CAPITOLO V

 

Lontano si snodavano le strade maestre, tutte bianche per il chiarore lunare. La colonna degli insorti, nella campagna fredda e chiara, riprese la sua marcia eroica. Era come un'ampia corrente d'entusiasmo. Il soffio di epopea che trascinava Miette e Silvère, questi grandi fanciulli avidi di amore e di libertà, faceva dileguare, con una generosità sublime, le commedie vergognose dei Macquart e dei Rougon. La voce alta del popolo, a intervalli, tuonava al di sopra delle chiacchiere del salotto giallo e delle invettive dello zio Antoine. La farsa volgare, la farsa ignobile, cedeva il passo al grande dramma della storia.

Usciti da Plassans, gli insorti avevano preso la strada di Orchères. Dovevano arrivare a quella città verso le dieci di mattina. La strada risale lungo il corso della Viorne, seguendo a mezza costa le curve delle colline, ai piedi delle quali scorre il torrente. A sinistra, la pianura si slarga, immenso tappeto verde costellato di tratto in tratto dalle macchie grige dei villaggi. A destra, la catena delle Garrigues innalza i suoi picchi solitari, le sue petraie, i suoi blocchi color ruggine, come arrossati dal sole. La grande strada, rialzata dalla parte del fiume, passa frammezzo a massi enormi, tra l'uno e l'altro dei quali si scorge, ad ogni passo, un tratto di vallata. Nulla di più selvaggio, di più bizzarramente grandioso di quella strada tagliata proprio nei fianchi delle colline. Specialmente di notte quei luoghi ispirano un sacro orrore. Sotto il chiarore lunare gli insorti si avanzavano come in un viale d'una città distrutta, che avesse ai due lati dei templi in rovina; la luna dava ad ogni sporgenza rocciosa l'aspetto di un fusto di colonna troncato, di un capitello caduto a terra, di una muraglia interrotta dalle arcate di portici misteriosi. In alto, il massiccio delle Garrigues dormiva, appena rischiarato da un color bianco lattiginoso, somigliante a un'immensa città ciclopica le cui torri, i cui obelischi, le cui case dalle alte terrazze avessero nascosto allo sguardo una metà del cielo; e giù, dalla parte della pianura, si sprofondava, si allargava un oceano di chiarori diffusi, una distesa vaga, senza confini, sulla quale fluttuavano dei banchi di nebbia luminosi. La banda degli insorti avrebbe potuto credere di camminare su un argine gigantesco, su un terrapieno costruito in riva a un mare fosforescente, tutt'intorno a una Babele ignota.

Quella notte la Viorne, sotto le rocce che fiancheggiavano la strada, mandava un rumore roco. Sullo sfondo di questo brusio continuo del torrente, gli insorti udivano dei lamenti acuti di campane a martello. I villaggi sparsi nella pianura, dall'altro lato della Viorne, insorgevano anch'essi, sonavano l'allarme, accendevano fuochi. Fino alla mattina, la colonna in marcia, che sembrava accompagnata nella notte da un rintocco funebre, incessante, vide così l'insurrezione snodarsi lungo la valle come una scia di polvere. I fuochi interrompevano qua e là il buio con piccole macchie color rosso sangue; canti lontani giungevano, come deboli soffi; tutta la pianura indistinta, annegata sotto i vapori biancastri della luna, si agitava confusamente, con improvvisi fremiti d'ira. Durante parecchie leghe, lo spettacolo rimase uguale.

Quegli uomini, che marciavano in preda all'accecamento febbrile che i fatti di Parigi avevano suscitato nei repubblicani, si esaltavano nel vedere quella lunga striscia di terra tutta scossa dalla rivolta. Inebriati dall'entusiasmo della ollevazione totale da essi sognata, credevano che la Francia li seguisse; s'immaginavano di vedere al di là della Viorne, nel vasto mare di chiarità diffusa, file interminabili di uomini che correvano, come loro, alla difesa della Repubblica. E la loro mente semplice, con quell'ingenuità e quella facilitá di illudersi che è tipica delle folle, pensava a una vittoria facile e sicura. In quel momento avrebbero afferrato e fucilato come un traditore chiunque avesse detto loro che erano i soli ad avere il coraggio di compiere il proprio dovere, mentre il resto del paese, sopraffatto dal terrore, si lasciava vilmente incatenare.

Essi attingevano, inoltre, un continuo accrescimento di coraggio dall'accoglienza che facevan loro i pochi villaggi sparsi sulle pendici delle Garrigues, di fianco alla strada. Appena il piccolo esercito si avvicinava, gli abitanti si sollevavano in massa; le donne accorrevano, augurando una rapida vittoria; gli uomini si vestivano in fretta e si univano a loro, dopo aver preso la prima arma a portata di mano. Ad ogni villaggio era una nuova acclamazione, grida di «benvenuti!», addii ripetuti a lungo.

Verso la mattina, la luna scomparve dietro le Garrigues; gli insorti continuarono la loro marcia veloce nel buio fitto della notte invernale. Non discernevano più né la valle né i fianchi delle colline; udivano soltanto il lamento secco delle campane, che sonavano in fondo alle tenebre, come tamburi invisibili nascosti chissà dove; quegli appelli disperati li sferzavano senza posa.

Miette e Silvère continuavano a marciare, trascinati dall'entusiasmo della banda. Verso l'alba, la ragazza era sfinita. Camminava ormai soltanto a piccoli passi frettolosi, non riuscendo a rimanere alla pari con le grandi falcate degli uomini grandi e grossi che le stavano a fianco. Ma impegnava tutto il suo coraggio per non lagnarsi: le sarebbe costato troppo confessare che non aveva la forza di un ragazzo. Fin dalle prime leghe di cammino, Silvère le aveva dato il braccio; poi, vedendo che la bandiera le scivolava giù a poco a poco dalle mani intirizzite, aveva voluto prenderla lui, per darle un po' di sollievo; ma lei si era arrabbiata, gli aveva permesso soltanto di sostenere l'asta con una mano, mentre lei avrebbe continuato a portarla in spalla. Proseguì così nel suo comportamento eroico con ostinazione fanciullesca, sorridendo al giovane ogni volta che questi le lanciava uno sguardo affettuosamente ansioso. Ma quando la luna tramontò, Miette, nel buio, si sentì venir meno le forze. Silvère si accorse che essa si appoggiava sempre più pesantemente al suo braccio. Dovette prendere lui la bandiera e ricingere con l'altra mano Miette alla vita, per impedirle di inciampare. Lei continuava a non lagnarsi, nemmeno con una parola.

«Sei molto stanca, non è vero, mia povera Miette?», le domandò il suo compagno.

«Sì, un po' stanca», rispose lei con voce soffocata.

«Vuoi che ci riposiamo?».

Lei non disse niente; ma lui sentì che vacillava. Allora affidò la bandiera ad uno dei compagni e uscì dalle file, portando Miette quasi fra le braccia. Essa si divincolò un poco; si vergognava di essere così bambinetta. Ma lui la tranquillizzò: le disse che conosceva una scorciatoia che diminuiva di metà la lunghezza del percorso. Potevano riposarsi per un'ora buona e arrivare a Orchères contemporaneamente alla banda.

Erano all'incirca le sei. Una nebbia leggera, forse, saliva su dalla Viorne. Il buio sembrava ancora più fitto. I due ragazzi si arrampicarono, a tastoni, su per il pendio delle Garrigues, fino a una roccia, sulla quale si sedettero. Attorno ad essi si estendeva un abisso di tenebre. Erano come sperduti in cima a uno scoglio, al di sopra del vuoto. E in quel vuoto, quando il rumore sordo dei passi del piccolo esercito si fu dileguato, non sentirono più nient'altro che due campane, l'una squillante, che certo sonava poco più giù di dov'erano, in qualche villaggio al margine della strada, l'altra lontana, soffocata, che rispondeva con remoti singhiozzi agli appelli veementi della prima. Si sarebbe detto che quelle due campane si narravano a vicenda, nel nulla, la cupa fine di un mondo.

Miette e Silvère, riscaldati per la corsa veloce, da principio non sentirono il freddo. Rimasero in silenzio, ascoltando con una tristezza indicibile quei rintocchi di campane frementi nella notte. Non riuscivano neppure a vedersi l'uno con l'altra. Miette ebbe paura: cercò la mano di Silvère e la tenne stretta nella sua. Dopo lo slancio febbrile che, per ore ed ore, li aveva trascinati fuori di sé, senza pensare a niente, quella fermata improvvisa, quella solitudine nella quale si trovavano fianco a fianco, li aveva lasciati sfiniti e attoniti, come se si fossero destati di soprassalto da un sogno agitato. Avevano l'impressione che un'ondata li avesse gettati in margine alla strada e che il mare si fosse poi ritirato indietro. Un contraccolpo invincibile li aveva sprofondati in uno stato d'incoscienza; avevano dimenticato il loro entusiasmo; non pensavano più a quella banda di combattenti che dovevano raggiungere; erano in preda al fascino triste di sentirsi soli, in mezzo al buio truce, la mano nella mano.

«Non ce l'hai con me?», chiese alla fine la ragazzina. «Io marcerei volentieri con te per tutta la notte; ma correvano troppo forte, non potevo più tirare il fiato».

«Ma perché dovrei avercela con te?», chiese il giovane.

«Non so. Ho paura che tu non mi ami più. Avrei voluto camminare a grandi passi, come te, andare sempre senza fermarmi. Tu crederai che io sia una bambina».

Silvère, nel buio, fece un sorriso che Miette indovinò. Essa proseguì con voce ferma:

«Non bisogna che tu mi tratti sempre come una sorella; voglio essere la tua donna».

di sua iniziativa, strinse Silvère al petto. Lo tenne stretto fra le braccia, sussurrando: «Incominciamo a sentir freddo, riscaldiamoci così».

Tacquero per un poco. Fino a quel momento così agitato, i due giovani si erano amati d'un amore fraterno. Nella loro incoscienza, continuavano a considerare come una viva amicizia e nulla più l'attrazione che li spingeva a stringersi senza posa fra le braccia, a tenersi stretti a lungo, più a lungo di quanto non facciano un fratello e una sorella. Ma al fondo di questo amore ingenuo si faceva sentire, più forte di giorno in giorno, l'ardore tempestoso del sangue di Miette e di Silvère. Col progredire dell'età e della consapevolezza, una passione calda, di una focosità meridionale, era destinata a svilupparsi da quell'idillio. Ogni ragazza che abbraccia e bacia un ragazzo è già donna, donna che non sa di esserlo, e a un certo momento basterà una carezza a dargliene coscienza. Quando gli innamorati si baciano sulle guance, in realtà essi, procedendo a tentoni, cercano le labbra. Un bacio li rende amanti. Fu in quella nera e fredda notte di dicembre, al suono lamentosamente acuto delle campane, che Miette e Silvère si scambiarono uno di quei baci che fanno affluire alla bocca tutto il sangue del cuore.

Restarono muti, stretti fortemente l'uno all'altra. Miette aveva detto: «Riscaldiamoci così», ed essi aspettavano innocentemente di riscaldarsi. Ben presto un senso di tepore giunse ai loro corpi attraverso i vestiti; sentirono a poco a poco che il loro abbraccio era ardente, sentirono che i loro petti si gonfiavano con lo stesso émpito. Furono invasi da un languore che li immerse in una sonnolenza febbrile. Ora avevano caldo; delle luci passavano davanti alle loro palpebre chiuse, dei rumori confusi salivano loro al cervello. Questo stato di benessere doloroso, che durò pochi minuti, sembrò ad essi infinitamente lungo. E allora, come in sogno, le loro labbra si unirono. Il bacio fu lungo, avido. Ebbero l'impressione di non essersi mai baciati davvero fin allora. Ne provarono un senso di sofferenza, si distaccarono. Poi, quando il freddo della notte ebbe sedata la loro febbre, rimasero lì a una certa distanza l'uno dall'altra, in uno stato di grande disorientamento.

Le due campane continuavano a dialogare sinistramente fra loro, nell'abisso oscuro che si apriva attorno ai due ragazzi. Miette, intirizzita, sconvolta, non osò riaccostarsi a Silvère. Non sapeva nemmeno più se lui era lì, non lo sentiva più fare il minimo movimento. Tutti e due erano invasi dalla sensazione acre del loro bacio; effusioni dei sensi salivan loro alle labbra; avrebbero voluto mostrarsi riconoscenti l'uno verso l'altra, baciarsi ancora; ma si vergognavano talmente della loro bruciante felicità, che avrebbero preferito non gustarla più una seconda volta, piuttosto che parlarne ad alta voce. Se quella marcia veloce non avesse riscaldato loro il sangue, se la notte fonda non si fosse fatta loro complice, per molto tempo ancora si sarebbero baciati sulle guance, come buoni compagni. Miette fu presa da un senso di pudore. Dopo il bacio infuocato di Silvère, in quelle tenebre benvenute in cui il suo cuore si apriva, si ricordò delle grossolanità di Justin. Qualche ora prima, aveva udito senza arrossire quel giovinastro che la trattava da donna perduta; quel tale le aveva domandato «A quando il battesimo?», le aveva gridato che suo padre l'avrebbe fatta sgravare a calci se si fosse arrischiata a ritornare al Jas-Meiffren, e lei aveva pianto senza capire, aveva pianto perché aveva immaginato che tutto ciò doveva essere ignobile. Ora che diventava donna, diceva a se stessa, con l'ultimo residuo della sua ingenuità, che il bacio, di cui sentiva ancora il fuoco dentro di lei, era forse un motivo sufficiente per coprirla di quella vergogna di cui suo cugino l'aveva accusata. Allora fu presa da un senso di dolore, si mise a singhiozzare.

«Che hai? Perché piangi?», domandò Silvère con voce inquieta.

«No, lascia stare», bisbigliò lei, «non lo so nemmeno io».

Poi, quasi suo malgrado, fra le lacrime:

«Ah, sono una disgraziata! Avevo dieci anni, e mi prendevano a sassate. Oggi mi trattano come la creatura più spregevole di questo mondo. Justin ha ragione di dirmi il suo disprezzo davanti alla gente. Ci siamo comportati male, Silvère».

Il giovane, costernato, la riprese fra le braccia, cercando di consolarla.

«Io ti amo!», sussurrava. «Io sono un tuo fratello. Perché dici che ci siamo comportati male? Ci siamo abbracciati e baciati perché avevamo freddo. Sai bene che ci baciavamo tutte le sere quando ci lasciavamo».

«Oh, non come poco fa!», disse lei a bassissima voce. «Non bisogna farlo più, credimi; dev'essere una cosa proibita, perché io mi sono sentita tutta strana. Adesso, quando passerò per la strada, la gente riderà di me. Non avrò più il coraggio di difendermi, avranno ragione loro».

Il giovane taceva, non riuscendo a trovare una parola per calmare lo spirito stravolto di quella bambinona di tredici anni, tutta fremente e tutta impaurita al suo primo bacio d'amore. La stringeva a sé dolcemente; intuiva che l'avrebbe calmata se avesse potuto rinfonderle il tiepido torpore del loro abbraccio. Ma lei si dibatteva, continuava a dire:

«Se tu volessi, potremmo andarcene via da Plassans. Io non posso più rientrarci; mio zio mi picchierebbe, tutta la città mi mostrerebbe a dito...».

Poi, come presa da un'irritazione improvvisa:

«No, io sono maledetta; ti proibisco di lasciare la zia Dide per seguire me. Bisogna che tu mi abbandoni in mezzo a una strada».

«Miette, Miette», supplicò Silvère, «non parlare così!».

«Si, io ti sbarazzerò di me. Sii ragionevole. Mi hanno scacciato come una donna di strada. Se ritornassi con te, dovresti fare a pugni con qualcuno tutti i giorni per difendermi. Non lo voglio».

Il giovane le dette un altro bacio sulla bocca, mormorando:

«Tu sarai mia moglie; nessuno più oserà farti del male».

«Oh, te ne prego», disse lei con un debole grido, «non mi baciare in questo modo. Mi fa male».

Poi, dopo un breve silenzio:

«Sai bene che non posso essere tua moglie. Siamo troppo giovani. Dovrei aspettare, e morirei di vergogna. Hai torto di ribellarti: sarai pur costretto ad abbandonarmi da qualche parte».

Allora Silvère, stremato, si mise a piangere. I singhiozzi di un uomo hanno delle esplosioni strazianti. Miette, costernata nel sentire che il povero ragazzo si dibatteva fra le sue braccia, lo baciò sul viso, dimenticando che le sue labbra ridiventavano ardenti. Era colpa sua. Era stata una sempliciotta a non saper reggere alla dolcezza bruciante di una stretta. Non riusciva a capire come mai aveva pensato a cose tristi proprio nel momento in cui il suo innamorato la baciava come fin allora non aveva fatto. E ora lo stringeva al petto per chiedergli perdono di averlo afflitto. I due ragazzi, col loro pianto, coi loro abbracci tormentosi, aggiungevano una nota di disperazione in più in quell'oscura notte di dicembre. Lontano, le campane continuavano a lamentarsi senza tregua, con una voce più affannosa.

«È meglio morire», ripeteva Silvère tra un singhiozzo e l'altro, «è meglio morire...».

«Non piangere più, perdonami», balbettava Miette. «Sarò forte, farò quello che vorrai».

Il giovane, asciugatesi le lacrime, disse:

«Hai ragione, non possiamo ritornare a Plassans. Ma non è questo il momento di essere vigliacchi. Se usciamo vincitori dalla lotta, andrò a trovare la zia Dide e la condurremo con noi, lontano lontano. Se saremo sconfitti...».

Si fermò.

«Se saremo sconfitti?...», ripeté Miette a bassa voce.

«Allora, sarà quel che Dio vorrà!», continuò Silvère a voce più bassa. «Io non sarò più là certamente, tu consolerai la povera vecchia. Meglio così».

«Sì, lo dicevi or ora», mormorò la ragazzina, «è meglio morire».

Questo desiderio di morte li fece stringere più fortemente l'uno all'altra. Miette era ben decisa a morire insieme a Silvère. Lui aveva parlato soltanto di sé, ma Miette sentiva che l'avrebbe portata con gioia sotterra. Là si sarebbero amati più liberamente che alla luce del sole. La zia Dide sarebbe morta, anche lei, e sarebbe venuta a raggiungerli. Fu come un veloce presentimento, il desiderio di una strana voluttà che il Cielo, con le voci desolate delle campane, prometteva loro di soddisfare presto. Morire! Morire! Le campane ripetevano questa parola con intensità crescente, e gli innamorati si abbandonavano a questi richiami delle tenebre; avevano l'impressione di gustare un anticipo del sonno eterno, in quella sonnolenza in cui li riemergevano il tepore delle membra e l'ardore delle labbra, che ancora una volta si erano incontrate.

Miette non si schermiva più. Era lei, adesso, che incollava la sua bocca su quella di Silvère; era lei che cercava con un ardore silenzioso quella gioia di cui, prima, non aveva potuto sopportare il bruciore amaro. Il miraggio di una prossima morte l'aveva esaltata; non arrossiva più, si attaccava al suo amante, sembrava che, prima di giacere sotterra, volesse godere fino in fondo quelle gioie nuove nelle quali aveva appena intinto le labbra, e di cui s'adirava di non poter godere subito la trafitta che le rimaneva ancora ignota. Al di là del bacio, intuiva un'altra cosa che la spaventava e la attirava, nella vertigine dei sensi che si erano destati. E a questo richiamo si lasciava andare; avrebbe voluto supplicare Silvère di lacerare il velo, con l'impudica ingenuità che è propria delle vergini. Lui, inebriato dalla carezza che lei gli aveva dato, pieno d'una felicità perfetta, senza forze, senza desiderare altro, non sembrava nemmeno che credesse all'esistenza di una voluttà più grande.

Miette, quando non ebbe più fiato, e sentì affievolirsi il piacere aspro della prima stretta, mormorò:

«Io non voglio morire senza che tu mi ami; voglio che tu mi ami ancora di più...».

Le mancavano le parole, non perché sentisse vergogna, ma perché non sapeva quel che desiderava. Soltanto, era scossa da una sorda rivolta interiore e da un bisogno d'infinità nel godimento. Nella sua innocenza, sarebbe stata capace di battere i piedi per terra come un bambino al quale il babbo ha rifiutato di comprare un giocattolo.

«Ti amo, ti amo», ripeteva Silvère con crescente languore.

Miette scoteva la testa, sembrava volesse dire che non era vero, che il giovane le nascondeva qualche cosa. La sua natura vigorosa e libera aveva l'istinto segreto della fecondità della vita. Perciò rifiutava la morte se doveva morire prima di aver saputo. Questa ribellione del suo sangue e dei suoi nervi, lei la confessava ingenuamente, con le mani brucianti e tremanti, coi balbettamenti, con le suppliche.

Poi, calmatasi un poco, posò la testa sulla spalla del giovane, rimase in silenzio. Silvère si chinò e la baciò a lungo. Lei gustava quei baci lentamente, cercandone il significato, il sapore segreto. Interrogava quei baci, li ascoltava scorrere nelle sue vene, chiedeva loro se erano tutto l'amore, tutta la passione. Un languore la invase, si addormentò a poco a poco, senza cessar di gustare nel sonno le carezze di Silvère. Lui l'aveva ravvolta nella grande pelliccia rossa, con un lembo della quale si era anche lui ricoperto. Quando, sentendo la respirazione regolare di Miette, capì che si era assopita, fu lieto di quel riposo che li avrebbe messi in grado di riprendere di buona lena il cammino. Si ripromise di lasciarla dormire per un'ora. Il cielo era ancora nero; solo a levante, una linea biancastra annunziava l'avvicinarsi del giorno. Dietro i due amanti doveva esserci un bosco di pini; il giovane sentiva il risveglio canoro degli uccelli, al primo soffio dell'alba. E i lamenti delle campane diventavano più vibranti nell'aria percorsa da fremiti, e cullavano il sonno di Miette, come prima avevano accompagnato la sua febbre amorosa.

I due giovani, fino a quella notte di turbamento, avevano vissuto uno di quegli ingenui idilli che sorgono nella classe operaia, tra quei diseredati, quelle anime semplici, tra le quali si trovano ancora, qualche volta, gli amori primitivi degli antichi racconti greci.

Miette aveva appena nove anni quando suo padre fu mandato all'ergastolo per avere ucciso un gendarme con una fucilata. Il processo di Chantegreil era rimasto famoso nel paese. Il bracconiere confessò con fierezza l'omicidio, ma giurò che il gendarme aveva spianato il fucile contro di lui. «Io non ho fatto altro che prevenirlo», disse; «mi sono difeso; è stato un duello, non un assassinio». Non rinunciò mai a questa sua tesi. In nessun modo il presidente della Corte d'Assise riuscì a fargli capire che, se un gendarme ha il diritto di sparare a un bracconiere, un bracconiere non ha il diritto di sparare a un gendarme. Chantegreil sfuggì alla ghigliottina, grazie al suo comportamento di uomo convinto di essere nel giusto e ai suoi buoni precedenti. Pianse come un bambino quando gli portarono sua figlia prima della partenza per Tolone. La piccina, che aveva perduto la madre quando era ancora in culla, visse col suo nonno a Chavanoz, un villaggio nelle gole della Seille. Quando il bracconiere non fu più con loro, il vecchio e la bimbetta camparono di elemosina. Gli abitanti di Chavanoz, tutti cacciatori, vennero in aiuto alle povere creature che il condannato lasciava senza soccorso. Ma ben presto il vecchio morì di dolore. Miette, rimasta sola, sarebbe stata costretta a mendicare per le strade, se le vicine non si fossero ricordate che aveva una zia a Plassans. Una donna caritatevole si prestò ad accompagnarla da quella zia, che la accolse piuttosto male.

Eulalie Chantegreil, moglie del mezzadro Rébufat, era una enorme diavolessa scura di pelle e caparbia, che comandava in casa. Nel sobborgo dicevano che menava per il naso suo marito. In realtà Rébufat, avaro, bramoso di lavorar sodo e di guadagnare, aveva una sorta di rispetto per quella diavolessa, d'un vigore fuori del comune, sobria ed economa come poche.

Grazie a lei la famiglia andava bene. Il mezzadro brontolò quella sera in cui, tornando dal lavoro, trovò Miette installata in casa. Ma sua moglie gli tappò la bocca, dicendogli con la sua voce rude:

«Bah! La piccola è robusta; ci farà da serva; le daremo da mangiare e risparmieremo la paga».

Questo calcolo piacque a Rébufat. Egli si spinse fino a tastare le braccia della bambina, e dichiarò con soddisfazione che, per la sua età, era molto robusta. Miette aveva allora nove anni. Fin dal giorno dopo, Rébufat la mise al lavoro. Nel Mezzogiorno il lavoro delle contadine è molto meno faticoso che nel Nord. Di rado, là, si vedono donne intente a vangare, a portar pesi, a fare i lavori degli uomini. Esse legano i covoni, raccolgono le olive e le foglie di gelso; il loro lavoro più ingrato è di svellere le erbacce. Miette lavorava con allegria. La vita all'aria aperta era per lei gioia e salute. Finché sua zia visse, Miette non ebbe altro che felicità. La brava donna, nonostante il suo fare brusco, le voleva bene come a una figlia; le impediva di compiere i lavori pesanti a cui qualche volta suo marito cercava di assoggettarla, e gridava a Rébufat:

«Ah, sei davvero un furbo! Ma non capisci, imbecille, che se la fai affaticare troppo oggi, non potrà far nulla domani?».

Questo era un argomento decisivo. Rébufat abbassava la testa e portava da sé il fardello che avrebbe voluto mettere sulle spalle della ragazzina.

Miette sarebbe vissuta pienamente felice, sotto la protezione accorta della zia Eulalie, se non ci fossero state le vessazioni di suo cugino, allora sedicenne, il quale occupava la propria vita di fannullone nel detestarla e nel perseguitarla senza farsene accorgere. I momenti più belli, per Justin, erano quelli in cui riusciva a farla rimproverare riferendo su di lei un cumulo di menzogne. Quando poteva pestarle i piedi o darle brutalmente uno spintone, fingendo di non averla vista, gustava la voluttà ipocrita delle persone che godono beatamente dei mali altrui. Allora Miette gli lanciava, coi suoi grandi occhi neri di bambina uno sguardo sfavillante di collera e di muta fierezza, che faceva cessare i ridacchiamenti del vile giovinastro. In fondo al cuore, egli aveva una paura matta di sua cugina.

La bambina stava per raggiungere gli undici anni, quando sua zia Eulalie morì improvvisamente. Da quel giorno, in casa tutto cambiò. Rébufat, a poco a poco, si mise a trattare Miette come un garzone di stalla. La sovraccaricò di lavori pesanti, si servì di lei come una bestia da soma. Miette non se ne lamentò, pensava di avere un debito di gratitudine da pagare. La sera, stroncata dalla fatica, piangeva ricordando sua zia, quella donna terribile della quale, ora, capiva tutta la bontà nascosta. Tuttavia il lavoro, anche duro, non le spiaceva; amava la forza, si sentiva orgogliosa delle sue braccia grosse e delle sue solide spalle, Quello che la affliggeva, era la sorveglianza diffidente di suo zio, i suoi continui rimproveri, le sue arie da padrone iroso. Ormai era un'estranea in quella casa. Perfino un'estranea non sarebbe stata maltrattata come lei. Rébufat abusava senza scrupoli di quella piccola parente povera che egli teneva presso di sé per una falsa carità interessata. Miette ripagava dieci volte col proprio lavoro quella dura ospitalità, e non passava giorno senza che sentisse rinfacciarsi il pane che mangiava. Justin, soprattutto, sapeva ferirla con abilità raffinata. Da quando sua madre non c'era più, egli, vedendo la ragazzina priva di difesa, impegnava tutta la sua cattiveria nel renderle insopportabile la permanenza in quella casa. La tortura più ingegnosa da lui inventata era di parlare a Miette del padre di lei. La povera bambina, poiché era vissuta isolata, sotto la protezione di sua zia, che aveva proibito di pronunciare davanti a lei le parole «ergastolo» e «forzato», non capiva nemmeno il significato di quelle parole. Fu Justin a insegnarglielo, raccontandole a modo suo l'uccisione del gendarme e la condanna di Chantegreil. Non la finiva più di dilungarsi in particolari odiosi: i forzati dovevano portare una palla al piede, lavoravano quindici ore al giorno, morivano tutti prima di avere scontato la pena; l'ergastolo era un luogo sinistro, di cui Justin descriveva minutamente tutti gli orrori. Miette lo ascoltava, inebetita, con le lacrime agli occhi. Qualche volta degli impeti di violenta ribellione la afferravano, e davanti ai suoi pugni chiusi Justin si affrettava a fare un salto indietro. Assaporava con ingordigia tutta quell'iniziazione di Miette a ciò che fin allora non aveva saputo. Quando suo padre, per una minima negligenza, si adirava contro la bambina, Justin era subito al suo fianco, felice di poterla insultare senza pericolo. E se lei cercava di difendersi, «Va' la», diceva, «buon sangue non mente: tu finirai all'ergastolo come tuo padre».

In quell'epoca Miette stava già diventando donna. Precoce nella pubertà, essa resisté a quelle sofferenze con un'energia straordinaria. Di rado si scoraggiava: solamente nei momenti in cui la sua fierezza innata cedeva sotto il peso degli oltraggi di suo cugino. Ben presto imparò a sopportare senza piangere le punture incessanti che le infliggeva quell'essere abbietto, che parlava e intanto la teneva d'occhio, per paura che lei gli saltasse al viso. Poi imparò a farlo tacere guardandolo fisso. Più volte ebbe voglia di scappare dal Jas-Meiffren. Ma non lo fece, per dimostrare il proprio coraggio, per non confessarsi vinta dalle persecuzioni che subiva. In fin dei conti, il pane se lo guadagnava, non scroccava l'ospitalità dei Rébufat: questa consapevolezza bastava al suo orgoglio. Perciò rimase a lottare, irrigidendosi, vivendo in un continuo proponimento di resistere. La sua linea di condotta fu di fare il proprio lavoro in silenzio e di vendicarsi delle male parole con un muto disprezzo. Sapeva che suo zio ricavava un bel vantaggio dallo sfruttarla; ascoltava perciò senza troppo preoccuparsi le allusioni di Justin, che anelava a farla mettere alla porta. La sua era, quindi, una specie di sfida: non se ne sarebbe andata di sua iniziativa!

I suoi lunghi silenzi ostinati furono occupati da strane fantasticherie. Trascorrendo le proprie giornate in quel recinto campestre, isolata da tutta la gente, crebbe con lo spirito di una ribelle, si formò delle idee che avrebbero molto allarmato i bempensanti del sobborgo. Più che ad ogni altra cosa pensava alla sorte di suo padre. Tutte le parole malvage di Justin le tornavano in mente; essa finì per accettare l'accusa di assassinio, per dire a se stessa che suo padre aveva fatto bene ad ammazzare il gendarme che voleva ammazzarlo. Aveva saputo com'erano andate le cose da uno sterratore che aveva lavorato al Jas-Meiffren. Da allora, non chinò più la testa, le rare volte che usciva, quando i vagabondi del sobborgo le venivan dietro gridando:

«Eh, la Chantegreil!».

Affrettava il passo, con le labbra strette, con un lampo feroce negli occhi neri. Dopo che era rientrata e aveva chiuso l'inferriata, gettava un unico lungo sguardo sulla banda dei ragazzacci. Sarebbe diventata cattiva, si sarebbe lasciata andare alla crudele selvatichezza dei paria, se qualche volta tutta la sua infanzia non le fosse risalita al cuore. I suoi undici anni le causavano dei momenti di debolezza infantile che smorzavano i suoi rancori. Allora si metteva a piangere, provava vergogna di se stessa e di suo padre. Correva a nascondersi in fondo a una scuderia per singhiozzare liberamente, perché capiva che, se la vedevano piangere, l'avrebbero tormentata ancor più. E quando si era sfogata, andava in cucina a lavarsi gli occhi, riprendeva il suo atteggiamento impassibile. Non era soltanto nel suo interesse che si nascondeva: spingeva l'orgoglio della sua precoce forza d'animo fino a non voler più sembrare una bambina. A lungo andare, tutto in lei sarebbe stato destinato a inasprirsi. Per fortuna fu salvata quando ritrovò la tenerezza del suo carattere fatto per amare.

Il pozzo che si trovava nel cortile della casa abitata dalla zia Dide e da Silvère era un «pozzo comune»: il muro del Jas-Meiffren lo tagliava in due. Un tempo, prima che il recinto dei Fouque fosse riunito alla grande proprietà vicina, gli ortolani si servivano quotidianamente di quel pozzo. Ma dopo l'acquisto del terreno, siccome il pozzo veniva a trovarsi lontano dalle case, gli abitanti del Jas, che avevano a loro disposizione vaste riserve d'acqua, non vi attingevano neppure un secchio in un mese intero. Dall'altra parte del muro, invece, ogni mattina si sentiva stridere la puleggia: era Silvère che attingeva per la zia Dide l'acqua necessaria al consumo domestico.

Un giorno, la puleggia si spaccò. Il giovane carradore tagliò con le sue mani una bella e forte puleggia di legno di quercia, e la collocò la sera, dopo la sua giornata di lavoro. Dovette salire sul muro. Quando ebbe finito il lavoro, rimase a cavalcioni sull'alto del muro, riposandosi, guardando con curiosità l'ampia distesa del Jas-Meiffren. Una contadina che svelleva le erbacce a pochi passi da lui finì per attirare la sua attenzione. Era di luglio, l'atmosfera era infocata, sebbene il sole fosse già prossimo al tramonto. La contadina si era liberata dalla sua casacca. In corsetto bianco, con uno scialle a colori vivaci annodato sulle spalle, con le maniche della camicia rimboccate fino ai gomiti, essa era accoccolata tra le pieghe della gonna di cotonina azzurra, che era sostenuta da due bretelle incrociate dietro la schiena. Strisciava sulle ginocchia, strappando con forza le erbacce che buttava dentro un cestino. Di lei Silvère non vedeva nient'altro che le braccia nude, riarse dal sole, che si protendevano a destra, a sinistra, per raccogliere qualche erba dimenticata. Seguiva con divertimento quel veloce andirivieni delle braccia della contadina, e provava un piacere singolare nel vederla così sicura e rapida nei movimenti. Lei si era appena alzata non sentendolo più lavorare, e aveva riabbassato la testa prima che lui avesse potuto discernere i lineamenti del viso. Quel movimento così spaurito trattenne il suo sguardo. Curioso come ogni ragazzo, si domandava chi era quella donna, e intanto fischiettava senza nemmeno accorgersene e batteva il tempo con uno scalpello, quando a un tratto lo scalpello gli sfuggì di mano. L'arnese cadde dalla parte del Jas-Meiffren, sul parapetto del pozzo, e rimbalzò a qualche passo dal muro. Silvère lo guardò cadere, si sporse, esitò a scendere. Ma, a quanto pare, la contadina seguiva il giovane con la coda dell'occhio, poiché si alzò senza profferir parola e andò a raccogliere lo scalpello, che porse a Silvère. Soltanto allora Silvère si accorse che la contadina era una ragazzetta. Rimase sorpreso e un po' intimidito. Nella luce rossa del tramonto, la ragazza cercava di sollevarsi verso di lui. In quel punto il muro era basso, ma pur sempre troppo alto. Silvère si distese in cima al muro, la contadinella si alzò sulla punta dei piedi. Non parlavano: si guardavano con un'aria imbarazzata e sorridente. Il giovane, del resto, avrebbe voluto che quella posizione in cui si trovava la ragazzetta durasse a lungo. Essa alzava verso di lui una testolina adorabile, grandi occhi neri, una bocca rossa: Silvère ne era straordinariamente stupito e commosso. Non aveva mai visto una ragazza così da vicino; non sapeva che una bocca e due occhi potessero essere così piacevoli a guardarsi. Da tutto gli sembrava che si effondesse un fascino ignoto: dallo scialle colorato, dal corsetto bianco, dalla gonna di cotonina azzurra, sorretta dalle bretelle tese in su dal movimento delle spalle. Il suo sguardo scivolò lungo il braccio che gli porgeva lo scalpello: fino al gomito, il braccio era di un color bruno dorato, come ricoperto dall'abbronzatura; ma più in là, all'ombra della manica della camicia rimboccata, Silvère scorgeva una rotondità nuda, bianca come il latte. Si sentì turbato, si sporse ancor più, e alla fine riuscì ad afferrare lo scalpello. La contadinella cominciava ad essere imbarazzata. Poi rimasero là, a sorridersi ancora, la ragazzina in basso, col viso sempre rivolto in su, il giovane mezzo disteso in cima al muro. Non sapevano come fare ad accomiatarsi. Non avevano scambiato una parola. Silvère si era perfino dimenticato di dire «grazie».

«Come ti chiami?», domandò.

«Marie», rispose la contadina; «ma tutti mi chiamano Miette».

Si alzò ancora un poco, e con la sua voce limpida:

«E tu?», chiese a sua volta.

«Io mi chiamo Silvère», rispose il giovane operaio.

Ci fu un breve silenzio, durante il quale sembrava che essi ascoltassero dentro di sé con piacere il suono dei loro nomi.

«Io ho quindici anni», riprese Silvère. «E tu?».

«Io», disse Miette, «avrò undici anni a Ognissanti».

Il giovane operaio fece un gesto di sorpresa.

«Ma guarda un po'!», disse ridendo, «ed io che ti avevo presa per una donna!... Hai delle braccia robuste».

Anche lei si mise a ridere, abbassando lo sguardo sulle sue braccia. Poi non si dissero più niente. Rimasero ancora lì per un po', a guardarsi e a sorridere. Poiché sembrava che Silvère non avesse più domande da rivolgerle, Miette se ne andò senza una parola e si rimise a strappare le erbacce, senza sollevare la testa. Silvère rimase ancora un momento sull'alto del muro. Il sole tramontava; una distesa di raggi obliqui si spandeva sul terreno giallastro del Jas-Meiffren; il suolo fiammeggiava, si sarebbe detto che un incendio dilagasse raso terra. E in quell'atmosfera fiammeggiante Silvère guardava la contadinella accovacciata, le cui braccia nude avevano ricominciato il loro veloce andirivieni. La gonna di cotonina azzurra aveva ora dei riflessi candidi, lungo le braccia abbronzate guizzavano dei luccichii. Silvère finì per provare una specie di vergogna a rimanere lì. Discese giù dal muro.

La sera, rimeritando sulla sua avventura, Silvère cercò di saper qualcosa dalla zia Dide. Forse lei sapeva chi era quella Miette che aveva occhi così neri e una bocca così rossa. Ma, da quando abitava nella casupola del vicolo cieco, la zia Dide non aveva più rivolto neppure un'occhiata dietro il muro del cortiletto. Quel muro era per lei come un baluardo invalicabile, che la separava dal suo passato. Essa ignorava, voleva ignorare ciò che accadeva adesso dall'altra parte del muro, in quell'antica proprietà dei Fouque, nella quale aveva seppellito il suo amore, il suo cuore e la sua carne. Alle prime domande di Silvère, lei lo guardò con un infantile sbigottimento. Dunque anche lui voleva smuovere le ceneri di quei giorni spenti e farla piangere come suo figlio Antoine?

«Non so», disse in fretta, «non esco più, non vedo nessuno...».

Silvère attese il giorno dopo con una certa impazienza. Appena fu arrivato sul luogo di lavoro, cercò di far parlare i suoi compagni. Non raccontò il suo incontro con Miette; parlò in termini vaghi di una ragazza che aveva visto di lontano, nel Jas-Meiffren.

«Eh, ma è la Chantegreil!», gridò uno degli operai.

E, senza che Silvère avesse bisogno di interrogarli, i suoi compagni gli raccontarono la storia del bracconiere Chantegreil e di sua figlia Miette, con quel tono di odio cieco che la gente ha verso i derelitti. Soprattutto di Miette parlarono in modo insultante; e di continuo le parole offensive «figlia di galeotto» venivan loro alle labbra, come un motivo senza possibilità di replica, che condannava la creatura innocente a una vergogna eterna.

Il carradore Vian, un bravo e degno uomo, finì per metterli zitti.

«Eh, tacete, male lingue!», disse lasciando cadere a terra la stanga d'una carriola a cui stava lavorando. «Non vi vergognate di accanirvi contro una bambina? Io l'ho vista, quella ragazzetta. Ha un aspetto molto ammodo. E poi mi hanno detto che non fa smorfie quando si tratta di lavorare e che sbriga già il lavoro di una donna di trent'anni. Ci sono qui dei fannulloni che non valgono quanto lei. Io le auguro, per l'avvenire, un buon marito che metta a tacere queste chiacchiere da mascalzoni».

A quest'ultima frase di Vian, Silvère, che era rimasto di sasso nell'udire le beffe e le ingiurie grossolane degli operai, si sentì venir le lacrime agli occhi. Ma non disse nemmeno una parola. Riprese il martello che aveva posato accanto a sé e si mise a picchiare a tutta forza sul mozzo di una ruota che stava ferrando.

La sera, appena rientrato dal lavoro, corse ad arrampicarsi in cima al muro. Trovò Miette che faceva lo stesso lavoro del giorno prima. La chiamò. Lei venne verso di lui, col suo sorriso imbarazzato, con la sua adorabile selvatichezza di bambina cresciuta tra le lacrime.

«Tu sei la Chantegreil, no?», le domandò Silvère bruscamente.

Lei si ritrasse indietro, smise di sorridere, e i suoi occhi diventarono di un nero cattivo, luccicanti di diffidenza. Dunque quel ragazzo voleva insultarla come gli altri! Stava voltando la schiena senza rispondere, quando Silvère, costernato dall'improvviso mutamento del suo viso, si affrettò ad aggiungere:

«Rimani, ti prego... Io non voglio darti dispiaceri... Ho tante cose da dirti!».

Lei ritornò, ancora diffidente. Silvère, che aveva il cuore gonfio e si era proposto di vuotarlo parlando a lungo, rimase muto, non sapendo di dove cominciare, temendo di compiere qualche altro passo falso. Infine, tutto il suo cuore si riversò in una frase:

«Vuoi che io sia tuo amico?», disse con voce commossa.

E poiché Miette, tutta sorpresa, alzava verso di lui gli occhi ridiventati umidi e sorridenti, Silvère continuò con foga:

«So che ti dicono cose cattive. Devono smetterla. Sarò io che ti difenderò d'ora in avanti. Lo vuoi?».

La ragazzina era raggiante. Quell'amicizia che le si offriva faceva scomparire tutti i suoi incubi di odio taciturno. Scosse la testa, rispose:

«No, io non voglio che tu ti batta per me. Avresti troppo da penare. E poi, ci sono delle persone contro le quali tu non puoi difendermi».

Silvère stava per gridare che l'avrebbe difesa contro il mondo intero, ma lei lo interruppe con un gesto affettuoso, e aggiunse:

«Mi basta che tu sia mio amico».

Allora conversarono per pochi minuti, abbassando la voce il più possibile, Miette parlò a Silvère di suo zio e di suo cugino. Non avrebbe voluto per nulla al mondo che essi lo vedessero lì, a cavalcioni in cima al muro. Justin sarebbe stato implacabile se avesse avuto un motivo per attaccarla. Essa esprimeva il suo timore con lo sbigottimento di una scolaretta che incontra un'amica che sua madre le ha proibito di frequentare. Silvère capì soltanto che non avrebbe potuto vedere Miette come e quando voleva. Questo lo rattristò molto. Promise, tuttavia, di non salir più sul muro. Stavano cercando insieme un mezzo per rivedersi, quando Miette lo supplicò di andarsene: proprio allora aveva visto Justin che attraversava la proprietà, dirigendosi dalla parte del pozzo. Silvère si affrettò a scendere. Quando fu nel cortiletto, rimase a piè del muro, tendendo l'orecchio, scontento di esser fuggito. Qualche minuto dopo, si arrischiò ad arrampicarsi di nuovo e a lanciare un'occhiata nel Jas-Meiffren; ma vide Justin che parlava con Miette, e si affrettò a ritirare la testa. Il giorno dopo non poté vedere la sua amica, nemmeno di lontano; probabilmente lei aveva terminato il suo lavoro in quella parte del Jas. Passarono così otto giorni, senza che i due amici avessero l'occasione di scambiare una sola parola. Silvère era esasperato; pensava di andare senza tanti riguardi dai Rébufat a chiedere Miette.

Il pozzo comune era grande, ma assai poco profondo. Da ciascuna delle due parti del muro, i bordi s'incurvavano in un ampio semicerchio. L'acqua si trovava, tutt'al più, a tre o quattro metri di profondità. In quell'acqua stagnante si riflettevano le due aperture del pozzo, due mezzelune che l'ombra del muro separava con una striscia nera. Chi si sporgeva aveva l'impressione di scorgere, nella luce diffusa del giorno, due specchi straordinariamente nitidi e brillanti. Nelle mattine di sole, quando lo sgocciolamento delle funi non agitava la superficie dell'acqua, quei rispecchiamenti, quei riflessi del cielo si stagliavano, bianchi sull'acqua verde, riproducendo con una strana esattezza le foglie di un'edera che era cresciuta lungo il muro, al di sopra del pozzo.

Una mattina, assai di buon'ora, Silvère, andando ad attingere la provvista d'acqua per la zia Dide, si sporse inavvertitamente, al momento di afferrare la fune. Ebbe un sussulto, rimase curvo, immobile. In fondo al pozzo gli era sembrato di scorgere una testa di ragazzetta che lo guardava sorridendo; ma egli aveva già dato uno strattone alla fune, l'acqua agitata era ormai uno specchio deformante nel quale nulla si rifletteva nettamente. Aspettò che l'acqua si calmasse; non osava muoversi, il cuore gli batteva forte. E man mano che le increspature dell'acqua si allargavano e si estinguevano, egli vide riformarsi l'apparizione. L'apparizione oscillò a lungo, in un va e vieni che dava ai suoi lineamenti la grazia sfuggente d'un fantasma. Infine si fermò. Era il viso sorridente di Miette, era il suo busto, il suo scialle colorato, il suo corsetto bianco, le sue bretelle azzurre. Silvère, a sua volta, vide la propria immagine rispecchiata nell'altra metà del pozzo. Allora, consapevoli tutt'e due che si vedevano l'un l'altra, si fecero dei segni col capo. In un primo momento non pensarono nemmeno a parlarsi. Poi si salutarono.

«Buongiorno, Silvère».

«Buongiorno, Miette».

Lo strano suono delle loro voci li lasciò stupiti. In quell'umida cavità le voci avevano assunto una dolcezza fioca, tutta particolare. Sembrava che venissero da una grande lontananza, con quella cantilena leggera che è propria delle voci che, di sera, si odono in campagna. Capirono che non c'era bisogno di alzare la voce per intendersi. Il pozzo risonava al minimo brusio. Coi gomiti appoggiati ai bordi del pozzo, sporgendosi e guardandosi negli occhi, conversarono. Miette raccontò quanto dispiacere aveva provato in quegli ultimi otto giorni. Lavorava all'altra estremità del Jas e non poteva svignarsela se non la mattina presto. Mentre diceva queste cose, faceva una smorfia di dispetto che Silvère discerneva perfettamente, e alla quale rispondeva scuotendo il capo con aria irritata. Si facevano le loro confidenze come se si fossero trovati faccia a faccia, coi gesti e con le espressioni del volto corrispondenti al senso delle loro parole. Poco importava il muro che li separava, ora che si vedevano laggiù, in quello specchio d'acqua che sapeva mantenere i segreti.

«Sapevo», continuò Miette con un'espressione di dolce furberia, «che tu attingevi l'acqua ogni giorno alla stessa ora. Dalla casa posso sentire lo stridore della puleggia. Allora ho inventato un pretesto, mi son messa a dire che l'acqua di questo pozzo cuoceva meglio i legumi. Pensavo che così sarei venuta ogni mattina ad attingere l'acqua nello stesso tempo in cui venivi tu: avrei potuto darti il buongiorno senza che nessuno lo sospettasse».

Scoppiò in una risata: la risata dell'ingenua tutta orgogliosa della propria astuzia; e disse infine:

«Ma non immaginavo che ci saremmo visti nell'acqua del pozzo».

Era quella, in effetti, la gioia inattesa che li estasiava. Si può dire che parlavano soltanto per vedere le loro labbra che si movevano: tale era il divertimento che questo nuovo gioco suscitava in tutto ciò che di infantile c'era ancora nel loro animo. Così si promisero a vicenda, in tutti i toni, di non mancare mai all'appuntamento della mattina. Miette, quando ebbe dichiarato che doveva andar via, disse a Silvère che poteva tirar su il suo secchio. Ma Silvère non osava muovere la fune: Miette era ancora rimasta china, lui vedeva ancora il suo viso sorridente, e gli dispiaceva troppo di far dileguare quel sorriso. A una lieve scossa che egli dette al secchio, l'acqua ebbe un fremito, il sorriso di Miette s'illanguidì. Silvère si fermò, preso da uno strano timore: immaginò che l'avesse contrariata e che lei piangesse. Ma la ragazzina gli gridò: «Va', dunque! Va'!», con una risata che l'eco rimandò a lui più lunga e più sonora. E lei stessa calò con violenza un secchio nel pozzo. Vi fu una burrasca: tutto disparve sotto l'acqua scura. Allora Silvère si decise a riempire i suoi due secchi, mentre ascoltava il passo di Miette che, dall'altra parte del muro, si allontanava.

Da quel giorno in poi, i due ragazzi non mancarono neppure una volta all'appuntamento. L'acqua sonnolenta, quegli specchi bianchi in cui essi contemplavano le loro immagini, davano ai loro incontri un fascino immenso, che per molto tempo bastò alla loro gioiosa fantasia infantile. Non avevano alcun desiderio di vedersi faccia a faccia: si divertivano molto di più a servirsi di un pozzo come specchio e ad affidare alla sua eco il loro «buongiorno» mattutino. Ben presto impararono a conoscere il pozzo come un vecchio amico. Erano contenti di sporgersi sulla superficie dell'acqua stagnante e immobile, simile ad argento fuso. In basso, in una penombra misteriosa, guizzavano dei bagliori verdi, che sembrava trasformassero l'umida cavità in un nascondiglio nel fondo d'un bosco. Essi si vedevano l'un l'altra, così, in una specie di nido verdastro, tappezzato di muschio, nella frescura dell'acqua e del fogliame. E tutto il mistero di quella sorgente profonda, di quella torre, vuota all'interno, sulla quale si chinavano, sentendosi attratti, con leggeri brividi, aggiungeva alla gioia di sorridersi una paura inconfessata e deliziosa. Venivan presi dalla pazza idea di scendere, di andare a sedersi su una fila di grosse pietre che formavano una specie di banco circolare, pochi centimetri sotto la superficie del pozzo: avrebbero potuto immergere i piedi nell'acqua, chiacchierare per ore intere, senza che nessuno potesse mai pensare a venirli a cercare laggiù. Poi, quando si chiedevano che cosa mai poteva esserci laggiù, i loro vaghi timori tornavano ad assalirli, ed essi pensavano che era già abbastanza far discendere laggiù la loro immagine, fino in fondo, tra quei bagliori verdi che variegavano le pietre di strani riflessi, tra quei rumori singolari che salivano dagli anfratti scuri. Soprattutto quei rumori, provenienti dall'invisibile, li rendevano inquieti; spesso avevano l'impressione che altre voci rispondessero alle loro; allora tacevano, e sentivano mille tenui lamenti di cui non riuscivano a rendersi ragione: lavoro sordo dell'umidità, sospiri dell'aria, gocce d'acqua che andavano a finire sulle pietre, e la loro caduta produceva il suono cupo d'un singhiozzo. Per farsi coraggio a vicenda, si scambiavano degli affettuosi cenni col capo. Il fascino che li tratteneva coi gomiti appoggiati ai bordi del pozzo aveva, dunque, come ogni attrattiva acuta, la sua punta di orrore segreto. Ma il pozzo restava il loro vecchio amico. Era un pretesto così magnifico per i loro appuntamenti! Justin, che spiava ogni passo di Miette, non si insospettì mai della fretta che essa mostrava di andare ad attingere acqua, la mattina. Qualche volta, di lontano, la vedeva chinarsi, attardarsi. «Ah, la fannullona!», borbottava. «Guarda un po' come si diverte a gironzolare!». Come avrebbe potuto sospettare che, dall'altra parte del muro, vi fosse un innamorato che guardava nell'acqua il sorriso della ragazzina, dicendole: «Se quel pezzo d'asino di Justin ti maltratta, dimmelo: ne vedrà delle belle»? |[continua]|

 

|[CAPITOLO V, 2]|

 

Quel gioco durò più di un mese. Era di luglio; le mattine ardevano, bianche di sole, ed era una gioia accorrere là, in quel recesso umido. Era bello ricevere in viso l'alito fresco del pozzo, amarsi in quell'acqua sorgiva, proprio mentre il cielo diventava tutto un incendio. Miette arrivava tutta ansante, attraverso le stoppie; nel correre, i capelli che le scendevano sulla fronte e sulle tempie si arruffavano; aveva appena il tempo di posare la sua brocca, e subito si sporgeva, rossa in viso, scarmigliata, ridente. E Silvère, che quasi sempre arrivava per primo all'appuntamento, provava, nel vederla apparire sulla superficie dell'acqua, con quella fretta matta e illuminata dal sorriso, la sensazione vibrante che avrebbe provato se lei si fosse gettata tutta un tratto nelle sue braccia, alla svolta di un sentiero. Attorno a loro cantava l'allegrezza del mattino radioso; un flotto di luce calda, tutta risonante di un ronzio d'insetti, dilagava sul vecchio muro, sui pilastri e sui bordi del pozzo. Ma essi non vedevano più l'irradiarsi del sole mattutino, non udivano più i mille rumori che salivano dal suolo; erano là, in fondo al loro nascondiglio verde, sotto terra, in quella cavità misteriosa e vagamente paurosa; dimentichi di tutto il resto, godevano la frescura e la penombra, con una gioia che metteva loro i brividi.

Certe mattine, Miette, che non aveva un temperamento adatto alle lunghe contemplazioni, si divertiva a fare i dispetti; dava uno strattone alla fune, faceva cadere apposta delle gocce che increspavano i due limpidi specchi d'acqua e deformavano le immagini. Silvère la supplicava di stare tranquilla. Egli aveva un ardore più intimo, e il piacere più vivo era, per lui, quello di guardare il volto della sua amica, riflesso nell'acqua in tutta la purezza dei suoi lineamenti. Ma lei non gli dava retta, scherzava, faceva la voce grossa, una voce da orco, alla quale l'eco dava una dolcezza roca.

«No, no», brontolava, «oggi non ti amo, ti faccio le boccacce: guarda come sono brutta!».

E si divertiva a vedere le forme bizzarre che assumevano i loro volti slargati, danzanti sull'acqua.

Una mattina, lei si arrabbiò davvero. Non trovò Silvère all'appuntamento, e lo aspettò quasi un quarto d'ora, facendo stridere inutilmente la puleggia. Esasperata, stava per andarsene, quando finalmente Silvère arrivò. Appena lei lo vide, scatenò nel pozzo una vera tempesta: agitava con una mano fremente di rabbia il secchio, l'acqua nerastra si agitava vorticosamente schizzando con un rumore sordo contro le pietre. Invano Silvère le spiegò che la zia Dide lo aveva trattenuto. A tutte le scuse, lei rispondeva:

«Mi hai fatto stare in pensiero, non ti voglio vedere».

Il povero ragazzo guardava, smarrito e disperato, quella cavità scura, piena di tristi fragori, nella quale, gli altri giorni, lo attendeva una visione così chiara, nel silenzio dell'acqua immobile. Dovette andar via senza aver visto Miette. L'indomani, arrivato in anticipo all'appuntamento, guardava nel pozzo con malinconia; non sentiva niente e diceva a se stesso che forse quella cattivaccia non sarebbe venuta, quand'ecco che la ragazzina, che si trovava già dall'altra parte e aspettava, sorniona, che lui arrivasse, si sporse tutt'a un tratto, scoppiando in una risata. E tutto fu dimenticato.

Vi furono, così, drammi e commedie di cui il pozzo fu complice. Quella beata cavità, coi suoi riflessi bianchi e la sua eco musicale, affrettò, più di quanto si sarebbe potuto prevedere, lo svilupparsi del loro amore. Essi attribuirono al pozzo una vita misteriosa, lo coinvolsero talmente nelle loro tenere fantasticherie giovanili, che anche molto tempo dopo, quando non vennero più ad appoggiare i gomiti sui suoi bordi, Silvère, ogni mattina, attingendo l'acqua, aveva l'illusione di vedervi apparire il viso ridente di Miette, nella penombra, e si sentiva ancora palpitante e commosso per tutta la gioia che là essi avevano goduto.

Quel mese di tenerezza gioiosa salvò Miette dalla sua muta disperazione. Essa sentiva risvegliarsi i suoi affetti, le sue felici spensieratezze infantili, che la solitudine, avvelenata dall'odio in cui viveva, aveva represso in lei. La certezza di essere amata da qualcuno, di non essere più sola al mondo, le rese sopportabili le persecuzioni di Justin e dei ragazzacci del sobborgo. Nel suo cuore risonava ora una canzone che le impediva di sentire le urla di scherno. A suo padre pensava con un senso di pietà affettuosa, non si lasciava andare più così spesso a fantasticherie di vendetta implacabile. Il suo amore nascente era come un'alba fresca nella quale si calmava il suo rancore febbrile. E nello stesso tempo le veniva una dolce malizia di ragazza innamorata. Aveva detto a se stessa che doveva mantenere il suo atteggiamento muto e ribelle, se voleva che Justin non avesse alcun sospetto. Ma, nonostante i suoi sforzi, quando Justin la offendeva, gli occhi le rimanevano colmi di dolcezza; non sapeva più dove trovare lo sguardo nero e duro di un tempo. Lui la sentiva anche canterellare a bassa voce, la mattina, a colazione.

«Eh, sei proprio allegra, tu, la Chantegreil!», le diceva Justin con diffidenza, scrutandola con la sua aria losca. «Scommetto che hai fatto qualche mascalzonata».

Lei alzava le spalle, ma dentro di sé tremava; si sforzava di tornar presto a recitare la parte di martire ribelle. D'altronde, benché Justin subodorasse la gioia segreta della sua vittima, dovette fare lunghe ricerche prima di venire a sapere in che modo lei era riuscita a sottrarglisi.

Silvère, dal canto suo, gustava una felicità profonda. I suoi appuntamenti quotidiani con Miette bastavano a riempire le ore vuote che trascorreva in casa. La sua vita solitaria, i suoi lunghi tête-à-tête silenziosi con la zia Dide erano da lui utilizzati per riassaporare ad uno ad uno i ricordi della mattina, per gioirne nei minimi particolari. Da allora provò una pienezza di sentimenti che lo racchiuse ancor più nella vita isolata che si era costruito accanto alla zia Dide. Per temperamento amava i luoghi nascosti, le solitudini in cui poteva vivere a suo agio in compagnia dei suoi pensieri. In quell'epoca si era già gettato avidamente nella lettura di tutti i volumetti scompagnati che aveva trovato nelle botteghe dei rigattieri del sobborgo, e che dovevano condurlo a una generosa e bizzarra religione sociale. Quell'istruzione mal digerita, priva di solide basi, gli suscitava dei momenti di esaltazione, di voluttà ardente nei riguardi della gente, delle donne soprattutto: la sua mente ne sarebbe rimasta gravemente turbata, se il suo cuore fosse rimasto inappagato. Venne Miette: egli la prese dapprima come un'amica, poi come la gioia e lo scopo della sua vita. La sera, rinchiusosi nello sgabuzzino dove dormiva, dopo aver appeso la lampada al capezzale della branda, ritrovava Miette ad ogni pagina del vecchio volume polveroso che aveva afferrato a caso da un'asse al di sopra della sua testa, e che leggeva scrupolosamente. Nelle sue letture non poteva imbattersi in una giovinetta, in una creatura bella e buona, senza che nella sua mente le sostituisse subito la sua innamorata. Anche lui si sostituiva al protagonista del racconto. Se leggeva una storia d'amore, era lui che, alla fine della vicenda, sposava Miette o moriva con lei. Se invece leggeva qualche pamphlet politico, qualche pesante dissertazione di economia sociale - libri che preferiva ai romanzi, per quello strano amore che i semidotti hanno per le letture difficili -, trovava ancora una volta il modo di coinvolgere Miette in quei ragionamenti mortalmente noiosi che spesso non riusciva nemmeno a capire; aveva l'impressione che quei libri gli insegnassero la maniera di essere buono e amorevole con lei, quando sarebbero stati marito e moglie. In tal modo introduceva Miette nelle sue più vaghe fantasticherie. Protetto da quel puro amore contro le licenziosità di certi racconti settecenteschi che gli capitarono tra le mani, gioiva soprattutto di inoltrarsi insieme a lei nelle utopie umanitarie che menti geniali, inebriate dalla chimera della felicità universale, hanno sognato ai giorni nostri. Miette, nel suo pensiero, diventava necessaria all'abolizione del pauperismo e al trionfo definitivo della rivoluzione. Notti di letture febbrili, durante le quali la sua mente esaltata non riusciva a staccarsi dal volume che smetteva di leggere e riprendeva in mano venti volte; notti piene, insomma, di una voluttà snervante, di cui egli gioiva fino allo spuntar del giorno, come si gioisce di un'ebbrezza proibita, col corpo stretto fra le mura dell'angusta cameretta, con la vista appannata dal luccichio giallastro e torbido della lampada, abbandonandosi senza freno all'eccitazione ardente dell'insonnia e costruendo progetti generosamente assurdi di una società nuova, nella quale la donna, sempre sotto le sembianze di Miette, era adorata in ginocchio da tutti i popoli. Egli era predisposto agli slanci dell'utopia da certi influssi ereditari: in lui, i turbamenti nervosi di sua nonna si trasformavano in uno stato di entusiasmo perpetuo, in slanci verso tutto ciò che era grandioso e impossibile. La sua infanzia solitaria, la sua mezza istruzione avevano straordinariamente sviluppate quelle tendenze presenti in lui fin dalla nascita. Ma non era ancora arrivato a quell'età in cui un'idea fissa pianta il suo chiodo nel cervello d'un uomo. La mattina, appena si era rinfrescato la testa in un secchio d'acqua, si ricordava solo in modo confuso delle fantasticherie della veglia notturna; di quei sogni, gli restava soltanto una fierezza piena di fede ingenua e di tenerezza ineffabile. Ritornava fanciullo. Correva al pozzo, col solo desiderio di ritrovare il sorriso della sua innamorata, di gustare le gioie del mattino radioso. E durante il giorno, se qualche volta i sogni dell'avvenire gli si ripresentavano alla mente, spesso anche, obbedendo a impulsi subitanei, baciava sulle due guance la zia Dide, la quale allora lo guardava fisso negli occhi, come presa da inquietudine, vedendoli così chiari e profondi, pieni di una gioia che le sembrava di riconoscere.

Alla fine Miette e Silvère cominciarono a stancarsi un po' di non vedere se non la loro immagine. Avevano logorato il loro trastullo; sognavano dei piaceri più intensi, che il vecchio pozzo non poteva più dar loro. In questo bisogno di realtà che li afferrava, avrebbero voluto vedersi faccia a faccia, correre liberamente per i campi, tornare indietro ansanti, tenendosi stretti alla vita per sentir meglio la loro amicizia. Silvère, una mattina, propose senz'altro di scavalcare il muro e di andare a passeggio per il Jas, con Miette. Ma la ragazzina lo supplicò di non fare questa pazzia, che l'avrebbe abbandonata. tra le grinfie di Justin. Silvère le promise di cercare un altro espediente.

Il muro nel quale il pozzo era inserito formava tutt'a un tratto, a pochi passi di distanza, un gomito che lasciava spazio ad una sorta di avvallamento, in cui i due innamorati si sarebbero trovati al riparo degli sguardi, se fossero riusciti a rifugiarvisi. Si trattava di arrivare a quell'avvallamento. Silvère doveva rinunciare alla sua intenzione di scalare il muro, della quale Miette era apparsa così spaventata. Egli accarezzava in segreto un altro progetto. La porticina che Macquart e Adélaïde avevano aperto una notte, tanto tempo fa, era rimasta inosservata, in quell'angolo sperduto della vasta proprietà attigua; non si era neanche pensato a murarla; nera d'umidità, verde di muschio, con la serratura e i cardini corrosi dalla ruggine, era ormai come incorporata nella vecchia muraglia. Certamente la chiave s'era perduta; le erbe, cresciute a ridosso delle assi di legno, accanto alle quali si erano formati dei piccoli ammassi di terra, bastavano a dimostrare che da lunghi anni nessuno passava più per di là. Era quella chiave perduta che Silvère sperava di ritrovare. Sapeva con quale devozione la zia Dide lasciava invecchiare al proprio posto le reliquie del passato. Tuttavia, rovistò tutta la casa per otto giorni senza alcun risultato. Tutte le notti, a passi leggeri, andava a vedere se finalmente, nelle sue ricerche della giornata, era riuscito, fra tante chiavi, a trovare quella buona. Ne provò senza risultato più di trenta, provenienti senza dubbio dall'antica proprietà dei Fouque, e raccattate da lui un po' dappertutto, appese ai muri, sugli assiti, in fondo ai cassetti. Incominciava a scoraggiarsi, quando trovò infine quella benedetta chiave. Era semplicemente attaccata mediante una cordicella al passe-partout della porta d'ingresso, che rimaneva sempre nella serratura. Era rimasta appesa là per quarant'anni all'incirca. Certamente la zia Dide l'aveva toccata ogni giorno, senza mai decidersi a farla scomparire, ora che, inevitabilmente, quella chiave la faceva ripensare con dolore alle sue gioie estinte. Quando Silvère si fu accertato che essa apriva bene la porticina della muraglia, aspettò l'indomani, pensando alla gioiosa sorpresa che preparava a Miette. Non le aveva mai parlato delle sue ricerche.

L'indomani, appena sentì che la ragazzina posava a terra la brocca, Silvère aprì pian piano la porta, sgombrandone con un sol colpo la soglia dalle erbacce che la ricoprivano. Sporgendo la testa, scorse Miette, che, appoggiata sul bordo del pozzo, guardava l'acqua, tutta assorta nell'attesa. Allora con due grandi passi raggiunse l'avvallamento formato dal muro, e di là chiamò: «Miette! Miette!», con una voce dolce che fece trasalire la ragazza. Essa alzò la testa, credendo che fosse salito in cima al muro. Poi, quando lo vide nel Jas, a pochi passi da lei, mandò un leggero grido di stupore, accorse. Si presero le mani; stavano lì a contemplarsi, estasiati nel trovarsi così vicini l'uno all'altra; sembrava loro di trovarsi molto più belli così, nella calda luce del sole. Era metà agosto, il giorno dell'Assunta; lontano sonavano le campane, in quell'aria limpida delle grandi feste, che sembra fremente di soffi di dorata allegrezza.

«Buongiorno, Silvère!».

«Buongiorno, Miette!».

La voce con cui si scambiarono il loro saluto mattutino li lasciò meravigliati. Non ne conoscevano il suono, se non velato dall'eco del pozzo. Ora quella voce sembrò loro chiara come un canto d'allodola. Ah, come si stava bene in quell'angolo tiepido, in quell'atmosfera di festa! Continuavano a tenersi le mani, Silvère con la schiena appoggiata al muro, Miette un po' piegata all'indietro. Tra di loro, il sorriso che si scambiavano introduceva un raggio di luce. Stavano per dirsi tutte le belle cose che non avevano osato confidare al rumore attutito del pozzo, quando Silvère, voltando la testa per aver sentito un lieve rumore, impallidì e lasciò andare le mani di Miette. Aveva visto dinanzi a lui la zia Dide, diritta, ferma sulla soglia della porta.

La nonna era venuta al pozzo per caso. Vedendo, nella vecchia muraglia nera, l'apertura chiara della porta che Silvère aveva spalancato, essa ricevette un violento colpo al cuore. Quell'apertura chiara le parve un abisso di luce aperto brutalmente sul suo passato. Rivide se stessa nella chiarità della mattina, nell'atto di accorrere, di attraversare la soglia con tutto l'impeto del suo amore folle. E Macquart era là che la aspettava. Lei gli si attaccava al collo, gli rimaneva stretta al petto, mentre il sole sorgente, entrando con lei nel cortile attraverso la porta che lei non si attardava a richiudere, effondeva su entrambi i suoi raggi obliqui. Visione subitanea che crudelmente la trascinava fuori dall'assopimento della vecchiaia, come un ultimo castigo, risvegliando in lei gli aspri bruciori del ricordo. Mai le era venuta l'idea che quella porta potesse ancora aprirsi. Per lei, la morte di Macquart l'aveva murata. Non si sarebbe sentita colpita da uno sbalordimento maggiore nemmeno se il pozzo, se tutto il muro fossero spariti sotterra. E nel suo stupore saliva a poco a poco un senso di ribellione contro la mano sacrilega che, dopo aver violato quella soglia, aveva lasciato dietro di sé l'apertura chiara come una tomba aperta. Si fece avanti, come attirata da una forza magica. Poi rimase immobile nell'inquadratura della porta.

Di là, guardò dinanzi a sé con un senso di dolorosa sorpresa. Certo, le avevano detto che la proprietà dei Fouque era ormai riunita al Jas-Meiffren; ma non avrebbe mai creduto che la sua giovinezza fosse morta fino a quel punto. Sembrava che un vento impetuoso avesse portato via tutti i ricordi che le erano rimasti cari. La vecchia dimora, il vasto orto, coi suoi spazi quadrati, verdi di legumi, erano scomparsi. Non più una pietra, non un albero di quei tempi lontani. E al posto di quella casa e di quell'orto, dove lei era cresciuta, e che ancora la sera prima lei rivedeva chiudendo gli occhi, si stendeva un tratto di suolo nudo, una larga distesa di stoppie, desolata come una landa deserta. D'ora in poi, quando, a occhi chiusi, essa avesse voluto rievocare il passato, sempre le sarebbe apparsa quella landa, simile a un sudario di stoffa giallastra gettato sulla terra nella quale era sepolta la sua giovinezza. Di fronte a quella distesa banale e inerte, le parve che il suo cuore morisse una seconda volta. Tutto, ormai, era davvero finito. Perfino i sogni del passato le erano tolti. Allora si pentì di aver ceduto all'attrazione dell'apertura luminosa, di quella porta spalancata sui giorni che erano scomparsi per sempre.

Stava per andarsene, per chiudere la porta maledetta, senza nemmeno cercar di sapere quale mano l'aveva violata, quando scorse Miette e Silvère. La vista dei due ragazzi innamorati che aspettavano un suo sguardo, confusi, a testa bassa, la trattenne sulla soglia: un dolore ancor più vivo la colse. Ora capiva. Fino in fondo lei e Macquart erano destinati a ritrovarsi, l'uno nelle braccia dell'altra, nel chiarore del mattino. Per la seconda volta la porta era complice. Per dove l'amore era passato, l'amore passava di nuovo. Era l'eterno ritorno, con le sue gioie presenti e le sue lacrime future. La zia Dide non vide che le lacrime, ed ebbe come un presentimento veloce che le mostrò i due ragazzi sanguinanti, colpiti al cuore. Tutta scossa dal ricordo delle sofferenze della sua vita che quel luogo le aveva ridestato, pianse come morto il suo caro Silvère. Lei sola era colpevole: se tanto tempo fa non avesse fatto quell'apertura nella muraglia, Silvère ora non si sarebbe trovato in quel luogo perduto, ai piedi di una ragazza, ebbro d'una felicità che aizza la morte e la rende invidiosa.

Dopo un momento di silenzio, essa, senza pronunciare una parola, venne a prendere per mano il giovane. Forse li avrebbe lasciati tutti e due là, a chiacchierare ai piedi del muro, se non si fosse sentita complice di quella dolcezza apportatrice di morte. Mentre riattraversava la porta con Silvère, si voltò, sentendo il passo leggero di Miette che si era affrettata a riprendere la sua brocca e a scappare attraverso la distesa di stoppie. Correva come una pazza, contenta di essersela cavata così a buon mercato. La zia Dide ebbe un sorriso involontario, nel vederla attraversare il campo come una capra fuggitiva.

«È molto giovane», mormorò; «ha tempo».

Senza dubbio voleva dire che Miette aveva tempo di soffrire e di piangere. Poi, rivolgendo lo sguardo verso Silvère, che aveva seguito estatico la corsa della ragazza nella luce limpida del sole, essa aggiunse soltanto:

«Sta' in guardia, ragazzo mio; di queste cose si muore».

Furono le sole parole che pronunciò in questo episodio, che ridestò tutti i dolori assopiti nel fondo del suo essere. Aveva imposto a se stessa il silenzio come un dovere religioso. Quando Silvère fu rientrato, lei chiuse la porta a doppia mandata e buttò la chiave nel pozzo. Così era sicura che la porta non l'avrebbe più resa complice. Ritornò a esaminarla per un istante, lieta di vederle riprendere il suo aspetto cupo e immutabile. La tomba era richiusa, l'apertura chiara era per sempre otturata da quelle poche assi nere d'umidità, verdi di muschio, sulle quali le lumache avevano pianto lacrime color d'argento.

La sera, la zia Dide ebbe una di quelle crisi nervose che la assalivano ancora, seppur di rado. Durante quegli attacchi essa parlava spesso ad alta voce, diceva parole sconnesse, come in delirio. Quella sera, Silvère, che la vegliava, preso da un doloroso senso di pietà per quel povero corpo straziato, la sentì pronunciare affannosamente le parole «doganiere», «fucilata», «assassinio». Ed essa si dibatteva, chiedeva pietà, sognava propositi di vendetta. Quando la crisi fu verso la fine, essa provò, come sempre, un'agitazione particolarmente forte, ebbe un brivido di paura che le fece battere i denti. Si alzava a metà, guardava con torvo stupore gli angoli della stanza, poi ricadeva sul guanciale emettendo lunghi sospiri. Certo era in preda a un'allucinazione. Poi attirò Silvère al petto, sembrò che cominciasse a riconoscerlo, pur confondendolo di tanto in tanto con un'altra persona.

«Sono là», diceva con voce sconnessa. «Guarda, vengono a prenderti, ti ammazzeranno ancora... Io non voglio... Rimandali indietro, di' che non voglio, che mi fanno soffrire a fissare così gli sguardi su di me...».

E si rivolse dalla parte del vicolo, per non veder più le persone di cui parlava. Dopo qualche istante di silenzio, continuò:

«Sei qui vicino a me, non è vero, bambino mio? Non devi lasciarmi. Poco fa ho creduto di star per morire... Facemmo male ad aprire il muro. Da quel giorno, ho sofferto. Lo sapevo che quella porta ci avrebbe ancora portato disgrazia... Ah, poveri innocenti, che strazio! Li ammazzeranno anche loro, a fucilate, come cani».

Stava ricadendo in catalessi, non si rendeva nemmeno più conto che Silvère era là. Tutt'a un tratto si levò, guardò ai piedi del letto, con un'orribile espressione di terrore.

«Perché non li hai mandati via?», gridò nascondendo la testa bianca in seno al giovane. «Sono ancora là. Quello che ha il fucile mi fa segno che sta per sparare...».

Poco dopo, si addormentò di quel sonno pesante con cui terminavano le crisi.. L'indomani sembrò che avesse dimenticato tutto. Non parlò mai più a Silvère della mattina in cui lo aveva trovato con la sua innamorata, dietro il muro.

Per due giorni Silvère e Miette non si videro. Quando Miette si arrischiò a ritornare al pozzo, si promisero di non ripetere la birichinata dell'antivigilia. E tuttavia il loro incontro, così bruscamente interrotto, aveva lasciato nei loro cuori un ardente desiderio di ritrovarsi da solo a sola, in fondo a qualche beato luogo deserto. Stanchi delle gioie che il pozzo offriva, non volendo d'altra parte recar dolore alla zia Dide, Silvère, rivedendo Miette dall'altra parte del muro, la supplicò di dargli un appuntamento in un altro luogo. Lei, dal canto suo, non si fece pregare; accettò quell'idea con delle risatine soddisfatte di monella che non pensa ancora a cose cattive; quel che la faceva ridere era l'idea che avrebbe ingaggiato una gara d'astuzia con quella spia di Justin. Quando gli innamorati furono d'accordo su ciò, discussero a lungo quale luogo d'incontro scegliere. Silvère propose dei nascondigli impossibili; pensava di fare dei veri e propri viaggi, oppure di raggiungere la ragazzina a mezzanotte nei granai del Jas-Meiffren. Miette, più pratica, scartò queste idee, e disse che a sua volta avrebbe cercato. L'indomani lei rimase al pozzo un minuto appena, giusto il tempo di sorridere a Silvère e di dirgli di trovarsi la sera, verso le dieci, in fondo all'aia di SaintMittre. Si può immaginare quanto il giovane fu puntuale! Per tutta la giornata la scelta di Miette l'aveva tenuto molto dubbioso. La sua curiosità aumentò quando si fu inoltrato nello stretto viale che le cataste di tavole di legno lasciavano libero fino in fondo al terreno. «Verrà di là», diceva tra sé guardando dalla parte della strada di Nizza. Poi sentì un gran rumore di rami smossi dietro il muro, e vide apparire in alto una testa ridente, scarmigliata, che gli gridò con gioia:

«Sono io!».

E davvero era Miette, arrampicatasi come un monello su uno dei gelsi che tuttora fiancheggiano il muro di cinta del Jas. In due salti essa raggiunse la pietra tombale mezza interrata nell'angolo del muro, in fondo al viale. Silvère la vide scendere con uno stupore estatico, senza che nemmeno gli venisse in mente di aiutarla. Le afferrò tutt'e due le mani, le disse:

«Come sei lesta! Ti arrampichi meglio di me».

Fu così che s'incontrarono per la prima volta in quell'angolo sperduto in cui dovevano passare ore così liete. Da quella sera in poi, si videro là quasi tutte le notti. Il pozzo, ormai, serviva ad essi soltanto per avvertirsi a vicenda degli ostacoli imprevisti che talvolta si frapponevano ai loro incontri, dei cambiamenti d'orario, di tutte le piccole notizie, ma grandi per loro, e che non ammettevano ritardi; bastava che quello dei due che aveva da fare una comunicazione all'altra persona mettesse in movimento la puleggia, il cui stridore si udiva da molto lontano. Ma sebbene, certi giorni, essi si chiamassero due o tre volte per dirsi cose da nulla di enorme importanza, non gustavano le loro vere gioie se non la sera, nel vialetto solitario. Miette era di una puntualità rara. Per fortuna essa aveva il letto sopra la cucina, in una camera in cui, prima del suo arrivo laggiù, avevan tenuto le provviste per l'inverno, e alla quale si arrivava per una scaletta a parte. Poteva quindi uscire a qualsiasi ora senza esser veduta né da Rébufat padre né da Justin. Del resto, se per caso Justin l'avesse veduta rientrare, essa si riprometteva di raccontargli qualche frottola, fissandolo con quello sguardo duro che gli tappava la bocca.

Ah, felici e tiepide serate! Erano i primi di settembre, un mese di tempo bello in Provenza. Gli innamorati non potevano incontrarsi prima delle nove circa. Miette arrivava dal muro. Ben presto essa aveva acquisito una tale abilità a superare quell'ostacolo, che quasi sempre si trovava già sulla vecchia pietra tombale prima che Silvère le avesse teso le braccia, E lei rideva della sua prodezza, rimaneva là un istante, affannata, scarmigliata, dando dei colpetti sulla gonna per farla ridiscendere giù. Il suo innamorato la chiamava ridendo «monellaccio». In fondo, gli piaceva la spavalderia della ragazza. La guardava saltare giù dal muro col compiacimento d'un fratello maggiore che assiste ai giochi d'un fratello più piccolo. C'era tanto spirito infantile nel loro amore nascente! Più volte fecero il progetto di andare un giorno o l'altro a snidare gli uccelli sulle rive della Viorne.

«Vedrai come so arrampicarmi sugli alberi!», diceva Miette con orgoglio. «Quand'ero a Chavanoz, salivo fino in cima ai noci del nonno André. Hai mai preso delle gazze dal nido, tu? Quello sì che è difficile!».

E s'iniziava una discussione sul modo di arrampicarsi sui pioppi. Miette diceva il suo parere con sicurezza, come un ragazzo.

Ma Silvère, prendendola per le ginocchia, l'aveva fatta scendere a terra, ed essi camminavano fianco a fianco, con le braccia avvinghiate alla vita. Pur continuando a discutere sul modo di poggiare le mani e i piedi sul punto dove si dipartono i rami dal tronco, essi si stringevano sempre più l'uno all'altra, sentivano sotto quella stretta un calore ignoto che li faceva ardere d'una gioia strana. Il pozzo non aveva mai procurato loro piaceri così vivi. Restavano fanciulli, facevano giochi e conversazioni da monelli, e gustavano gioie amorose senza nemmeno saper parlare di amore, tenendosi appena per la punta delle dita. Cercavano il tepore delle loro mani, presi da un bisogno istintivo, senza sapere in quale direzione andavano i loro sensi e il loro cuore. In quel periodo di felice ingenuità, nascondevano anche a se stessi la strana emozione che si trasmettevano reciprocamente, al minimo contatto. Sorridenti, stupiti talvolta della dolcezza che si diffondeva in loro appena si toccavano, si abbandonavano in segreto alla tenera novità delle loro sensazioni, mentre intanto continuavano a parlare, come due scolaretti, dei nidi di gazze che sono così difficili a raggiungersi.

E così camminavano, nel silenzio del sentiero, tra le cataste di assi e il muro del Jas-Meiffren. Non oltrepassavano mai la fine di quell'angusto vialetto a fondo cieco: ogni volta ritornavano sui propri passi. Si trovavano là come a casa loro. Spesso Miette, lieta di sentirsi così ben protetta, si fermava e si complimentava con se stessa per la sua scoperta:

«Ho avuto la mano felice!» diceva tutta in estasi. «Potremmo fare una lega di cammino, e non troveremmo un nascondiglio così buono!».

L'erba folta attutiva il rumore dei loro passi. Erano immersi in un mare di tenebre, cullati tra due rive scure; vedevano soltanto, al di sopra delle loro teste, una striscia d'azzurro cupo, disseminata di stelle. E in quel suolo ondoso che calpestavano, in quella somiglianza del vialetto a un ruscello d'ombra scorrente sotto il cielo di color nero e d'oro, provavano un'emozione indefinibile, abbassavano la voce anche se nessuno poteva sentirli. Abbandonandosi a quelle onde silenziose della notte, frementi nella carne e nello spirito, si raccontavano, quelle sere, le mille inezie della loro giornata, con brividi di innamorati.

Altre volte, nelle serate chiare, quando la luna faceva risaltare nettamente le linee del muro e delle cataste di assi, Miette e Silvère conservavano ancora tutta la loro spensieratezza infantile. Il viale si stendeva davanti a loro, rischiarato da bianche strisce di luce, tutto lieto, senza misteri. E i due amici si inseguivano, ridevano come ragazzetti intenti al gioco, azzardandosi anche ad arrampicarsi sulle cataste di tavole. Bisognava che Silvère, per far smettere la ragazzina, la spaventasse dicendole che forse Justin era dietro il muro e la spiava. Allora, ancora ansanti, camminavano l'uno a fianco dell'altra, progettando di andare un giorno o l'altro a rincorrersi nei prati di Sainte-Claire, per vedere chi dei due avrebbe acchiappato prima l'altro.

Così il loro amore nascente si adattava bene sia alle notti oscure, sia alle limpide. Sempre il loro cuore era desto, e bastava che vi fosse un po' d'ombra perché la loro stretta fosse più dolce e il loro riso più morbidamente voluttuoso. Quel caro nascondiglio, così gioioso al chiaro di luna, così stranamente triste nelle ore d'oscurità, sembrava loro inesauribile quanto a scoppi di allegria e a silenzi che davano i brividi. E fino a mezzanotte rimanevano là, mentre la città s'addormentava e le finestre del sobborgo si spengevano ad una ad una.

La loro solitudine non fu mai disturbata. A quell'ora tarda, i monelli non giocavano più a nascondino dietro le cataste di assi. Talvolta, quando i due ragazzi sentivano qualche rumore, un canto di operai che passavano per la strada, delle voci provenienti dai marciapiedi vicini, si arrischiavano a gettare uno sguardo sull'aia di SaintMittre. Il campo ricoperto di travi si estendeva, solitario, popolato da rade ombre. Nelle serate tiepide, vi scorgevano a malapena delle coppie d'innamorati, dei vecchi seduti sui grossi tronchi di quercia, ai margini del grande spazio libero. Quando le serate diventavano più fresche, non vedevano più nient'altro, nell'aria malinconica e deserta, che un fuoco di zingari davanti al quale passavano grandi ombre nere. L'aria silenziosa della notte portava fino a loro parole e suoni sperduti: il «buonasera» di un borghese che chiudeva la porta di casa, lo sbattere di un'imposta, il rintocco grave degli orologi, tutti quei rumori smorzati di una città di provincia che si appresta al sonno. E quando Plassans era addormentata, sentivano ancora i litigi degli zingari, lo scoppiettio dei loro fuochi, tra cui improvvisamente si levavano voci gutturali di ragazze che cantavano in un linguaggio sconosciuto, pieno di suoni aspri.

Ma i due innamorati non si soffermavano molto a guardare al di fuori, nell'aia di SaintMittre: si affrettavano a camminare lungo il loro sentiero angusto e celato agli sguardi indiscreti. Che cosa importava a loro degli altri, della città tutta quanta? Finirono con l'aver l'impressione che quelle poche tavole che li separavano dalla gente cattiva fossero una barriera invalicabile. In quell'angolo situato nel bel mezzo del sobborgo, a cinquanta passi dalla Porta di Roma, essi erano così soli, così liberi che qualche volta immaginavano di trovarsi lontano lontano, in fondo a qualche burrone lungo la Viorne, in piena campagna. Di tutti i rumori che giungevan loro, uno solo ascoltavano con un'emozione mista d'inquietudine, quello degli orologi che battevano lentamente le ore nella notte. Quando l'ora del distacco sonava, qualche volta fingevano di non sentire, qualche volta si fermavano bruscamente, come per protestare. Tuttavia, potevano al massimo concedere a se stessi ancora dieci minuti: bisognava poi dirsi addio. Avrebbero giocato, avrebbero chiacchierato fino alla mattina, con le braccia allacciate, per provare quello strano senso di soffocamento di cui gustavano in segreto la delizia, con continue sorprese. Alla fine Miette si decideva a risalire sul muro. Ma non era ancora finita: gli addii si prolungavano ancora per un buon quarto d'ora. Quando la ragazzina si era messa a cavalcioni sul muro, rimaneva là, coi gomiti appoggiati alla sommità, impedita di cadere dai rami del gelso che le serviva da scala. Silvère, ritto sulla pietra tombale, poteva riafferrarle le mani, rimettersi a chiacchierare a mezza voce. Più di dieci volte ripetevano: «A domani!» e trovavano sempre nuove parole da dirsi. Silvère brontolava:

«Su, scendi, è mezzanotte passata».

Ma, con un'ostinazione da bambina, Miette voleva che scendesse lui per primo: aveva piacere di vederlo mentre se n'andava. E siccome il giovane teneva duro, lei finiva col dire bruscamente, per punirlo:

«Ora salto, sta' a vedere».

E saltava giù dal gelso, con grande spavento di Silvère. Egli udiva il rumore sordo della caduta; poi lei scappava via con uno scoppio di risa, senza voler rispondere al suo ultimo addio. Silvère rimaneva per qualche istante a guardare la personcina evanescente che sprofondava nel buio, e a sua volta scendeva lentamente, ritornava verso il vicolo SaintMittre.

Per due anni si recarono là tutti i giorni. All'epoca dei loro primi incontri godettero alcune belle notti ancora tiepide. Ai due innamorati poté sembrare che fosse ancora maggio, il mese in cui la linfa gorgoglia entro le piante, e un buon odore di terra e di foglie nuove si diffonde nell'aria calda. Questo rinnovarsi della natura, questa primavera tardiva fu per loro come una grazia del cielo, che consentì ad essi di correre liberamente nel viale e di stringere là con un saldo vincolo la loro amicizia.

Poi arrivarono le piogge, le nevi, le gelate. Codesti sgarbi dell'inverno non li trattennero. Miette venne sempre con la sua grande pelliccia scura, e tutt'e due si presero gioco di quel tempo infame. Quando la notte era asciutta e chiara, e folate leggere sollevavano sotto i loro passi un bianco pulviscolo di neve che li colpiva al viso come spilli acuminati, si guardavano bene dal mettersi a sedere: andavano avanti e indietro più alla svelta, avviluppati nella pelliccia, con le guance illividite e gli occhi che lacrimavano per il freddo; e ridevano, tutti frementi d'allegria per quella loro marcia veloce nell'aria gelida. Una sera in cui aveva nevicato, si divertirono a fare un'enorme palla di neve che rotolarono fino ad un angolo; essa rimase là per un mese buono, e ad ogni incontro se ne meravigliavano. Nemmeno la pioggia li spaventava. S'incontrarono durante terribili acquazzoni che li infradiciavano fino alle ossa. Silvère accorreva all'appuntamento dicendo tra sé che Miette non avrebbe fatto la pazzia di venire; e quando Miette arrivava a sua volta, non sapeva più se sgridarla o no. In realtà, la aspettava. Alla fine si decise a cercare un riparo contro il tempo cattivo, comprendendo bene che sarebbero usciti in ogni caso, nonostante la loro reciproca promessa di non metter piede fuori di casa se pioveva. Per trovare un tetto, gli bastò frugare dentro una delle cataste di assi: ne trasse alcuni pezzi di legno, che egli rese spostabili, in modo da poter facilmente prenderli e rimetterli a posto. Da allora i due innamorati ebbero a loro disposizione una specie di garitta bassa e stretta, un incavo quadrangolare, nel quale potevano stare soltanto stringendosi l'uno all'altra, seduti sull'orlo di un grosso ceppo che avevano lasciato in fondo all'abitacolo. Quando l'acqua scrosciava, il primo arrivato si rifugiava là; e quando si trovavano riuniti, ascoltavano con gioia infinita la pioggia che batteva, con sordi rulli di tamburo, sulla catasta. Davanti a loro, attorno a loro, nella notte nera come l'inchiostro, c'era un grande scorrere d'acqua che essi non vedevano, e il cui rumore incessante somigliava alle grida minacciose d'una folla. Erano proprio soli, in capo al mondo, in fondo al mare. Non si sentivano mai così felici, così separati da tutti, come nel pieno di quel diluvio, in quella catasta di legname, sotto la continua minaccia di essere travolti dalla pioggia che cadeva a torrenti. Le loro ginocchia piegate arrivavano quasi all'apertura del bugigattolo, ed essi si rannicchiavano il più possibile, con le guance e le mani bagnate da un pulviscolo di pioggia. Ai loro piedi, a intervalli regolari di tempo, schioccavano grosse gocce giù dalle assi. Sentivano caldo dentro la pelliccia scura; erano stretti in così poco spazio, che Miette si trovava a metà sulle ginocchia di Silvère. Chiacchieravano; poi tacevano, presi da una specie di languore, assopiti dal tepore del loro abbraccio e dal monotono scrosciare dell'acquazzone. Rimanevano là per ore ed ore, con quell'amore per la pioggia che fa camminare serie serie le ragazzine sotto il temporale, reggendo l'ombrello aperto. Finirono per preferire le serate di pioggia. C'era solo un guaio: sotto la pioggia la separazione diventava più difficile. Miette doveva scavalcare il muro sotto l'imperversare dell'acquazzone e attraversare in piena oscurità l'acquitrino dei Jas-Meiffren. Appena si scioglieva dal suo abbraccio, Silvère la perdeva nelle tenebre, nel frastuono del temporale. Invano tendeva l'orecchio: non sentiva, non vedeva più nulla. Ma l'inquietudine che a tutti e due procurava quella brusca separazione era un'attrattiva in più: fino al giorno dopo, si chiedevano entrambi se all'altro non era successo qualcosa, con un tempaccio tale che uno si sarebbe vergognato perfino a cacciar fuori dalla porta un cane; forse uno dei due era scivolato? si era sperduto? Questi timori li assediavano senza tregua, e aumentavano la tenerezza del loro incontro successivo.

Infine ritornarono le belle giornate; l'aprile riportò delle notti dolci; l'erba del vialetto verde crebbe con impeto selvaggio. In quel rigoglio di vita che scendeva giù dal cielo e saliva dalla terra, in mezzo all'ebbrezza della stagione ringiovanita, qualche volta gli innamorati rimpiansero la solitudine invernale, le serate piovose, le notti di gelo, durante le quali essi erano così perduti nella solitudine, così distanti da ogni rumore umano. Ora la sera calava troppo tardi; s'impazientivano per la lentezza dell'imbrunire, e quando la notte era diventata sufficientemente scura perché Miette potesse arrampicarsi su per il muro senza rischiare di esser veduta, quando tutt'e due erano finalmente riusciti a trovarsi nel loro amato sentiero, non vi trovavano più l'isolamento che piaceva alla loro scontrosità di ragazzi innamorati. L'aia di SaintMittre si popolava, i monelli del sobborgo continuavano a rincorrersi sulle travi, a gridare fino alle undici di sera; qualche volta capitò perfino che uno di loro venisse a nascondersi dietro le cataste di assi, gettando in faccia a Miette e a Silvère la risata impudica d'un mascalzoncello di dieci anni. Il timore di essere scoperti, il risveglio e i rumori della vita che crescevano attorno ad essi man mano che la stagione diventava più calda, disturbarono i loro incontri.

Poi cominciarono a sentirsi soffocare nel vialetto. Mai quel vialetto era stato scosso da fremiti così ardenti; mai il suolo - quel terreno nel quale dormivano le ultime ossa del vecchio cimitero - aveva emanato degli effluvi più conturbanti. Ma essi erano ancora troppo bambini per poter gustare il fascino voluttuoso di quell'alveo solitario, tutto bruciante della febbre della primavera. Le erbe salivano loro fino alle ginocchia; andare e venire per il vialetto era una fatica, e, quando calpestavano i nuovi germogli, certe piante esalavano odori aspri che davan loro un senso di ubriacatura. Allora, presi da strane spossatezze, turbati e vacillanti, sentendosi i piedi come legati dalle erbe, si appoggiavano con le spalle alla muraglia, con gli occhi socchiusi, incapaci di andare oltre. Avevano l'impressione che tutto il languore del cielo penetrasse dentro di loro.

Questi improvvisi momenti di debolezza si accordavano male con la loro petulanza di scolaretti: finirono con l'arrabbiarsi per la mancanza d'aria del loro rifugio e col decidersi ad andare a portare a spasso i loro amori più lontano, in aperta campagna. Allora, ogni sera, fecero le loro escursioni in luoghi sempre diversi. Miette veniva con la sua pelliccia; tutt'e due si rifugiavano dentro quell'ampio manto, camminavano rasente ai muri, raggiungevano la strada maestra, l'aperta campagna, la campagna vasta in cui l'aria turbinava con la stessa forza delle onde d'alto mare.

Non si sentivano più soffocare, ritrovavano là la loro fanciullezza; non provavano più i capogiri, il senso di stordimento causato dalle erbe alte dell'aia di SaintMittre.

Per due estati percorsero quel tratto di campagna. Ogni sporgenza rocciosa, ogni prato, ben presto li riconobbe; non c'era nemmeno un gruppo d'alberi, una siepe, un cespuglio che non fosse divenuto un loro amico. I loro sogni diventarono realtà: corse pazze per i prati di Sainte-Claire, e Miette era brava a correre, e Silvère doveva slanciarsi a grandi falcate per raggiungerla. Si misero anche a scovare dei nidi di gazze; Miette, ostinata, voleva far vedere come era brava ad arrampicarsi sugli alberi, a Chavanoz; si legava la gonna con un pezzo di spago e saliva sui pioppi più alti; Silvère, rimasto giù, rabbrividiva, tendeva le braccia, pronto a pararla se le fosse capitato di cadere. Questi giochi acquetavano i loro sensi, fino al punto che, una sera, poco mancò che facessero a pugni come due monelli all'uscita dalla scuola. Ma, nella vasta campagna, c'erano degli angoli che non avevano ancora scoperto. Camminando, prorompevano in scoppi di risa, si davano spintoni, si divertivano a farsi i dispetti. Percorrevano leghe e leghe, qualche volta arrivavano perfino alla catena delle Garrigues; seguivano i sentieri più stretti, spesso attraversavano i campi; quel territorio era loro proprietà, ci vivevano come in un paese conquistato, godendosi la terra e il cielo. Miette, con quella mancanza di scrupoli esagerati che è tipica delle donne, non si peritava di cogliere un grappolo d'uva, un ramo carico di mandorle verdi, attraversando i vigneti o passando accanto ai mandorli i cui rami le sferzavano il viso. Questo modo di fare urtava i principi rigorosi di Silvère; ma egli non osava sgridare la ragazzina, che, se qualche rara volta gli metteva il broncio, lo faceva piombare nella disperazione. «Ah, cattivaccia!», pensava Silvère drammatizzando ingenuamente le cose, «sarebbe capace di fare di me un ladro». E Miette gli metteva in bocca la sua parte del frutto rubato. Egli ricorreva a vari espedienti per distoglierla da quel bisogno istintivo di sgraffignare qualcosa: la teneva stretta alla vita, evitava di avvicinarsi agli alberi da frutto, si metteva a correre lungo i vigneti perché lei lo inseguisse; ma ben presto non sapeva più che cosa inventare, e la costringeva a sedersi. Allora ricominciavano a sentirsi soffocare. Soprattutto gli anfratti della Viorne erano, per loro, pieni di un'oscurità conturbante. Quando la stanchezza li risospingeva in riva al torrente, essi perdevano la loro bella allegria di monelli. Sotto i salici, nebbie grige ondeggiavano, simili ai veli, odorosi di muschio, di un'acconciatura femminile. Ai due ragazzi sembrava che quei veli, profumati e ancora recanti il tepore delle spalle voluttuose della notte, li accarezzassero sulle tempie, li avviluppassero in un languore invincibile. Lontano, i grilli cantavano nei prati di Sainte-Claire, e ai loro piedi la Viorne faceva sentire come dei bisbigli d'innamorati, dei lievi rumori di labbra umide. Dal cielo addormentato cadeva una pioggia calda di stelle. Sotto il brivido di quel cielo, di quelle acque, di quell'ombra, Silvère e Miette, supini in mezzo all'erba folta, trasognati, con gli sguardi perduti nel buio, cercavano l'uno la mano dell'altra, si scambiavano una rapida stretta.

Silvère, che intuiva vagamente il pericolo di quell'estasi, qualche volta si alzava d'un tratto e proponeva a Miette di andare fino ad uno degli isolotti che le acque basse lasciavano all'asciutto in mezzo al fiume. Tutt'e due, a piedi nudi, si avventuravano; Miette non si curava dei ciottoli, non voleva che Silvère la sorreggesse, e una volta le capitò di trovarsi a sedere proprio in mezzo alla corrente; ma l'acqua non arrivava a venti centimetri, Miette fece presto a far asciugare la sua gonna esterna. Poi, quando erano sull'isolotto, si sdraiavano proni su una striscia sabbiosa, con gli occhi al livello della superficie dell'acqua, della quale guardavano scintillare lontano le scaglie argentee, nel chiarore della notte. Allora Miette diceva di trovarsi su una barca: l'isolotto navigava, non c'era dubbio; lo sentiva bene, lei, che l'isolotto la trasportava lungo la corrente. Quel senso di vertigine che procurava loro lo scorrere veloce dell'acqua, da cui i loro sguardi erano penetrati, li divertiva per un po', li tratteneva sul margine dell'isolotto; cantavano a bassa voce, come i battellieri quando battono l'acqua coi remi. Altre volte, se l'isolotto aveva un orlo basso, vi si sedevano come su un praticello, lasciando penzolare nella corrente i piedi nudi. E chiacchieravano per ore ed ore, facendo schizzare l'acqua a colpi di calcagni, dondolando le gambe, divertendosi a scatenare delle tempeste nel fiumicello che scorreva calmo; e la freschezza dell'acqua calmava la loro febbre.

Questi pediluvi fecero venire in mente alla ragazza un desiderio capriccioso che rischiò di turbare i loro begli amori innocenti. Volle, a tutti i costi, far dei bagni interi. Un po' al di sopra del ponte, c'era una buca nel letto della Viorne, molto adatta, diceva lei, profonda appena tre o quattro piedi, immune da ogni pericolo. Faceva tanto caldo, sarebbero stati così bene dentro l'acqua fino alle spalle; e poi, da tanto tempo lei moriva dalla voglia d'imparare a nuotare: Silvère glie l'avrebbe insegnato. Silvère faceva obiezioni: di notte non era prudente, qualcuno avrebbe potuto vederli, sarebbero sorti dei guai. Ma non diceva il vero motivo: istintivamente, era molto preoccupato al pensiero di questo nuovo gioco; si domandava come avrebbero fatto a spogliarsi, e come lui se la sarebbe cavata per sorreggere Miette dentro l'acqua, tenendola fra le braccia nude. Miette non sembrava darsi pensiero di quelle difficoltà.

Una sera, lei portò un costume da bagno che aveva ricavato tagliando un vecchio vestito. Silvère dovette ritornare a casa della zia Dide per prendere un paio di mutande. Tutto si svolse senza malizia. Miette non andò nemmeno in disparte: si spogliò, con la massima naturalezza, sotto l'ombra d'un salice: un'ombra così fitta che, durante pochi secondi, del suo corpo di bambina si vide soltanto un vago biancore. Silvère, bruno di carnagione, sembrava, nella notte, un tronco annerito d'un querciòlo, mentre le gambe e le braccia della ragazzina, nude e rotondette, somigliavano ai fusti lattiginosi delle betulle della riva. Poi tutti e due, come se fossero rivestiti dalle macchie scure che le foglie proiettavano su di loro dall'alto, entrarono allegramente nel fiumicello, chiamandosi a vicenda, bisticciando per scherzo, sorpresi dalla freschezza dell'acqua. E gli scrupoli, gli inconfessati sentimenti di vergogna, i pudori segreti, furono dimenticati. Rimasero là un'ora buona, sguazzando, gettandosi manate d'acqua in faccia. Miette s'arrabbiava, poi scoppiava in una risata, e Silvère le dava la prima lezione di nuoto, mettendole ogni tanto la testa sott'acqua, per renderla pronta ad ogni evenienza. Finché lui la sorreggeva con una mano per la cintura del costume da bagno, tenendole l'altra mano sotto il ventre, lei moveva a tutta forza le gambe e le braccia, credeva di nuotare. Ma appena lui la lasciava andare, lei si dibatteva gridando, tendeva le mani, s'aggrappava dove poteva: alla vita di Silvère, ad una delle sue mani. S'abbandonava per un istante appoggiata a lui, si riposava, affannata, tutta gocciolante, mentre il suo costume bagnato disegnava le linee graziose del suo petto virgineo. Poi gridava: «Ancora una volta! Ma tu lo fai apposta, non mi sorreggi».

E in quegli abbracci - di Silvère curvo su di lei per sostenerla, di Miette che si salvava d'un balzo attaccandosi al collo del giovane - non c'era nulla che li facesse vergognare. Erano due innocenti nudi che ridevano, nella notte tiepida, in mezzo alle foglie odorose. Dopo i primi bagni, Silvère si rimproverò in cuor suo per aver pensato a cose cattive. Miette si spogliava così in fretta, era così fresca tra le sue braccia, così risonante di risa!

Ma, quindici giorni dopo, la ragazzina aveva già imparato a nuotare. Libera nei suoi movimenti, cullata dalla corrente, giocando con lui, si sentiva invadere dalla morbida dolcezza del fiume, dal silenzio del cielo, dalle fantasticherie che le suscitava l'aspetto severo delle sponde.

Quando tutt'e due nuotavano silenziosamente, a Miette sembrava di vedere, sulle due rive, le fronde diventare più spesse, curvarsi verso di loro, coprire con enormi cortine il loro rifugio fluviale. Nelle notti di luna, dei luccichii guizzavano fra i tronchi, delle soavi immagini biancovestite andavano a passi lenti lungo le rive. Miette non aveva paura: provava un'emozione difficile a definirsi, nel seguire con lo sguardo quei giochi di luce. Mentre lei si avanzava nuotando lentamente, l'acqua calma, che sotto il raggio della luna diventava uno specchio lucente, s'increspava al suo appressarsi come una stoffa ricamata d'argento; i cerchi d'acqua si allargavano, si perdevano nelle tenebre della riva, sotto i rami pendenti dei salici, dove si udivano dei sussurri misteriosi. E ad ogni bracciata Miette trovava delle buche risonanti di voci, delle profondità scure accosto alle quali passava più in fretta, dei boschetti, dei filari d'alberi le cui masse cupe cambiavan forma, si allungavano, pareva che la seguissero dall'alto della sponda. Quando si metteva a nuotare supina, la commuoveva ancor più l'immensità del cielo. Dalla campagna, dall'orizzonte che lei non vedeva più, sentiva allora salire una voce grave, persistente, in cui si fondevano tutti i sospiri della notte. |[continua]|

 

|[CAPITOLO V, 3]|

 

Miette non aveva un carattere di sognatrice: con tutto il suo corpo, con tutti i suoi sensi, traeva godimento dal cielo, dal fiume dalle ombre, dai chiarori. Soprattutto il fiume, quell'acqua, quel suolo mobile, la trasportava procurandole un senso di infinita dolcezza carezzevole. Quando risaliva il fiume, provava una grande gioia nel sentire la corrente che le urtava con maggior forza il petto e le gambe; era un lungo solletico, piacevolissimo, che essa riusciva a godere senza mettersi a ridere nervosamente. Si immergeva ancor più, arrivava a sfiorare l'acqua con le labbra, in modo che la corrente le passasse sopra le spalle, l'avviluppasse tutta quanta, dal mento fino ai piedi, col suo bacio fervido. Aveva dei momenti di languore che la facevano rimanere immobile sulla superficie del fiume, mentre piccoli fili d'acqua s'insinuavano tra il suo costume e la pelle, facendo gonfiare la stoffa. Poi si rotolava nei bacini d'acqua stagnante, come una gatta su un tappeto; e dall'acqua luminosa, sulla quale si rifletteva la luna, passava all'acqua nera, oscurata dal fogliame della riva, rabbrividendo come se avesse abbandonato una pianura soleggiata e sentisse scenderle sulla nuca il freddo dai rami.

A differenza che nei primi tempi, ora si appartava per spogliarsi, si nascondeva. Nell'acqua, rimaneva silenziosa; non voleva più che Silvère la toccasse; s'immergeva piano piano accanto a lui, nuotando col lieve fruscio d'un uccello che attraversa un bosco; oppure, qualche volta, gli girava attorno a distanza, presa da vaghi timori di cui non riusciva a rendersi conto. Anche lui, se sfiorava appena le sue membra, subito si allontanava. Il fiume suscitava adesso in loro una molle ebbrezza, un torpore voluttuoso, che li turbava inconsciamente. Soprattutto quando uscivano dall'acqua provavano un senso di sonnolenza, di stordimento. Si sentivano come sfiniti. Miette impiegava un'ora buona a rivestirsi. Da principio si metteva soltanto la camicia e la sottoveste; poi rimaneva là, distesa sull'erba, lagnandosi di sentirsi stanca, chiamando Silvère, il quale si teneva a qualche passo di distanza, con la testa vuota, con le membra invase da una strana ed eccitante stanchezza. E al ritorno c'era più ardore nel loro abbraccio; attraverso i vestiti sentivano di più i loro corpi umidi per il bagno, facevano delle pause tirando profondi sospiri. Il grande chignon di Miette, ancora tutto bagnato, la sua nuca, le sue spalle, emanavano una sensazione di fresco, un odore puro, che più che mai inebriavano Silvère. Per fortuna, la ragazzina dichiarò una sera che bagni non ne voleva far più, che l'acqua fredda le faceva andare il sangue alla testa. Senza dubbio essa disse questa ragione con piena sincerità, con piena innocenza.

Ricominciarono le loro lunghe chiacchierate. Il pericolo che avevano corso i loro amori ignari lasciò in Silvère soltanto una grande ammirazione per la forza fisica di Miette. In quindici giorni aveva imparato a nuotare, e spesso, quando gareggiavano in velocità, lui l'aveva vista tagliare la corrente a bracciate altrettanto veloci che le sue. Silvère, che adorava la forza, gli esercizi fisici, si sentiva commosso vedendola così forte, così vigorosa e agile. Gli piacevano straordinariamente le sue braccia grosse. Una sera, dopo uno di quei primi bagni che li divertivano tanto, si erano afferrati alla vita, su un banco di sabbia, e per un bel po' di minuti avevano lottato, senza che Silvère riuscisse a piegare Miette; poi il giovane aveva perduto l'equilibrio, e Miette era rimasta in piedi, vincitrice. Il suo innamorato la trattava come un ragazzo, ed erano state quelle marce forzate, quelle corse pazze attraverso i prati, quei nidi scovati in cima agli alberi, quelle lotte, tutti quei giochi violenti, che li avevano protetti tanto a lungo e avevano mantenuto puro il loro amore. Oltre l'ammirazione per la spavalderia della sua bella, c'era nell'amore di Silvère la tenerezza per gli sventurati. Lui che non poteva vedere una creatura abbandonata, un poveruomo, un bambino che camminava a piedi nudi sulla polvere della strada, senza sentirsi un groppo alla gola per la compassione, amava Miette perché nessuno la amava, perché essa conduceva una dura vita di paria. Quando la vedeva ridere, era profondamente commosso per quella gioia che le procurava. E poi, la ragazzina era una selvatica come lui: l'odio delle comari del sobborgo li accomunava. Quando, durante la giornata, lavorava a mettere i cerchioni alle ruote delle carrette, la sua mente era piena di sogni ispirati a folle generosità. Sarebbe stato lui che avrebbe rialzato Miette dalla sventura. Tutte le sue letture gli risalivano in testa: un giorno avrebbe sposato la sua amica per risollevarla agli occhi della gente. Si attribuiva una missione sacrosanta: il riscatto, la salvezza della figlia del forzato. E aveva la mente così piena di certi discorsi enfatici, che non si limitava a questi progetti; si lanciava in fantasticherie di misticismo sociale, immaginava una riabilitazione solenne come un'apoteosi, vedeva Miette seduta su un trono, in cima al corso Sauvaire, e tutti i cittadini che s'inchinavano dinanzi a lei, le chiedevano perdono, cantavano le sue lodi. Per fortuna si risvegliava da questi bei sogni appena Miette saltava al di qua del muro e, sulla grande strada, gli diceva: «Corriamo, che ne dici? Scommetto che non riuscirai ad acchiapparmi».

Ma se il giovane sognava ad occhi aperti la glorificazione della sua ragazza, sentiva d'altra parte un tale bisogno di giustizia rigorosa da farla spesso piangere quando le parlava di suo padre. Nonostante la profonda tenerezza che le aveva infuso l'amicizia di Silvère, Miette aveva ancora, di tanto in tanto, dei bruschi risvegli, dei momenti cattivi, nei quali le ostinazioni, le ribellioni del suo carattere sanguigno la irrigidivano tutta, con lo sguardo duro, con le labbra strette. Allora si metteva a dire con forza che suo padre aveva fatto bene ad ammazzare quel gendarme, che la terra appartiene a tutti, che tutti hanno il diritto di sparare delle fucilate dove vogliono e quando vogliono. E Silvère, con tono serio, le spiegava il codice penale come lui era in grado di capirlo, con certe considerazioni strane che avrebbero fatto trasalire tutta la magistratura di Plassans. Per lo più queste discussioni si svolgevano in qualche angolo solitario dei prati di Sainte-Claire. Il tappeto erboso, di un verde nerastro, si stendeva a perdita d'occhio, senza che nemmeno un albero si ergesse sulla distesa immensa, e il cielo appariva enorme, punteggiava di stelle la nuda volta che saliva su dall'orizzonte. I due ragazzi si sentivano come cullati in quel mare d'erba in rigoglio. Miette continuava per molto tempo a discutere accanitamente: domandava a Silvère se sarebbe stato meglio che suo padre si lasciasse ammazzare dal gendarme. Silvère rimaneva un istante in silenzio; poi diceva che, in un caso come quello, valeva di più essere vittima che uccisore, e che uccidere un proprio simile era una cosa terribile, anche quando si trattava di legittima difesa. Per lui la legge era una cosa sacrosanta: i giudici avevano avuto ragione di mandare Chantegreil all'ergastolo. La ragazzina andava su tutte le furie: sarebbe stata capace di picchiare il suo amico; gli gridava che era cattivo come gli altri. E siccome lui continuava a difendere con fermezza il suo concetto di giustizia, lei finiva per prorompere in singhiozzi; diceva, con voce rotta dal pianto, che Silvère si vergognava di lei, senza dubbio, dal momento che tornava sempre a rammentarle il delitto di suo padre. Quelle discussioni finivano in pianti, in un'emozione che li coinvolgeva entrambi. Ma anche se la ragazza arrivava a piangere, a riconoscere che forse aveva torto lei, in fondo all'animo serbava intatto il suo spirito di ribellione, il suo impeto sanguigno. Una volta raccontò, accompagnando il racconto con grandi risate, che proprio davanti a lei un gendarme si era rotta una gamba cadendo da cavallo. Quanto a tutto il resto, Miette viveva ormai soltanto per Silvère. Quando lui le chiedeva qualcosa riguardo a suo zio e a suo cugino, lei rispondeva: «Non ne so niente»; e se lui insisteva, preoccupato delle troppe infelicità che doveva subire al Jas-Meiffren, lei diceva che lavorava molto, che nulla era cambiato. Tuttavia essa credeva che Justin avesse finito col capire che cosa la faceva cantare la mattina e infondeva dolcezza nel suo sguardo. Ma soggiungeva: «Che importa? Se una volta o l'altra verrà a darci noia, lo riceveremo in un modo tale da fargli passar la voglia di occuparsi degli affari nostri; non ti sembra?».

Ciò nonostante, la campagna deserta, le lunghe passeggiate all'aria aperta, qualche volta li stancavano. Finivano col ritornare all'aia di SaintMittre, a quel viale stretto dal quale li avevano allontanati le ardenti sere estive, gli odori troppo acuti delle erbe ammassate, i soffi caldi e conturbanti. Ma certe sere il viale diventava più dolce, vi spirava un venticello fresco. potevano soffermarsi là senza provare sensazioni troppo sconvolgenti. Gustavano, allora, dei momenti deliziosi di riposo. Seduti sulla pietra tombale, tappandosi le orecchie per non sentire il chiasso dei monelli e degli zingari, si trovavano a casa propria. Silvère aveva raccolto a più riprese dei frammenti d'ossa, dei pezzi di crani; ad essi piaceva di parlare del vecchio cimitero. Fantasticando col loro vivido spirito immaginoso, essi si dicevano l'uno con l'altra che il loro amore era sbocciato, come una bella pianta robusta e rigogliosa, in quel terriccio, in quell'angolo fertilizzato dalla morte. L'amore era cresciuto lì, come quelle erbe selvagge; era fiorito lì, come quei rosolacci che al minimo soffio di vento si ripiegavano sui loro steli, simili a cuori squarciati e sanguinanti. E avevano una loro spiegazione delle folate tiepide che li percuotevano sulla fronte, dei sussurri che si udivano nell'oscurità, dei lunghi brividi che scuotevano tutto il viale: erano i morti che soffiavan loro in viso le loro passioni di tempi lontani, i morti che raccontavano la loro notte di nozze, i morti che si rivoltolavano sotterra, presi da un furioso desiderio d'amare, di ricominciare l'amore. Quelle ossa, Silvère e Miette lo capivano bene, erano piene di affetto per loro; i cranii spezzati si riscaldavano al fuoco della loro giovinezza; dai più piccoli frammenti di scheletri veniva verso di loro, avvolgendoli, un mormorio estatico, una premura inquieta, una gelosia fremente. E quando i due ragazzi s'allontanavano, il vecchio cimitero piangeva. Quelle erbe, che nelle notti ardenti sembravano avviticchiarsi ai loro piedi e li facevano vacillare, erano delle dita affusolate, assottigliate dalla pietra tombale, uscite di sotterra per trattenerli, per spingerli ad abbracciarsi. Quell'odore acre e penetrante che si sprigionava dagli steli spezzati era il profumo fecondatore, il succo possente della vita, che si forma di nuovo, lentamente, dentro le bare e inebria di desiderio gli amanti smarriti nella solitudine dei sentieri. I morti, i vecchi morti volevano le nozze di Miette e di Silvère.

I due ragazzi non furono mai presi da un senso di terrore. La tenerezza che essi sentivano aleggiare attorno a loro li commoveva, ispirava ad essi amore per quegli esseri invisibili dai quali spesso sembrava loro di sentirsi sfiorare, come da un lieve battito d'ali. Solo qualche volta si sentivano rattristati, ma da una tristezza dolce, e si chiedevano che cosa i morti volevano da loro. Continuavano a vivere il loro amore ignaro, in mezzo a quell'effluvio di linfa, in quel cantuccio di cimitero abbandonato, in cui la terra grassa trasudava la vita ed esigeva imperiosamente la loro unione. I ronzii che essi si sentivano risonare nelle orecchie, i calori improvvisi che imporporavano tutto il loro volto, mandavano ad essi messaggi non decifrabili. C'erano dei giorni in cui il grido dei morti diventava così forte, che Miette, sentendosi come la febbre addosso, illanguidita, semisdraiata sulla pietra tombale, guardava Silvère con gli occhi bagnati di lacrime, come per chiedergli: «Che cosa vogliono dunque? Perché fan penetrare così il fuoco nelle mie vene?». E Silvère, inebriato, smarrito, non osava rispondere, non osava ripetere le parole ardenti che aveva l'impressione di cogliere nell'aria, gli incitamenti folli che le erbe in rigoglio gli davano, le suppliche di tutto quanto il viale, che provenivano dalle tombe mal chiuse, ardenti dal desiderio di servire da giaciglio agli amori dei due ragazzi.

Spesso si scambiavano domande sui frammenti d'ossa che scoprivano. Miette, col suo istinto di donna, adorava gli argomenti lugubri. A ogni nuovo ritrovamento, erano fantasticherie senza fine. Se l'osso era piccolo, Miette pensava a una bella ragazza morta tisica, o uccisa da una febbre violenta alla vigilia delle nozze. Se l'osso era grande, immaginava qualche gran vecchio, un soldato, un giudice, qualche uomo terribile. Soprattutto la pietra tombale li fece meditare a lungo. In un bel chiaro di luna, Miette aveva decifrato, su uno dei lati, delle lettere mezze corrose. Bisognò che Silvère, col suo coltello, togliesse il muschio. Allora essi lessero ciò che era rimasto dell'iscrizione: «Qui giace... Marie... morta...». Miette, trovando sulla pietra il proprio nome, era rimasta tutta sconvolta. Silvère la chiamò «scioccona»; ma lei non riuscì a trattenere le lacrime. Disse che aveva ricevuto un colpo in pieno petto, che sarebbe morta presto, che quella pietra tombale era destinata a lei. Anche Silvère si sentì rabbrividire; ma riuscì a far vergognare la ragazzina di quella sua paura. Come! Lei, così coraggiosa, si lasciava prendere da simili bambinaggini! Finirono per riderne. Poi evitarono di riparlarne. Ma nei momenti di malinconia, quando il cielo nuvoloso dava un aspetto triste al viale, Miette non riusciva a impedire a se stessa di ridire il nome di quella morta, di quell'ignota Marie la cui tomba aveva per tanto tempo reso più facili i loro incontri. Forse le ossa della poveretta erano ancora là. Una sera, Miette si ostinò stranamente a chiedere a Silvère di sollevare la pietra per vedere che cosa c'era sotto. Silvère si rifiutò: gli parve un sacrilegio; e in seguito a questo rifiuto si prolungarono all'infinito le fantasticherie di Miette sulla cara ombra della defunta che portava il suo nome. Era assolutamente convinta che quella Marie fosse morta alla sua stessa età, a tredici anni, in un émpito d'amore. Provava tenerezza anche per la pietra tombale, quella pietra che lei scavalcava così agilmente, sulla quale si erano seduti tante volte: pietra agghiacciata dalla morte, e riscaldata poi dal loro amore. E diceva: «Vedrai, ci porterà disgrazia... Io, se tu morissi, verrei a morire qui, e vorrei che sul mio corpo si ponesse questa pietra».

Silvère, con la gola stretta dall'angoscia, la rimproverava per questo suo pensare a cose tristi.

E così, per circa due anni, essi si amarono nel viale stretto, nella campagna vasta. Il loro idillio passò attraverso le piogge fredde di dicembre e gli ardori eccitanti di luglio, senza mai scendere al livello degli amori volgari: mantenne il fascino squisito d'un romanzo greco, la sua purezza ardente, tutti i tentativi ingenui della carne che desidera e che non sa. Perfino i morti, i vecchi morti, bisbigliarono invano alle orecchie dell'uno e dell'altra i loro consigli. Dall'antico cimitero essi non trassero null'altro che una dolce malinconia, il presentimento vago di una vita breve; una voce diceva loro che sarebbero scomparsi, col loro amore ancora vergine, prima delle nozze, nel momento stesso in cui avrebbero voluto darsi l'uno all'altra. Fu certamente là, sulla pietra tombale, tra gli ossami nascosti sotto le erbe grasse, che essi respirarono il loro amore della morte, quell'aspro desiderio di giacere insieme sotterra, che li faceva parlare tra i singhiozzi sul margine della strada di Orchères, in quella notte di dicembre, mentre le due campane si rimandavano a vicenda i loro richiami lamentosi.

 

Miette dormiva tranquilla, con la testa appoggiata al petto di Silvère, mentre egli pensava a quegli incontri lontani, a quelle belle annate di continuo incanto. Sul far del giorno la ragazza si svegliò. Dinanzi a loro la vallata si stendeva tutta luminosa sotto il cielo chiaro. Il sole era ancora nascosto dietro i monti. Una luce cristallina, limpida e fredda come acqua sorgiva, saliva su dall'orizzonte pallido. Lontano, la Viorne, come un nastro di seta bianca, si perdeva tra i terreni rossastri e gialli. Era una distesa senza confini: oliveti grigi, vasti come mari; vigneti che parevano enormi tagli di stoffa, tutto un paesaggio ingrandito dalla purezza dell'aria e dalla pace del freddo silenzioso. Il vento che soffiava a brevi folate aveva intirizzito il viso ai due ragazzi. Essi si alzarono di scatto, ritemprati, allietati dalla bianchezza della mattina. E poiché la notte aveva portato via con sé le loro tristezze e le loro paure, guardarono estatici l'immensa pianura circolare, e il tintinnio delle due campane sembrò loro il preannuncio d'un giorno di festa.

«Ah, come ho dormito bene!», gridò Miette. «Ho sognato che mi baciavi... Dimmi, m'hai davvero baciata?».

«Può darsi, certo», rispose Silvère ridendo. «Non sentivo caldo. Fa un freddo da lupi».

«Io sento freddo soltanto ai piedi».

«Ebbene, corriamo... Abbiamo da fare due buone leghe. Ti riscalderai».

Scesero giù per il pendio, ritornarono di corsa sulla strada. Poi, quando furono giù, alzarono lo sguardo, come per dire addio a quella roccia sulla quale avevano pianto, si erano dati un bacio infocato. Ma non fecero più parola di quell'abbraccio ardente che aveva introdotto nel loro amore un bisogno nuovo, ancora vago, che essi non osavano esprimere. Non si presero nemmeno a braccetto, col pretesto di camminare più alla svelta. Camminavano allegri, un po' imbarazzati, senza sapere perché, quando si guardavano negli occhi. Intorno ad essi, era ormai pieno giorno. Il giovane, che qualche volta era stato mandato a Orchères dal suo padrone, sceglie senza esitare i sentieri buoni, i più diretti. Essi camminarono così per più di due leghe, percorrendo viottoli infossati, costeggiati da siepi e da muriccioli interminabili. Miette rimproverava Silvère di averla condotta fuori strada. Spesso, per interi quarti d'ora, non scorgevano le case di nessun paese; vedevano soltanto sporgere, al di sopra dei muriccioli e delle siepi, lunghi filari di mandorli, i cui rami nudi si stagliavano sul pallore del cielo.

Tutt'a un tratto, sbucarono proprio dinanzi ad Orchères. Arrivavano al loro orecchio alte grida di gioia, clamori di folla, chiari nell'aria limpida. La colonna degli insorti entrava in città proprio in quel momento. Miette e Silvère si unirono ad essa insieme con tutti quelli che si erano sbandati. Non avevano mai visto un entusiasmo come quello. Nelle strade, si sarebbe detto che era un giorno di processione, quando, al passare del baldacchino, la gente mette alle finestre i drappi più belli. Si festeggiavano gli insorti come si festeggiano dei liberatori. Gli uomini li abbracciavano, le donne li rifornivano di viveri. Sulle soglie delle porte c'erano dei vecchi che piangevano di gioia. Un'allegria tipicamente meridionale, che si manifestava in modo esplosivo, con canti, balli, con un gesticolare frenetico. Miette si trovò coinvolta in un immenso girotondo sulla Piazza Grande. Silvère la seguì. In quel momento i pensieri di morte, di scoramento, erano ben lontani dalla sua mente. Voleva battersi, almeno vender cara la vita. L'idea della lotta lo inebriava di nuovo. Sognava la vittoria, una vita felice con Miette, nella grande pace della Repubblica universale.

Quest'accoglienza fraterna da parte degli abitanti di Orchères fu per gli insorti l'ultima gioia. Trascorsero la giornata in un'atmosfera di fiducia luminosa, di speranza senza confini. I prigionieri - il maggiore Sicardot, i signori Garçonnet, Peirotte e gli altri, che erano stati rinchiusi in una stanza del municipio le cui finestre davano sulla Piazza Grande -, guardavano con una meraviglia sbigottita quelle danze, quelle grandi correnti d'entusiasmo che passavano sotto i loro occhi.

«Che pezzenti!», borbottava il maggiore, appoggiato al davanzale d'una finestra, come sul velluto d'un palco di teatro; «e pensare che non arriveranno un paio di batterie per farmi far piazza pulita di tutta questa marmaglia!».

Poi vide Miette, e aggiunse, rivolgendosi a Garçonnet:

«Guardate un po', signor sindaco, quella ragazzona rossa, laggiù. È una vergogna. Hanno portato con sé le loro amanti. Se questa faccenda dura ancora, ne vedremo delle belle!».

Garçonnet scuoteva la testa, parlava di «passioni scatenate» e dei «peggiori giorni della nostra storia». Peirotte, bianco come un cencio lavato, restava in silenzio; una volta sola aprì la bocca, per dire a Sicardot, che continuava a blaterare con sdegno:

«Più piano, signore, più piano! Ci farete massacrare».

La verità era che gli insorti trattavano quei signori con la massima gentilezza. Fecero perfino servir loro, la sera, un'ottima cena. Ma, per dei paurosi come il ricevitore particolare, simili attenzioni assumevano un aspetto terrificante: gli insorti, senza dubbio, li trattavano così bene perché le loro carni fossero più grasse e più tenere, il giorno in cui le avrebbero mangiate.

Verso sera Silvère si trovò faccia a faccia con suo cugino, il dottor Pascal. Il dotto uomo aveva seguito la banda a piedi, conversando con gli operai che avevano per lui una grande venerazione. Dapprima aveva cercato di dissuaderli dalla lotta; poi, come conquistato dalle loro parole, aveva detto col suo sorriso di distacco affettuoso:

«Forse avete ragione, amici miei. Combattete: io sono qui per rimettervi in sesto le braccia e le gambe».

la mattina, si era messo tranquillamente a raccogliere lungo la strada ciottoli e piante. Era dispiaciutissimo di non aver portato con sé il martello di geologo e la scatola per mettervi dentro le erbe. Quella sera, le sue tasche, ricolme di pietre, minacciavano di rompersi, e dalla sua borsa, che egli teneva sottobraccio, spuntavano fasci di lunghe erbe.

«Guarda un po', sei tu, ragazzo mio!», esclamò vedendo Silvère. «Credevo di essere, qui, l'unico della nostra famiglia».

Pronunciò queste ultime parole con un po' d'ironia, alludendo, senza asprezza, alle beghe di suo padre e dello zio Antoine. Silvère fu contentissimo d'incontrare suo cugino: il dottore era l'unico dei Rougon che gli stringeva la mano per la strada e gli testimoniava un'amicizia sincera. Perciò, vedendolo ancora tutto impolverato per la marcia, e credendolo conquistato alla causa della Repubblica, mostrò una viva gioia. Con enfasi giovanile gli parlò dei diritti del popolo, della santa causa per cui combattevano, della certezza della vittoria. Pascal lo stava a sentire sorridendo; osservava con curiosità i suoi gesti, i tratti focosi della sua fisionomia, come se avesse studiato un esemplare scientifico, «anatomizzato» un senso di entusiasmo, per vedere che cosa c'era all'origine di quella generosità febbrile.

«Come corri, come corri con la fantasia! Ah, tu sei proprio il nipote di tua nonna!».

E aggiunse a bassa voce, col tono d'un biologo che prende degli appunti:

«Isteria o entusiasmo, follia vergognosa o follia sublime. Sempre questi diavoli di nervi!».

Poi, concludendo ad alta voce, riassumendo il suo pensiero:

«La famiglia è al completo. Essa avrà un eroe».

Silvère non aveva capito. Continuava a parlare della sua amata Repubblica. A pochi passi di distanza, Miette si era fermata, ancora avvolta nella sua grande pelliccia rossa. Non si discostava più da Silvère; avevano corso per tutta la città stretti l'uno all'altra. Quella ragazzona rossa finì per mettere in imbarazzo Pascal. Interruppe bruscamente suo cugino e gli chiese:

«Chi è quella ragazza che è con te?».

«È mia moglie», rispose Silvère con tono serio.

Il dottore spalancò tanto d'occhi: non capì. E siccome era molto timido con le donne, si allontanò rivolgendo a Miette una grande scappellata.

La notte fu inquieta. Un vento di sventura passò sugli insorti. L'entusiasmo, la baldanza della giornata si dileguarono nelle tenebre. La mattina, i volti erano cupi; c'erano dei reciproci sguardi tristi, dei lunghi silenzi di gente scoraggiata. Correvano voci di malaugurio. Le cattive notizie, che i capi erano riusciti a nascondere il giorno avanti, si erano sparse senza che nessuno avesse parlato, soffiate da quella bocca invisibile che in un istante diffonde il panico tra la folla. Delle voci dicevano che Parigi era sconfitta, che la provincia si era consegnata, mani e piedi, al nemico; e quelle voci dicevano ancora che numerose truppe, partite da Marsiglia agli ordini del colonnello Masson e di Blériot, prefetto del dipartimento, si avanzavano a marce forzate per annientare le bande degli insorti. Fu un crollo, un risveglio pieno di collera e di disperazione. Quegli uomini, che il giorno innanzi ardevano di febbre patriottica, si sentirono rabbrividire nel grande freddo della Francia sottomessa, vergognosamente inginocchiata. Soltanto loro, dunque, avevano avuto il coraggio di fare il proprio dovere! E ora si trovavano perduti in mezzo alla viltà generale, nel silenzio di morte che li circondava; diventavano dei ribelli; si sarebbe data loro la caccia, come bestie feroci, a fucilate. E avevano sognato un'immensa guerra, la rivolta d'un popolo, la conquista gloriosa del Diritto! In una simile disfatta, in un simile abbandono, quel piccolo drappello di combattenti pianse sulla morte della propria fede, sul dileguarsi del proprio sogno di giustizia. Alcuni, gridando ingiurie a tutta la Francia per la sua vigliaccheria, gettarono a terra le armi e andarono a sedersi sui margini delle strade; avrebbero aspettato là, dicevano, i proiettili dei soldati, per far vedere come sapevano morire i repubblicani.

Sebbene quegli uomini non avessero ormai davanti a sé nient'altro che l'esilio o la morte, le diserzioni furono poche. Una solidarietà ammirevole univa quelle bande. La collera si rivolse contro i capi, che, in realtà, erano degli inetti. Errori irreparabili erano stati commessi; e ora, abbandonati a se stessi, protetti appena da qualche sentinella, sotto gli ordini di uomini privi di nerbo, gli insorti si trovavano alla mercé dei primi soldati che fossero sopraggiunti.

Passarono ancora due giorni a Orchères, il martedì e il mercoledì, perdendo tempo, aggravando la situazione. Il generale, l'uomo con la sciabola che Silvère aveva additato a Miette sulla strada di Plassans, esitava, curvo sotto il peso della terribile responsabilità che gravava su di lui. Il giovedì, si convinse che Orchères era, senza alcun dubbio, una posizione indifendibile. Verso l'una, ordinò di rimettersi in marcia e condusse il suo piccolo esercito sulle alture di Sainte-Roure. In effetti, quella era una posizione inespugnabile, per chi avesse saputo difenderla. Le case di Sainte-Roure digradano sul fianco di una collina; dietro la città, enormi blocchi di roccia impediscono la vista dell'orizzonte; a quella specie di cittadella si può salire soltanto dalla piana delle Nores, che si estende in fondo all'altopiano. Una spianata, dalla quale si è ricavato un viale fiancheggiato da olmi giganteschi, domina la pianura. Su quella spianata si accamparono gli insorti. Gli ostaggi furono rinchiusi in un albergo, l'Hôtel de la Mule-Blanche, situato a metà del viale. La notte trascorse nera e pesante. Si disse che c'erano dei traditori. La mattina, l'uomo con la sciabola, che aveva trascurato di prendere le precauzioni più elementari, passò in rivista i suoi uomini. I contingenti erano allineati, con la schiena rivolta alla pianura, col bizzarro aspetto degli abiti più diversi: giubbe brune, cappotti scuri, bluse azzurre chiuse alla vita da cinture rosse. Le armi luccicavano al sole, stranamente mescolate: falci appuntite di recente, grossi badili di sterratori, canne brunite di fucili da caccia. Ed ecco che, mentre quel generale improvvisato passava a cavallo davanti al piccolo esercito, una sentinella, che era stata lasciata senza collegamenti in un oliveto, accorse gesticolando, gridando:

«I soldati! I soldati!».

Ci fu un'emozione indicibile. Dapprima si credette a un falso allarme. Gli insorti, dimenticando ogni disciplina, si lanciarono avanti, corsero fino al margine della spianata, per vedere i soldati. Le righe si ruppero. E quando la linea cupa delle truppe apparve in perfetto ordine dietro il sipario grigiastro degli olivi, con le baionette scintillanti, ci fu un indietreggiamento, una confusione che fece trascorrere un brivido di terrore da un capo all'altro dello spiazzo.

E tuttavia, a metà del viale, gli uomini de La Palud e di Saint-Martin-de-Vaulx si erano rimessi in riga, stavano fieramente a testa alta. Un boscaiolo, un gigante più alto di tutti i suoi compagni, gridava, agitando un drappo rosso: «A noi, Chavanoz, Graille, Poujols, Saint-Eutrope! A noi, le Tulettes! A noi, Plassans!».

Grandi fiumane di insorti attraversavano la spianata. L'uomo con la sciabola, accompagnato dagli uomini di Faverolles, si allontanò, con parecchi gruppi della campagna - Vernoux, Corbière, Marsanne, Pruinas -, per aggirare il nemico e attaccarlo di fianco. Altri, quelli di Valqueyras, di Nazère, di Castel-le-Vieux, delle Roches-Noires, di Murdaran, si lanciarono a sinistra, si sparpagliarono nella piana delle Nores, per fare i franchi tiratori.

E mentre il viale si sgombrava, la gente dei villaggi che il boscaiolo aveva chiamato a raccolta formava sotto gli olmi una massa cupa, irregolare, raggruppata contro tutte le regole dell'arte militare, ma ferma lì, come una rupe, per sbarrare la strada al nemico o morire. Quelli di Plassans si trovavano in mezzo a quella schiera eroica. Nel color grigio delle bluse e dei vestiti, nello scintillio bluastro delle armi, la pelliccia di Miette, che reggeva la bandiera con tutt'e due le mani, spiccava come una larga macchia rossa, la macchia d'una ferita fresca e sanguinante.

Ci fu tutt'a un tratto un grande silenzio. A una finestra della Mule-Blanche comparve la faccia gialla di Peirotte. Parlava, gesticolava.

«Rientrate, chiudete le imposte», gridarono furiosamente gli insorti; «vi farete ammazzare».

Le imposte si chiusero in tutta fretta, e si sentirono soltanto i passi cadenzati dei soldati che si avvicinavano.

Passò un minuto, interminabile. I soldati non si vedevano più: erano nascosti in un avvallamento del terreno, e ben presto gli insorti videro, dalla parte della pianura, raso terra, le punte delle baionette che venivan su, sempre più grandi, sotto il sole alto, come un campo di grano con le spighe d'acciaio. In quel momento a Silvère, nell'allucinazione febbrile che lo invadeva, sembrò di vedere dinanzi a sé quel gendarme del cui sangue si era sporcato le mani. Dai racconti dei compagni sapeva che Rengade non era morto: aveva soltanto un occhio accecato; e lo rivedeva nettamente, con l'orbita vuota, sanguinante, orribile. Il rammentarsi improvviso di quell'uomo, al quale non aveva più pensato dopo la partenza da Plassans, gli riuscì insopportabile. Temette di esser preso dal panico. Stringeva forte la carabina, con lo sguardo annebbiato, ardendo dal desiderio di sparare, di far dileguare quell'immagine a colpi di fucile. Le baionette salivano sempre, lentamente.

Quando le teste dei soldati apparvero sul ciglio della spianata, Silvère, con un movimento istintivo, si volse verso Miette. Era là, come ingrandita, col viso roseo, ravvolta nelle pieghe della bandiera rossa. Si alzava in punta di piedi per vedere i soldati. Un senso nervoso di attesa le faceva fremere le narici; mostrava i denti bianchi di lupacchiotto tra il rosso delle labbra. Silvère le sorrise. Non aveva fatto in tempo a rivolgere in avanti lo sguardo, e si sentì. un colpo di fucile. I soldati, dei quali ancora si vedevano solo le spalle, avevano incominciato a sparare. A Silvère parve che una grande ventata gli passasse sopra il capo, mentre dagli olmi cadeva una pioggia di foglie abbattute dai proiettili. Un rumore, come quello di un ramo secco che si rompe, gli fece volgere lo sguardo verso destra. Vide a terra il boscaiolo gigante, quello la cui testa sormontava quelle degli altri: aveva un piccolo buco nero in mezzo alla fronte. Allora Silvère scaricò la carabina dinanzi a sé, senza mirare a nessun bersaglio; poi ricaricò, sparò di nuovo, sempre come un pazzo, come una bestia che non pensa a niente, che ha fretta di uccidere. Non vedeva nemmeno più chiaramente i soldati: pennacchi di fumo volteggiavano sotto gli olmi, come brandelli di stoffa grigia. Le foglie continuavano a piovere sugli insorti: alcuni soldati sparavano troppo in alto. Ogni tanto, in mezzo al rumore lacerante della fucileria, il giovane sentiva un sospiro, un rantolo sordo; e nella piccola banda degli insorti alcuni si urtavano stringendosi, come per far posto allo sventurato che cadeva appoggiandosi alle spalle dei suoi compagni. Il fuoco durò dieci minuti.

Poi, tra due scariche di fucileria, un uomo gridò: «Si salvi chi può!», con un terribile urlo di terrore. Ci furono voci confuse, mormorii di rabbia: «Oh, vigliacchi! Vigliacchi!». Si diffondevano annunzi di sventura: il generale era fuggito; la cavalleria colpiva a sciabolate i tiratori sparsi nella piana delle Nores. Gli spari non cessavano, arrivavano da varie parti, con un improvviso brillar di fiamma in mezzo al fumo. Una voce energica ripeteva che bisognava morire là. Ma la voce impazzita, la voce del terrore, gridava più forte: «Si salvi chi può! Si salvi chi può!». Alcuni scapparono, gettando a terra le armi, saltando sopra i cadaveri. Gli altri serrarono le file. Rimasero una dozzina di insorti. Ancora due presero la fuga, e, degli altri otto, tre furono uccisi con un sol colpo.

I due ragazzi erano rimasti lì, macchinalmente, senza rendersi conto di nulla. Più il drappello si assottigliava, più Miette alzava la bandiera; la reggeva come un gran cero, dinanzi a sé, coi pugni stretti. La bandiera era crivellata di proiettili. Quando Silvère non ebbe più cartucce nelle tasche, smise di sparare, guardò la carabina con uno sguardo attonito. In quel momento un'ombra gli passò dinanzi al viso, come se un enorme uccello gli avesse sfiorato la fronte con un battito d'ali, Alzò gli occhi e vide la bandiera che cadeva dalle mani di Miette. La ragazza, coi pugni stretti al petto, con la testa rovesciata all'indietro, con un'espressione atroce di sofferenza, si accasciava lentamente. Non lanciò un grido: giacque supina, sulla stoffa rossa della bandiera.

«Alzati, presto, vieni!», disse Silvère tendendole la mano, fuori di sé.

Ma essa rimase a terra, coi grandi occhi aperti, senza dire una parola. Lui capì, s'inginocchiò.

«Sei ferita, dimmi? Dove sei ferita?».

Lei continuava a tacere; Soffocava; lo guardava con gli occhi spalancati, scossa da rapidi brividi. Allora lui le scostò le mani.

«È lì, non è vero? È lì?».

Le aprì a forza il corpetto, le denudò il petto. Cercò: non vide nulla. Gli occhi gli si empivano di lacrime. Poi, sotto il seno sinistro, vide un piccolo foro roseo; una sola goccia di sangue era sgorgata dalla ferita.

«Non sarà nulla», balbettò; «vado a cercare Pascal: ti guarirà. Se tu potessi alzarti... Non puoi alzarti?».

I soldati non sparavano più. Si erano lanciati verso sinistra, sugli insorti comandati dall'uomo con la sciabola. In mezzo alla spianata deserta, c'era soltanto Silvère inginocchiato davanti al corpo di Miette. Con l'ostinazione di un disperato, l'aveva presa tra le braccia. Voleva farla alzare; ma la ragazza ebbe un tale fremito di dolore, che lui la rimise sdraiata. La supplicava:

«Parlami, ti prego. Perché non mi dici niente?».

Non poteva. Mosse le mani, con un movimento dolce e lento, per dire che non era colpa sua. Le sue labbra chiuse si assottigliavano già sotto il dito della morte. Coi capelli arruffati, con la testa avvolta tra le pieghe della bandiera color sangue, non aveva più di vivo nient'altro che gli occhi, occhi neri che luccicavano sul viso bianco.

Silvère scoppiò in singhiozzi. Gli sguardi strazianti di quei grandi occhi lo addoloravano fin nel profondo. Vi scorgeva un immenso rimpianto della vita. Miette gli diceva con lo sguardo che se ne andava sola, prima delle nozze; se ne andava senza essere stata la sua donna; gli diceva anche che era stato lui a volere questo; avrebbe dovuto amarla come tutti i ragazzi amano le ragazze. Agonizzante, in quella lotta aspra che la sua complessione robusta combatteva con la morte, essa deplorava la sua verginità. Silvère, chino su di lei, capì i singhiozzi amari di quella carne ardente; risentì, lontani, gli incitamenti delle vecchie ossa del cimitero; gli tornarono in mente i baci che avevano arso le loro labbra, la notte, sul margine della strada: lei gli si era appesa al collo, gli chiedeva un amore intero; e lui non ne era stato capace, la lasciava partire ancora vergine, disperata per non avere assaporato la voluttà della vita. Allora, desolato di vedere che di lui essa portava con sé soltanto un ricordo di scolaretto e di buon amico, bacia il suo petto virgineo, quel seno puro e casto che aveva messo a nudo. Quel petto fremente, quel rigoglio di pubertà, lui non l'aveva conosciuto. Le lacrime gli inzuppavano le labbra. Premette la bocca singhiozzante sulla pelle della ragazza. Quei baci di amante infusero un ultimo sguardo di gioia negli occhi di Miette. Si animavano, e il loro idillio si scioglieva nella morte.

Ma lui non riusciva ancora a credere che lei stesse per morire. Diceva:

«No, vedrai, non è niente... Non parlare, se parlare ti fa male. Aspetta: ti solleverò la testa, poi ti riscalderò: hai le mani gelide».

A sinistra, negli oliveti, ricominciavano gli spari. Rumori sordi di cavalli al galoppo salivano dalla piana delle Nores. Ogni tanto si sentivano terribili urla di uomini sgozzati. Ondate di fumo denso arrivavano, volteggiavano sotto gli olmi della spianata. Ma Silvère non sentiva più, non vedeva più. Pascal, che scendeva di corsa verso la pianura, lo vide, steso a terra, e si avvicinò credendolo ferito. Appena Silvère lo riconobbe, si aggrappò a lui, gli additò Miette.

«Guardate», diceva, «è ferita, là, sotto il seno... Ah, per fortuna siete venuto qui; voi la salverete».

In quel momento, la moribonda ebbe una leggera scossa. Un'ombra di dolore passò sul suo viso, e dalle labbra chiuse, che si aprirono per un istante, uscì un leggero soffio. Gli occhi, spalancati, rimasero fissi sul giovane.

Pascal, che si era chinato, si rialzò dicendo a bassa voce:

«È morta».

Morta! Questa parola fece barcollare Silvère. Si era rimesso in ginocchio; cadde giù, come abbattuto dal piccolo ultimo respiro di Miette.

«Morta! Morta!», ripeté. «Non è vero, mi sta guardando... Lo vedete bene che mi sta guardando».

E afferrò il medico per il vestito, scongiurandolo di non andar via, dicendogli che lui si sbagliava, che non era morta, che poteva salvarla se voleva. Pascal resisté con dolcezza, disse con voce affettuosa:

«Io non posso far nulla; altri hanno bisogno di me... Lascia stare, povero ragazzo; è davvero morta, credimi».

Silvère lasciò la presa e ricadde a terra. Morta! Morta! Ancora questa parola, che risonava come un tocco funebre di campana nella sua testa vuota. Quando fu solo, si trascinò accanto al cadavere. Miette continuava a guardarlo. Si gettò su di lei, rotolò il capo sul suo seno nudo, bagnò di lacrime la pelle della morta. Fu un impeto di follia. Continuava a posare le labbra sulla rotondità incipiente dei suoi seni, le imprimeva nei baci tutto il proprio ardore, tutta la propria vita, come per resuscitarla. Ma sotto le sue carezze il corpo della ragazza diveniva freddo. Silvère sentiva quel corpo inerte accasciarglisi fra le braccia. Fu preso da terrore: si accovacciò a terra, col viso stravolto, con le braccia penzoloni, e rimase lì, attonito, ripetendo:

«È morta, ma mi guarda; non chiude gli occhi, mi vede ancora».

Quest'idea lo riempi d'una grande tenerezza. Non si mosse più. Scambiò con Miette un lungo sguardo, leggendo ancora, in quegli occhi che la morte rendeva più profondi, gli ultimi rimpianti della ragazza che piangeva sulla sua inutile verginità.

Frattanto la cavalleria, nella piana delle Nores, incalzava sempre a colpi di sciabola i fuggitivi. Il galoppo dei cavalli, le grida dei morenti, s'allontanavano, s'attutivano, come una musica lontana che giungeva attraverso l'aria limpida. Silvère non si rendeva conto che si combatteva ancora. Non vide suo cugino, che risaliva il pendio e traversava di nuovo il viale. Passandogli vicino, Pascal raccolse la carabina di Macquart, che Silvère aveva gettato a terra; la conosceva perché l'aveva vista appesa al camino della zia Dide, e voleva sottrarla alle mani dei vincitori. Era appena entrato nell'albergo della Mule-Blanche, dove avevano portato un gran numero di feriti, ed ecco che una marea d'insorti, incalzati dalla truppa come un branco di bestie, invase la spianata. L'uomo con la sciabola era fuggito; quelli che venivan braccati erano gli ultimi drappelli sparsi per la campagna. Vi fu là un massacro spaventoso. Il colonnello Masson e il prefetto Blériot, impietositi, ordinarono inutilmente ai soldati di ritirarsi. I soldati, inferociti, continuavano a sparare nel mucchio, a mettere i fuggiaschi con le spalle al muro e a trafiggerli a colpi di baionetta. Quando non ebbero più nemici da uccidere, crivellarono di colpi la facciata dell'albergo. Le imposte andarono in frantumi; una finestra, che era rimasta socchiusa, fu strappata via, con un fracasso di vetri rotti. Dall'interno, voci lamentose gridavano: «I prigionieri! I prigionieri!». Ma i soldati non sentivano nulla, continuavano a sparare. A un certo punto comparve sulla soglia dell'albergo il maggiore Sicardot, fuori di sé; parlava, agitava le braccia. Accanto a lui il ricevitore particolare Peirotte mostrò il suo corpo mingherlino, il viso stravolto. Ci fu ancora una scarica di fucileria, e Peirotte cadde a terra, col naso in avanti, come un masso.

Silvère e Miette si guardavano. Il giovane era rimasto chino sulla morta, in mezzo agli spari e alle urla degli agonizzanti, senza nemmeno voltar la testa. Si accorse soltanto che attorno a lui c'erano degli uomini, e fu preso da un senso di pudore: avvolse Miette nella bandiera rossa e le coprì il seno nudo. Poi lui e lei continuarono a guardarsi negli occhi.

Ma la lotta era finita. L'uccisione del ricevitore particolare aveva finalmente saziato i soldati. Parecchi uomini correvano, cercando per tutti gli angoli della spianata, per non lasciar scappare neanche uno degli insorti. Un gendarme, che vide Silvère sotto gli alberi, accorse; e, vedendo che aveva davanti a sé un ragazzo, gli chiese:

«Che fai costì, moccioso?».

Silvère, con gli occhi fissi sugli occhi di Miette, non rispose.

«Ab, brigante! Ha le mani nere di polvere da sparo!», gridò l'uomo, che si era chinato. «Su, in piedi, canaglia! Hai da scontarla anche tu».

E mentre Silvère, con un sorriso attonito, non si moveva, il gendarme si accorse che il cadavere lì vicino, ravvolto nella bandiera, era un cadavere di donna.

«Una bella ragazza: che peccato!», borbottò; «la tua amante, eh? Farabutto!».

Poi soggiunse, con una risata da gendarme:

«Su, in piedi! Ora che è morta, non vorrai farci all' amore, suppongo».

Dette uno strattone a Silvère, lo fece alzare, lo condusse via come un cane trascinato per una zampa. Silvère si lasciò trascinare senza dire una parola, obbediente come un bambino. Si voltò indietro, guardò Miette. Era disperato al pensiero di lasciarla sola, là, sotto gli olmi. La vide un'ultima volta di lontano. Lei rimaneva là, casta, ravvolta nella bandiera rossa, con la testa leggermente inclinata, coi grandi occhi che guardavano nel vuoto.