CAPITOLO I
Quando si esce da Plassans per la Porta di Roma, situata a sud della città, si trova, a destra della strada per Nizza, oltrepassate appena le prime case del sobborgo, un terreno incolto che la gente del luogo chiama «aia di SaintMittre».
L'ala di SaintMittre è uno spazio rettangolare di una certa estensione, che costeggia il marciapiede della strada: ne è separato soltanto da una striscia d'erba avvizzita. Da un lato, a destra, un vicolo cieco fiancheggia l'aia con una fila di catapecchie; a sinistra e in fondo, l'aia è chiusa da due lembi di muraglie corrosi dal muschio, al di sopra dei quali si scorgono i rami più alti dei gelsi del Jas-Meiffren, una grande proprietà che ha il suo ingresso più giù nel sobborgo. Così, chiusa da tre lati, l'aia è come una piazza che non serve di transito verso alcun altro luogo e che è attraversata solo da chi ha voglia di passeggiare.
In tempi remoti, c'era là un cimitero, posto sotto la protezione di San Mittre, un santo provenzale molto venerato in quei luoghi. Nel 1851, i vecchi di Plassans si ricordavano di aver visto non ancora abbattute le mura di questo cimitero, che era rimasto chiuso per anni e anni. Dal terreno, che da più d'un secolo era satollato di cadaveri, trasudava la morte, e si era dovuto aprire un nuovo cimitero, all'altra estremità della cittadina. Abbandonato, il vecchio cimitero si era purificato ad ogni primavera, coprendosi d'una vegetazione scura e folta. Quella terra grassa, nella quale i becchini non potevano più affondare la vanga senza tirarne su un brandello di cadavere in putrefazione, rivelò una fertilità formidabile. Dalla strada, dopo le piogge di maggio e i soli di giugno, si scorgevano le cime delle erbe che svettavano al di sopra delle mura; dietro, tutto un mare d'un verde cupo, profondo, cosparso di fiori larghi, dal colore straordinariamente luminoso. Sotto, nell'ombra degli steli folti, si sentiva l'odore del terriccio umido che fermentava e alimentava la linfa.
Una delle stranezze di quel campo, in quell'epoca, era costituita da certi peri dai rami contorti, dalle nodosità mostruose; nessuna massaia di Plassans avrebbe accettato di coglierne gli enormi frutti. In città si parlava di quei frutti con smorfie di disgusto; ma i monelli del sobborgo non avevano schifiltosità di questo genere: scalavano la muraglia a frotte, la sera, al calar del sole, per rubare le pere, anche prima che fossero mature.
Ben presto la vita ardente delle erbe e degli alberi finì per divorare tutta la morte del vecchio cimitero di SaintMittre; la putredine umana fu mangiata avidamente dai fiori e dai frutti; alla fine, passando lungo quella cloàca, non si sentì più nient'altro che l'odore penetrante delle violacciocche selvatiche. Bastarono poche estati.
Verso quell'epoca, la città pensò di trarre un vantaggio da quella proprietà comunale che dormiva inutilizzata. Si abbatterono le mura che fiancheggiavano la strada e il vicolo cieco, si sradicarono le erbe e i peri. Poi si disfece il cimitero. Il suolo fu scavato fino a parecchi metri di profondità, e in un angolo furono ammonticchiate le ossa che la terra acconsentì a restituire. Per circa un mese i monelli, che rimpiangevano i vecchi peri, giocarono a bocce coi teschi; alcuni burloni di cattivo gusto, una notte, appesero dei femori e delle tibie a tutte le cordicelle dei campanelli della città. Quello scandalo, di cui Plassans serba ancora il ricordo, cessò solamente quando ci si decise a gettare il mucchio d'ossa in fondo a una buca scavata nel terreno del nuovo cimitero. Ma in provincia i lavori si fanno con saggia lentezza, e gli abitanti, per tutta una settimana, videro di quando in quando un unico carretto che trasportava dei resti umani come se avesse trasportato dei calcinacci. Il peggio era che quel carretto doveva attraversare Plassans da un capo all'altro, e che il selciato sconnesso delle strade faceva cascar giù, ad ogni sobbalzo, frammenti d'ossa e zolle di terra grassa. Niente cerimonie religiose; un carreggiare lento e brutale. Nessuna città fu mai costretta a subire tanta nausea.
Per molti anni il terreno dov'era stato il cimitero di SaintMittre rimase qualcosa di orribile. Aperto a chiunque, sul margine della grande strada, restò deserto, di nuovo in preda alle erbe selvagge. La città, che si era certamente ripromessa di venderlo e di lasciarvi costruire delle case, non dovette trovare alcun acquirente. Forse il ricordo del mucchio d'ossa e di quel carretto che andava e veniva per le strade, solo, con una implacabile ostinazione d'incubo, dissuase la gente; forse bisogna piuttosto spiegare il fatto con le abitudini pigre della provincia, con quella ripugnanza a distruggere e a ricostruire che essa prova. Certo è che la città conservò la proprietà del terreno, e finì addirittura col dimenticare il proposito di venderlo. Non lo circondò neanche con una palizzata: chi voleva entrarvi, entrava. E a poco a poco, col trascorrere degli anni, la gente si abituò a quell'angolo vuoto, si sedette sull'erba dei margini, attraversò il campo, lo popolò. Quando i piedi di chi vi passeggiava ebbero consunto il tappeto erboso, e il terreno calpestato fu divenuto grigio e duro, il vecchio cimitero ebbe una certa somiglianza con una piazza pubblica male spianata. Per cancellare meglio ogni ricordo ripugnante, gli abitanti, istintivamente, a poco a poco mutarono la denominazione del terreno; si limitarono a conservare il nome del santo, col quale fu battezzato anche il vicolo cieco che si apre in un angolo del campo: ci fu l'aia di SaintMittre e il vicolo SaintMittre.
Questi fatti sono ormai remoti. Da più di trent'anni l'aia di SaintMittre ha una fisionomia particolare. La città, troppo neghittosa e addormentata per trarne un buon guadagno, l'ha data in affitto, per una cifra modesta, a dei carradori del sobborgo, che ne hanno fatto un deposito di legnami. Ancor oggi l'aia è ingombra di enormi travi, da dieci a quindici metri di lunghezza, ammucchiate qua e là, simili ad ammassi di alte colonne abbattute al suolo. Questi ammassi di travi, queste specie di alberi di navi che giacciono parallelamente e che si estendono da un capo all'altro del campo, sono un perpetuo divertimento per i monelli. Siccome alcuni pezzi di legno sono scivolati giù dai mucchi, il terreno, in certi tratti, è completamente ricoperto da una specie di pavimento ligneo, dalle superfici ricurve, sul quale si riesce a camminare soltanto grazie a miracoli di equilibrismo. Per tutto il giorno, gruppi di ragazzi si dedicano a questo esercizio. Si può vederli mentre superano d'un salto i grossi blocchi di legno, mentre camminano l'uno dietro l'altro sulle assi strette e aguzze, mentre si trascinano a cavalcioni: giochi di vario genere che finiscono, di solito, con spintoni e con pianti. Oppure si siedono in una dozzina, stretti gli uni agli altri, sulla punta sottile d'una trave alta da terra alcuni piedi, e si tengono in bilico per ore intere. L'aia di SaintMittre è diventata, così, il luogo di ricreazione in cui, da più d'un quarto di secolo, tutti i calzoni dei birichini del sobborgo finiscono col consumarsi.
Ciò che ha dato l'ultimo tocco al carattere strano di quest'angolo sperduto è il fatto che, per un'usanza che si è perpetuata, gli zingari di passaggio vi hanno eletto il loro domicilio. Ogni volta che una di quelle case viaggianti su quattro ruote, contenenti un'intera tribù, arriva a Plassans, va a fermarsi in fondo all'aia di. SaintMittre. Perciò il posto non è mai vuoto: c'è sempre qualche banda di gente dall'aspetto strano, qualche troupe d'uomini rossi di pelo e di donne orribilmente magre, tra cui si vedono rotolarsi a terra dei gruppi di bei bambini. Questa gente vive senza ritegno, all'aria aperta, facendo bollire la propria pentola, mangiando roba d'ogni genere, stendendo al sole i propri stracci logori, dormendo, picchiandosi, baciandosi, puzzando di sporcizia e di miseria.
Il campo morto e deserto, dove soltanto i calabroni, un tempo, ronzavano attorno ai fiori opulenti, nel silenzio opprimente del sole, è dunque diventato un luogo rumoroso, risonante delle risse degli zingari e delle grida acute dei mascalzoncelli del sobborgo. Una segheria che, in un angolo, taglia le travi del deposito, manda un rumore sordo, facendo un accompagnamento di «basso continuo» alle voci stridule. Questa segheria è del tutto primitiva: il pezzo di legno è posto su due cavalletti, e due segatori, l'uno in alto, seduto proprio sulla trave, l'altro in basso, accecato dalla segatura che cade, imprimono a una lama di sega larga e forte un movimento continuo di va e vieni. Per ore e ore questi uomini si piegano, simili a burattini muniti di cerniere, con una regolarità e una insensibiliìtà come se fossero macchine. Il legno che essi tagliano viene disposto lungo la muraglia in fondo all'aia, in mucchi alti due o tre metri, costruiti con metodo' un'asse sopra l'altra, in forma di cubi perfetti. Queste specie di cataste quadrate, che spesso rimangono là per più stagioni di seguito, a cui le erbe si avviticchiano in basso, costituiscono una delle attrattive dell'aia di SaintMittre. Tra l'una e l'altra si allungano dei sentieri misteriosi, stretti, al riparo dagli sguardi della gente, che conducono a un vialetto più largo, lasciato libero tra le cataste e la muraglia. E un deserto, una striscia di verzura da cui non si vedono, in alto, che dei tratti di cielo. In questo vialetto, le cui pareti sono ricoperte di muschio e il cui suolo sembra tappezzato di folta lana, regnano ancora la vegetazione possente e il silenzio rabbrividente del vecchio cimitero. Vi si sentono aleggiare quei soffi caldi e indistinti, espressione della voluttà della morte, che emanano dalle vecchie tombe riscaldate dai soli ardenti. Non c'è, in tutta la campagna di Plassans, un luogo più emozionante, più vibrante di tepore, di solitudine e d'amore. Amare là è una gioia sottile. Quando fu disfatto il cimitero, le ossa dovettero essere ammucchiate in quell'angolo, poiché ancor oggi, affondando il piede nell'erba umida, capita non di rado di far venire in luce dei frammenti di crani.
Nessuno, d'altronde, pensa più ai morti che hanno dormito sotto quell'erba. Di giorno, soltanto i ragazzi si avventurano dietro le cataste di legna quando giocano a nascondino. Il vialetto verde rimane vergine e ignorato. Non si vede che il deposito pieno di travi e grigio di polvere. Di mattina e verso sera, quando il sole è tiepido, tutto il terreno gorgoglia, e più in alto di tutto questo fermento, più in alto dei monelli che giocano tra le cataste di legno e degli zingari che attizzano il fuoco sotto la marmitta, si staglia sullo sfondo del cielo la magra silhouette del segatore a cavalcioni sulla trave, che va e viene con un movimento regolare come per battere il tempo alla vita ardente e nuova che è sbocciata in quello che una volta era stato un campo di riposo eterno. Soltanto i vecchi, seduti sulle travi riscaldandosi agli ultimi raggi del sole, qualche volta parlano ancora tra loro delle ossa che un tempo videro trasportare per le strade di Plassans dal leggendario carretto.
Quando cala la notte, l'aia di SaintMittre si vuota, sprofonda come un gran buco nero. Verso il fondo, non si scorge più nient'altro che il barlume morente del fuoco degli zingari. Di tanto in tanto, delle ombre si dileguano silenziose nella massa compatta delle tenebre. Soprattutto d'inverno, il luogo assume un aspetto lugubre.
Una domenica sera, verso le sette, un giovane uscì pian piano dal vicolo SaintMittre, e, passando rasente ai muri, s'inoltrò fra le travi del deposito. Erano i primi di dicembre del 1851. Faceva un freddo asciutto. La luna, che allora era piena, aveva quel chiarore penetrante che è proprio delle lune d'inverno. Il deposito, quella notte, non era sprofondato nel buio lugubre, come nelle notti di pioggia; rischiarato da larghe chiazze di luce bianca, si stendeva nel silenzio e nell'immobilità del freddo, con una malinconia dolce.
Il giovane si fermò per qualche secondo sul margine del campo, guardando dinanzi a sé con un'aria di diffidenza. Teneva nascosto sotto il vestito il calcio d'un lungo fucile, la cui canna, abbassata verso il suolo, luccicava al chiaro di luna. Stringendo l'arma contro il petto, scrutò attentamente con lo sguardo i quadrati di tenebre che le cataste di legname proiettavano sul terreno. C'era come uno scacchiere bianco e nero, di luce e d'ombra, coi riquadri nettamente divisi l'uno dall'altro. In mezzo all'aia, su una parte grigia e nuda del suolo, i cavalletti dei segatori si stagliavano, lunghi, stretti, bizzarri, simili a mostruose figure geometriche tracciate con l'inchiostro su un foglio di carta. Il resto del deposito, il pavimento di travi, non era che un vasto letto sul quale dormiva il chiarore, appena interrotto da piccole strisce nere, prodotte dalle linee d'ombra che scendevano lungo le grosse tavole. Sotto quella luna invernale, nel silenzio gelido, quella massa d'alberi di nave sdraiati, immobili, come intirizziti dal sonno e dal freddo, richiamava alla mente i morti del vecchio cimitero. Il giovane gettò solo una rapida occhiata su quello spazio vuoto: non un essere vivente, non un brusio, nessun pericolo di essere visto né udito. Le macchie scure del suolo lo preoccupavano di più. Tuttavia, dopo un rapido esame, egli si decise, traversò a passi rapidi il deposito.
Quando si sentì al riparo, rallentò il passo. Ora si trovava nel vialetto verde che costeggia la muraglia dietro le cataste. Là non sentì nemmeno più il rumore dei propri passi; l'erba gelata scricchiolava appena sotto i suoi piedi. Sembrò che un senso di benessere lo pervadesse. Egli doveva amare quel posto, non temervi alcun pericolo, non venire a cercarvi nient'altro che cose care e buone. Non tenne più nascosto il fucile. Il vialetto si prolungava, simile a una trincea immersa nell'ombra; di tanto in tanto la luna, infiltrandosi tra due cataste di legna, fendeva l'erba con una striscia di luce. Tutto dormiva, le tenebre e le luci, d'un sonno profondo, dolce e triste. Nulla di paragonabile alla pace di quel sentiero. Il giovane lo percorse per tutta la sua lunghezza. In fondo, dove le muraglie del Jas-Meiffren formano un angolo, egli si fermò, tendendo l'orecchio, come per ascoltare se qualche rumore giungesse dalla proprietà attigua. Poi, non sentendo niente, si chinò, scostò un'asse e nascose il fucile dentro una delle cataste.
C'era là, nell'angolo, una vecchia pietra tombale, dimenticata quando era stato disfatto il vecchio cimitero; giaceva un po' di sbieco, costituiva una specie di banco rialzato. La pioggia ne aveva sgretolato i lati, il muschio la rodeva lentamente. Tuttavia si sarebbe potuto ancora leggere, alla luce della luna, questo frammento d'epitaffio inciso sulla superficie che affondava nel terreno: «Qui giace... Maria... morta...». Il tempo aveva cancellato il resto.
Dopo aver nascosto il fucile, il giovane, tendendo di nuovo l'orecchio e continuando a non sentir niente, si decise a salire sulla pietra. Il muro era basso; egli appoggiò i gomiti sulla parte superiore. Ma al di là della fila di gelsi che costeggia la muraglia egli non vide che una distesa di luce; i terreni del Jas-Meiffren, piatti e senz'alberi, si stendevano sotto la luna come un immenso lenzuolo di tela grezza; a un centinaio di metri, l'abitazione e le dipendenze abitate dal mezzadro apparivano come delle chiazze d'un bianco più nitido. Il giovane guardava da quella parte con inquietudine, quando un orologio della città incominciò a suonare le sette, a rintocchi gravi e lenti Il giovane contò i rintocchi, poi scese dalla pietra, come sorpreso e confortato.
Si sedette sulla pietra con l'aria di uno che sia disposto a una lunga attesa. Pareva che non sentisse nemmeno il freddo. Per circa mezz'ora rimase immobile, sognante, con gli occhi fissi su una zona buia. Si era collocato in un angolo scuro; ma a poco a poco la luna che saliva lo raggiunse, e la sua testa si trovò illuminata in pieno.
Era un ragazzo dall'aspetto vigoroso; la bocca fine e la pelle ancora delicata ne rivelavano l'età giovanile. Avrà avuto diciassette anni. Era bello di una bellezza caratteristica.
La sua faccia, magra e lunga, sembrava scavata dal colpo di pollice di un forte modellatore; la fronte sporgente, le arcate sopracciliari prominenti, il naso aquilino, il mento largo e piatto, le guance con gli zigomi rilevati e con delle superfici digradanti all'ingiù, conferivano alla testa una plasticità singolarmente vigorosa, Con l'età, quella testa era destinata ad assumere un aspetto ossuto troppo pronunciato, una magrezza da cavaliere errante. Ma, ancora nella pubertà, appena coperta di lanuggine sulle guance e sul mento, quella testa, in ciò che aveva di rozzo, era compensata da certi tratti rimasti teneri e fanciulleschi. Gli occhi, d'un nero tenero, tuttora spiranti ingenua adolescenza, conferivano anch'essi dolcezza a quella maschera energica. Non tutte le donne avrebbero amato quel ragazzo, poiché non era quel che si chiama un bel ragazzo; ma l'insieme dei suoi lineamenti esprimeva una vitalità così ardente e così simpatica, un tale splendore d'entusiasmo e di forza, che le ragazze della sua provincia, quelle ragazze dal sangue caldo del Mezzogiorno, dovevano guardarlo trasognate, quando gli capitava di passare davanti alla loro porta, nelle calde sere di luglio.
Era rimasto là pensieroso, seduto sulla pietra tombale, senza accorgersi del chiarore della luna che ormai gli illuminava tutto il petto e le gambe. Era di statura media, appena un po' tarchiato. All'estremità delle sue braccia troppo sviluppate s'innestavano saldamente delle mani da operaio, che il lavoro aveva indurito. I piedi, calzati da grosse scarpe allacciate, apparivano forti, squadrati. Per le giunture e le estremità, per l'aspetto pesante delle membra, era una creatura del popolo; ma c'era in lui, nel collo diritto e nella luce pensosa degli occhi, qualcosa come una sorda ribellione contro l'abbrutimento del lavoro manuale che cominciava a curvarlo verso terra. Doveva essere uno spirito intelligente annegato al fondo della pesantezza della sua razza e della sua classe, una di quelle nature tenere e squisite racchiuse nella pienezza della carne, e che soffrono di non poter uscire, raggianti, dal loro spesso involucro. Perciò, con tutta la sua forza, appariva timido e inquieto, inconsciamente vergognoso di sentirsi incompleto e di non sapere come completarsi. Ragazzo generoso, in cui ciò che non era riuscito ad apprendere con esattezza si era tramutato in entusiasmo; cuore da uomo fatto, governato da un'intelligenza da fanciullo; capace di abbandoni femminei e di coraggio eroico. Quella sera, indossava calzoni e una giacca di velluto verdastro con piccole costure. Un cappello di feltro a cencio, posato leggermente all'indietro sulla testa, gli proiettava sulla fronte una striscia d'ombra.
Quando l'orologio lì vicino suonò le sette e mezzo, si scosse di soprassalto dalle fantasticherie in cui era assorto. Vedendosi inondato dalla bianca luce lunare, guardò dinanzi a sé con inquietudine. Con un movimento brusco rientrò nella zona d'ombra, ma non riuscì a ritrovare il filo delle sue fantasticherie. Sentì allora che i piedi e le mani gli s'intirizzivano, e l'impazienza lo riafferrò. Salì di nuovo a lanciare un'occhiata nel Jas-Meiffren, sempre silenzioso e vuoto. Poi, non sapendo più come ammazzare il tempo, ridiscese, tirò fuori il fucile dalla catasta di legna dove l'aveva nascosto, si divertì a farne funzionare il meccanismo. Quell'arma era una carabina lunga e pesante, che senza dubbio era appartenuta a qualche contrabbandiere; lo spessore del calcio e la grossa culatta della canna facevano riconoscere un vecchio fucile ad acciarino che un armaiolo del paese aveva trasformato in fucile a pistone. Si vedono carabine di quel genere appese nelle case coloniche, sopra i camini. Il giovane carezzava la sua arma con amore; abbassò il cane del fucile più di venti volte, introdusse il mignolo nella canna, esaminò attentamente il calcio. A poco a poco si animò d'un entusiasmo giovanile, con una certa ingenuità da bambino. Finì per mettere la carabina in posizione di sparo, mirando nel vuoto, come un coscritto che fa gli esercizi militari.
Dovevano esser vicine a suonare le otto. Egli teneva puntato il fucile già da un minuto buono, quando una voce leggera come un soffio, debole e ansante, venne dal Jas-Meiffren.
«Sei là, Silvère?», chiese la voce.
Silvère lasciò cadere a terra il fucile e, d'un balzo, fu sulla pietra tombale.
«Sì, sì», rispose, anche lui a voce bassa; «... Aspetta, ti aiuto».
Non aveva ancora fatto in tempo a tendere le braccia, ed ecco che la testa di una ragazza apparve al di sopra della muraglia. Con un'agilità straordinaria, la piccola si era abbrancata al tronco d'un gelso e si era arrampicata come una gattina. Dalla sicurezza e dalla disinvoltura dei suoi movimenti si capiva che quello strano percorso doveva esserle abituale. In un batter d'occhio si trovò seduta sulla sommità del muro. Allora Silvère la prese tra le braccia e la posò sulla pietra. Ma lei si dibatté.
«Lasciami», diceva con un riso giocoso di monella, «lasciami... So scendere da me!».
Poi, quando fu sulla pietra:
«Era molto che mi aspettavi? Ho corso, sono tutta trafelata».
Silvère non rispose. Non sembrava che avesse alcuna voglia di ridere; guardava la ragazzetta con un'aria triste. Si sedette accanto a lei e disse:
«Ti volevo vedere, Miette. Ti avrei aspettato anche tutta la notte... Parto domani mattina, allo spuntar del giorno».
Miette aveva visto proprio allora il fucile posato sull'erba. Diventò seria, mormorò:
«Ah... hai deciso... hai lì il tuo fucile...».
Ci fu un silenzio.
«Sì», rispose Silvère con una voce ancor più titubante, «è il mio fucile Ho preferito portarlo fuori di casa stasera; domattina, la zia Dide avrebbe potuto vedermi mentre lo prendevo, e si sarebbe agitata... Lo nasconderò, verrò a cercarlo al momento di partire».
E siccome pareva che Miette non riuscisse a staccare gli occhi da quel fucile che Silvère aveva così sbadatamente lasciato a terra, egli si alzò e lo nascose di nuovo nella catasta di assi.
«Abbiamo saputo stamattina», disse rimettendosi a sedere, «che gli insorti della Palud e di Saint-Martin-de-Vaulx erano in marcia e avevano passato la notte scorsa ad Alboise. Si è deciso che noi ci uniremo a loro. Questo pomeriggio, una parte degli operai di Plassans ha lasciato la città; domani, quelli che sono ancora rimasti andranno a ricongiungersi ai loro fratelli».
Pronunciò questa parola, «fratelli», con un'enfasi ingenua. Poi, animandosi, con una voce più vibrante:
«La lotta diviene inevitabile», aggiunse; «ma la giustizia è dalla nostra parte; trionferemo».
Miette ascoltava Silvère, guardando dinanzi a sé, fissamente, senza vedere. Quando egli ebbe smesso di parlare, disse semplicemente: «Va bene».
dopo un silenzio:
«Tu mi avevi avvertita.. eppure io speravo ancora... Insomma, hai deciso».
Non riuscirono a trovare altre parole. L'angolo deserto del deposito, il vialetto verde, ripresero la loro quiete malinconica; non ci fu più nient'altro che la viva luce della luna, che faceva spostare sull'erba le ombre delle cataste di assi. Il gruppo formato dal giovane e dalla ragazza, sulla pietra tombale, era diventato immobile e muto, nel pallido chiarore. Silvère aveva passato un braccio attorno alla vita di Miette, e lei si era abbandonata sulla sua spalla. Non si scambiarono baci: solo un abbraccio in cui l'amore aveva l'innocenza commovente d'una tenerezza fraterna
Miette indossava una grande mantella scura col cappuccio, che le ricadeva fino ai piedi e la ravvolgeva tutta. Le si vedevano soltanto la testa e le mani. Le donne del popolo, contadine e operaie, portano tuttora, in Provenza, quelle larghe mantelle, che là si chiamano pellicce: una foggia di vestito che deve risalire a molto tempo fa. Quando era arrivata, Miette aveva scosso all'indietro il cappuccio. Abituata all'aria aperta, creatura di sangue ardente, non portava mai il cappello. Il suo capo scoperto si stagliava nettamente sullo sfondo della muraglia rischiarata dalla luna. Era una ragazzina, ma una ragazzina che diventava donna. Si trovava in quella fase indecisa e adorabile in cui dalla monella si sviluppa la giovane. C'è allora, in ogni adolescente, una delicatezza di gemma che spunta, un'esitazione di forme che ha un fascino squisito; nella magrezza innocente dell'infanzia incominciano a mostrarsi le curve piene e voluttuose della pubertà; la donna si rivela coi suoi primi pudori, conservando ancora a metà il suo corpo di bambina, e rivelando inconsapevolmente il proprio sesso in ogni tratto della sua persona. Per certe ragazze questo è un brutto momento: crescono bruscamente, imbruttiscono, diventano gialle e fragili come piante troppo precoci. Per Miette, per tutte quelle che sono ricche di sangue e vivono all'aria aperta, è un momento di fascino che esse non ritroveranno più. Miette aveva tredici anni. Sebbene fosse già robusta, nessuno gliene avrebbe dati di più, tanto ridente era ancora in certi momenti il suo volto, d'un riso chiaro e ingenuo. D'altronde, doveva essere già matura: in lei la donna sbocciava rapidamente, grazie al clima e alla vita attiva che conduceva. Era grande quasi quanto Silvère, formosa e tutta fremente di vitalità. Al pari del suo amico, non era quella che tutti avrebbero detto una bellezza. Nessuno l'avrebbe trovata brutta; ma sarebbe sembrata almeno strana a molti bei giovanotti. Aveva una chioma superba; i capelli le spuntavano spessi e dritti sulla fronte, poi si espandevano potentemente all'indietro, come un'onda zampillante, poi scendevano lungo il cranio e la nuca, simili a un mare increspato dal vento, pieno di ribollimenti e di sbalzi. Capelli d'un nero-inchiostro. Erano così folti che essa non sapeva come tenerli a freno: la angustiavano. Li attorcigliava in trecce della grossezza di un pugno di bambino, il più strettamente possibile, perché occupassero meno spazio; poi li ammassava dietro la testa. Non aveva troppo tempo per pensare alla sua acconciatura, e succedeva sempre che quell'enorme chignon, messo insieme in fretta senza guardarsi allo specchio, acquistasse sotto le sue dita una bellezza selvaggia. A vederla acconciata con quel casco vivente, con quell'ammasso di capelli ricciuti che le straripavano sulle tempie e sul collo come il vello d'un animale, si capiva perché camminava a capo scoperto, senza preoccuparsi mai di piogge o di gelo. Sotto il bordo scuro dei capelli, la fronte, molto bassa, aveva la forma e il colore dorato d'una piccola falce di luna. Gli occhi grandi, a fior di testa; il naso corto, largo alle narici e con la punta all'insù; le labbra, troppo forti e troppo rosse, sarebbero sembrate altrettante bruttezze se esaminate una per una. Ma, uniti nell'affascinante rotondità del viso, visti nella gioiosità ardente della vita, questi particolari formavano un insieme di una bellezza strana e seducente. Quando Miette rideva, rovesciando il capo all'indietro e reclinandolo dolcemente sulla spalla destra, somigliava alla Baccante antica, con la gola piena di risonante allegrezza, le guance paffute come quelle d'un bambino, i larghi denti bianchi, le ciocche di capelli ricciuti, agitati sulla nuca dai suoi sussulti di gioia, come una corona di pàmpini. E per ritrovare in lei la vergine, la ragazzina tredicenne, bisognava capire quanta innocenza c'era nelle sue risate forti e dolci di donna già fatta, bisognava soprattutto notare la delicatezza ancora fanciullesca del mento e la morbida purezza delle tempie. Il viso di Miette, abbronzato dal sole, assumeva certe volte dei riflessi d'ambra. Una fine peluria nera segnava già di un'ombra lieve il labbro superiore. Il lavoro cominciava a deformare le piccole mani, che, se fossero rimaste in ozio, avrebbero potuto diventare le adorabili mani paffute d'una borghese.
Miette e Silvère rimasero a lungo in silenzio. Indovinavano i loro pensieri ansiosi. E, via via che discendevano insieme nel timore e nell'ignoto dell'indomani, si stringevano l'uno all'altra più strettamente. S'intendevano fin nel profondo del cuore, sentivano l'inutilità e la crudeltà di qualsiasi lamento ad alta voce. Tuttavia la ragazza non riuscì più a trattenersi: soffocava; con una sola frase espresse l'inquietudine che tutt'e due sentivano.
«Tornerai, non è vero?», balbettò attaccandosi al collo di Silvère.
Silvère, senza rispondere, con la gola serrata e temendo di piangere come lei, la baciò su una guancia, con un sentimento fraterno incapace di trovare alcun'altra consolazione. Si staccarono, si richiusero nel silenzio.
Un momento dopo, Miette rabbrividì. Non s'appoggiava più alla spalla di Silvère; si sentiva tutta gelata. Non sarebbe rabbrividita in quel modo il giorno prima, in fondo a quel vialetto deserto, su quella pietra tombale. sulla quale, da molte stagioni, vivevano così felicemente il loro amore, nella pace del vecchio cimitero.
«Ho molto freddo», disse, rimettendosi il cappuccio sulla testa.
«Vuoi che camminiamo?», le chiese il giovane. «Non sono ancora le nove, possiamo passeggiare un po' sulla strada».
Miette pensava che forse non avrebbe più avuto per molto tempo la gioia d'un incontro, di una di quelle chiacchierate di sera, in attesa delle quali essa viveva tutti i giorni.
«Si, camminiamo», rispose con tono deciso; «andiamo fino al mulino... Starei fuori tutta la notte, se tu volessi».
Lasciarono la pietra tombale e si nascosero nell'ombra di una catasta di assi. Là Miette scostò la sua pelliccia, che era cucita a piccole losanghe e foderata con una tela di cotone di color rosso sangue; poi gettò un lembo di quel caldo e ampio mantello sulle spalle di Silvère, avviluppandolo così tutto, unendolo con sé, stringendolo a sé, nello stesso indumento. Si passarono reciprocamente un braccio attorno alla vita per formare un tutt'uno. Quando si furono confusi così in un unico essere, quando si trovarono avvolti nelle pieghe della pelliccia fino al punto da perdere ogni forma umana, si misero a camminare a piccoli passi, dirigendosi verso la strada, traversando senza timore gli spazi vuoti del deposito di legnami, illuminati dalla luce bianca della luna. Miette aveva avviluppato Silvère, e lui si era prestato a questa operazione in modo del tutto naturale, come se ogni sera la pelliccia avesse reso loro lo stesso servizio.
La strada di Nizza, ai due lati della quale si stende il sobborgo, nel 1851 era fiancheggiata da olmi secolari, vecchi giganti, relitti grandiosi e ancora pieni di forza; la municipalità zelante li ha sostituiti, da qualche anno, con piccoli platani. Quando Silvère e Miette si trovarono sotto gli alberi, i cui rami bizzarramente contorti proiettavano, al chiaro di luna, la loro ombra sul marciapiede, incontrarono, due o tre volte, delle masse nere che si muovevano silenziosamente, strisciando lungo i muri delle case. Erano, come loro, coppie d'innamorati, ermeticamente racchiusi in grandi mantelli, che nell'ombra densa effondevano passeggiando la loro pudica tenerezza.
Gli amanti delle città del Mezzogiorno hanno adottato questo genere di passeggiata. I ragazzi e le ragazze del popolo, che un giorno si sposeranno e che non rifuggono dal baciarsi un poco in attesa di quel giorno, non saprebbero dove rifugiarsi per scambiarsi dei baci a loro agio, senza esporsi troppo ai pettegolezzi della gente. In città, sebbene i genitori lascino ad essi piena libertà, se prendessero una stanza a pagamento, se s'incontrassero da solo a sola, il giorno dopo sarebbero lo scandalo di tutto il paese; d'altra parte, non hanno il tempo di raggiungere tutte le sere i luoghi solitari della campagna. Hanno scelto, allora, una via di mezzo: percorrono i sobborghi, gli spiazzi non frequentati, le strade fiancheggiate da alberi, tutti i luoghi dove ci sono pochi passanti e molti anfratti scuri. E per maggior prudenza, siccome tutti gli abitanti si conoscono, hanno cura di rendersi irriconoscibili, nascondendosi in uno di quei grandi mantelli che ricoprirebbero un'intera famiglia. I genitori tollerano queste escursioni al buio più fitto; la rigida morale della provincia non sembra allarmarsene; è stabilito che gli innamorati non si fermino mai negli angoli né si siedano sui campi, e questo basta a calmare i timori dei moralisti. Si può soltanto baciarsi camminando. Qualche volta, però, una ragazza fa sparlare di sé: gli innamorati si sono seduti.
Nulla di più affascinante, in verità, di queste passeggiate amorose. La fantasia tenera e piena d'inventiva del Mezzogiorno vi si riconosce in pieno. È un vero e proprio corteo di maschere, fertile di piccole felicità, alla portata della povera gente. L'innamorata non ha che da aprire il suo manto, e ha un rifugio bell'e pronto per il suo innamorato. Lo nasconde sul suo cuore, nel tepore dei suoi abiti, come le piccole borghesi nascondono i loro spasimanti sotto i letti o dentro gli armadi. Il frutto proibito assume là un sapore particolarmente dolce: lo si gusta all'aria aperta, tra gli indifferenti che passano, lungo le strade. E quel che c'è di squisito, quel che conferisce una voluttà acuta ai baci, è la certezza di potersi baciare impunemente davanti a chiunque, di rimanere abbracciati in pubblico per serate intere, senza correre il rischio di essere riconosciuti e mostrati a dito. Una coppia è soltanto una massa scura, ha lo stesso aspetto di un'altra coppia. Per il passeggiatore notturno, che intravede muoversi queste masse, è l'amore che passeggia, niente di più: l'amore senza nome, l'amore che si indovina e che si ignora. Gli innamorati sanno di essere ben nascosti; chiacchierano a bassa voce, si sentono in casa propria; per lo più non dicono nulla, camminano per ore ed ore, a caso, felici di sentirsi stretti insieme entro lo stesso mantello. Ciò, nello stesso tempo, è molto virginale e molto voluttuoso. Il clima è il gran colpevole; soltanto il clima, in origine, deve aver indotto gli innamorati a scegliere come nascondigli i luoghi appartati dei sobborghi. Nelle belle notti d'estate non si può girare tutt'intorno a Plassans senza scoprire, nell'ombra di ogni tratto di muro, una coppia incappucciata. Certi luoghi, per esempio l'aia di SaintMittre, sono popolati da questi manti scuri che si sfiorano lentamente, senza far rumore, nel tepore della notte serena; si direbbe che sono gl'invitati ad un ballo misterioso che le stelle concedono agli amori della povera gente. Quando fa troppo caldo e le ragazze non hanno più la pelliccia, si accontentano di ripiegare la prima delle loro tante gonne. D'inverno gli innamorati più ardenti sfidano il gelo. Mentre scendevano per la strada di Nizza, Silvère e Miette non pensavano affatto a lagnarsi del freddo notturno di dicembre.
I due ragazzi attraversarono il sobborgo addormentato senza scambiarsi una parola. Con una gioia silenziosa ritrovavano il tiepido fascino del loro abbraccio. I loro cuori erano tristi; la felicità che provavano nello stringersi l'uno all'altra aveva l'emozione dolorosa di un addio, ed essi pensavano che non sarebbero mai riusciti a dar fondo a tutta la dolcezza e a tutta l'amarezza di quel silenzio che cullava lentamente il loro cammino. Presto le case divennero più rare; erano arrivati all'estremità del sobborgo. Là c'è il cancello del Jas-Meiffren: due grossi pilastri uniti da un'inferriata che lascia vedere, tra le sbarre, un lungo viale fiancheggiato da gelsi. Passando, Silvère e Miette gettarono istintivamente uno sguardo là dentro.
A partire dal Jas-Meiffren, la grande strada discende per un dolce pendio fino al fondo d'una vallata che fa da letto a un piccolo corso d'acqua, la Viorne: ruscello d'estate e torrente d'inverno. In quell'epoca le due file di olmi continuavano, e facevano sì che la strada fosse un magnifico viale, che tagliava in due con un largo nastro di alberi giganteschi il pendio piantato a grano e a vigne magre. In quella notte di dicembre, sotto la luna chiara e fredda, i campi arati da poco si estendevano dall'una e dall'altra parte del viale, simili a vasti ammassi di ovatta grigiastra, capaci di smorzare tutti i rumori dell'aria. Di lontano, la voce sorda della Viorne era la sola che incutesse un brivido nella pace immensa della campagna.
Quando i due ragazzi ebbero incominciato a percorrere il viale in discesa, Miette ritornò col pensiero al Jas-Meiffren, che si erano appena lasciati dietro.
«Ce n'è voluta perché riuscissi a svignarmela stasera», disse. «Mio zio non si decideva a lasciarmi andare. Si era chiuso in cantina, e credo che vi seppellisse il suo denaro, perché stamattina sembrava molto turbato dagli avvenimenti che si preparano».
Silvère la strinse con più dolcezza.
«Andiamo», rispose, «sii coraggiosa. Verrà un tempo in cui ci vedremo liberamente tutto il giorno... Non bisogna affliggersi».
«Oh!», riprese la ragazza scuotendo la testa, «sei pieno di speranza, tu... Io, ci sono dei giorni in cui sono tanto triste. Non è il lavoro duro che mi tormenta; anzi, spesso sono contenta della severità di mio zio e delle fatiche che m'impone. Ha avuto ragione di fare di me una contadina; avrei potuto finir male; perché, vedi, Silvère, ci sono dei momenti in cui credo di avere una maledizione addosso In quei momenti vorrei esser morta... Penso alla persona che sai...».
Pronunciando queste ultime parole, la voce della ragazza finì in un singhiozzo. Silvère la interruppe con un tono quasi aspro.
«Sta' zitta», disse. «Mi avevi promesso di pensarci meno, a quella faccenda. Non è colpa tua».
Poi aggiunse, con un tono più dolce:
«Noi ci amiamo davvero, no? Quando saremo sposati, giorni tristi non ne avrai più».
«Lo so», mormorò Miette, «tu sei buono, mi tendi la mano. Ma che vuoi farci? Ho dei sussulti, vorrei ribellarmi, qualche volta. Mi sembra che mi abbiano fatto un torto, e allora mi vien voglia di essere cattiva. Ti apro il mio cuore, io. Ogni volta che mi gettano in faccia il nome di mio padre, mi sento bruciare tutta. Quando passo e i ragazzi gridano: "Eh, la Chantegreil!", questo mi mette fuori di me; vorrei afferrarli e picchiarli».
dopo un silenzio cupo, aggiunse:
«Tu sei un uomo; sparerai delle fucilate... Hai una grande fortuna, tu».
Silvère l'aveva lasciata parlare. Dopo che ebbero fatto qualche altro passo, disse con una voce triste:
«Hai torto, Miette; la tua collera è cattiva. Non bisogna ribellarsi alla giustizia. Io vado a combattere per il nostro diritto, di tutti noi; non ho nessuna vendetta da compiere».
«Non importa», rispose la ragazza, «vorrei essere un uomo e tirar delle fucilate. Mi sembra che questo mi farebbe star meglio».
E siccome Silvère rimaneva silenzioso, lei si accorse di avergli fatto dispiacere. Tutta la sua esaltazione si dileguò.
Balbettò con voce supplicante:
«Non sei mica arrabbiato con me? È la tua partenza che mi affligge e mi fa venire quelle idee. So bene che hai ragione, che devo rassegnarmi...».
Si mise a piangere. Silvère, commosso, le prese le mani e le baciò.
«Su», disse dolcemente, «tu passi dalla collera alle lacrime come una bambina. Bisogna essere ragionevoli. Io non ti rimprovero... Vorrei soltanto vederti più felice, e questo dipende molto da te».
Il dramma di cui Miette aveva evocato così dolorosamente il ricordo lasciò i due innamorati in preda alla tristezza per qualche minuto. Continuarono a camminare, a testa bassa, turbati dai loro pensieri. Poco dopo:
«Mi credi molto più felice di te?», domandò Silvère, rimettendosi a parlare suo malgrado. «Se mia nonna non mi avesse raccolto e allevato, che ne sarebbe stato di me? Tranne lo zio Antoine, che è operaio come me e mi ha insegnato ad amare la Repubblica, tutti gli altri miei parenti hanno l'aria di temere che io li insudici, quando passo accanto a loro».
Si andava animando mentre parlava; s'era fermato, trattenendo Miette in mezzo alla strada.
«Dio mi è testimone», continuò, «che io non invidio e non detesto nessuno. Ma, se la vittoria sarà nostra, bisognerà che io dica il fatto loro a quei bei signori. Lo zio Antoine la sa lunga in proposito. Lo vedrai al nostro ritorno. Vivremo tutti liberi e felici».
«Le vuoi davvero bene, alla tua Repubblica», disse la ragazza sforzandosi di scherzare. «Vuoi bene a me come a lei?».
Rideva, ma in fondo al suo riso c'era un po' d'amarezza. Forse diceva a se stessa che Silvère la lasciava con troppa facilità per andarsene in guerra. Il giovane rispose con un tono serio:
«Tu sei la mia donna. Ti ho dato tutto il mio cuore. Vedi, amo la Repubblica perché amo te. Quando saremo sposati dovremo essere molto felici, e per ottenere una parte di questa felicità io andrò via domattina... Non mi consiglierai mica di restarmene a casa».
«Oh, no!», esclamò con foga la ragazza. «Un uomo dev'essere forte. È bello il coraggio!... Devi perdonarmi di essere gelosa. Desidererei tanto di essere anch'io forte quanto te. Tu mi ameresti ancor più, non è vero?».
Stette zitta un istante, poi aggiunse, con una vivacità e un'ingenuità deliziosa:
«Ah! Come sarò contenta di baciarti, quando ritornerai!».
Quel grido di un cuore amante e coraggioso commosse profondamente Silvère. Prese Miette tra le braccia e la baciò più volte sulle guance. Miette si schermiva un poco, ridendo; ma aveva gli occhi pieni di lacrime di commozione.
Attorno ai due innamorati, la campagna continuava a dormire, nell'immensa pace del freddo. Erano arrivati a metà del pendio. Là, a sinistra, c'era un monticello abbastanza alto, in cima al quale, al chiarore della luna, si vedevano i ruderi d'un mulino a vento; rimaneva solo la torre, tutta crollata da un lato. Era la meta che i due ragazzi avevano fissato per la loro passeggiata. Dopo che avevano lasciato il sobborgo, erano andati avanti senza dare una sola occhiata ai campi che attraversavano. Quando ebbe baciato Miette sulle guance, Silvère levò la testa. Vide il mulino.
«Quanto abbiamo camminato!», esclamò. «Ecco il mulino. Devono essere press'a poco le nove e mezzo; bisogna ritornare».
Miette fece il broncio.
«Camminiamo ancora un poco», implorò, «soltanto qualche passo, fino alla piccola traversa... Davvero, fin là e poi basta». |[continua]|
|[CAPITOLO I, 2]|
Silvère la riafferrò alla vita, sorridendo. Ripresero a discendere il pendio. Non temevano più gli sguardi dei curiosi: dopo le ultime case, non avevano incontrato anima viva. Ma rimasero egualmente inviluppati nella grande pelliccia. Quella pelliccia, quell'abito un po' rozzo, era come il nido naturale dei loro amori. Li aveva tenuti nascosti per tante serate felici! Se avessero passeggiato l'uno a fianco dell'altra, si sarebbero sentiti piccoli piccoli, sperduti nella vasta campagna. Il formare un essere solo li rassicurava, li faceva sentir più grandi. Attraverso le pieghe della pelliccia guardavano i campi che si stendevano ai due margini della strada, senza provare quel senso di oppressione che i larghi orizzonti indifferenti fan pesare sugli amori umani. Avevano l'impressione di aver portato con sé la loro casa, godendo della campagna come uno ne gode guardandola dalla finestra, amando quelle solitudini calme, quelle macchie di luce silenziosa, quei tratti di vegetazione che si distinguevano appena sotto la coltre dell'inverno e della notte, quella vallata tutta intera, che, pur ammaliandoli, non era però così forte da intromettersi fra i loro due cuori stretti l'uno all'altro.
Del resto, essi avevano smesso di conversare in continuazione; non parlavano più degli altri, non parlavano più neanche di se stessi; vivevano gli attimi singoli, scambiandosi una stretta di mano, lanciando un'esclamazione alla vista di un angolo di paesaggio, pronunciando di rado qualche parola, senza troppo udirsi a vicenda, come assopiti dal tepore dei loro corpi. Silvère dimenticava i propri entusiasmi repubblicani; Miette non pensava più che il suo innamorato la dove va lasciare entro un'ora, e per molto tempo, forse per sempre. Come nei soliti giorni, quando nessun addio turbava la pace dei loro incontri, essi si assopivano nel rapimento del loro amore.
Continuavano a camminare. Presto arrivarono alla piccola traversa di cui Miette aveva parlato, l'inizio d'un viottolo che s'interna nella campagna, fino a un villaggio sulle rive della Viorne. Ma non si fermarono, continuarono a scendere per la strada maestra, fingendo di non vedere quel sentiero che si erano ripromessi di non oltrepassare. Soltanto qualche minuto più tardi Silvère mormorò:
«Dev'essere molto tardi, ti stancherai».
«No, te lo giuro, non sono stanca», rispose la ragazza. «Continuerei a camminare di buon passo per leghe e leghe».
Poi aggiunse con voce carezzevole:
«Ti prego, scendiamo fino ai prati di Sainte-Claire... Là, sicuramente, la passeggiata sarà finita; torneremo indietro».
Silvère, che era come cullato dal passo cadenzato della ragazza, e che sonnecchiava dolcemente a occhi aperti, non fece alcuna obiezione. Furono riafferrati dalla loro estasi. Camminavano più adagio, per paura del momento in cui avrebbero dovuto risalire il pendio. Finché andavano avanti, avevano l'impressione di camminare in eterno così stretti l'uno all'altra; il ritorno era la separazione, era l'addio crudele.
A poco a poco il pendio della strada diventava meno ripido. Il fondovalle è occupato da praterie che si estendono fino alla Viorne, proseguendo dall'altra parte, lungo una fila di colline basse. Queste praterie, che siepi formatesi spontaneamente separano dalla grande strada, sono i prati di Sainte-Claire.
«Bah!», esclamò a sua volta Silvère, scorgendo le prime distese d'erba, «andremo fino al ponte».
Miette proruppe in una risata argentina. Afferrò per il collo il giovane e lo baciò con ardore.
Là dove cominciano le siepi, il lungo viale alberato finiva, a quell'epoca, con due olmi, due colossi ancor più giganteschi degli altri. Il terreno si estende allo stesso livello della strada, nudo, simile a una larga fascia di lana verde, fino ai salici e alle betulle in riva al fiumicello. Dagli ultimi olmi fino al ponte, del resto, c'erano appena trecento metri. I due innamorati misero un buon quarto d'ora a percorrere quella distanza. Alla fine, nonostante tutta la lentezza del loro cammino, si trovarono sul ponte. Si fermarono.
Davanti a loro, la strada di Nizza risaliva il versante opposto della valle; ma essi non potevano vederne che un tratto assai breve, perché a circa mezzo chilometro la strada svolta bruscamente e si perde tra alture boscose. Voltandosi indietro, videro l'altro tratto della strada, quello che proprio allora avevano percorso, e che va in linea retta da Plassans alla Viorne. Sotto quel bel chiaro di luna invernale, sembrava un lungo nastro d'argento che i filari d'olmi fiancheggiavano con due orli cupi. A destra e a sinistra, i terreni arati del pendio parevano larghe distese marine, grigie e indistinte, tagliate da quel nastro, da quella strada bianca di gelo, d'un bagliore metallico. Molto in alto, all'altezza dell'orizzonte, brillavano, come scintille vivide, alcune finestre del sobborgo, ancora illuminate. Miette e Silvère, un passo dopo l'altro, si erano allontanati di una buona lega. Gettarono uno sguardo sul cammino che avevano percorso, colpiti da una muta ammirazione per quell'immenso anfiteatro che saliva fino a toccare il cielo, e sul quale delle chiazze di luce bluastra scendevano come sui gradini d'una cascata gigantesca. Quello strano scenario, quell'apoteosi colossale s'innalzava in un'immobilità e in un silenzio di morte. Nessuno spettacolo poteva essere più sovranamente grandioso.
Poi i due giovani, che si erano appoggiati ad un parapetto del ponte, rivolsero lo sguardo in basso. La Viorne, ingrossata dalle piogge, passava sotto di loro con un rumore sordo e continuo. A monte e a valle del fiume, fra le tenebre che s'addensavano là dove il terreno sprofondava, essi distinguevano le linee nere degli alberi che sorgevano sulle rive; qua e là, un raggio di luna s'insinuava, proiettando sull'acqua una striscia come di stagno fuso che luccicava e si agitava come un riflesso di luce diurna sulle scaglie di una bestia viva. Quei luccichii correvano, con un fascino misterioso, lungo la corrente grigiastra del torrente, tra i fantasmi evanescenti del fogliame. Pareva una valle incantata, un meraviglioso rifugio in cui tutto un popolo di ombre e di luci viveva una vita strana.
I due innamorati conoscevano bene quel punto del fiume. Nelle calde notti di luglio erano scesi spesso fin là, per trovare un po' di frescura. Avevano passato lunghe ore nascosti nei boschetti di salici, sulla riva destra, là dove i prati di Sainte-Claire stendono il loro tappeto erboso fino a dove scorre l'acqua. Si ricordavano fin delle più piccole curve della riva; di certe pietre sulle quali bisogna saltare per passare a piedi asciutti la Viorne, allora ridotta a un filo d'acqua; di certe cavità erbose nelle quali avevano sognato i loro teneri sogni. Perciò Miette, dall'alto del ponte, contemplava con uno sguardo d'invidia la riva destra del torrente.
«Se facesse più caldo», disse con un sospiro, «potremmo scendere un poco a riposarci, prima di risalire il pendio...».
Poi, dopo un breve silenzio, sempre con lo sguardo fisso sulle rive della Viorne:
«Guarda, Silvère, quella massa nera, laggiù, prima della chiusa... Ti ricordi? È la boscaglia dove ci siamo seduti, l'ultimo Corpus Domini».
«Sì, è la boscaglia», rispose Silvère a bassa voce.
Era là che avevano osato per la prima volta baciarsi sulle guance. Quel ricordo, che la ragazza aveva proprio allora evocato, causò a tutti e due una sensazione deliziosa, un'emozione nella quale si fondevano le gioie di ieri e le speranze del domani. Come alla luce d'un lampo, videro le belle serate che avevano trascorso insieme, soprattutto quella sera del Corpus Domini di cui si rammentavano i minimi particolari: il grande cielo tiepido, la frescura dei salici della Viorne, le parole carezzevoli che si erano scambiati. E nello stesso tempo, mentre le cose del passato risalivano alla memoria con un sapore dolce, ebbero l'impressione di penetrare l'avvenire ignoto, di vedersi l'uno al braccio dell'altra, avendo realizzato il loro sogno e avanzando nella vita così come avevano fatto proprio allora sulla grande strada, coperti dalla stessa pelliccia calda. Allora l'estasi li riafferrò; si fissavano negli occhi, si sorridevano, perduti tra chiarità silenziose.
Ad un tratto, Silvère sollevò la testa. Si disviluppò dalla pelliccia, tese l'orecchio. Miette, sorpresa, lo imitò, senza capire perché lui si staccava da lei così bruscamente.
Un momento dopo, dei rumori confusi giungevano da dietro le alture frammezzo alle quali si perde la strada di Nizza. Erano come i sobbalzi lontani di un convoglio di carri. La Viorne copriva col suo brontolio quei rumori ancora indistinti. Ma a poco a poco essi si accentuarono, diventarono simili al calpestio di un esercito in marcia. Poi, in quel rullio continuo e crescente, si distinsero delle grida di folla, degli strani soffi d'uragano, cadenzati e ritmici; si sarebbe detto che erano i colpi di fulmine d'un temporale che si avanzava rapidamente, sconvolgendo già col suo avvicinarsi l'aria addormentata. Silvère ascoltava, senza riuscire ad afferrare quelle voci di tempesta che le alture impedivano di giungere distintamente fino a lui. E, tutt'a un tratto, una massa nera apparve alla svolta della strada; la Marsigliese, cantata con una furia vendicatrice, esplose, formidabile.
«Sono loro!», gridò Silvère in uno slancio di gioia e d'entusiasmo.
Si mise a correre su per il pendio, trascinando con sé Miette. A sinistra della strada c'era un rialzo di terreno piantato a querce verdi; Silvère e la ragazza vi si arrampicarono, per non essere travolti tutti e due dalla fiumana urlante della folla.
Quando furono sul rialzo, nell'ombra della boscaglia, la ragazza, un po' pallida, guardò con tristezza quegli uomini, i cui canti lontani eran bastati per strappare Silvère dalle sue braccia. Le parve che tutto quel drappello di combattenti venisse a intromettersi fra lei e lui. Erano così felici qualche minuto prima, così strettamente uniti, così soli, così perduti nel grande silenzio e nel chiarore non invadente della luna! E adesso Silvère, con la testa rivolta dalla parte opposta, sembrava si fosse addirittura dimenticato che lei era là, non aveva occhi se non per quegli sconosciuti che chiamava fratelli.
La banda degli insorti scendeva con uno slancio superbo, irresistibile. Nulla di più terribilmente grandioso che l'irrompere di quegli uomini - qualche migliaio - nella pace morta e fredda della vallata. La strada, come un torrente, faceva scorrer giù dei flutti viventi che pareva non dovessero mai esaurirsi; sempre, alla svolta, apparivano nuove masse nere, i cui canti facevano rimbombare sempre più la grande voce di quella tempesta umana. Quando apparvero gli ultimi battaglioni, il frastuono divenne assordante. La Marsigliese riempì il cielo, come se fosse soffiata da bocche di giganti in trombe mostruose che la lanciavano, vibrante, con risonanze secche come di rame percosso, fino a tutti gli angoli della valle. E la campagna addormentata si svegliò di soprassalto; fremé tutta come un tamburo percosso dalle bacchette; risonò fin nelle sue viscere, ripetendo con tutti i suoi echi le note ardenti del canto nazionale. Allora non fu più solo la banda che cantò: dai margini dell'orizzonte, dalle rocce lontane, dai terreni arati, dalle praterie, dai boschetti, dai più piccoli cespugli, sembrava che uscissero voci umane. Il vasto anfiteatro che dal torrente sale fino a Plassans, il pendio gigantesco sul quale si riversava il chiarore bluastro della luna, era come coperto da un popolo invisibile e innumerevole che acclamava gli insorti; e in fondo agli anfratti della Viorne, lungo le acque striate da misteriosi riflessi di stagno fuso, non c'era nemmeno un angolo buio in cui degli uomini invisibili non sembrassero intonare ogni ritornello con una collera sempre più alta. La campagna, nel fremito dell'aria e del suolo, gridava vendetta e libertà. Fintanto che il piccolo esercito discese giù per il pendio, il ruggito del popolo si riversò così in onde sonore inframmezzate da bruschi scoppi di grida, che scuotevano fin le pietre del selciato.
Silvère, pallido per l'emozione, continuava ad ascoltare e a guardare. Gli insorti che marciavano in testa alla colonna, trascinando dietro di sé quel lungo fiume umano brulicante e mugghiante, mostruosamente indistinto nella penombra, si avvicinavano a passi rapidi al ponte.
«Io credevo», sussurrò Miette, «che voi non doveste attraversare Plassans».
«Sarà stato modificato il piano d'operazioni», rispose Silvère; «in effetti, dovevamo puntare sul capoluogo per la strada di Tolone, snodandoci a sinistra di Plassans e di Orchères. Saranno partiti da Alboise nel pomeriggio e saranno passati per le Tulettes a sera».
La testa della colonna era arrivata davanti ai due ragazzi. Nel piccolo esercito regnava più ordine di quanto ci si sarebbe potuto aspettare da una banda d'uomini non abituati alla disciplina. I contingenti di ciascuna città, di ciascun paese, formavano dei battaglioni, ciascuno a sé, che marciavano ad alcuni passi di distanza gli uni dagli altri. Si capiva che i battaglioni obbedivano a dei comandanti. D'altra parte, lo slancio che in quel momento li faceva abbordare a gran velocità la strada in salita, ne faceva una massa compatta, solida, di una potenza invincibile. Saranno stati tremila uomini all'incirca, uniti e trascinati in blocco da un vento di collera. Nell'ombra che i rialzi di terreno proiettavano sulla strada, si distinguevano a fatica gli strani particolari di quella scena. Ma a cinque o sei passi dalla boscaglia dove si erano rimpiattati Miette e Silvère, l'altura di sinistra si abbassava per lasciar passare un sentiero che fiancheggiava la Viorne, e la luna, insinuandosi attraverso questa apertura, riversava sulla strada una larga striscia di luce. Quando i primi fra gl'insorti entrarono in questa striscia, si trovarono improvvisamente illuminati da un chiarore che, con la sua bianchezza acuta, faceva risaltare nel modo più netto fin le minime pieghe dei volti e degli abiti. Man mano che i contingenti sfilavano, i due ragazzi li videro così, dinanzi a loro, emergere tutt'a un tratto dalle tenebre, fieri, incalzantisi senza posa.
Quando i primi entrarono nella zona luminosa, Miette, con un movimento istintivo, si strinse a Silvère, benché si sentisse al sicuro, nascosta anche agli sguardi. Cinse con un braccio il collo del giovane, gli appoggiò la testa su una spalla. Col viso incorniciato entro il cappuccio del mantello, pallida, rimase in piedi, con gli occhi fissi su quel quadrato di luce attraversato rapidamente da facce così strane, trasfigurate dall'entusiasmo, con le bocche aperte e nere, tutte piene del grido vendicatore della Marsigliese.
Silvère, che essa sentiva fremente al suo fianco, le si chinò allora all'orecchio e incominciò a nominarle i vari contingenti man mano che passavano.
La colonna marciava su righe di otto uomini. All'inizio venivano dei pezzi d'uomini dalle teste poderose, che sembrava avessero una forza erculea e una fede ingenua di giganti. La Repubblica avrebbe certo trovato in loro dei difensori ciechi e intrepidi. Portavano in spalla grandi ascie, il cui taglio, affilato di recente, luccicava al chiaro di luna.
«I boscaioli delle foreste della Seille», disse Silvère. «Ne hanno fatto un corpo di zappatori... A un cenno solo dei loro comandanti, quegli uomini andrebbero fino a Parigi, sfondando le porte delle città a colpi di scure, come abbattono le vecchie querce da sughero, in montagna...».
Il giovane parlava con orgoglio dei grossi pugni di quei fratelli rivoluzionari. Continuò, vedendo arrivare dietro i boscaioli una banda di operai e di uomini dalla barba incolta, arsi dal sole:
«Il contingente della Palud. È il villaggio che è insorto per primo. Quelli vestiti con le bluse sono operai che lavorano le querce da sughero. Gli altri, quelli con gli abiti di velluto, devono essere cacciatori e carbonai che vivono nelle forre della Seille... I cacciatori hanno conosciuto tuo padre, Miette.
Hanno buone armi che usano con bravura. Ah, se tutti fossero armati così! I fucili mancano. Vedi, gli operai hanno soltanto dei bastoni».
Miette guardava, ascoltava, muta. Quando Silvère le parlò di suo padre, il sangue le salì violentemente alle guance. Col viso in fiamme, scrutò i cacciatori con un'aria di collera e di strana simpatia. Da allora in poi, sembrò che si animasse a poco a poco, contagiata dalla febbre che le suscitavano i canti degli insorti.
La colonna, che aveva ricominciato a cantare la Marsigliese, discendeva ancora, come sferzata dai soffi aspri del mistral. A quelli della Palud era venuto dietro un altro drappello di operai, fra i quali si vedeva un numero abbastanza grande di borghesi incappottati.
«Ecco gli uomini di Saint-Martin-de-Vaulx», riprese Silvère. «Quel paese è insorto quasi contemporaneamente alla Palud... I padroni si sono uniti agli operai. Tra quelli c'è gente ricca, Miette; ricchi che potrebbero starsene tranquilli in casa loro e invece vanno a rischiare la vita per la difesa della libertà. Bisogna amare quei ricchi... Le armi continuano a mancare: appena qualche fucile da caccia... Vedi, Miette, quelli che hanno al gomito sinistro un bracciale di stoffa rossa? Sono i capi».
Ma Silvère rimaneva in ritardo. I battaglioni scendevano lungo il pendio più rapidi delle sue parole. Parlava ancora di quelli di Saint-Martin-de-Vaulx, ed ecco che già altri due battaglioni avevano attraversato la striscia luminosa che imbiancava la strada.
«Hai visto?», disse; «sono passati gli insorti di Alboise e delle Tulettes. Ho riconosciuto Burgat, il fabbro... Si saranno riuniti alla banda oggi stesso... Come corrono!».
Ora Miette si sporgeva per seguire più a lungo con lo sguardo i piccoli contingenti che il giovane le indicava. Il fremito che s'impadroniva di lei le saliva entro il petto e la serrava alla gola. In quel momento apparve un battaglione più numeroso e più disciplinato degli altri. Gli insorti che ne facevano parte, vestiti quasi tutti di bluse azzurre, avevano una cintura rossa stretta alla vita; pareva che indossassero una divisa. In mezzo ad essi s'avanzava un uomo a cavallo, con la sciabola al fianco. I più di quei soldati improvvisati avevano fucili, carabine o vecchi moschetti della Guardia nazionale.
«Quelli non li conosco», disse Silvère. «L'uomo a cavallo, dev'essere il comandante di cui mi hanno parlato. Ha condotto con sé i contingenti di Faverolles e dei villaggi vicini. Bisognerebbe che tutta la colonna fosse armata così».
Non ebbe tempo di riprendere fiato.
«Ah, ecco quelli della campagna!», gridò.
Dietro gli insorti di Faverolles si avanzavano dei gruppetti formati ciascuno di dieci o tutt'al più venti uomini. Indossavano tutti la giubba corta dei contadini del Mezzogiorno. Cantavano e brandivano dei forconi e delle falci; alcuni avevano, addirittura, solo delle larghe pale da sterratori. Ogni gruppo di case aveva mandato gli uomini validi di cui disponeva.
Silvère, che riconosceva i gruppi dai loro capi, li enumerò con voce commossa.
«Il contingente di Chavanoz!», disse. «Sono otto uomini soltanto, ma ben portanti; lo zio Antoine li conosce... Ecco Nazères! Ecco Poujols! Ci sono tutti, non uno ha mancato all'appello... Valqueyras! Toh, c'è anche il signor curato; m'hanno parlato di lui; è un buon repubblicano».
Si esaltava. Ora che ciascun battaglione era composto solo da pochi insorti, doveva dire i loro nomi in fretta, e questa precipitazione lo faceva sembrare in preda alla follia.
«Ah, Miette!», continuò, «che bella sfilata! Rozan! Vernoux! Corbière! E ce n'è ancora, vedrai... Non hanno altro che falci, quelli là, ma falceranno le truppe come l'erba dei loro prati... Saint-Eutrope! Mazet! le Gardes! Marsanne! Tutto il versante nord della Seille!... Ah, vinceremo! Tutto il paese è con noi. Guarda le braccia di quegli uomini, sono dure e scure come il ferro... E non è finita. Ecco Pruinas! le Rocce Nere! Sono dei contrabbandieri, questi ultimi: hanno delle carabine... Ancora falci e forche, altri contingenti delle campagne. Castel-le-Vieux! Sainte-Anne! Graille! Estourmel! Murdaran!».
E con una voce strozzata per l'emozione enumerò fino in fondo quegli uomini, che sembravano afferrati e portati via da un turbine man mano che lui li indicava. Con tutta la persona protesa, col viso in fiamme, mostrava i vari contingenti con un gestire nervoso. Miette seguiva quel gestire. Si sentiva attirata in giù, verso la strada, come se stesse sull'orlo di un precipizio. Per non scivolare giù dall'altura, si teneva stretta al collo del giovane. Un'eccitazione straordinaria saliva da quella folla ebbra di grida, di coraggio e di fede. Quegli esseri intravisti in un raggio di luna, quegli adolescenti, quegli uomini maturi, quei vecchi, che brandivano armi strane, vestiti degli abiti più disparati, dal grembiule del bracciante fino alla redingote del borghese; quella fila interminabile di teste che, per l'ora notturna e l'eccezionalità della situazione, avevano l'aspetto di maschere indimenticabili d'energia e di esaltazione fanatica, assumeva sempre più, agli occhi della ragazza, l'impeto vorticoso d'un torrente. In certi momenti le pareva che non camminassero più, che fossero trascinati dall'impeto stesso della Marsigliese, di quel canto rauco dalla sonorità tremenda. Non riusciva a distinguere le parole; udiva solo un rumoreggiare continuo, che trapassava da note sorde a note vibranti, acute come punte che qualcuno' colpendola, le avesse fatto penetrare nella carne. Quel ruggito di ribellione, quell'appello alla lotta e alla morte, coi suoi sobbalzi d'ira, le sue ardenti invocazioni alla libertà, la sua stupefacente mescolanza di desideri di strage e di slanci sublimi, le causano una di quelle angosce voluttuose di vergine martire che si rialzasse e sorridesse sotto i colpi dello staffile. E sempre, trascinata nell'onda sonora, la folla scorreva. La sfilata, che durò appena qualche minuto, ai due giovani sembrò non dovesse finir mai.
Certo, Miette era una ragazzina. Era impallidita all'avvicinarsi della banda, aveva pianto per le sue gioie d'amore che le erano strappate via. Ma era una ragazzina coraggiosa, un temperamento ardente, facile a lasciarsi trascinare dall'entusiasmo. Perciò l'emozione, che l'aveva invasa a poco a poco, ora la scuoteva tutta. Diventava un ragazzo. Con gioia avrebbe afferrato un'arma e seguito gli insorti. I suoi denti bianchi, man mano che i fucili e le falci sfilavano dinanzi a lei, apparivano più lunghi e più aguzzi tra le labbra rosse, come le zanne d'un lupacchiotto desideroso di mordere. E quando sentì Silvère che enumerava con una voce sempre più incalzante i contingenti delle campagne, le parve che lo slancio della colonna si accelerasse ancora ad ogni parola del giovane. Presto fu un turbine, un polverio umano che volteggiava sotto il soffio di una tempesta. Tutto si mise a girarle dinanzi allo sguardo. Chiuse gli occhi. Grosse lacrime calde le scorrevano giù per le guance.
Anche Silvère aveva qualche lacrima a fior di ciglia.
«Non vedo gli uomini che hanno lasciato Plassans questa mattina», mormorò.
Cercava di discernere la retroguardia della colonna, che si trovava ancora nell'ombra. Poi gridò con voce trionfante:
«Ah, eccoli!... Hanno la bandiera, hanno avuto in consegna la bandiera!».
Allora volle saltar giù dall'altura per andare a raggiungere i suoi compagni; ma, in quel momento, gli insorti si fermarono. Degli ordini corsero lungo la colonna. La Marsigliese si spense in un ultimo grido roco, e si sentì soltanto il mormorio confuso della folla, ancora tutta vibrante. Silvère, che stava in ascolto, riuscì a capire gli ordini che i battaglioni si trasmettevano l'uno all'altro, e che chiamavano gli uomini di Plassans in testa alla banda. Mentre ciascun battaglione si schierava al margine della strada per lasciar passare la bandiera, il giovane, trascinando con sé Miette, si mise a risalire l'altura.
«Vieni», le disse, «ci troveremo davanti a loro dall'altra parte del ponte».
E quando furono in alto, nelle terre arate, corsero fino a un mulino la cui chiusa sbarra il torrente. Là attraversarono la Viorne su un'asse che i mugnai vi avevano collocato. Poi percorsero in tralice i prati di Sainte-Claire, sempre tenendosi per mano, sempre correndo, senza scambiarsi una parola.
La colonna, sulla grande strada, formava una striscia scura che essi seguirono lungo le siepi. C'erano degli intervalli tra i biancospini. Silvère e Miette saltarono sulla strada attraverso uno di quegli intervalli.
Nonostante il giro che avevano compiuto, arrivarono contemporaneamente agli uomini di Plassans. Silvère scambiò qualche stretta di mano; dovettero pensare che egli era venuto a conoscenza del cambiamento di percorso degli insorti e che era venuto loro incontro. Miette, che aveva il viso coperto a metà dal cappuccio, fu guardata con curiosità.
«Toh, è la Chantegreil», disse uno del sobborgo, «la nipote di Rébufat, il mezzadro del Jas-Meiffren».
«Di dove sbuchi fuori, corridora!», gridò un'altra voce.
Silvère, nella storditezza dell'entusiasmo, non aveva pensato alla figura imbarazzante che la sua innamorata avrebbe fatto davanti agli scherni degli operai, che certo non sarebbero mancati. Miette, confusa, lo guardava come per implorare sostegno e soccorso. Ma prima ancora che egli potesse aprir le labbra, un'altra voce si levò dal gruppo, con tono brutale:
«Suo padre è all'ergastolo; non vogliamo con noi la figlia d'un ladro e d'un assassino».
Miette impallidì terribilmente.
«Voi mentite», disse con la voce strozzata; «se mio padre ha ammazzato, non ha rubato».
siccome Silvère stringeva i pugni, più pallido e più fremente di lei:
«Lascia stare», disse, «questa faccenda riguarda me...».
Poi, rivolgendosi verso il gruppo, ripeté con violenza:
«Voi mentite, mentite! Non ha mai preso un soldo a nessuno. Lo sapete bene. Perché lo insultate mentre non può essere qui a difendersi?».
Si era alzata in tutta la persona, in preda a una collera fiera. Il suo carattere ardente, mezzo selvaggio, sembrava accettare senza troppo sdegno l'accusa di assassinio; ma l'accusa di furto la esasperava. Questo si sapeva, e proprio per questo la gente le gettava spesso in faccia quell'accusa, con vile cattiveria.
L'uomo che proprio allora aveva chiamato ladro suo padre non aveva fatto altro che ripetere ciò che aveva sentito dire da anni. Davanti all'atteggiamento violento della ragazza, gli operai ridacchiarono. Silvère aveva sempre i pugni stretti. La faccenda si metteva male, quando un cacciatore della Seille, che si era seduto su un mucchio di pietre al margine della strada, in attesa che si riprendesse la marcia, venne in aiuto alla ragazza.
«La bambina ha ragione», disse. «Chantegreil era uno dei nostri. Io l'ho conosciuto. Sulla sua faccenda non si è mai visto chiaro. Quanto a me, ho sempre creduto alla verità delle sue dichiarazioni davanti ai giudici. Il gendarme che egli ha steso a terra con una fucilata, durante una caccia, lo aveva già sotto il tiro della sua carabina. Bisogna pur difendersi, diamine! Ma Chantegreil era un uomo onesto; Chantegreil non ha mai rubato».
Come succede in simili casi, la testimonianza di quel bracconiere bastò perché Miette trovasse altri difensori. Parecchi operai sostennero anche loro di aver conosciuto Chantegreil.
«Sì, sì, è vero», dissero. «Non era un ladro. Ci sono a Plassans delle canaglie che bisognerebbe mandare all'ergastolo al posto suo... Chantegreil era un nostro fratello... Via, calmati, piccina».
Mai Miette aveva sentito parlar bene di suo padre. Si era soliti dire davanti a lei che era un vagabondo, uno scellerato; ed ecco che essa incontrava cuori generosi, che avevano per lui parole di perdono e dichiaravano che era una persona onesta. Allora lei proruppe in lacrime, sentì di nuovo l'emozione che la Marsigliese le aveva fatto salire fino in gola, pensò come avrebbe potuto ringraziare quegli uomini che non odiavano gli infelici. Per un attimo le venne l'idea di stringere la mano a tutti, come avrebbe fatto un giovane e non una ragazzina. Ma il suo cuore le suggerì qualcosa di meglio. Accanto a lei stava il rivoluzionario che portava la bandiera. Lei toccò l'asta della bandiera e, come atto di ringraziamento, disse con voce supplichevole:
«Datemela, la porterò».
Gli operai, spiriti semplici, capirono il carattere ingenuamente sublime di quel ringraziamento.
«D'accordo», gridarono, «la Chantegreil porterà la bandiera».
Un boscaiolo fece notare che si sarebbe stancata presto, che non avrebbe potuto andar lontano.
«Oh, io sono forte!», disse lei orgogliosamente rimboccandosi le maniche e mostrando le braccia rotonde, già grosse come quelle di una donna fatta.
poiché le tendevano la bandiera:
«Aspettate», disse.
Si tolse rapidamente la pelliccia e se la rimise subito, dopo averla rivoltata dalla parte della fodera rossa. Allora essa apparve nella bianca chiarità della luna, ravvolta in un ampio manto purpureo che le scendeva fino ai piedi. Il cappuccio, alzato sopra la massa di capelli della nuca, la ricopriva come una specie di berretto frigio. Prese la bandiera, ne strinse l'asta al petto, e si tenne dritta, nelle pieghe di quella bandiera color sangue che ondeggiava dietro di lei. La sua testa di fanciulla ardente, coi capelli crespi, i grandi occhi umidi, le labbra semiaperte in un sorriso, ebbe uno slancio di energica fierezza, sollevandosi a metà verso il cielo. In quel momento, essa era la vergine Libertà.
Gli insorti dettero in uno scroscio d'applausi. Quei meridionali, dall'immaginazione vivida, erano colpiti ed entusiasmati dall'improvvisa apparizione di quella ragazza tutta rossa che con tanto fervore stringeva al seno la loro bandiera. Delle grida si levarono dal gruppo:
«Brava, la Chantegreil! Viva la Chantegrei! Rimarrà con noi, ci porterà fortuna!».
Avrebbero continuato ad acclamarla a lungo se non fosse giunto l'ordine di rimettersi in marcia. E mentre la colonna si moveva, Miette strinse la mano di Silvère, che si era messo al suo fianco, e gli mormorò all'orecchio:
«Capisci? Rimarrò con te. Lo vuoi?».
Silvère, senza rispondere, le ricambiò la stretta. Accettava. Profondamente commosso, egli non poteva, del resto, non lasciarsi trasportare dallo stesso entusiasmo dei suoi compagni. Miette gli era apparsa così bella, così grande, così santa! Durante tutta l'ascesa del pendio la rivide dinanzi a lui, raggiante, in un trionfo di porpora. Ora egli la confondeva con l'altra sua amante adorata, la Repubblica. Avrebbe voluto essere già arrivato, avere il suo fucile sulla spalla. Ma gli insorti salivano lentamente. Gli ordini erano di fare il meno rumore possibile. La colonna avanzava tra i due filari d'olmi simile a un gigantesco serpente di cui ogni spira era scossa da strani fremiti. La notte rigida di dicembre era ridivenuta silenziosa, e soltanto la Viorne sembrava che brontolasse più forte.
Appena raggiunsero le prime case del sobborgo, Silvère corse in avanti per andare a riprendere il suo fucile nell'aia di SaintMittre, che ritrovò addormentata sotto la luna. Quando raggiunse gli insorti, erano arrivati davanti alla Porta-di Roma. Miette si chinò verso di lui e gli disse con un sorriso di bambina:
«Mi sembra di essere alla processione del Corpus Domini, e di portare lo stendardo della Vergine».