partenza da Sainte-Roure. Lungo la strada, durante leghe e leghe di cammino, mentre i soldati facevano marciare i prigionieri più in fretta a colpi di calcio di fucile, Silvère aveva mostrato una dolcezza da bambino. Coperto di polvere, sfinito per la sete e la fatica, continuava a marciare, senza una parola, come una di quelle bestie docili che si muovono radunate in gregge sotto la sferza dei bovari. Pensava a Miette. La vedeva a terra, ravvolta nella bandiera rossa, con gli occhi fissi nel vuoto. Da tre giorni, non vedeva che lei. In quel momento, in fondo all'oscurità crescente, la vedeva ancora.

Rengade si rivolse all'ufficiale, che non aveva potuto trovare fra i soldati gli uomini necessari per un'esecuzione.

«Questo farabutto mi ha cavato un occhio», gli disse Rengade additando Silvère. «Consegnatelo a me... Sarà un lavoro in meno per voi».

L'ufficiale, senza rispondere, si allontanò con un'aria indifferente, facendo un gesto vago. Il gendarme capì che il suo uomo gli veniva dato.

«Su, alzati!», disse dando una scossa a Silvère.

Silvère, come tutti gli altri prigionieri, aveva un compagno di catena. Era legato per un braccio a un contadino di Poujols, di nome Mourgue, un uomo di cinquant'anni, abbrutito dal duro lavoro della terra sotto il sole ardente. Già curvo, con le mani rattrappite, la faccia piatta, Mourgue strizzava gli occhi, inebetito, con quell'espressione di stordimento e di diffidenza che hanno gli animali picchiati. Era partito con gli insorti, armato d'un forcone, perché tutto il suo villaggio partiva; ma non avrebbe mai saputo spiegare il motivo che lo aveva lanciato così all'avventura. Dopo essere stato fatto prigioniero, era ancor meno in grado di capire. Aveva una vaga idea che lo riconducessero a casa sua. Lo stupore nel vedersi incatenato, la vista di tutta quella gente che stava lì a guardarlo, lo sbalordivano, lo ristupidivano ancor più. Siccome parlava e capiva solo il dialetto, non riusciva a comprendere quel che il gendarme voleva. Sollevava verso di lui con fatica il volto dai lineamenti rozzi; poi, immaginando che il gendarme gli domandasse il nome del suo paese, disse con voce rauca:

«Sono di Poujols».

Uno scoppio di risa si levò tra la folla, e alcune voci gridarono:

«Liberate il contadino».

«Bah!», rispose Rengade; «più ne schiacceremo, di questi insetti, meglio sarà. Dal momento che sono insieme, faranno tutti e due la stessa fine».

Ci fu un mormorio.

Il gendarme si voltò, col suo terribile volto sporco di sangue, e i curiosi indietreggiarono. Un piccolo borghese azzimato se ne andò, dicendo che se rimaneva ancora lì, gli passava la voglia di cenare. Alcuni monelli, che avevano riconosciuto Silvère, parlarono della ragazza rossa. Allora il piccolo borghese ritornò sui suoi passi, per vedere meglio l'amante della donna portabandiera, di quella sgualdrina di cui aveva parlato la «Gazette».

Silvère non vedeva, non sentiva niente; Rengade dovette afferrarlo per il collo. Allora egli si alzò, costringendo Mourgue ad alzarsi anche lui.

«Venite», disse il gendarme. «Sarà una faccenda spiccia».

Allora Silvère riconobbe l'orbo. Sorrise. Probabilmente capì. Poi volse altrove la testa. La vista dell'orbo, di quei mustacchi irrigiditi dal sangue rappreso come da una orribile brina rossastra, gli causò un rimorso immenso. Avrebbe voluto morire in un'atmosfera di infinita dolcezza. Cercò di non incontrare con lo sguardo l'unico occhio di Rengade, che luccicava sotto la benda bianca. Da sé Silvère raggiunse il fondo dell'aia di SaintMittre, il vialetto che quasi non si vedeva tra i mucchi di tavole dei legnaiuoli. Mourgue veniva dietro.

L'aia si estendeva, desolata, sotto il cielo giallo. Le nuvole chiare, color rame, vagavano, producendo dei riflessi torbidi. Mai il campo deserto, il cantiere dove le travi giacevano, come irrigidite dal freddo, aveva ispirato un senso di maliniconia così forte in un crepuscolo così lento, angoscioso. Sul margine della strada, i prigionieri, i soldati, la folla scomparivano tra il nero degli alberi. Soltanto il terreno, le grandi assi di quercia, i mucchi di tavole biancheggiavano nella luce che si smorzava, assumendo un colore limaccioso, un aspetto vago di torrente all'asciutto. I cavalletti dei segatori, stagliandosi in un angolo con la loro intelaiatura sottile, avevano l'aspetto di pali di forche, di sostegni di ghigliottine. Di vivo non c'erano che tre zingari, che mostravano i loro volti spaventati stando sulla porta del loro carrozzone: un vecchio, una vecchia e una ragazzona dai capelli crespi, i cui occhi luccicavano come occhi di lupa.

Prima di raggiungere il viale, Silvère si guardò intorno. Si ricordò di una domenica lontana, quando, sotto un bel chiaro di luna, aveva attraversato il cantiere. Che dolcezza commovente, allora! Come i pallidi raggi lunari piovevano lenti giù per le assi di quercia! Dal cielo gelido scendeva un silenzio assoluto. E in quel silenzio la zingara dai capelli crespi cantava a bassa voce in un linguaggio ignoto. Poi Silvère si ricordò che da quella domenica lontana erano trascorsi appena otto giorni. Otto giorni prima era venuto a dire addio a Miette. Com'era lontano tutto ciò! Gli sembrava di non aver più messo piede nel cantiere da anni. Ma quando mise piede nel vialetto, provò una stretta al cuore. Riconosceva l'odore delle erbe, le ombre dei mucchi di tavole, i buchi nella muraglia. Una voce di pianto si levava da tutte quelle cose. Il viale si allungava, triste, vuoto; gli sembrò più lungo; vi sentì soffiare un vento freddo. Quell'angolo dell'aia era terribilmente invecchiato. Silvère vide il muro corroso dal muschio, il tappeto erboso bruciato dal gelo, i mucchi di tavole marcite per l'umidità. Era una desolazione. Il crepuscolo giallo cadeva come una pioggerella fangosa sui ruderi delle cose a lui tanto care. Si sentì costretto a chiudere gli occhi, e allora rivide il viale verde, le stagioni felici che si erano susseguite. C'era un bel tepore, lui correva nell'aria calda, con Miette. Poi cadevano le piogge invernali, violente, senza fine; essi continuavano a venire lì, si rifugiavano al riparo dei mucchi di tavole, ascoltavano, estatici, il temporale che veniva giù a dirotto. Come in un lampo, ripercorse tutta la sua vita, tutta la sua gioia. Miette saltava al di qua del muro, accorreva, tra allegre risate. Era là: lui la vedeva apparire, bianca sullo sfondo buio, col suo copricapo vivente, la capigliatura color d'inchiostro. Parlava dei nidi delle gazze, che son così difficili a scovare, e lo trascinava con sé. Allora egli sentì, di lontano il rumore attutito della Viorne, il canto delle ultime cicale, il vento che scuoteva i pioppi dei prati di Sainte-Claire. Quanto avevano corso! Se lo ricordava bene. Lei aveva imparato a nuotare in quindici giorni. Era una brava ragazza. Aveva un solo difetto: rubacchiava la frutta. Ma lui l'avrebbe corretta. Il pensiero dei loro primi baci lo ricondusse al vialetto. Sempre erano ritornati in quel rifugio. Gli sembrò di sentire il canto della zingara che svaniva a poco a poco, le ultime finestre che si chiudevano, il rintocco grave che si diffondeva dagli orologi dei campanili. Poi giungeva il momento della separazione, Miette risaliva sul muro. Gli mandava dei baci. E lui non la vedeva più. Una commozione terribile gli serrò la gola: non l'avrebbe vista mai più, mai.

«Come preferisci», sogghignò l'orbo; «va', scegli il tuo posto».

Silvère fece ancora qualche passo. Era vicino al termine del vialetto, non scorgeva più che una striscia di cielo, color ruggine, dove il giorno moriva. Là, per due anni, si era svolta la sua vita. Il lento avvicinarsi della morte, in quel sentiero in cui da tanto tempo si erano concentrati tutti i suoi affetti, era d'una dolcezza ineffabile. Silvère indugiava, gioiva, a lungo, nel dire addio a tutto ciò che amava: le erbe, le assi di legno, le pietre del vecchio muro, tutte le cose che Miette aveva reso vive. E il suo pensiero divagava di nuovo. Aspettavano di avere l'età per sposarsi. La zia Dide sarebbe rimasta con loro. Ah, se fossero fuggiti lontano, tanto lontano, in qualche villaggio sconosciuto, dove i cialtroni del sobborgo non avrebbero più potuto gettare sul viso della Chantegreil il delitto di suo padre! Che pace lieta! Lui avrebbe iniziato un'attività di carradore, al margine di una grande strada. Certo, rinunciava con facilità alle sue ambizioni di valente operaio: non aspirava più a fabbricare carrozze, calessi dai grandi fianchi ben verniciati, rilucenti come specchi. Nello stato di smarrimento causatogli dalla disperazione, non riusciva a capire perché quel suo sogno di felicità non si sarebbe mai realizzato. Perché non se ne andava via, insieme a Miette e alla zia Dide? Con uno sforzo di memoria, sentiva un secco rumore di fucileria, vedeva una bandiera cadergli davanti, con l'asta spezzata, con la stoffa pendente, come l'ala di un uccello abbattuto da un colpo d'arma da fuoco. Era la Repubblica che dormiva con Miette, ravvolta in un lembo di bandiera rossa. Ah, sventura! Erano morte tutt'e due, avevano un foro al petto da cui spicciava sangue; ed ecco ciò che gli sbarrava la strada adesso, i cadaveri dei suoi due amori. Non aveva più niente, poteva morire. Quel che era accaduto a Sainte-Roure gli aveva causato quella dolcezza infantile, incerta e incosciente. Avrebbero potuto picchiarlo e non se ne sarebbe accorto. Era ormai fuori dal proprio corpo: era rimasto inginocchiato vicino alle sue due morte tanto amate, sotto gli alberi, in mezzo al fumo acre della polvere da sparo.

Ma l'orbo si era impazientito. Diede una spinta a Mourgue, che si lasciava trascinare, e gridò:

«Avanti, dunque! Non voglio mica passare qui la notte».

Silvère incespicò. Guardò ai suoi piedi. Un frammento di cranio biancheggiava in mezzo all'erba. Gli sembrò di udire tante voci risonare nel vialetto. I morti lo chiamavano, i vecchi morti, il cui fiato caldo, nelle sere di luglio, li turbavano così stranamente, lui e la sua innamorata. Essi riconoscevano bene i loro mormorii misteriosi. I morti erano lieti: dicevano a Silvère di venire, gli promettevano di restituirgli Miette sotterra, in un rifugio ancora più nascosto del sentiero che finiva lì. Il cimitero, coi suoi odori inebrianti, con la sua vegetazione scura, aveva infuso nel cuore dei due ragazzi i desideri appassionati, aveva steso per loro con compiacenza il suo letto d'erbe selvagge, senza riuscire a gettarli l'uno fra le braccia dell'altra: adesso era impaziente di bere il sangue caldo di Silvère. Erano due estati che il cimitero aspettava i giovani sposi.

«Là?», chiese l'orbo.

Silvère guardò davanti a sé. Era arrivato in fondo al viale. Scorse la pietra tombale, ed ebbe un sussulto. Miette aveva ragione, quella pietra era per lei. «Qui giace... Marie... morta». Lei era morta, il blocco di pietra era rotolato su di lei. Allora, sentendosi venir meno, Silvère si appoggiò sulla pietra fredda. Com'era tiepida un tempo, quando lui e lei chiacchieravano, seduti su un angolo, nelle lunghe serate! Lei arrivava di là: aveva smussato un angolo del blocco di pietra a forza di posarvi i piedi, quando scendeva giù dal muro. In quell'impronta dei suoi piedi rimaneva qualcosa di lei, del suo corpo agile. E lui pensava che tutte quelle cose erano predestinate, che quella pietra si trovava in quel posto perché lui potesse venire a morirvi, dopo avervi amato.

L'orbo caricò le sue due pistole.

Morire, morire, questo pensiero colmava di dolcezza Silvère. Era dunque là che lo avevano condotto per tutta quella lunga strada polverosa, da Sainte-Roure a Plassans. Se lo avesse saputo, avrebbe camminato più in fretta. Morire su quella pietra, morire in fondo al vialetto, morire in quell'aia in cui gli sembrava di sentire ancora il fiato di Miette; non avrebbe mai sperato una simile consolazione del suo dolore. Il Cielo era buono. Egli aspettò con un sorriso trasognato.

Frattanto Mourgue aveva veduto le pistole. Fin allora, si era lasciato trascinare incoscientemente. Ora fu preso dallo spavento. Ripeté con una voce disperata:

«Sono di Poujols, sono di Poujols!».

Si gettò a terra, si dimenò nella polvere ai piedi del gendarme, pensando senza dubbio che lo si confondesse con un altro.

«Che vuoi che m'importi se sei di Poujols?», borbottò Rengade.

E mentre il povero diavolo, tremante, piangente per il terrore, senza comprendere perché doveva morire, tendeva le mani, povere mani di lavoratore deformate e indurite, e continuava a dire in dialetto che non aveva fatto, niente, che si doveva perdonargli, l'orbo s'impazientiva di non potergli applicare la bocca della pistola sulla tempia, perché lui si agitava continuamente.

«Starai zitto una buona volta!», gridò.

Allora Mourgue, pazzo per il terrore, non volendo morire, si mise a lanciare urla bestiali, come un maiale quando viene sgozzato.

«Starai zitto, mascalzone!», ripeté il gendarme.

E gli fracassò il cranio. Il contadino rotolò giù come un masso. Il suo cadavere andò a rimbalzare contro un mucchio di assi, dove rimase ripiegato su se stesso. La violenza della scossa aveva rotto la corda che teneva attaccato Mourgue al suo compagno. Silvère cadde in ginocchio davanti alla pietra tombale.

Rengade aveva ucciso per primo Mourgue per un desiderio di vendetta particolarmente raffinato. Si mise a giocherellare con la seconda pistola che aveva tra le mani, a puntarla lentamente, gustando l'agonia di Silvère. Silvère, facendosi forza, lo guardò. La vista dell'orbo, il cui occhio feroce lo fissava con sguardo ardente, gli procurò un malessere. Distolse lo sguardo, temendo di morire da vigliacco se avesse continuato a vedere quell'uomo febbricitante, con la benda macchiata e i baffi sporchi di sangue. Ma, alzando lo sguardo, vide la faccia di Justin in cima al muro, là dove Miette saltava giù.

Quando il gendarme aveva condotto con sé i due prigionieri, Justin si trovava alla Porta di Roma, tra la folla. Si era messo a correre a gambe levate, girando per il Jas-Meiffren, non volendo perdere lo spettacolo dell'esecuzione. Il pensiero che egli solo, fra tutti i fannulloni del sobborgo, avrebbe veduto il dramma a suo agio, come dall'alto d'un balcone, gli mise addosso una fretta tale, che cadde due volte. Nonostante la velocità folle della corsa, arrivò troppo tardi per il primo colpo di pistola. Furente, si arrampicò sul gelso. Sorrise nel vedere che Silvère era ancora vivo. I soldati lo avevano informato della morte di sua cugina; l'assassinio del carradore completava la sua gioia. Aspettava il colpo di pistola contro Silvère con quella voluttà che provava sempre per le sofferenze altrui, ma decuplicata dall'orrore della scena, mescolata a uno spavento che lo affascinava.

Silvère, riconoscendo quella testa, sola in cima al muro, quel teppista immondo, col viso pallido di gioia, coi capelli leggermente ritti sulla fronte, provò una rabbia sorda, un bisogno di vivere. Fu quella l'ultima rivolta del suo sangue: una ribellione che durò un secondo. Ricadde in ginocchio, guardò davanti a sé. Nel crepuscolo malinconico, gli passò dinanzi allo sguardo un'ultima visione. In capo al viale, all'ingresso del vicolo SaintMittre, gli sembrò di vedere la zia Dide, ritta in piedi e rigida come la statua di pietra d'una santa, che di lontano assisteva alla sua agonia.

Allora sentì sulla tempia il freddo della pistola. La faccia pallida di Justin rideva. Silvère, chiudendo gli occhi, sentì i vecchi morti che lo chiamavano a piena voce. Nell'oscurità non vedeva più altri che Miette, sotto gli alberi, coperta dalla bandiera, con lo sguardo fisso nel vuoto. L'orbo sparò, e tutto fu finito. Il cranio del ragazzo scoppiò come una melagrana matura. La faccia ricadde sul blocco di pietra, con le labbra incollate sul punto smussato dai piedi di Miette, tiepido, dove la sua innamorata aveva lasciato qualcosa di sé.

 

E la stessa sera, in casa dei Rougon, arrivati al dessert, grasse risate si levavano nell'atmosfera calda della tavola, ancora piena degli avanzi della cena. Finalmente essi addentavano le squisitezze dei ricchi! I loro appetiti, aguzzati da trent'anni di desideri repressi, mostravano zanne da lupi. Questi grandi insaziati, queste belve smagrite, appena gettate in mezzo ai godimenti il giorno prima, acclamavano l'Impero nascente, il regno dell'arraffamento sfrenato. Il colpo di Stato, come aveva risollevato la fortuna dei Bonaparte, dava inizio alla fortuna dei Rougon.

Pierre si alzò, tese il bicchiere, gridando:

«Brindo al principe Luigi, all'Imperatore!».

Quei signori, che avevano annegato nello champagne le loro piccole rivalità, si alzarono tutti, brindarono con esclamazioni assordanti. Fu un bello spettacolo. I borghesi di Plassans, Roudier, Granoux, Vuillet e gli altri, piangevano di gioia, si abbracciavano sul cadavere ancora caldo della Repubblica. Ma Sicardot ebbe un'idea geniale. Prese dai capelli di Félicité un fiocco di seta rosa che essa si era attaccata per civetteria sotto l'orecchio destro, tagliò col coltello da frutta una striscia di seta e lo infilò solennemente nell'occhiello di Rougon. Rougon fece il modesto. Si schermi, raggiante in viso, mormorando:

«No, vi prego, è troppo presto. Bisogna aspettare che il decreto sia apparso».

«Perdio», esclamò Sicardot, «fatemi il piacere di non levarvelo. È un vecchio soldato di Napoleone che vi decora!».

Tutto il salotto giallo scoppiò in applausi. Félicité svenne. Granoux, il taciturno, nell'entusiasmo salì su una sedia agitando il tovagliolo e pronunciando un discorso che si perse in mezzo al frastuono. Il salotto giallo trionfava, delirava.

Ma il fiocco di seta rosa, infilato nell'occhiello di Pierre, non era la sola macchia rossa nel trionfo dei Rougon. Dimenticata sotto il letto della stanza accanto, c'era ancora una scarpa col tacco macchiato di sangue. Il cero che bruciava accanto a Peirotte, dall'altra parte della strada, sanguinava nel buio come una ferita aperta. E lontano, in fondo all'aia di SaintMittre, sulla pietra tombale, una pozza di sangue si coagulava.