CAPITOLO III

 

A Plassans, in quella città chiusa nella quale le distinzioni di classe erano così nettamente segnate nel 1848, il contraccolpo degli avvenimenti politici era molto tenue. Ancor oggi la voce del popolo vi rimane soffocata. La borghesia fa uso della sua prudenza, la nobiltà si chiude nella sua muta disperazione, il clero mette in opera la sua sottile ipocrisia. Si rubino un trono i re o si proclamino delle repubbliche, la città si agita appena. Quando a Parigi si combatte, a Plassans si dorme. Ma per quanto in superficie tutto appaia calmo e indifferente, si svolge nel fondo un'attività occulta, molto interessante per chi la studi. Se le fucilate sono rare nelle strade, gli intrighi sconvolgono i salotti della città nuova e del quartiere di San Marco. Fino al 1830, il popolo non ha contato nulla. Ancor oggi si fa finta che non esista. Tutto si svolge tra il clero, la nobiltà e la borghesia. I preti, molto numerosi, danno il tono alla vita politica; agiscono come mine sotterranee, menano colpi nell'oscurità, conducono una tattica cauta e diffidente che permette, tutt'al più, di fare un passo avanti o uno indietro ogni dieci anni. Queste lotte segrete di uomini che vogliono soprattutto evitare ogni chiasso richiedono una particolare finezza, una capacità di attenzione ai piccoli eventi, una pazienza caratteristica di gente priva di forti passioni. Quindi, la lentezza della provincia, della quale si suole farsi beffe a Parigi, è piena di tradimenti, di ipocrisie sorde, di sconfitte e di vittorie occulte. Questa brava gente, specialmente quando sono in gioco i suoi interessi, uccide a domicilio, a colpi di spillo, come noi uccidiamo a colpi di cannone sulle pubbliche piazze.

La storia politica di Plassans, come quella di tutte le cittadine della Provenza, presenta una curiosa particolarità. Fino al 1830, gli abitanti rimasero cattolici praticanti e monarchici ferventi; anche il popolo giurava soltanto per Dio e per i suoi re legittimi. Poi ebbe luogo uno strano rivolgimento: la fede si dileguò, gli operai e i borghesi, abbandonando la causa legittimista, passarono a poco a poco al grande movimento democratico dei nostri tempi. Quando scoppiò la rivoluzione del 1848, la nobiltà e il clero si trovarono soli a lavorare per il trionfo di Enrico V. Per molto tempo avevano considerato l'avvento degli Orléans al trono come una mossa ridicola, che prima o poi avrebbe ridato il regno ai Borboni; sebbene le loro speranze andassero del tutto deluse, non rinunciarono alla lotta, scandalizzati dalla defezione dei loro seguaci d'un tempo e sforzandosi di riguadagnarseli. Il quartiere di San Marco, aiutato da tutte le parrocchie, si mise all'opera. All'indomani delle giornate di febbraio del '48, grande fu l'entusiasmo nella borghesia, ancor più nel popolo; quegli apprendisti repubblicani non vedevano l'ora di sfogare il loro ardore rivoluzionario. Ma per i redditieri della città nuova, quel bel fuoco ebbe il breve splendore d'un fuoco di paglia. I piccoli proprietari, i commercianti a riposo, coloro che avevano dormito i loro sonni beati o accresciuto le loro ricchezze sotto la monarchia, furono ben presto presi dal panico; la Repubblica, con la sua esistenza movimentata, li fece tremare per la loro cassaforte e per la loro dolce vita di egoisti. Perciò, quando si manifestò la reazione clericale del 1849, quasi tutta la borghesia di Plassans passò al partito conservatore. Vi fu ricevuta a braccia aperte. Giammai la città nuova aveva avuto fin allora rapporti così stretti col quartiere di San Marco; certi nobili arrivarono perfino a stringer la mano ad avvocatucci o a mercanti d'olio in ritiro. Questa insperata familiarità entusiasmò il quartiere nuovo, che, da allora, condusse una guerra accanita contro il governo repubblicano. Per condurre a buon fine questo ravvicinamento, il clero dovette spendere tesori di abilità e di pazienza. Nell'intimo, la nobiltà di Plassans si trovava immersa in uno stato d'invincibile prostrazione, come un moribondo; essa conservava la sua fede, ma era presa dal sonno della vita rurale, preferiva non agire, lasciar fare al cielo; avrebbe limitato volentieri la propria protesta al solo silenzio, forse perché sentiva vagamente che i suoi dèi erano morti e che non le rimaneva più che prepararsi a raggiungerli. Perfino in quell'epoca di grandi rivolgimenti, quando il fallimento della rivoluzione del '48 poté farle sperare per un momento il ritorno dei Borboni, la nobiltà si mostrò intorpidita, abulica; dicevano di gettarsi nella mischia, ma si allontanavano molto a malincuore dal loro posto presso il focolare. Il clero lottò senza tregua contro questo stato d'animo d'impotenza e di rassegnazione. Si dedicò a quest'opera con una specie di fanatismo. Un prete, quando non ha speranza, lotta tanto più accanitamente; tutta la politica della Chiesa consiste nell'andar diritto davanti a sé, a tutti i costi, rimandando di parecchi secoli, se è necessario, la riuscita dei suoi progetti, ma senza perdere un'ora sola, spingendosi sempre in avanti, con uno sforzo continuo. Fu dunque il clero quello che, a Plassans, si mise alla guida del movimento reazionario. La nobiltà divenne il prestanome del clero, niente di più; il clero le si nascose dietro, la spronò, la diresse, riuscì perfino a ridarle un po' di vita fittizia. Quando la ebbe indotta a superare i propri pregiudizi fino a far causa comune con la borghesia, il clero si considerò sicuro della vittoria. Il terreno era ottimamente predisposto; quella vecchia città monarchica, quella popolazione di placidi borghesi e di commercianti codardi doveva fatalmente, prima o poi, schierarsi per il partito dell'ordine. Il clero, con la sua tattica sapiente, affrettò la conversione. Dopo aver tirato dalla sua parte i proprietari della città nuova, riuscì anche a convincere i piccoli negozianti del quartiere vecchio. Allora la reazione fu padrona della città. In questo schieramento reazionario erano rappresentate tutte le tendenze; non si era mai veduta una simile mescolanza di liberali inaciditi, di legittimisti, di orleanisti, di bonapartisti, di clericali. Ma in quel momento ciò importava poco: la sola cosa importante era uccidere la Repubblica. E la Repubblica agonizzava. Una frazione del popolo, un migliaio di operai al massimo sui diecimila abitanti della città, salutavano ancora l'albero della libertà, piantato in mezzo alla piazza della sottoprefettura.

Anche i più fini politici di Plassans, quelli che dirigevano il movimento reazionario, ebbero molto tardi il presentimento che si andava verso l'Impero. La popolarità del principe Luigi Napoleone sembrò ad essi un'infatuazione passeggera della folla, che sarebbe stato facile mettere a tacere. La personalità stessa del principe ispirava loro ben poca ammirazione. Lo consideravano una nullità, un sognatore fatuo, incapace di metter le mani sulla Francia e, soprattutto, di mantenersi al potere. Per loro, si trattava solo di uno strumento del quale contavano di servirsi; avrebbe fatto piazza pulita e poi sarebbe stato messo alla porta, il giorno in cui il vero pretendente al trono avrebbe dovuto farsi avanti. Tuttavia i mesi passavano: quei signori divennero inquieti. Solo allora ebbero una vaga consapevolezza che sarebbero stati gabbati. Ma non ebbero il tempo di prendere una decisione: il colpo di Stato scoppiò sopra le loro teste, ed essi dovettero applaudire. La grande vergogna, la Repubblica, era stata assassinata: era pur sempre una vittoria. Clero e nobili accettarono il fatto compiuto con rassegnazione, rimandando a più tardi l'attuazione delle loro speranze, vendicandosi dei loro calcoli sbagliati con l'unirsi ai bonapartisti per schiacciare gli ultimi repubblicani.

Questi avvenimenti dettero inizio alla fortuna dei Rougon. Prendendo parte alle diverse fasi della crisi politica, crebbero sulle rovine della libertà. Fu la Repubblica quella su cui si lanciarono quei banditi in agguato; dopo che essa fu strangolata, dettero mano a rapinarla.

All'indomani delle giornate di febbraio, Félicité, che aveva il naso più fino di tutta la famiglia, capi che finalmente i Rougon erano sulla buona strada. Si mise a ronzare attorno a suo marito, a pungerlo, perché si desse da fare. Le prime voci di rivoluzione avevano spaventato Pierre. Quando sua moglie riuscì a fargli capire che da un rivolgimento politico essi avevano poco da perdere e molto da guadagnare, Pierre rimase convinto in breve tempo.

«Io non so che cosa puoi fare», ripeteva Félicité, «ma mi sembra che qualcosa da fare ci sia. Non ti ricordi? L'altro giorno il marchese di Carnavant ci diceva che sarebbe divenuto ricco se Enrico V fosse salito al trono, e che questo re avrebbe ricompensato con grande munificenza quelli che si fossero dati da fare per ridargli ciò che gli spettava. La nostra fortuna, forse, è da quella parte. Sarebbe tempo di riuscire a combinar qualcosa!».

In effetti il marchese di Carnavant, quel nobile che, secondo le dicerie pettegole della città, aveva conosciuto intimamente la madre di Féficité, veniva ogni tanto a far visita ai due sposi. Le male lingue sostenevano che la signora Rougon gli somigliava. Era un ometto magro, attivo, che a quell'epoca aveva settantacinque anni; Félicité, invecchiando, sembrava avesse assunto i tratti del suo volto e il suo modo di camminare. Si raccontava che le donne gli avevano divorato gli avanzi di una fortuna già fortemente intaccata da suo padre ai tempi dell'emigrazione. Del resto, egli riconosceva la propria povertà senza falsi pudori. Preso con sé da uno dei suoi parenti , il conte di Valqueyras, viveva da parassita, mangiando alla tavola del conte, abitando in un piccolo alloggio situato sotto il tetto del suo palazzo.

I «Piccina mia», diceva spesso dando un buffetto sulla guancia di Félicité, «se un giorno Enrico V mi rende la fortuna che mi spetta, ti farò mia ereditiera».

Félicité aveva cinquant'anni, e lui la chiamava ancora «piccina mia». A questi buffetti confidenziali e a queste continue promesse di eredità pensava la signora Rougon quando spingeva suo marito a occuparsi di politica. Spesso il signor di Carnavant si era dichiarato molto dolente di non essere in grado di venirle in aiuto. Non c'era dubbio che, il giorno in cui fosse divenuto potente, si sarebbe comportato come un padre nei suoi riguardi. Pierre, al quale Félicité spiegò la situazione con vaghi accenni, si dichiarò pronto a marciare nella direzione che gli sarebbe stata indicata.

A Plassans, la posizione particolare del marchese fece di lui, fin dai primi giorni della Repubblica, l'animatore più zelante del movimento reazionario. Quest'ometto irrequieto, che aveva tutto da guadagnare dal ritorno dei re legittimi, si occupò febbrilmente del trionfo della loro causa. Mentre l'aristocrazia ricca del quartiere di San Marco dormiva nella sua muta disperazione, temendo forse di compromettersi e di vedersi condannata un'altra volta all'esilio, lui si faceva in quattro, si dedicava a far propaganda, ingaggiava seguaci. Era un'arma di cui una mano invisibile teneva l'impugnatura. Da allora le sue visite a casa Rougon divennero quotidiane. Egli aveva bisogno di un quartier generale. Poiché il conte di Valqueyras, suo parente, gli aveva proibito di introdurre nel suo palazzo dei partigiani politici, Carnavant aveva scelto il salotto giallo di Félicité. Del resto, non tardò a trovare in Pierre un aiuto prezioso. Non poteva recarsi personalmente a predicare la causa del legittimismo ai commercianti al minuto e agli operai del quartiere vecchio: lo avrebbero fischiato. Invece Pierre, che era vissuto in mezzo a quella gente, parlava il loro linguaggio, conosceva i loro bisogni, sapeva catechizzarli prendendoli per il verso giusto: divenne quindi l'uomo di cui non si poteva fare a meno. In meno di quindici giorni, i Rougon furono più realisti del re. Il marchese, vedendo lo zelo di Pierre, si era astutamente nascosto dietro di lui. A che scopo mettersi in vista, quando un uomo dalle spalle quadre è disposto a prendersi la responsabilità di tutte le sciocchezze d'un partito? Il marchese lasciò che Pierre troneggiasse, si desse arie d'importanza, parlasse da padrone, riservandosi il compito di frenarlo o di lanciarlo avanti, secondo le necessità della causa. Così il mercante d'olio di un tempo divenne ben presto un personaggio. La sera, quando i coniugi si trovavano soli, Félicité gli diceva:

«Va' avanti, non temere niente. Siamo sulla buona strada. Se le cose continuano così, saremo ricchi, avremo un salotto come quello del ricevitore, inviteremo i signori alle nostre serate».

S'era formata in casa Rougon una combriccola di conservatori che si riunivano tutte le sere nel salotto giallo per blaterare contro la Repubblica.

C'erano tra essi tre o quattro commercianti in ritiro che tremavano per le loro rendite, e che invocavano con tutta l'anima un governo saggio e forte. Il capo di questo gruppetto si poteva considerare un ex commerciante di mandorle, membro del consiglio municipale, Isidore Granoux. Il suo labbro leporino, spaccato a una distanza di cinque o sei centimetri dal naso, i suoi occhi rotondi, la sua aria soddisfatta e stordita al tempo stesso, lo rendevano simile a un'oca grassa che è intenta alla digestione pur nutrendo un legittimo timore del cuoco. Parlava poco, perché gli riusciva difficile trovare le parole adatte; stava ad ascoltare solo quando i repubblicani venivano accusati di voler saccheggiare le case dei ricchi; allora si limitava a diventare rosso in viso, tanto da far temere un colpo apoplettico, e di borbottare delle invettive sconnesse, tra le quali ricorrevano le parole «fannulloni, scellerati, ladri, assassini».

Per la verità, non tutti i frequentatori del salotto giallo avevano la rozzezza di questa oca grassa. Un ricco proprietario, il signor Roudier, dal viso grassoccio e mellifluo, parlava per ore intere, con la passione di un orleanista al quale la caduta di Luigi Filippo aveva scombussolato tutti i progetti. Era un fabbricante di maglierie, di Parigi, ritiratosi a Plassans; un tempo era stato fornitore della Real Casa; aveva fatto di suo figlio un magistrato, contando sugli Orléans per far salire codesto giovane alle più alte cariche. Poiché la rivoluzione aveva distrutto le sue speranze, s'era buttato a corpo morto nella reazione. La sua ricchezza, i suoi precedenti rapporti commerciali con le Tuileries - di cui parlava come se fossero stati rapporti di amicizia - , il prestigio che raggiunge in provincia chiunque abbia fatto quattrini a Parigi e si degni di venire a mangiarseli nella monotona solitudine d'un dipartimento, gli procuravano una grande autorità nella zona; alcuni lo ascoltavano come se fosse un oracolo.

Ma la testa più caparbia del salotto giallo era, senza alcun dubbio, il maggiore Sicardot, il suocero di Aristide. Con una corporatura erculea, col viso color mattone cosparso di cicatrici e di ciuffi di peli grigi, egli era considerato uno dei più gloriosi imbecilli della Grande Armée. Nelle giornate di febbraio i combattimenti dalle barricate l'avevano esasperato; su questo argomento non la smetteva mai, diceva con rabbia che era una vergogna combattere a quel modo, e rievocava con orgoglio il gran regno di Napoleone.

Si vedeva anche, in casa Rougon, un tipo dalle mani sudaticce, dallo sguardo losco, il signor Vuillet, un libraio che riforniva di immagini sacre e di rosari tutti i bigotti della città. Vuillet gestiva la libreria classica e la libreria religiosa. Era cattolico osservante, il che gli garantiva la clientela dei molti conventi e delle parrocchie. Aveva avuto il colpo di genio di unire alla sua attività commerciale la pubblicazione di un giornaletto bisettimanale, «La Gazette de Plassans», nel quale trattava soltanto degli interessi del clero. Quel giornale gli costava un migliaio di franchi all'anno; ma faceva di lui un difensore della Chiesa e lo aiutava a smerciare le pie cianfrusaglie della sua bottega. Quest'uomo incolto, malcerto perfino nell'ortografia, redigeva da sé gli articoli della «Gazette» con un'untuosità e una biliosità che supplivano alla sua mancanza di ingegno. Perciò il marchese, al momento di ingaggiare la lotta, era rimasto impressionato dai vantaggi che avrebbe potuto trarre da questa volgare figura di sagrestano, da questa penna grossolana e astuta. Da febbraio in poi, gli articoli della «Gazette» contenevano meno errori: il marchese li correggeva.

S'immaginerà, ora, il singolare spettacolo che il salotto giallo dei Rougon presentava ogni sera. Tutte le tendenze politiche si toccavano gomito a gomito e tutte insieme abbaiavano contro la Repubblica. L'odio faceva passar sopra alle divergenze. D'altronde, il marchese, che non mancava neanche a una riunione, acquetava con la sua presenza i piccoli battibecchi che sorgevano tra il maggiore e gli altri partecipanti. Quei villan rifatti erano, in cuor loro, lusingati dalle strette di mano che il marchese distribuiva generosamente quando arrivava e quando se ne andava. Soltanto Roudier, libero pensatore di rue Saint-Honoré, diceva che il marchese non aveva un soldo, e che del marchese lui se ne inflschiava. Quanto al marchese, conservava sempre un amabile sorriso di gentiluomo; si abbassava al livello di quei borghesi, senza nemmeno una di quelle smorfie di disprezzo che ogni altro abitante del quartiere di San Marco si sarebbe creduto in dovere di fare. La sua vita di parassita l'aveva addolcito. Era l'anima di tutto il gruppo. Dava ordini a nome di personaggi sconosciuti, di cui non rivelava mai i nomi. «Essi vogliono questo, essi non vogliono quello», diceva. Questi dèi ignoti, che, nascosti tra le nubi, vegliavano sui destini di Plassans, senza immischiarsi direttamente nella politica, dovevano essere certi preti, i grandi politicanti della città. Quando il marchese pronunciava questo misterioso «essi», che ispirava all'assemblea uno straordinario senso di rispetto, Vuillet dava a vedere, con la beatitudine del suo sguardo, che li conosceva perfettamente.

In tutto ciò la persona più contenta era Félicité. Finalmente essa incominciava ad aver gente di alto livello nel suo salotto. Certo, sentiva un po' di vergogna per quel suo vecchio divano di velluto giallo; ma si consolava pensando alla splendida mobilia che avrebbe acquistato dopo la vittoria della buona causa. I Rougon avevano finito col prendere sul serio il proprio legittimismo. Félicité, quando Roudier era assente, arrivava fino a dire che, se non avevano fatto fortuna col loro commercio d'olio, la colpa era della Monarchia di luglio. Era un modo di dare alla loro povertà un colore politico. Essa sapeva trovare per tutti i comportamenti più gentili, anche per Granoux: ogni sera inventava un nuovo modo garbato di svegliarlo, quando era l'ora di sciogliere la riunione.

Il salotto, questo centro di conservatori appartenenti a tutti i partiti, ogni giorno più numerosi, assunse in breve tempo un grande prestigio. Grazie al fatto che vi confluivano uomini di provenienza diversa, e soprattutto all'impulso che ciascuno di essi, segretamente, riceveva dal clero, divenne il centro reazionario che esercitò il suo influsso su tutta Plassans. La tattica del marchese, consistente nel rimanere dietro le quinte, fece sì che Rougon venisse considerato come il capo della banda. Le riunioni avevano luogo in casa sua: agli occhi poco chiaroveggenti dei più, ciò bastava per collocarlo alla testa del gruppo e per metterlo in vista. Tutta l'operazione politica fu attribuita a lui; fu creduto l'artefice principale di quel movimento che, a poco a poco, conduceva al partito conservatore i repubblicani entusiasti della prima ora. Vi sono certe situazioni dalle quali traggono vantaggio solo le persone senza scrupoli. Esse costruiscono la loro fortuna là dove uomini più cauti e più autorevoli non oserebbero rischiare il discredito. Certo, poteva sembrare che Roudier, Granoux e gli altri, per la loro posizione di uomini ricchi e rispettati, dovessero essere preferiti mille volte a Pierre come capi e promotori del partito conservatore. Ma nessuno di loro avrebbe accettato di mettere a disposizione il proprio salotto come centro di riunioni politiche; le loro convinzioni non erano tanto forti da-indurli a esporsi pubblicamente; in sostanza, erano soltanto dei chiacchieroni, delle comari di provincia, che accettavano di schiamazzare contro la Repubblica in casa d'un vicino, dal momento che il vicino si prendeva la responsabilità dei loro schiamazzi. La partita era troppo rischiosa. Nella borghesia di Plassans, gli unici disposti a giocarla fino in fondo erano i Rougon, questi grandi affamati, che si sentivano spinti fino alle decisioni estreme.

Nell'aprile del 1849, Eugène partì improvvisamente da Parigi e venne a passare quindici giorni da suo padre. Non si seppe mai bene lo scopo di questo viaggio. È probabile che Eugène venisse a tastare il terreno nella sua città natale per sapere se c'erano per lui buone probabilità come candidato all'Assemblea legislativa, che tra breve doveva sostituire la Costituente. Era troppo furbo per rischiare un insuccesso. Senza dubbio l'opinione pubblica gli sembrò poco favorevole, poiché egli si astenne da qualsiasi mossa. D'altronde, a Plassans non si sapeva che cosa Eugène era diventato, che cosa faceva a Parigi. Al suo arrivo, lo trovarono meno goffo, meno addormentato. Gli si misero attorno, cercarono di farlo parlare. Eugène finse di non saper nulla, non si svelò, indusse gli altri a svelarsi. Persone più accorte avrebbero notato, dietro la sua apparente indifferenza, una grande attenzione alle opinioni politiche della città. Sembrava che tastasse il terreno per un partito, ancor più che per i propri interessi personali.

Pur avendo rinunciato ad ogni prospettiva di candidatura, rimase tuttavia a Plassans fino alla fine del mese, frequentando assiduamente soprattutto le riunioni del salotto giallo. Fin dalla prima scampanellata, si sedeva nel vano d'una finestra, il più possibile lontano dal lampadario. Rimaneva lì per tutta la serata, col mento appoggiato sul palmo della mano destra, ascoltando silenziosamente. Le più grosse scempiaggini lo lasciavano impassibile. Approvava tutto con cenni del capo, perfino i borbottii esterrefatti di Granoux. Quando gli chiedevano il suo parere, ripeteva garbatamente l'opinione della maggioranza dei presenti. Nulla riuscì a fargli perdere la pazienza, né i vacui sogni del marchese che parlava dei Borboni come se si fosse all'indomani del 1815, né le effusioni di spirito borghese di Roudier, che s'inteneriva calcolando il numero di paia di calzerotti che un tempo aveva fornito al Re-cittadino. Anzi, sembrava perfettamente a suo agio in quella torre di Babele. Talvolta, quando tutti quei personaggi ridicoli vomitavano ingiurie contro la Repubblica, ci si sarebbe potuti accorgere che gli occhi gli ridevano senza che le labbra perdessero il consueto atteggiamento di uomo serio. Il suo modo di ascoltare assorto, la sua cortesia inalterabile gli avevano conciliato tutte le simpatie. Lo giudicavano una nullità, ma un bravo ragazzo. Quando un ex commerciante d'olio o di mandorle non riusciva a farsi ascoltare, nel vocìo generale sul modo con cui avrebbe salvato la Francia se fosse stato lui l'arbitro della situazione, si rifugiava accanto a Eugène e gli diceva in un orecchio i suoi mirabili progetti. Eugène faceva lievi cenni d'assenso con la testa, come se fosse in estasi per le cose intelligentissime che udiva. Soltanto Vuillet lo guardava torvo. Quel libraio, mezzo sagrestano e mezzo giornalista, parlava meno degli altri, osservava di più. Aveva notato che qualche volta, in un angolo della stanza, l'avvocato Rougon conversava col maggiore Sicardot Si propose di sorvegliarli, ma non riuscì mai a sentire nemmeno una parola delle loro conversazioni. Appena Vuillet si avvicinava, Eugène faceva tacere il maggiore con una strizzata d'occhio. Sicardot, da allora in poi, parlò sempre dei Napoleònidi con un misterioso sorriso.

Due giorni prima di ritornarsene a Parigi, Eugène incontrò nel corso Sauvaire suo fratello Aristide, che lo accompagnò per qualche passo, con l'aria insistente di un uomo bisognoso di un consiglio. Aristide si trovava in uno stato di grande perplessità. Appena proclamata la Repubblica, aveva mostrato il più vivo entusiasmo per il nuovo regime. La sua intelligenza, affinata da quei due anni di soggiorno a Parigi, vedeva più lontano che i cervelli ottusi di Plassans; egli intuiva l'impotenza dei legittimisti e degli orleanisti, senza capir bene quale sarebbe stato il terzo ladrone che avrebbe derubato la Repubblica. Ad ogni buon conto, si era messo dalla parte dei vincitori. Aveva rotto ogni rapporto con suo padre, diceva in presenza d'altri che era un vecchio pazzo, un vecchio imbecille infinocchiato dai nobili.

«Eppure mia madre è una donna intelligente», soggiunge va. «Mai l'avrei creduta capace di spingere mio padre in un partito le cui speranze sono chimere pure e semplici. Finiran no completamente a terra. Ma già, le donne non capiscono niente di politica».

Quanto a lui, voleva vendersi al miglior offerente. La sua grande aspirazione fu, da allora, di capire in che direzione spirava il vento, di mettersi sempre dalla parte di quelli che, il giorno del trionfo, avrebbero potuto ricompensarlo lautamente. Per sua disgrazia, andava alla cieca; rintanato in provincia, senza bussola, senza indicazioni precise, si sentiva perduto. In attesa che il corso degli eventi gli mostrasse una strada sicura, mantenne quell'atteggiamento da repubblicano entusiasta che aveva assunto fin dal primo giorno. Grazie a questa presa di posizione, rimase alla sottoprefettura; gli aumentarono addirittura lo stipendio. Afferrato ben presto dalla bramosia di recitare una parte, indusse un libraio, un rivale di Vuillet, a fondare un giornale democratico, di cui divenne uno dei redattori più pieni di spirito polemico. Per suo impulso, l'«Indépendant» scatenò una guerra senza quartiere contro i reazionari. E, suo malgrado, la corrente lo trascinò a poco a poco più lontano di quanto si fosse proposto di andare. Arrivò a scrivere degli articoli incendiari, che lo facevano rabbrividire quando li rileggeva. Fece molto scalpore, a Plassans, una serie di attacchi rivolti dal figlio contro i personaggi che il padre, riceveva ogni sera nel famoso salotto giallo. La ricchezza dei Roudier e dei Granoux esasperava Aristide fino al punto da fargli perdere qualsiasi prudenza. Spinto dalla sua invidiosa acrimonia di affamato, aveva visto nella borghesia una nemica inconciliabile, quando l'arrivo di Eugène e il suo modo di comportarsi a Plassans lo lasciarono costernato. A suo fratello riconosceva una grande abilità. Era persuaso che quel giovanottone sonnolento dormisse sempre con un occhio solo, come i gatti in agguato davanti a una tana di topi. Ed ecco che Eugène trascorreva tutte le serate nel salotto giallo, ascoltando religiosamente quei buffoni che lui, Aristide, aveva così spietatamente deriso. Quando venne a sapere, dalle chiacchiere che si facevano in città, che suo fratello dava delle strette di mano a Granoux e ne riceveva dal marchese, si chiese con ansia che cosa dovesse pensare. Possibile che si fosse sbagliato fino a tal punto? Legittimisti e orleanisti avrebbero avuto qualche possibilità di successo? Questo pensiero lo atterrì. Perse l'equilibrio e, come capita spesso, si lanciò contro i conservatori con ancor più rabbia, per vendicarsi dell'abbaglio che aveva preso.

Il giorno precedente a quello in cui egli fermò Eugène nel corso Sauvaire, aveva pubblicato nell'«Indépendant» un articolo terribile sui maneggi del clero, in risposta a un trafiletto di Vuillet, che accusava i repubblicani di voler demolire le chiese. Vuillet era la bestia nera di Aristide. Non passava una settimana senza che i due giornalisti si scambiassero le ingiurie più violente. In provincia, dove ancora vige il culto della perifrasi, i polemisti traducono il Catechismo delle trivialità in linguaggio fiorito: Aristide chiamava il suo avversario «fratello Giuda» o anche «servitorello di Sant'Antonio» e Vuillet rispondeva bellamente dando al repubblicano la qualifica di «mostro satollo di sangue di cui la ghigliottina era l'ignobile fornitrice».

Per sondare le opinioni di suo fratello, Aristide, che non osava mostrarsi apertamente inquieto, si limitò a chiedergli:

«Hai letto il mio articolo di ieri? Che ne pensi?».

Eugène fece una leggera spallucciata.

«Siete un sempliciotto, fratello mio», rispose soltanto.

«Allora», esclamò impallidendo il giornalista, «tu dài ragione a Vuillet, credi alla vittoria di Vuillet».

«Io?... Vuillet...»

Eugène stava certamente per aggiungere: «Vuillet è un sempliciotto come te». Ma nello scorgere il volto contratto di suo fratello che si tendeva ansiosamente verso di lui, fu preso da un'improvvisa diffidenza.

«Vuillet ha i suoi lati buoni», disse con tono calmo.

Congedandosi dal fratello, Aristide si sentì ancor più perplesso di prima. Eugène doveva averlo preso in giro, poiché Vuillet era senza dubbio il più sudicio figuro che si potesse immaginare. Aristide si ripromise di essere prudente, di non impegnarsi ulteriormente, in modo da aver le mani libere, se un giorno o l'altro avesse dovuto aiutare un partito a strangolare la Repubblica.

La mattina stessa della sua partenza, un'ora prima di salire in diligenza, Eugène condusse suo padre nella camera da letto ed ebbe con lui un lungo colloquio. Félicité, rimasta nel salotto, cercò invano di ascoltare. I due parlavano a bassa voce, come se avessero paura che anche una sola delle loro parole potesse essere udita dal di fuori. Quando, finalmente, uscirono dalla camera, sembravano molto eccitati. Dopo aver abbracciato suo padre e sua madre, Eugène, che di solito parlava con voce strascicata, disse con un tono vivace ed energico:

«Mi avete capito bene, babbo? La nostra fortuna è là. Bisogna lavorare con tutte le nostre forze in quella direzione. Abbiate fiducia in me».

«Seguirò fedelmente le tue istruzioni», rispose Rougon. «Solamente, non dimenticare quel che ti ho chiesto come ricompensa dei miei sforzi».

«Se riusciamo, i vostri desideri saranno soddisfatti, ve lo giuro. Del resto, vi scriverò, vi guiderò secondo la piega che gli avvenimenti prenderanno. Né panico, né entusiasmo. Obbeditemi ciecamente».

«Che avete complottato, dunque?», chiese Félicité che moriva dalla curiosità.

«Cara mamma», rispose Eugène con un sorriso, «voi avete avuto troppa sfiducia in me perché io vi confidi oggi le mie speranze, che ancora si basano soltanto su un calcolo di probabilità. Dovreste aver fede per potermi comprendere. D'altronde, mio padre vi spiegherà tutto, quando il momento sarà venuto».

E siccome Félicité aveva l'aria di una donna ferita nell'orgoglio, egli le disse ancora in un orecchio, mentre la abbracciava di nuovo:

«Io ho ereditato da te le mie qualità, anche se tu mi hai rinnegato. Troppa intelligenza sarebbe dannosa adesso. Quando la crisi arriverà, toccherà a te dirigere le cose».

Se ne andò; poi riaprì la porta e disse con voce imperiosa:

«Soprattutto non fidatevi di Aristide; è un arruffone che guasterebbe tutto. L'ho studiato a sufficienza per esser sicuro che riuscirà sempre a cavarsela. Non vi impietosite per lui: se noi facciamo fortuna, lui saprà rubarci la sua parte».

Quando Eugène fu partito, Félicité cercò di penetrare il segreto di cui era tenuta all'oscuro. Conosceva troppo bene suo marito per interrogarlo direttamente: le avrebbe risposto con tono iroso che eran cose che non la riguardavano. Ma, nonostante l'abile tattica che usò, non riuscì a sapere assolutamente nulla. Eugène, in quella situazione confusa in cui era necessaria la massima discrezione, aveva scelto bene il suo confidente. Pierre, lusingato dalla fiducia di suo figlio, accentuò ancora quell'apatia che faceva di lui una massa pesante e impenetrabile. Quando Félicité ebbe capito che non avrebbe saputo niente, smise di ronzargli attorno. Una sola curiosità le rimase, la più acuta. I due uomini avevano parlato di una ricompensa chiesta da Pierre in persona. Quale poteva essere codesta ricompensa? Quello era il grande oggetto d'interesse per Félicité, la quale non si curava affatto delle questioni politiche. Era sicura che suo marito si era venduto a caro prezzo, ma bruciava dalla voglia di sapere che razza di mercato aveva concluso. Una sera, vedendo Pierre di buon umore, al momento di andare a letto, essa portò il discorso sui guai della loro povertà.

«Sarebbe ora di farla finita», disse; «da quando quei signori vengono qui, spendiamo un'enormità in legna da ardere e in olio per lumi. E chi pagherà il conto? Nessuno, forse».

Suo marito cadde nella rete. Fece un sorriso di benevola superiorità. «Pazienza», disse.

Poi soggiunse con un un'aria furba, guardando negli occhi sua moglie:

«Saresti contenta di essere la moglie di un ricevitore particolare?».

Il viso di Félicité arrossì di una gioia ardente. Si mise a sedere sul letto, battendo, come una bambina, le sue mani risecchite di vecchietta.

«Davvero?...», balbettò. «A Plassans?».

Pierre, senza rispondere, fece un lungo segno di assenso.

Era contento dello sbalordimento della sua compagna. Lei era soffocata dall'emozione.

«Ma», riprese lei dopo un poco, «ci vuole una cauzione enorme. Sono venuta a sapere che il nostro vicino, il signor Peirotte, dovette depositare ottantamila franchi al Tesoro».

«Eh!», disse l'ex mercante d'olio, «questo non mi riguarda. Eugène s'incarica di tutto. Mi farà dare in anticipo la somma da un banchiere di Parigi... Tu mi capisci, ho scelto un posto che frutta bene. Eugène, dapprima, ha fatto delle smorfie. Diceva che bisognava essere ricchi per occupare posizioni come quelle: diceva che di solito venivano nominati personaggi influenti. Io ho tenuto duro, e lui ha ceduto. Per essere ricevitore, non c'è bisogno di sapere né il latino né il greco; avrò, come Peirotte, un procuratore che mi sbrigherà tutte le faccende».

Félicité lo ascoltava con rapimento.

«Io ho ben compreso», continuò Pierre, «il motivo della preoccupazione del nostro caro figliuolo. Noi, qui, siamo poco amati. Si sa che non siamo ricchi; qualcuno protesterà. Ma che importa? Nei momenti di crisi, tutto può succedere. Eugène voleva farmi nominare in un'altra città. Io ho detto di no; voglio rimanere a Plassans».

«Sì, sì, dobbiamo rimanere», disse con calore l'anziana donna. «Qui abbiamo sofferto, qui dobbiamo trionfare. Le farò crepare di rabbia, tutte queste belle signore che passeggiano per il viale del Mail guardando dall'alto in basso i miei vestiti di lana!... Non avevo pensato al posto di ricevitore; credevo che tu volessi diventare sindaco».

«Sindaco? Ma via!... È un posto gratuito. Anche Eugène mi ha parlato di questo. Io gli ho risposto: "Accetto se mi assicuri una rendita di quindicimila franchi"».

Questa conversazione, in cui grosse cifre venivano lanciate come razzi, entusiasmava Félicité. Si dimenava, provava una specie di prurito interno. Alla fine assunse un'aria compunta e, raccogliendosi:

«Vediamo, facciamo un po' di conti», disse. «Quanto guadagnerai?».

«Ma», rispose Pierre, «lo stipendio fisso, credo, è di tremila franchi».

«Tremila», computò Félicité.

«Poi, c'è una percentuale sugli introiti, che, a Plassans, può arrivare a una somma di dodicimila franchi».

«Dunque, quindicimila in tutto».

«Sì, quindicimila all'incirca. È quello che guadagna Peirotte. Ma non è finita. Peirotte svolge un'attività di banchiere per conto suo. La legge lo permette. Forse, quando mi accorgerò di aver buone probabilità, mi arrischierò a farlo anch'io»,

«Allora facciamo ventimila... Ventimila franchi di reddito!», ripeté Félicité, sbalordita da quella cifra.

«Bisognerà rimborsare l'anticipo», le fece osservare Pierre.

«Non importa», riprese Félicité, «saremo più ricchi di tanti di quei signori... Ma il marchese e gli altri dovranno avere la loro fetta di torta?».

«No, no, sarà tutto nostro».

E siccome lei insisteva, Pierre pensò che volesse strappargli il suo segreto. Aggrottò le sopracciglia.

«S'è chiacchierato abbastanza», disse bruscamente. «È tardi, dormiamo. Fare conti in anticipo ci porterà sfortuna. Il posto non ce l'ho ancora. Soprattutto, zitta con chiunque!».

Dopo che il lume fu spento, Félicité non riuscì a prender sonno. Con gli occhi chiusi, faceva splendidi castelli in aria. I ventimila franchi di guadagno danzavano davanti a lei, nel buio, una danza diabolica. Ecco, lei abitava in un bell'appartamento della città nuova, sfoggiava lo stesso lusso di Peirotte, dava dei ricevimenti, faceva rifulgere la sua ricchezza su tutta la città. Ciò che più di tutto solleticava la sua vanità era la bella posizione che suo marito avrebbe occupato. Sarebbe stato lui a pagare le rendite a Granoux, a Roudier, a tutti quei borghesi che ora venivano in casa sua come si va in un caffè, per parlare ad alta voce e sapere le notizie del giorno. Si era perfettamente accorta dell'aria altezzosa con cui quelle persone entravano nel suo salotto, e perciò le erano divenute antipatiche. Perfino il marchese, con la sua gentilezza ironica, incominciava a darle noia. Perciò trionfare loro soli, prendersi tutta la torta, per usare la sua espressione, era una vendetta che essa accarezzava amorosamente. Più tardi, quando quei tipi grossolani si sarebbero presentati, col cappello in mano, in casa del signor ricevitore Rougon, lei li avrebbe trattati male a sua volta. Per tutta la notte rimuginò quei pensieri. La mattina dopo, quando aprì le persiane, il suo primo sguardo si diresse istintivamente verso l'altro lato della strada, sulle finestre del signor Peirotte. Sorrise guardando le grandi tende di damasco che pendevano dietro i vetri.

Le speranze di Félicité, indirizzandosi in un altro senso, divennero ancor più ardenti. Come a tutte le donne, non le spiaceva una piccola parte di mistero. Lo scopo segreto a cui tendeva suo marito la appassionò più di quanto avessero mai fatto gli intrighi legittimisti di Carnavant. Abbandonò senza troppi rimpianti i calcoli basati sul successo del marchese, dal momento che suo marito diceva di poter mettere le mani su una ricchezza così grande servendosi di altri mezzi. D'altronde, si comportò con discrezione e prudenza ammirevoli.

In fondo al cuore, però, una curiosità ansiosa continuava a torturarla; osservava attentamente i minimi atti di Pierre, cercava di capire. Se egli avesse imboccato una strada sbagliata? Se Eugène lo avesse trascinato con sé in qualche precipizio, da cui essi sarebbero risaliti più affamati e più poveri di prima? Tuttavia la fede le veniva. Eugène aveva dato gli ordini con un tale tono di autorità, che essa finì col credere in lui. Anche su ciò influiva il potere dell'ignoto. Pierre le parlava, con aria di mistero, di certi alti personaggi che il suo primogenito frequentava a Parigi; lei stessa non sapeva che cosa obiettare, mentre non poteva chiudere gli occhi sui colpi di testa che Aristide aveva commesso a Plassans. Nel salotto giallo, non ci si faceva scrupolo di parlare del giornalista democratico nei termini più duri. Granoux borbottava che era un brigante, e Roudier, due o tre volte la settimana, ripeteva a Félicité: «Vostro figlio scrive cose da pazzi. Ancora ieri ha attaccato il nostro amico Vuillet con un cinismo ripugnante».

Tutto il salotto faceva coro a questi giudizi. Il maggiore Sicardot diceva di voler prendere a schiaffi suo genero. Pierre rinnegava recisamente suo figlio. La povera madre chinava la testa, inghiottendo le lacrime. In certi momenti aveva voglia di esplodere in furore, di gridare a Roudier che il suo caro figlio, nonostante gli sbagli che commetteva, valeva pur sempre più di lui e di tutti gli altri insieme. Ma era legata all'impegno preso, non voleva compromettere la posizione raggiunta a prezzo di tante fatiche. Vedendo che tutta la città si scagliava contro Aristide, pensava con disperazione che lo sventurato sarebbe andato in rovina. Per due volte s'incontrò con lui in segreto, lo scongiurò di ritornare da loro, di non irritare ancor più il salotto giallo. Aristide le rispose che lei non capiva niente di tutte quelle cose, e che era stata lei a commettere un grosso sbaglio mettendo suo marito al servizio del marchese. Félicité fu costretta a lasciarlo al suo destino, ripromettendosi, se Eugène riusciva, di costringerlo a dividere la preda col povero ragazzo, che rimaneva il suo figlio prediletto.

Dopo la partenza del primogenito, Pierre Rougon continuò a comportarsi da perfetto reazionario. Nelle opinioni che si sostenevano nel famoso salotto giallo non si notò alcun cambiamento. Ogni sera, le stesse persone venivano a farvi la stessa propaganda in favore di una monarchia, e il padron di casa li approvava e li aiutava con altrettanto zelo come in passato. Eugène era partito da Plassans il 1º maggio. Qualche giorno dopo, nel salotto giallo regnava l'entusiasmo. Vi si commentava la lettera del presidente della Repubblica al generale Oudinot, nella quale l'assedio di Roma era deciso. Quella lettera fu considerata come una vittoria clamorosa, dovuta all'atteggiamento risoluto del partito reazionario. Dal 1848 le Camere discutevano la questione romana; era destinato che un Bonaparte soffocasse sul nascere una repubblica, con un intervento del quale una Francia libera non si sarebbe mai macchiata. Il marchese dichiarò che non si poteva lavorar meglio per la causa del legittimismo. Vuillet scrisse un magnifico articolo. L'entusiasmo non ebbe più limiti quando, un mese dopo, il maggiore Sicardot entrò una sera in casa Rougon annunciando che l'esercito francese combatteva sotto le mura di Roma. Mentre tutti prorompevano in grida di giubilo, Sicardot strinse la mano a Pierre in una maniera significativa. Poi, sedutosi, sciorinò un elogio del presidente della Repubblica, il quale, diceva Sicardot, era l'unico capace di salvare la Francia dall'anarchia.

«Che la salvi dunque al più presto», interruppe il marchese, «e comprenda poi il suo dovere di restituirla ai suoi sovrani legittimi!».

Pierre fece finta di approvare vivamente questa bella frase. Dopo che ebbe, in tal modo, dato prova del suo ardente legittimismo, osò dire che il principe Luigi Bonaparte riscuoteva le sue simpatie in questa faccenda. Incominciò allora tra lui e il maggiore uno scambio di brevi frasi che celebravano le eccellenti intenzioni del presidente e che sembravano preparate e imparate a memoria in anticipo. Per la prima volta il bonapartismo entrò apertamente nel salotto giallo. Del resto, dopo l'elezione del 10 dicembre, il principe vi era trattato con una certa simpatia. Lo preferivano mille volte a Cavaignac, e tutta la combriccola reazionaria aveva votato per lui. Ma lo si considerava ancora come un complice piuttosto che come un amico; anzi, si diffidava di quel complice, si cominciava ad accusarlo di volere, dopo aver cavato le castagne dal fuoco, tenersele per sé. Tuttavia quella sera, grazie alla spedizione contro Roma, gli elogi pronunciati da Pierre e da Sicardot furono accolti con favore.

Il gruppo di Granoux e di Roudier chiedeva già che il presidente facesse fucilare tutti quegli scellerati repubblicani. Il marchese, appoggiato al caminetto, guardava con un'aria meditabonda un rosone stinto del tappeto. Quando finalmente alzò la testa, Pierre, che seguiva furtivamente sul suo viso l'effetto delle proprie parole, tacque improvvisamente. Carnavant si limitò a sorridere, guardando Félicité con un'aria maliziosa. Questo veloce scambio di sguardi sfuggì ai borghesi che erano lì presenti. Soltanto Vuillet disse con tono acido:

«Io preferirei vedere il vostro Bonaparte a Londra che a Parigi. Le nostre faccende andrebbero più alla svelta».

L'ex mercante d'olio impallidì leggermente, per timore di essersi spinto troppo avanti.

«Non ci tengo, io, al mio Bonaparte», rispose con una certa energia; «sapete bene dove lo manderei, se comandassi io; sostengo solamente che la spedizione di Roma è una cosa ben fatta».

Félicité aveva seguito questa scena con un singolare stupore. Non ne riparlò a suo marito: ciò dimostrava che aveva preso quella scena come punto di partenza di un suo segreto lavoro d'intuizione. Il sorriso del marchese, di cui non capiva il significato, le dava molto da pensare.

Da quella volta in poi, Rougon, ogni tanto, quando se ne presentava l'occasione, lasciava scivolare una parola a favore del presidente della Repubblica. In quei casi, il maggiore Sicardot recitava la parte di un compare compiacente. Tuttavia, il clericalismo dominava ancora sovrano nel salotto giallo. Soprattutto l'anno seguente, quel gruppo di reazionari acquistò in città una forza decisiva, grazie al movimento retrogrado che si compiva a Parigi. L'insieme di misure antiliberali che furono chiamate «la spedizione di Roma all'interno» assicurò definitivamente a Plassans il trionfo del partito di Rougon. Gli ultimi borghesi rimasti fedeli alla Repubblica videro la Repubblica agonizzante e si affrettarono a unirsi ai conservatori. L'ora dei Rougon era scoccata. La città nuova fece ad essi quasi un'ovazione il giorno in cui fu segato l'albero della libertà che era stato piantato nella piazza della sottoprefettura. Quell'albero, un giovane pioppo portato lì dalle rive della Viorne, si era seccato a poco a poco, con grande dolore degli operai repubblicani i quali, ogni domenica, venivano a constatare i progressi della malattia, senza poter capire le cause di quella morte lenta. Un apprendista cappellaio sostenne, infine, di aver visto una donna uscire da casa Rougon e andare a versare un secchio d'acqua avvelenata ai piedi dell'albero. Da allora, fu acquisito alla Storia che ogni notte Félicité in persona si alzava per annaffiare il pioppo col vetriolo. Quando l'albero fu morto, la municipalità dichiarò che, per la dignità della Repubblica, era doveroso levarlo di mezzo. Siccome si temeva l'ira degli operai, si scelse un'ora tarda della sera. I ricchi conservatori della città ebbero sentore della festicciola che si preparava: scesero tutti nella piazza della sottoprefettura, per vedere come cadeva un albero della libertà. I frequentatori dei salotto giallo si erano messi alle finestre. Quando il pioppo scricchiolò sordamente e cadde a terra, nel buio, con l'impeto tragico di un eroe colpito a morte, Félicité credette di dover agitare un fazzoletto bianco. Vi furono allora degli applausi tra la folla, e gli spettatori di casa Rougon risposero al saluto agitando anch'essi i loro fazzoletti. Un gruppo di persone venne addirittura sotto le finestre, gridando:

«La seppelliremo, la seppelliremo!».

Alludevano certamente alla Repubblica. Per l'emozione poco mancò che Félicité fosse còlta da una crisi di nervi. Fu una bella serata per il salotto giallo.

Tuttavia, il marchese continuava con quel suo misterioso sorriso ogni volta che incontrava lo sguardo di Félicité. Quel vecchietto era troppo accorto per non capire in che direzione andava la Francia. Fu uno dei primi a fiutare l'Impero. Più tardi, quando l'Assemblea legislativa si logorò in vane dispute, quando gli orleanisti e perfino i legittimisti accettarono tacitamente l'eventualità di un colpo di Stato, il marchese disse a se stesso che, senza alcun dubbio, la partita era perduta. Ma fu il solo a veder chiaro. Vuillet non mancò di accorgersi che la causa di Enrico V, sostenuta dal suo giornale, diventava odiosa a tutti; ma ciò gli importava poco; gli bastava di essere il docile strumento del clero; tutta la sua politica tendeva a smerciare rosari e immagini sacre più che poteva. Quanto a Roudier e a Granoux, essi vivevano in uno stato di cieco sgomento; non era sicuro che avessero una preferenza ben definita; volevano mangiare e dormire in pace, le loro aspirazioni politiche non andavano più in là. Il marchese, dopo che ebbe detto addio alle sue speranze legittimiste, non per questo smise di frequentare assiduamente i Rougon. Ci si divertiva. Il cozzare delle ambizioni, le sciocchezze borghesi proclamate a gran voce, avevano finito per offrirgli ogni sera uno spettacolo dei più allietanti. Tremava al pensiero di doversi rinchiudere nel suo appartamentino, dovuto alla carità del conte di Valqueyras. Con una gioia maliziosa serbò per sé la convinzione che l'ora dei Borboni non era venuta. Finse di esser tuttora ciecamente fedele alla monarchia, continuò a lavorare come prima per il trionfo dei legittimisti, rimase agli ordini del clero e della nobiltà. Fin dal primo giorno aveva indovinato la nuova tattica di Pierre, e credeva che Félicité fosse sua complice.

Una sera, arrivato per primo, trovò Félicité sola nel salotto..

«Ebbene, piccina mia», chiese col suo solito tono di sorridente familiarità, «le vostre faccende vanno bene? Perché, diamine, giochi a nascondino con me?».

«Non gioco a nascondino», rispose Félicité, imbarazzata.

«Ma guardatela un po', crede di ingannare una vecchia volpe come me! Suvvia, cara bambina, trattami da amico. Io sono dispostissimo ad aiutarvi in segreto... Andiamo, sii franca!».

Félicité ebbe un lampo d'intuizione. Non era in grado di dire nulla, ma forse poteva venire a sapere tutto, se sapeva stare zitta.

«Tu sorridi?», riprese Carnavant. «È l'inizio di una confessione. Lo immaginavo che dovevi esserci tu dietro tuo marito! Pierre è troppo tardo d'ingegno per inventare il grazioso tradimento che state preparando... Davvero, io mi auguro di tutto cuore che i Bonaparte vi diano quello che io avrei chiesto per te ai Borboni».

Questa semplice frase confermò i sospetti che l'anziana donna aveva da qualche tempo.

«Il principe Luigi ha tutte le probabilità di riuscire, non è vero?», domandò con tono eccitato.

«Mi tradirai se ti dico che credo di sì?», rispose sorridendo il marchese. «Io mi ci sono rassegnato, piccola mia. Io sono un vecchio brav'uomo morto e seppellito. Lavoravo per te, del resto. Dal momento che hai saputo trovare senza di me la buona strada, mi consolerò vedendoti trionfare sulla mia sconfitta Soprattutto non fare più la misteriosa. Vieni da me, se hai qualche difficoltà».

E aggiunse, col sorriso scettico del gentiluomo ormai sceso in basso:

«Eh, via, anch'io posso tradire un poco la mia causa».

In quel momento arrivò la combriccola degli ex commercianti d'olio e di mandorle.

«Ah, questi cari reazionari!», continuò a bassa voce Carnavant. «Vedi, piccina, in politica la grande arte consiste nell'avere due buoni occhi, mentre gli altri non si accorgono di nulla. Tu hai in mano tutte le carte migliori». |[continua]|

 

|[CAPITOLO III, 2]|

 

Il giorno dopo, Félicité, spronata da quella conversazione, volle avere una certezza. Erano, allora, i primi giorni del 1851. Da più di diciotto mesi Rougon riceveva regolarmente, ogni quindici giorni, una lettera di suo figlio Eugène. Per leggere queste lettere si chiudeva in camera, e poi le nascondeva in fondo a una vecchia scrivania, di cui conservava accuratamente la chiave nella tasca del gilè. Quando sua moglie gli domandava qualcosa in proposito, si limitava a rispondere: «Eugène mi scrive che sta bene». Da molto tempo Félicité non vedeva l'ora di metter le mani sulle lettere di suo figlio. La mattina dopo, mentre Pierre dormiva ancora, lei si alzò e, in punta di piedi, andò a prendere dalla tasca del gilè la chiave della scrivania e a mettervi al suo posto quella del cassettone, che aveva la stessa grandezza. Poi, quando Pierre fu uscito, si chiuse in camera a sua volta, vuotò il cassetto della scrivania e lesse le lettere con curiosità febbrile.

Carnavant non si era sbagliato, e le ipotesi che essa aveva fatto per conto suo risultavano confermate. C'era là una quarantina di lettere, attraverso le quali essa poté seguire lo svolgersi del vasto movimento bonapartista che doveva culminare nell'Impero. Era una specie di diario succinto, che esponeva i fatti man mano che erano accaduti e da ciascuno di essi traeva speranze e consigli. Eugène aveva fede. Parlava a suo padre del principe Luigi Bonaparte come dell'uomo necessario e fatale, dell'unico che potesse risolvere la crisi. Eugène aveva creduto in lui anche prima del suo ritorno in Francia, quando il bonapartismo era considerato come una ridicola chimera. Félicité comprese che dal 1848 suo figlio era un agente segreto attivissimo. Sebbene non si spiegasse con piena chiarezza sulla posizione che occupava a Parigi, era evidente che egli lavorava per l'Impero, agli ordini di personaggi che nominava con un tono di familiarità. Ciascuna delle sue lettere dava notizia dei progressi della causa bonapartista e faceva prevedere una soluzione a breve scadenza. Di solito le lettere terminavano con l'indicazione della linea di condotta che Pierre doveva seguire a Plassans. Félicité comprese allora certi discorsi e certe azioni di suo marito il cui scopo le era rimasto oscuro; Pierre obbediva a suo figlio, seguiva ciecamente le sue raccomandazioni.

Quando Félicité ebbe terminato la lettura, era pienamente convinta. Tutto il piano di Eugène le apparve chiaro. Eugène contava di raggiungere il successo politico nella mischia del colpo di Stato e, subito dopo, di pagare ai suoi genitori il debito delle spese per la sua istruzione, gettando loro un brano della preda, al momento della spartizione. Purché suo padre lo aiutasse, si rendesse utile alla causa, sarebbe stato facile a Eugène farlo nominare ricevitore particolare. Non si sarebbe potuto rifiutar nulla a lui che aveva avuto una parte così importante negli affari più delicati. Le sue lettere erano la testimonianza di una sua affettuosa premura, erano un mezzo per evitare ai Rougon di compiere molti passi falsi. Félicité provò, quindi, una viva riconoscenza. Rilesse alcuni passi delle lettere, quelli in cui Eugène parlava in termini vaghi della lotta finale. Questa lotta finale, di cui essa non indovinava bene né il carattere né l'ampiezza, divenne nella sua mente una specie di fine del mondo: Dio avrebbe schierato gli eletti alla propria destra e i dannati a sinistra, e lei si vedeva già nella schiera degli eletti.

Quando riuscì, la notte seguente, a rimettere la chiave della scrivania nella tasca del gilè, si ripromise di servirsi dello stesso mezzo per leggere ogni nuova lettera che, via via, sarebbe arrivata. Con pari fermezza, decise di fingersi ignara di tutto. Questa tattica era eccellente. A partire da quel giorno, essa aiutò suo marito tanto più in quanto sembrava che lo facesse senz'accorgersene. Mentre Pierre credeva di lavorare da solo, era lei che, per lo più, conduceva la conversazione sul terreno adatto, era lei che reclutava degli adepti per il momento decisivo. Essa soffriva per la mancanza di fiducia da parte di Eugène. Voleva essere in grado di dirgli, dopo la vittoria: «Io sapevo tutto, e, invece di recare il minimo danno, ho assicurato il trionfo». Nessuna complice fece mai così poco rumore e recò tanto aiuto. Il marchese, con cui Félicité si confidava, ne era ammirato.

Ciò che continuava a preoccuparla era la sorte del suo caro Aristide. Da quando condivideva la fede del suo primogenito, gli articoli rabbiosi dell'«Indépendant» la spaventavano ancor più. Desiderava ardentemente di convertire alle idee napoleoniche il povero repubblicano; ma non sapeva come far ciò in modo prudente. Ricordava con quale insistenza Eugène aveva detto a lei e a Pierre di diffidare di Aristide. Chiese consiglio a Carnavant, che fu dello stesso avviso di Eugène.

«Piccina mia», disse, «in politica bisogna saper essere egoisti. Se voi convertiste vostro figlio e se l"Indépendant" passasse a difendere il bonapartismo, ciò significherebbe un duro colpo per il partito. L'«Indépendant» è ormai condannato; basta solo la sua testata per rendere furenti i borghesi di Plassans. Lasciate che il vostro caro Aristide sguazzi nel fango: è un'esperienza utile a un giovane. Mi sembra un tipo destinato a non fare il martire per molto tempo».

Nel suo zelo furente di indicare ai suoi la buona strada, ora che era convinta di possedere la verità, Félicité si spinse fino al punto di cercar di addottrinare l'altro suo figlio, Pascal. Il medico, col distacco dello studioso immerso nelle sue ricerche, si occupava pochissimo di politica. Mentre faceva un'esperienza scientifica, gli imperi avrebbero potuto andare in rovina senza che egli si degnasse di voltarsi a guardare. Tuttavia aveva finito col cedere, alle insistenze di sua madre, la quale più che mai lo accusava di fare una vita da lupo mannaro.

«Se tu frequentassi il bel mondo», gli diceva, «avresti dei clienti nell'alta società. Almeno vieni a passare le serate nel nostro salotto. Farai la conoscenza dei signori Roudier, Granoux, Sicardot, tutte persone ammodo che ti pagheranno le visite quattro o cinque franchi. I poveri non ti arricchiranno».

In Félicité l'idea di trionfare, di vedere tutta la sua famiglia arrivare alla ricchezza, era diventata una monomania. Pascal, per non addolorarla troppo, venne dunque a trascorrere qualche serata nel salotto giallo. Si annoiò meno di quanto avesse temuto. La prima volta, rimase stupefatto dal grado d'imbecillità a cui può discendere un uomo ben portante. Gli ex commercianti d'olio e di mandorle, e anche il marchese e il maggiore, gli parvero strani animali che fin allora egli non aveva avuto occasione di studiare. Guardò con l'interesse d'un naturalista le loro maschere facciali, immobili in una smorfia in cui egli riconosceva le loro occupazioni e le loro bramosie. Ascoltò le loro chiacchiere vacue così come avrebbe cercato di indovinare il significato del miagolio d'un gatto o del latrato d'un cane. In quell'epoca egli si occupava molto di storia naturale comparata, per applicare alla stirpe umana le osservazioni che gli era permesso di fare sul modo in cui l'eredità si comporta nelle specie ammali. Quindi, trovandosi nel salotto giallo, si divertì a credere di essere capitato in un giardino zoologico. Stabilì delle somiglianze tra ciascuno di quei buffoni e qualche animale di sua conoscenza. Il marchese gli parve esattamente somigliante a una grande cavalletta verde, con quella magrezza, quella testa piccola e furba. Vuillet gli destò l'impressione livida e viscida di un rospo. Fu più indulgente verso Roudier - un montone grasso - e verso il maggiore - un vecchio mastino sdentato -. Ma l'oggetto del suo continuo stupore era il mostruoso Granoux. Passò un'intera serata a misurare con lo sguardo il suo angolo facciale. Quando lo sentiva balbettare qualche ingiuria sconnessa contro i repubblicani, contro quei bevitori di sangue, si aspettava sempre che dalla sua bocca uscisse il verso lamentoso di un vitello; e non poteva vederlo alzarsi dalla sedia senza immaginare che, per uscire dal salotto, si sarebbe messo a camminare a quattro zampe.

«Conversa con loro, dunque», gli diceva a bassa voce sua madre, «cerca di fartene dei clienti».

«Io non faccio il veterinario», finì col rispondere Pascal, non potendone più.

Una sera Félicité lo prese con sé in un angolo e cercò di catechizzarlo. Era contenta di vederlo venire in casa sua con una certa assiduità. Lo credeva inserito nella buona società, non potendo supporre neppure per un istante il singolare divertimento che egli provava a ridicolizzare, dentro di sé, delle persone ricche, Nutriva in segreto il progetto di farlo diventare, a Plassans, il medico alla moda. Sarebbe bastato che uomini come Granoux e Roudier accettassero di «lanciarlo». Innanzi tutto, Félicité voleva istillargli le idee politiche della famiglia, comprendendo che un medico aveva tutto da guadagnare se fosse divenuto uno zelante fautore del regime che doveva subentrare alla Repubblica.

«Mio caro», gli disse, «dal momento che, una buona volta, sei diventato ragionevole, bisogna che tu pensi all'avvenire... Ti accusano di essere repubblicano perché sei talmente semplicione da curare tutti i pezzenti della città senza farti pagare. Sii sincero, quali sono le tue vere idee?».

Pascal guardò sua madre con un ingenuo stupore. Poi, sorridendo:

«Le mie vere idee?», disse; «io non ne so molto... Mi accusano di essere repubblicano, dite? Ebbene, non me ne sento per nulla offeso. Lo sono senza dubbio, se per repubblicano si intende un uomo che desidera la felicità di tutti».

«Ma tu non otterrai niente!», lo interruppe Félicité con impazienza. «Ti mangeranno vivo. Guarda i tuoi fratelli: cercano di fare strada».

Pascal capì che non era tenuto a difendere il proprio distacco di scienziato. Sua madre lo accusava, semplicemente, di non speculare sulla situazione politica. Egli si mise a ridere di un sorriso un po' triste, e deviò altrove l'argomento della conversazione. Félicité non riuscì mai a indurlo a fare i suoi calcoli sulle possibilità di successo dei partiti, né ad aderire al partito che sembrava destinato alla vittoria. Tuttavia egli continuò, ogni tanto, a venire a trascorrere una serata nel salotto giallo. Granoux lo interessava come un animale antidiluviano.

Intanto le cose procedevano. Il 1851 fu, per i politicanti di Plassans, un anno di ansia e di timori, da cui i maneggi segreti dei Rougon trassero profitto. Da Parigi arrivavano le notizie più contraddittorie: ora i repubblicani avevano la meglio, ora il partito conservatore schiacciava la Repubblica. L'eco dei contrasti che dilaniavano l'Assemblea legislativa giungeva fino in fondo alla provincia, rafforzata un giorno, indebolita il giorno dopo, talmente mutevole che anche i più chiaroveggenti camminavano alla cieca. La sola sensazione diffusa era quella dell'avvicinarsi di una crisi risolutiva. E il non sapere quale esito avrebbe avuto tale crisi manteneva in uno stato d'inquietudine e di sbigottimento quella massa di pavidi borghesi. Tutti si auguravano di esserne fuori una buona volta. Erano malati d'incertezza, e si sarebbero gettati nelle braccia del Gran Turco, se il Gran Turco si fosse degnato di salvare la Francia dall'anarchia.

Il sorriso del marchese diventava più pungente. La sera, nel salotto giallo, quando il terrore che invadeva Granoux rendeva incomprensibili i suoi borbottii, il marchese si accostava a Félicité e le diceva in un orecchio:

«Suvvia, piccina, il frutto è maturo... Ma bisogna che vi rendiate utile».

Spesso Félicité, che continuava a leggere le lettere di Eugène, e che sapeva che una crisi decisiva poteva aver luogo da un giorno all'altro, aveva capito questa necessità: rendersi utile; e si era chiesta in che modo i Rougon avrebbero potuto darsi da fare. Finì per domandarlo al marchese.

«Tutto dipende dagli eventi», rispose il vecchietto. «Se il dipartimento resta calmo, se nessuna insurrezione getterà Plassans nel terrore, vi sarà difficile mettervi in vista e rendere dei servizi al nuovo regime. In questo caso vi consiglio di rimanere appartati e di aspettare in santa pace i vantaggi che vi procurerà vostro figlio Eugène. Ma se il popolo si solleva e i nostri bravi borghesi si sentono minacciati, avrete davvero una bella parte da recitare... Tuo marito è un po' tardo...».

«Oh», disse Félicité, «ci penserò io a renderlo agile... Credete che il dipartimento si solleverà?».

«Certamente, a mio avviso. Plassans, forse, non si muoverà; la reazione qui ha già ottenuto un successo decisivo. Ma le città vicine, i villaggi e le campagne soprattutto, sono da gran tempo sotto l'influsso delle società segrete e aderiscono all'ala estremista del partito repubblicano. Lasciate che accada un colpo di Stato, e si sentiranno suonare le campane a martello in tutta la zona, dalle foreste della Seille fino all'altopiano di Sainte-Roure».

Félicité rimase assorta.

«Cosicché», riprese, «voi pensate che un'insurrezione è necessaria per assicurare la nostra fortuna?».

«È quello che penso», rispose Carnavant. E, con un sorriso leggermente ironico, aggiunse:

«Non si fonda una nuova dinastia che in mezzo a tumulti. Il sangue è un buon concime. Sarà una bella cosa se i Rougon, come certe famiglie illustri, potranno datare l'inizio della loro fortuna da un massacro».

Queste parole, accompagnate da un sogghigno, fecero correre a Félicité un brivido di freddo nella schiena. Ma essa era una calcolatrice, e la vista dei bei tendaggi di Peirotte, che guardava estatica ogni mattina, alimentava il suo coraggio. Quando avvertiva un momento di debolezza, si metteva alla finestra e contemplava la casa del ricevitore. Erano le sue Tuileries. Era decisa alle azioni più violente pur di entrare nella città nuova, in quella terra promessa in vista della quale essa ardeva di desiderio da tanti anni.

La conversazione che aveva avuto col marchese dette l'ultimo ritocco alla sua chiara consapevolezza della situazione. Pochi giorni dopo, potè leggere una lettera di Eugène nella quale il coadiutore del colpo di Stato faceva capire anche lui che contava su un'insurrezione per conferire una certa importanza a suo padre. Eugène conosceva il suo dipartimento. Tutti i suoi consigli avevano sempre mirato a fare acquistare il massimo prestigio possibile ai reazionari del salotto giallo, in modo che i Rougon potessero tenere in pugno la città nel momento critico. Ciò che egli si era augurato era divenuto realtà: nel novembre del 1851 il salotto giallo dominava a Plassans. Roudier vi rappresentava l'alta borghesia; il suo atteggiamento sarebbe stato seguito, senza alcun dubbio, da tutta la città nuova. Granoux era ancora più prezioso: aveva dietro di sé il consiglio comunale, del quale era il membro più influente (ciò fa capire che cosa valevano gli altri). Infine, grazie al maggiore Sicardot, che il marchese era riuscito a far nominare comandante della Guardia nazionale, il salotto giallo disponeva delle forze armate. I Rougon, questi poveri diavoli di dubbia reputazione, erano dunque riusciti a raggruppare attorno a sé gli strumenti della loro fortuna. Ciascuno, per viltà o per stupidaggine, doveva obbedir loro e lavorare ciecamente alla loro ascesa. Essi non avevano da temere nient'altro che gli altri gruppi che avrebbero potuto agire nella loro stessa direzione, e sottrarre in parte ai loro sforzi il merito della vittoria. Era quella la loro grande paura, poiché volevano recitare da soli la parte di salvatori. Quanto al clero e alla nobiltà, sapevano in anticipo che ne avrebbero ricevuto piuttosto un appoggio che un ostacolo. Ma se il sottoprefetto, il sindaco e gli altri funzionari si fossero fatti avanti e avessero soffocato immediatamente l'insurrezione, i Rougon si sarebbero trovati in seconda linea, forse addirittura impediti di agire; non avrebbero avuto né il tempo né il modo di «rendersi utili». Ciò che essi speravano ardentemente, era il mancato intervento, il panico generale dei funzionari. Se ogni amministrazione legale si fosse dileguata, ed essi fossero stati anche per un giorno solo i padroni del destino di Plassans, la loro fortuna era saldamente assicurata. Per loro fortuna, non c'era nell'amministrazione un uomo sufficientemente energico o sufficientemente disperato per rischiare la partita. Il sottoprefetto era uno spirito liberale che il potere esecutivo aveva lasciato a Plassans senza preoccuparsene, certamente perché la città era considerata un centro di bempensanti; di carattere timido, incapace di compiere abusi di potere, si sarebbe trovato in grande imbarazzo dinanzi a un'insurrezione. I Rougon, che lo sapevano favorevole alla causa democratica, e che, di conseguenza, non temevano un suo eccesso di zelo nel reprimerla, si chiedevano solo con curiosità quale atteggiamento avrebbe preso. La municipalità, anch'essa, non suscitava in loro pressoché nessun timore. Il sindaco, Garçonnet, era un legittimista che il quartiere di San Marco era riuscito a far nominare nel 1849; detestava i repubblicani e li trattava con molto disprezzo; ma era legato da un'amicizia troppo stretta con alcuni membri del clero per dare un appoggio attivo ad un colpo di Stato bonapartista. Gli altri funzionari si trovavano nella stessa situazione. I giudici di pace, il direttore delle Poste, l'esattore, e così pure il ricevitore particolare Peirotte, erano debitori delle loro cariche alla reazione clericale: non potevano accettare l'Impero con grandi slanci di entusiasmo. I Rougon, senza ancora avere una chiara idea del modo di sbarazzarsi di quella gente e di far piazza pulita per mettersi in vista essi soli, si lasciavano andare tuttavia a grandi speranze, poiché non vedevano alcuno che potesse rivaleggiare con loro nella parte di salvatori.

La soluzione della crisi si avvicinava. Verso gli ultimi di novembre, siccome correvano voci di un prossimo colpo di Stato e il principe presidente veniva accusato di aspirare a farsi nominare imperatore, Granoux aveva esclamato:

«Eh, lo nomineremo quel che vorrà, purché faccia fucilare quelle canaglie di repubblicani!».

Questa esclamazione di Granoux, che sembrava mezzo addormentato come al solito, suscitò grande emozione. Il marchese finse di non aver sentito; ma tutti i borghesi approvarono con cenni del capo l'ex commerciante di mandorle. Roudier, che, essendo ricco, non temé di applaudire apertamente, dichiarò addirittura, guardando il marchese con la coda dell'occhio, che la situazione non poteva più trascinarsi così, e che la Francia doveva essere messa a posto al più presto, poco importava da quale mano.

Il marchese rimase ancora in silenzio; ciò fu considerato come un arrendersi alla realtà. Allora la cricca dei conservatori, abbandonando al suo destino il legittimismo, osò dichiararsi per l'Impero.

«Amici miei», disse il maggiore Sicardot alzandosi in piedi, «oggi soltanto un Napoleone può proteggere le persone e le proprietà minacciate... Non abbiate timore, io ho preso le precauzioni necessarie perché l'ordine regni a Plassans».

In effetti il maggiore, d'accordo con Rougon, aveva nascosto in una specie di scuderia, vicino ai bastioni, una provvista di cartucce e un considerevole numero di fucili; nello stesso tempo, si era assicurato la cooperazione delle guardie nazionali, sulle quali riteneva di poter contare. Le sue parole produssero un'impressione favorevolissima. Quella sera, accomiatandosi, i piccoli borghesi del salotto giallo si dichiaravano decisi a massacrare «i rossi», se appena si arrischiavano a muoversi.

Il primo dicembre, Pierre Rougon ricevette una lettera di Eugène che, secondo la sua prudente abitudine, andò a leggere nella camera da letto. Félicité si accorse che, nell'uscire dalla camera, egli era molto agitato. Per tutto il giorno essa si aggirò attorno alla scrivania. Venuta la notte, non fu più capace di aspettare. Appena suo marito si fu addormentato, lei si alzò pian piano, prese dalla tasca del gilè la chiave della scrivania e afferrò la lettera, facendo il meno rumore possibile. Eugène, in dieci righe di scrittura, avvertiva suo padre che la crisi stava per esplodere e lo consigliava di mettere sua madre al corrente della situazione. Era venuto il momento di informarla; egli poteva aver bisogno dei suoi consigli.

Il giorno dopo, Félicité aspettò da Pierre una confidenza che non venne. Non osò confessare la sua curiosità, continuò a fingere di non saper nulla, pur piena di rabbia per la stolta diffidenza di suo marito, che certamente la giudicava chiacchierona e leggera come le altre donne. Pierre, con quell'orgoglio che suscita in ogni marito la convinzione della propria superiorità di fronte alla moglie, aveva finito per attribuire a Félicité tutte le sfortune del passato. Da quando era persuaso di dirigere da solo le loro faccende, gli sembrava che tutto andasse secondo i loro desideri. Aveva perciò deciso di prescindere del tutto dai consigli di sua moglie e di non confidarle nulla, nonostante le raccomandazioni di suo figlio.

Félicité si sentì offesa, tanto che avrebbe messo i bastoni nelle ruote di tutta la faccenda, se non avesse desiderato la vittoria con altrettanto ardore di Pierre. Continuò a darsi da fare per il successo, ma cercava qualche maniera di vendicarsi.

«Ah, se gli accadesse di prendersi una bella paura», pensava, «Se commettesse una grossa bestialità!... Lo vedrei venire a chiedermi umilmente consiglio, detterei legge a mia volta».

Ciò che la preoccupava, era l'atteggiamento da padrone onnipotente che Pierre inevitabilmente avrebbe preso, se avesse vinto senza il suo aiuto. Quando aveva sposato quel figlio di contadino, preferendolo a qualche apprendista notaio, si era proposta di servirsene come di un burattino solidamente costruito, di cui lei avrebbe tirato i fili a suo piacimento. Ed ecco che, giunto il giorno decisivo, il burattino, nella sua cieca ottusità, voleva muoversi da solo! Tutta l'astuzia, tutta l'attività febbrile di quell'anzianotta si ribellavano. Sapeva che Pierre era perfettamente capace di una decisione brutale, come quella che aveva preso facendo firmare a sua madre la ricevuta dei cinquantamila franchi; lo strumento era adatto, senza scrupoli; ma essa sentiva il bisogno di dirigerlo, soprattutto nelle attuali circostanze, che richiedevano molta agilità di mente.

La notizia ufficiale del colpo di Stato arrivò a Plassans soltanto nel pomeriggio del 3 dicembre, un giovedì. Fin dalle sette di sera, nel salotto giallo la riunione era al completo. Sebbene la crisi fosse stata desiderata ardentemente, una vaga inquietudine si dipingeva su quasi tutte le facce. Si commentarono gli eventi, con chiacchiere interminabili. Pierre, un po' pallido come gli altri, credette, per un eccesso di prudenza, di dover giustificare l'azione decisiva del principe Luigi dinanzi ai legittimisti e agli orleanisti presenti.

«Si sente parlare di un appello al popolo», disse; «la nazione sarà libera di scegliere la forma di governo che preferirà... Il presidente è un uomo talmente leale che potrebbe anche ritirarsi e cedere il trono ai nostri padroni legittimi».

Soltanto il marchese, che manteneva tutto il proprio sangue freddo di gentiluomo, accolse queste parole con un sorriso. Gli altri, nella febbre del momento che incalzava, se ne infischiavano di ciò che sarebbe accaduto in seguito! Tutte le divergenze d'opinione si dileguavano. Roudier, dimenticando la propria tenerezza di vecchio fornitore degli Orléans, interruppe Pierre con un piglio brusco. Tutti gridarono:

«Non stiamo a questionare. Pensiamo a mantenere l'ordine».

Quei bravi signori avevano un'orribile paura dei repubblicani. Eppure la città aveva provato solo una leggera emozione all'annuncio degli eventi di Parigi. C'erano stati degli assembramenti dinanzi ai manifesti affissi alla porta della sottoprefettura; correva voce, anche, che alcune centinaia di operai si erano messi in sciopero e cercavano di organizzare la resistenza. Questo era tutto. Non sembrava che dovesse esplodere nessun moto rivoluzionario grave. Motivo di ben maggiore inquietudine era la posizione che avrebbero preso le città e le campagne vicine; ma ancora non si sapeva in che modo avevano accolto il colpo di Stato.

Verso le nove, arrivò Granoux, trafelato: usciva da una seduta del consiglio comunale, convocato d'urgenza. Con voce soffocata dall'emozione, disse che il sindaco, Garçonnet, pur facendo le sue riserve, si era dichiarato deciso a mantenere l'ordine coi mezzi più energici. Ma la notizia che suscitò più commenti nel salotto giallo fu quella delle dimissioni del sottoprefetto; questo funzionario si era assolutamente rifiutato di comunicare agli abitanti di Plassans i dispacci del ministro dell'Interno; egli aveva da poco lasciato la città, diceva Granoux, e i manifesti erano stati affissi per ordine del sindaco. Si trattò forse dell'unico sottoprefetto, in tutta la Francia, che ebbe il coraggio delle proprie opinioni democratiche.

Se il fermo atteggiamento di Garçonnet preoccupò segretamente i Rougon, essi fecero grasse risate sulla fuga del sottoprefetto, che lasciava loro libero il posto. Fu stabilito, in quella memorabile serata, che il gruppo del salotto giallo accettava il colpo di Stato e si dichiarava apertamente in favore del fatto compiuto. Vuillet ebbe l'incarico di scrivere immediatamente un articolo in questo senso, che sarebbe uscito il giorno dopo nella «Gazette». Né lui né il marchese fecero alcuna obiezione. Essi avevano certamente ricevuto istruzioni da quei misteriosi personaggi ai quali alludevano talvolta con tono reverente. E clero e la nobiltà si rassegnavano già a dare man forte ai vincitori per schiacciare la nemica di tutti, la Repubblica.

Quella sera, mentre il salotto prendeva queste decisioni, Aristide fu còlto da sudori freddi. Giammai un giocatore che abbia rischiato su una carta il suo ultimo luigi ha provato un'angoscia simile. Durante la giornata, le dimissioni del suo capo lo fecero riflettere molto. Lo sentì ripetere più volte che il colpo di Stato sarebbe fallito. Quel funzionario, onesto ma limitato, credeva al trionfo definitivo della democrazia, senza avere, però, il coraggio di lavorare, resistendo, per tale trionfo. Aristide soleva origliare alle porte della sottoprefettura, per avere informazioni precise: si accorgeva di camminare alla cieca, e si aggrappava alle notizie che ascoltava di soppiatto nell'ufficio. L'opinione del sottoprefetto lo colpì; ma rimase molto perplesso. Pensava: «Perché se ne va, se è sicuro del fallimento del principe presidente?». Tuttavia, costretto a prender partito, si risolse a continuare l'opposizione. Scrisse un articolo ostilissimo al colpo di Stato, che portò la sera stessa all'«Indépendant», per il numero della mattina dopo. Aveva corretto le bozze di quell'articolo e rincasava, quasi tranquillizzato, quando, passando per rue de la Banne, alzò istintivamente la testa e guardò le finestre dei Rougon. Le finestre erano illuminate a giorno.

«Che cosa complotteranno lassù?», si chiese il giornalista con una curiosità inquieta.

Gli venne una voglia matta di sapere l'opinione del salotto giallo sugli ultimi eventi. Attribuiva a quel gruppo reazionario un livello intellettuale mediocre; ma i suoi dubbi si ridestavano: si trovava in uno di quei momenti in cui si chiederebbe consiglio anche a un bambino di quattro anni. Non poteva pensare ad entrare nella casa paterna in quel momento, dopo la campagna di stampa che aveva fatto contro Granoux e gli altri. Tuttavia cominciò a salire le scale, pur pensando alla strana figura che avrebbe fatto se lo avessero sorpreso là. Arrivato alla porta di casa dei Rougon, non riuscì a sentire nient'altro che un rumore confuso di voci.

«Sono un bambino», disse a se stesso; «la paura mi rimbecillisce».

E si apprestava a ridiscendere, quando udì sua madre che accompagnava qualcuno alla porta. Ebbe appena il tempo di ficcarsi in un àndito buio, formato da una piccola scala che conduceva al solaio della casa. La porta si aprì, comparve il marchese, seguito da Félicité. Il marchese, di solito, se ne andava prima dei redditieri della città nuova, certamente per non esser costretto a stringer loro la mano in mezzo alla strada.

«Eh, piccina», disse il marchese sul pianerottolo, a bassa voce, «questi signori sono ancora più vili di quanto avrei creduto. Con gente simile, la Francia apparterrà sempre a chi avrà il coraggio di prendersela».

E aggiunse con amarezza, come parlando a se stesso:

«Non c'è che fare, la monarchia è diventata troppo onesta per i tempi che corrono. La sua èra è finita».

«Eugène aveva preannunziato a suo padre la crisi», disse Félicité. «Il trionfo del principe Luigi gli sembrava sicuro».

«Oh, potete andare avanti senza paura», rispose il marchese discendendo i primi scalini. «Entro due o tre giorni, la Francia sarà incatenata mani e piedi. A domani, piccina».

Félicité richiuse la porta. Aristide, nel suo buio nascondiglio, aveva avuto una folgorazione improvvisa. Senza aspettare che il marchese raggiungesse la strada, discese a quattro a quattro gli scalini e si slanciò fuori come un pazzo; poi si mise a correre verso la tipografia dell'«Indépendant». Un accavallarsi di pensieri gli sconvolgeva la testa. Era furente, accusava la sua famiglia di averlo imbrogliato. Come! Eugène teneva i genitori al corrente della situazione, e sua madre non gli aveva fatto leggere neppure una volta le lettere del suo fratello maggiore, del quale egli avrebbe seguito ciecamente i consigli! E soltanto adesso veniva a sapere per caso che il fratello maggiore considerava sicuro il successo del colpo di Stato! Questa, del resto, era la conferma di certi suoi presentimenti a cui quell'imbecille del sottoprefetto gli aveva impedito di dare ascolto. Soprattutto egli era esasperato contro suo padre, che egli aveva creduto tanto stupido da essere legittimista, e che al momento buono si rivelava bonapartista.

«Me ne hanno lasciato commettere davvero un bel po', di sciocchezze», borbottava continuando a correre. «Eccomi conciato per le feste, adesso. Ah, che lezione! Granoux è più bravo di me».

Entrò nell'ufficio dell'«Indépendant» facendo un fracasso del diavolo, chiese con voce strozzata che gli ridessero il suo articolo. L'articolo era già impaginato. Fece slegare il piombo, e non si calmò prima di avere scomposto l'articolo con le sue mani, mettendo furiosamente sottosopra i caratteri di stampa come se fossero pedine di un gioco di domino. Il libraio che dirigeva il giornale lo lasciò fare con uno sguardo stupefatto. In fondo, era lieto per questo voltafaccia, poiché l'articolo gli era sembrato pericoloso. Ma gli occorreva a tutti i costi un altro articolo al posto del primo, se voleva che l'«Indépendant» uscisse.

«Mi darete qualcos'altro?», chiese.

«Certamente», rispose Aristide.

Si sedette a un tavolo e incominciò a scrivere un ardentissimo panegirico del colpo di Stato. Fin dalla prima riga, giurava che il principe Luigi aveva salvato la Repubblica. Ma non era ancora arrivato a scrivere una pagina, quando si fermò e sembrò incerto su come proseguire. Il suo muso di faina assunse un'aria inquieta.

«Bisogna che ritorni a casa mia», finì col dire. «Vi manderò questa roba al più presto. Farete uscire il giornale con un po' di ritardo, se sarà necessario».

Camminando verso casa, procedette a passi lenti, con la mente smarrita. L'indecisione lo riafferrava. Perché allinearsi così alla svelta? Eugène era un tipo intelligente, ma forse sua madre aveva esagerato l'importanza di una semplice frase della sua lettera. In ogni caso, meglio aspettare e stare zitti.

Un'ora dopo, Angèle arrivò dal libraio, fingendosi fortemente emozionata.

«Mio marito ha avuto una ferita che lo fa soffrire molto», disse. «Rientrando in casa, è rimasto con quattro dita schiacciate nella porta. Fra i dolori più atroci, mi ha dettato questo trafiletto che vi prega di pubblicare domani».

L'indomani, l'«Indépendant» conteneva quasi esclusivamente fatti di cronaca e recava queste poche righe in testa alla prima colonna:

«Uno spiacevole incidente di cui è stato vittima il nostro eminente collaboratore Aristide Rougon ci priverà dei suoi articoli per qualche tempo. Questo silenzio forzato lo addolora molto, nelle gravi circostanze attuali. Ma nessuno dei nostri lettori dubiterà del suo vivo desiderio di felicità per la Francia, ispiratogli dai suoi sentimenti patriottici».

Questo articoletto enigmatico era stato ponderato con cura. L'ultima frase poteva essere intesa come favorevole a qualsiasi partito. In questo modo, dopo la vittoria di chicchessia, Aristide si garantiva uno splendido ritorno alla collaborazione giornalistica con un panegirico dei vincitori. Il giorno dopo, egli si fece vedere dappertutto in città, con un braccio al collo. Sua madre accorse, molto spaventata dal trafiletto del giornale; Aristide si rifìutò di farle vedere la mano e le parlò con un'amarezza che fu ben capita dalla vecchietta.

«Non è niente», gli disse accomiatandosi, rassicurata e leggermente canzonatoria. «Tu hai soltanto bisogno di riposo».

Si dovette certo a questo presunto incidente e alla partenza del sottoprefetto, se l'«Indépendant» non subì alcuna misura persecutoria, a differenza della maggior parte dei giornali democratici dei vari dipartimenti.

La giornata del 4 dicembre trascorse a Plassans in una relativa calma. La sera vi fu una manifestazione popolare, che la comparsa dei gendarmi bastò a disperdere. Un gruppo di operai andò da Garçonnet a chiedere che venissero resi noti i dispacci venuti da Parigi; Garçonnet rifiutò con tono di sufficienza. Andandosene, gli operai lanciarono grida di «Viva la Repubblica!», «Viva la Costituzione!». Poi, tutto rientrò nell'ordine. Il salotto giallo, dopo aver fatto lunghi commenti su quell'innocua passeggiata, dichiarò che le cose andavano per il meglio.

Ma le giornate del 5 e del 6 furono più preoccupanti. Si ebbe notizia che le piccole città vicine, l'una dopo l'altra, erano insorte; tutta la parte sud del dipartimento prendeva le armi; la Palud e Saint-Martin-de-Vaulx si erano sollevate per prime, trascinando al loro seguito i villaggi: Chavanoz, Nazères, Poujols, Valqueyras, Vernoux. Allora il salotto giallo incominciò a essere davvero preso dal panico. La cosa preoccupante era soprattutto che Plassans si trovava isolata proprio in mezzo alla rivolta. Bande d'insorti, senza dubbio, battevano la campagna e avrebbero interrotto tutte le comunicazioni. Granoux ripeteva, con aria sbigottita, che il sindaco era privo di notizie. Alcuni cominciavano a dire che il sangue scorreva a Marsiglia e che una formidabile rivoluzione era scoppiata a Parigi. Il maggiore Sicardot, su tutte le furie per la vigliaccheria dei borghesi, andava dicendo che sarebbe morto alla testa dei suoi uomini.

Il giorno 7, domenica, il terrore raggiunse il colmo. Fin dalle sei di sera, il salotto giallo, in cui sedeva in permanenza una specie di comitato reazionario, fu pieno di una folla di bempensanti pallidi e rabbrividiti, che parlavano tra loro, a bassa voce, come nella camera d'un morto. In giornata si era saputo che una colonna d'insorti, forte di circa tremila uomini, si trovava riunita ad Alboise, un villaggio distante tre leghe al massimo. Si diceva, per la verità, che quella colonna si sarebbe diretta verso il capoluogo, lasciando Plassans alla sua sinistra; ma il piano di operazioni poteva subire dei mutamenti e, del resto, ai ricchi pusillanimi bastava sapere che gli insorti erano a qualche chilometro di distanza, per vedersi già stretti alla gola da mani forti e rozze di operai. La mattina essi avevano avuto un primo assaggio della rivolta: i pochi repubblicani di Plassans, vedendo che non avrebbero potuto tentare nulla di serio in città, avevano deciso di andare a raggiungere i loro fratelli della Palud e di Saint-Martin-de-Vaulx; un primo gruppo era partito verso le undici dalla Porta di Roma, cantando la Marsigliese e fracassando qualche vetro. Una delle finestre di Granoux era stata danneggiata. Egli raccontava il fatto con balbettii di terrore.

Il salotto giallo era agitato da una viva ansietà. Il maggiore aveva mandato il suo servitore per avere informazioni sul percorso esatto degli insorti, e si aspettava il ritorno di quest'uomo facendo le ipotesi più disparate. La riunione era al completo. Roudier e Granoux, sprofondati nelle loro poltrone, si scambiavano sguardi terrorizzati, mentre, dietro a loro, piagnucolava sbigottito il gruppo dei commercianti in ritiro. Vuillet, senza mostrarsi troppo abbattuto, rifletteva sulle disposizioni che avrebbe potuto prendere per proteggere la sua bottega e la sua persona; si chiedeva se nascondersi nel solaio o in cantina, e propendeva per la cantina. Pierre e il maggiore camminavano in su e in giù, scambiandosi qualche parola ogni tanto. L'ex mercante d'olio si teneva stretto al suo amico Sicardot, per prendere da lui a prestito un po' di coraggio. Lui che aspettava la crisi da tanto tempo, cercava di far buona figura, malgrado l'emozione che lo serrava alla gola. Quanto al marchese, più arzillo e più sorridente del solito, chiacchierava in un angolo con Félicité, che sembrava molto allegra.

Alla fine, si sentì sonare il campanello. Quei signori trasalirono come se avessero sentito una fucilata. Mentre Félicité andava ad aprire, un silenzio di morte regnò nel salotto; i volti, pallidi e ansiosi, erano tesi verso la porta. Il domestico del maggiore comparve sulla soglia, tutto trafelato, e disse senza indugio al suo padrone:

«Signore, entro un'ora gli insorti saranno qui».

Fu un colpo di fulmine. Tutti si alzarono in piedi gridando; alcuni tesero le braccia supplichevoli verso il soffitto. Per parecchi minuti fu impossibile capirsi a vicenda. Il messaggero era circondato da ogni parte, incalzato da domande.

«Perdìo!», gridò infine il maggiore, «basta con questi strilli. Calma, o io non sono più responsabile di niente!».

Tutti ricaddero a sedere, emettendo profondi sospiri. Si riuscì allora a sapere qualche notizia più precisa. Il messaggero aveva incontrato la colonna alle Tulettes, e si era affrettato a ritornare sui propri passi.

«Sono almeno tremila», disse. «Marciano come soldati, raggruppati in battaglioni. Mi è sembrato di vedere in mezzo a loro dei prigionieri».

«Dei prigionieri!», gridarono i borghesi atterriti.

«Senza dubbio!», interruppe con la sua voce flautata il marchese. «Mi è stato detto che gli insorti avrebbero arrestato le persone note per le loro idee conservatrici».

Questa notizia portò al colmo la costernazione nel salotto giallo. Alcuni borghesi si alzarono e raggiunsero furtivamente la porta, pensando che non rimaneva loro troppo tempo per trovare un nascondiglio sicuro.

L'annunzio riguardante gli arresti eseguiti dai repubblicani sembrò che impressionasse Félicité. Essa prese a parte il marchese e gli domandò:

«Ma che cosa ne fanno, costoro, delle persone che arrestano?».

«Mah, li conducono con sé», rispose Carnavant. «Credo che li considerino come eccellenti ostaggi».

«Ah!», disse Félicité con un tono strano.

Essa si rimise a osservare con uno sguardo pensieroso la grottesca scena di panico che si svolgeva nel salotto. A poco a poco, i borghesi si eclissarono; ben presto, tra essi, rimasero soltanto Vuillet e Roudier, ai quali l'approssimarsi del pericolo ridava un po' di coraggio. Quanto a Granoux, rimase anche lui nel suo angolo, perché le gambe non lo reggevano in piedi.

«In fede mia, meglio così!», disse Sicardot notando la fuga degli altri. «Quei vigliacchi finivano col ridurmi all'esasperazione. Da più di due anni van gridando che vogliono fucilare tutti i repubblicani della zona, e oggi non oserebbero nemmeno far loro scoppiare sotto il naso un petardo da un soldo».

Prese il cappello e si diresse verso la porta.

«Andiamo», continuò, «il tempo stringe... Venite, Rougon».

Sembrò che Félicité attendesse questo momento. Si gettò tra la porta e suo marito, il quale, del resto, non mostrava troppa fretta di seguire il terribile Sicardot.

«Non voglio che tu esca», gridò, simulando un'improvvisa disperazione. «Non ti permetterò mai di lasciarmi. Quei delinquenti ti ammazzerebbero».

Il maggiore si fermò, stupito.

«Maledizione!», gridò, «se ora le donne si mettono a piagnucolare... Venite, dunque, Rougon!».

«No, no», continuò la donna mostrandosi sempre più in preda al terrore, «lui non vi seguirà; piuttosto lo terrò stretto per il vestito».

E marchese, meravigliatissimo per questa scena, guardava Félicité con curiosità. Era la stessa donna che, poco fa, chiacchierava con tanta allegria? Quale commedia recitava? Intanto Pierre, da quando sua moglie lo teneva stretto, si mostrava deciso ad uscire a qualunque costo.

«Io ti dico che non uscirai», ripeteva la vecchietta, aggrappata ad un suo braccio.

rivolgendosi al maggiore:

«Come potete pensare di resistere? Sono tremila e voi non riuscirete a radunare neanche cento uomini di fegato. Vi farete trucidare inutilmente».

«Eh, è il nostro, dovere!», disse Sicardot impazientito.

Félicité scoppiò in singhiozzi

«Se non me lo ammazzano, lo faranno prigioniero», continuò, guardando fisso suo marito. «Dio mio! Che sarà di me, sola, in una città deserta?».

«Ma», esclamò il maggiore, «credete che non saremo arrestati lo stesso se permetteremo agli insorti di entrare tranquillamente in casa nostra? Scommetterei che in capo a un'ora il sindaco e tutti i funzionari saranno prigionieri, senza contare vostro marito e i frequentatori di questo salotto».

Al marchese sembrò di vedere un lieve sorriso passare sulle labbra di Félicité, mentre essa domandava con tono spaventato:

«Credete?».

«Perdìo!», riprese Sicardot, «i repubblicani non sono così cretini da lasciarsi dietro dei nemici. Domani a Plassans non ci saranno né funzionari né cittadini per bene».

A queste parole, che essa aveva abilmente provocato, Félicité lasciò andare il braccio di suo marito. Pierre non mostrò più di voler uscire. Grazie a sua moglie, la cui tattica astuta gli rimase, tuttavia, nascosta, e nella quale non suppose nemmeno per un istante di avere una complice occulta, egli aveva intravisto tutto un piano di battaglia.

«Bisognerebbe pensarci prima di decidere», disse al maggiore. «Forse mia moglie non ha torto quando ci accusa di dimenticare i veri interessi delle nostre famiglie».

«No, certo, la signora non ha torto», esclamò Granoux, che aveva ascoltato le grida di terrore di Félicité col compiacimento di un vigliacco.

Il maggiore si calcò il cappello sulla testa, con un gesto energico, e disse con tono deciso:

«Torto o ragione, poco importa. Io sono il comandante della Guardia nazionale; dovrei essere già al palazzo del municipio. Confessate che avete paura e che mi lasciate solo... In tal caso, buona sera».

Egli girava la maniglia della porta, quando Rougon lo trattenne con energia.

«Ascoltate, Sicardot», disse.

vedendo che Vuillet tendeva le sue larghe orecchie, lo trascinò in un angolo. Là, a bassa voce, gli spiegò che era buona tattica lasciare dietro gli insorti alcuni uomini energici, capaci di ristabilire l'ordine in città. E siccome il fiero maggiore si ostinava a non voler abbandonare il suo posto di combattimento, Rougon si offri, per mettersi alla testa di un corpo di riserva.

«Datemi», disse, «la chiave del deposito dove ci sono le armi e le munizioni, e fate dire a una cinquantina dei nostri uomini di star fermi fino a quando io li chiamerò».

Sicardot finì per acconsentire a questa prudente decisione. Gli dette la chiave del deposito; comprendeva anche lui che in quel momento la resistenza armata era inutile, ma voleva egualmente pagare di persona.

Durante questa discussione, il marchese mormorò, con un'aria astuta, alcune parole all'orecchio di Félicité. Certamente le faceva i suoi complimenti per quel colpo di scena. La vecchietta non poté trattenere un leggero sorriso. E quando Sicardot strinse la mano a Rougon e fu sul punto di uscire:

«Siete proprio deciso a lasciarci?», gli domandò riprendendo l'atteggiamento sconvolto di poco prima.

«Un vecchio soldato di Napoleone», rispose Sicardot, «non si lascerà mai intimidire dalla plebaglia».

Era già sul pianerottolo, quando Granoux si precipitò verso di lui e gli gridò:

«Se andate al palazzo del municipio, avvertite il sindaco di quello che sta per accadere. Io corro da mia moglie per rassicurarla».

Félicité, a sua volta, si era chinata all' orecchio del marchese, sussurrando con una gioia contenuta:

«In fede mia! Sono contenta che questo diavolo di maggiore vada a farsi arrestare. È troppo zelante».

Frattanto Rougon aveva riaccompagnato Granoux nel salotto. Roudier, che, per parte sua, aveva seguito in silenzio la scena, approvando con energici segni del capo le proposte di tattica prudente, li raggiunse. Quando anche il marchese e Vuillet si furono alzati, Pierre disse:

«Ora che siamo soli, tra persone assennate, vi propongo di nasconderci, per evitare un arresto che sarebbe inevitabile, e per essere liberi quando saremo di nuovo i più forti».

Granoux stava per abbracciarlo; Roudier e Vuillet respirarono meglio.

«Io avrò bisogno di voi tra non molto, signori», continuò l'ex mercante d'olio con aria di importanza. «A noi è riservato l'onore di ristabilire l'ordine a Plassans».

«Contate su di noi», esclamò Vuillet con un entusiasmo che piacque poco a Félicité.

Il tempo stringeva. Quegli strani difensori di Plassans, che si nascondevano per difendere meglio la città, si affrettarono ad andare ciascuno a rifugiarsi in qualche buco. Rimasto solo con la moglie, Pierre le raccomandò di non compiere l'errore di barricarsi in casa, e, se qualcuno veniva a interrogarla, di rispondere che lui era partito per un viaggetto. E siccome lei faceva la finta tonta, simulava una certa paura e gli domandava come sarebbe finita tutta quella faccenda, lui le rispose bruscamente:

«Questo non ti riguarda. Lascia che io conduca da solo i nostri affari. Così tutto andrà meglio».

Qualche minuto dopo, Pierre filava a passi rapidi lungo rue de la Banne. Arrivato al corso Sauvaire, vide sbucare dal quartiere vecchio una banda di operai armati che cantavano la Marsigliese.

«Perbacco!», pensò, «era tempo. Ecco che, ora, la città insorge».

Affrettò il passo, dirigendosi verso la Porta di Roma. Là ebbe dei sudori freddi, per la lentezza con cui il guardiano aprì quella porta. Fatti pochi passi sulla strada, vide al chiaro di luna, dall'altra parte del sobborgo, la colonna degli insorti, i cui fucili mandavano piccoli bagliori bianchi. Si infilò di corsa nel vicolo SaintMittre e arrivò da sua madre, che non era andato a trovare da lunghi anni.