CAPITOLO IV

 

Antoine Macquart era ritornato a Plassans dopo la caduta di Napoleone I. Aveva avuto l'incredibile fortuna di non partecipare a nessuna delle ultime sanguinose campagne dell'Impero. Si era trascinato di retrovia in retrovia, senza che nulla lo distogliesse da una stupida vita di caserma. Tale vita sviluppò fino in fondo i suoi difetti innati. La sua pigrizia divenne una scelta ragionata; la sua abitudine all'ubriachezza, che gli fruttò un numero incalcolabile di punizioni, assunse per lui il valore di una vera e propria religione. Ma ciò che fece soprattutto di lui un pessimo arnese fu il nobile disdegno che egli assunse verso i poveri diavoli che guadagnano la mattina, lavorando, il pane per la sera.

«Ho denaro al mio paese», diceva spesso ai suoi compagni; «quando avrò finito il mio servizio, potrò vivere da borghese».

Questa convinzione e la sua crassa ignoranza gli impedirono di arrivare anche soltanto al grado di caporale.

Da quando se n'era andato, non era venuto a trascorrere un solo giorno di congedo a Plassans: suo fratello inventava mille pretesti per tenerlo lontano. Perciò non sapeva assolutamente nulla dell'abile raggiro grazie al quale Pierre si era impadronito di tutto ciò che possedeva sua madre. Adélaïde, nel profondo stato di abulia in cui viveva, gli scrisse sì e no tre volte, semplicemente per dirgli che stava bene. Il silenzio con cui, per lo più, erano accolte le sue numerose richieste di denaro non gli destò alcun sospetto; la spilorceria di Pierre gli pareva un motivo sufficiente a spiegare con quale difficoltà riusciva a strappare, a lunghi intervalli, una miserabile moneta da venti franchi. Ciò, del resto, non produsse altro effetto che di accrescere il suo rancore verso il fratello, che lo lasciava intristire nel servizio militare, nonostante la sua esplicita promessa di riscattarlo. Giurava a se stesso che, il giorno in cui fosse ritornato a casa, non avrebbe più obbedito come un ragazzetto e avrebbe preteso senza tanti riguardi la sua parte, per vivere a suo modo. Nella diligenza che lo riconduceva a Plassans, sognò una deliziosa vita di fannullone. Il crollo dei suoi castelli in aria fu terribile. Quando arrivò al sobborgo e non riconobbe più il terreno dei Fouque, rimase attonito. Dovette chiedere qual era la nuova residenza di sua madre. Là ebbe luogo una scena spaventosa. Adélaïde lo informò tranquillamente della vendita di tutti i beni. Lui s'infuriò, alzò perfino le mani contro di lei.

La povera donna ripeteva:

«Tuo fratello ha preso tutto; avrà cura di te, questo è l'accordo».

Alla fine egli uscì e corse a casa di Pierre, che era stato informato da lui del suo ritorno e che si era preparato a riceverlo in modo adeguato e a rompere con lui ogni rapporto alla prima parola sgarbata.

«Sentite», gli disse il commerciante d'olio che ci tenne subito a non dargli più del tu, «non mi fate venir la bile, altrimenti vi metto alla porta. Dopo tutto, io non vi conosco. Noi non portiamo lo stesso cognome. Sono stato già abbastanza danneggiato dalla condotta immorale di mia madre; ci mancherebbe altro che i suoi bastardi venissero qui a ingiuriarmi! Io ero ben disposto verso di voi; ma dal momento che siete un insolente, non ne farò di nulla, assolutamente nulla».

Poco mancò che Antoine scoppiasse dalla rabbia.

«E il mio denaro», gridava, «me lo restituirai, ladro che non sei altro, o bisognerà che ti trascini in tribunale?».

Pierre fece una spallucciata.

«Io non ho denaro che vi appartenga», disse, sempre più calmo. «Mia madre ha disposto della propria fortuna come ha voluto. Non sarò io che andrò a mettere il naso nei suoi affari. Io ho rinunziato spontaneamente a ogni speranza di eredità. Le vostre sporche accuse non mi toccano».

E mentre suo fratello, esasperato da quel sangue freddo e non sapendo più che cosa credere, non riusciva ad accozzar due parole di seguito, Pierre gli mise sotto gli occhi la ricevuta che Adélaïde aveva firmato. La lettura di quel foglio finì di accasciare Antoine.

«Va bene», disse con una voce quasi calma, «so quello che mi resta da fare».

La verità era che egli non sapeva che decisione prendere. L'impossibilità di trovare un mezzo per avere subito la sua parte e per vendicarsi aggravava ancor più la sua rabbia febbrile. Ritornò da sua madre, la sottopose a un interrogatorio umiliante. La povera donna non poté far altro che dirgli di ritornare da Pierre.

«Credete dunque», gridò Antoine con tono insolente, «di potermi far fare la spola tra Pierre e voi? Riuscirò pure a sapere chi di voi due ha il gruzzolo. Forse te lo sei già sgranocchiato tu?».

alludendo alla sua vita dissoluta di un tempo, le chiese se aveva per caso qualche mascalzone al quale dava gli ultimi soldi che le rimanevano. Non risparmiò nemmeno suo padre, quell'ubriacone di Macquart, diceva, che certo l'aveva sfruttata fino a quando era morto, e lasciava senza un soldo i propri figli. La, povera donna ascoltava con un'aria ebete. Grosse lacrime le colavano giù per le guance. Si difese impaurita come una bambina, rispondendo alle domande di suo figlio come a quelle d'un giudice, giurando che ora si comportava bene, ripetendo sempre con insistenza che lei non aveva avuto un soldo, che Pierre aveva preso tutto. Antoine finì per crederle.

«Ah, che farabutto!», mormorò; «per questo non mi riscattava dal servizio militare».

Dovette dormire in casa di sua madre, su un pagliericcio buttato in un angolo. Era ritornato con le tasche assolutamente vuote, e quello che lo esasperava era soprattutto di sentirsi del tutto privo di risorse, senza casa né tetto, abbandonato come un cane in mezzo alla strada, mentre suo fratello, diceva lui, faceva la bella vita, mangiava e dormiva tranquillo e beato. Non avendo soldi per comprarsi dei vestiti, usci la mattina dopo coi pantaloni della divisa militare e col kepì. Aveva trovato per caso in fondo ad un armadio una vecchia giacca di velluto giallastro, consunta e rappezzata, che era appartenuta a Macquart. Con questo curioso abbigliamento percorse in lungo e in largo la città, raccontando la sua storia e chiedendo giustizia.

Le persone alle quali andò a chiedere consiglio lo ricevettero con un tono sprezzante che gli fece versare lacrime di rabbia. In provincia non c'è pietà per le famiglie decadute. Secondo l'opinione comune, i Rougon-Macquart rivelavano la loro vera natura divorandosi tra loro; quelli che assistevano a tale spettacolo, invece di metter pace, avrebbero avuto voglia di aizzarli ancor più a sbranarsi. D'altronde, Pierre incominciava a lavarsi dal suo peccato originale. La sua bricconata fece soltanto ridere; qualcuno arrivò fino a dire che, se davvero si era impadronito del denaro, aveva fatto bene, e che questa sarebbe stata una buona lezione per le persone immorali della città.

Antoine rientrò scoraggiato. Un avvocato, dopo essersi accortamente informato se Antoine possedeva la somma necessaria per sostenere un processo, gli aveva consigliato, con smorfie di disgusto, di lavare i panni sporchi in famiglia. Secondo il parere di costui, la questione appariva molto intricata, la controversia giudiziaria sarebbe stata lunghissima, poco probabile un successo. D'altronde, ci voleva denaro, molto denaro.

Quella sera Antoine fu ancora più aspro verso sua madre; non sapendo su chi vendicarsi, riprese le accuse del giorno avanti; tenne sotto accusa la poveretta fino a mezzanotte, tutta tremante di vergogna e di spavento. Poiché Adélaïde gli aveva detto che Pierre le pagava una piccola pensione, Antoine si rese conto con certezza che suo fratello aveva intascato i cinquantamila franchi. Ma, irritato com'era, finse di dubitare ancora, per una raffinatezza di malvagità che gli serviva di sfogo. Non smise di interrogare sua madre con un'aria sospettosa, come se continuasse a credere che era stata lei ad aver divorato i suoi beni in combutta con qualche amante.

«Confessalo, mio padre non è stato il solo», disse infine con grossolanità.

Ricevuto quest'ultimo colpo, essa andò, barcollando, a gettarsi su una vecchia cassapanca, e rimase lì a singhiozzare tutta la notte.

Antoine capì ben presto che non poteva, solo e senza risorse, condurre con successo una lotta contro suo fratello. Dapprima cercò di coinvolgere Adélaïde a proprio favore: un'accusa sostenuta da lei avrebbe avuto per Pierre gravi conseguenze. Ma la povera donna, così fragile e snervata, fin dalle prime parole di Antoine rifiutò nettamente di dar fastidi al suo primogenito.

«Sono una sventurata», balbettava. «Tu hai ragione di arrabbiarti. Ma, vedi, avrei troppi rimorsi se facessi andare in prigione uno dei miei figli. No, preferisco esser picchiata da te».

Antoine comprese che non avrebbe ricavato da lei nient'altro che pianti, e si limitò ad aggiungere che era punita giustamente e che egli non sentiva per lei alcuna pietà. La sera, Adélaïde, scossa dalle continue scenate del figlio, ebbe una di quelle crisi nervose che la facevano rimanere irrigidita, con gli occhi sgranati, come morta. Il giovane la gettò sul letto; poi, senza nemmeno slacciarle le vesti, si mise a frugare in casa, per vedere se la poveretta aveva qualche soldo messo da parte. Trovò una quarantina di franchi. Se ne impadronì, e, mentre sua madre rimaneva li, rigida e senza fiato, andò a prendere tranquillamente la diligenza per Marsiglia.

Aveva pensato che Mouret, quel lavorante cappellaio che aveva sposato sua sorella Ursule, doveva essere sdegnato per la mascalzonata compiuta da Pierre, e avrebbe certamente voluto difendere gli interessi di sua moglie. Ma non trovò l'uomo che credeva di trovare. Mouret gli disse recisamente che si era abituato a considerare Ursule come un'orfanella, e che non voleva, a nessun costo, aver a che fare con la famiglia di lei. I due coniugi godevano di una discreta agiatezza. Antoine, ricevuto con molta freddezza, si affrettò a riprendere la diligenza. Ma, prima di partire, volle vendicarsi del tacito disprezzo che leggeva nello sguardo dell'artigiano; sua sorella gli era sembrata pallida e ammalata, egli ebbe la crudeltà ipocrita di dire al marito, al momento di congedarsi:

«State attento, mia sorella è sempre stata poco bene in salute, l'ho trovata molto peggiorata; potrebbe darsi che la perdeste».

Le lacrime che affiorarono agli occhi di Mouret gli fecero capire che aveva messo il dito su una piaga sanguinante. Quegli operai facevano vedere anche troppo di essere una coppia felice.

Quando Antoine fu ritornato a Plassans, la certezza che aveva ormai le mani legate lo rese ancor più minaccioso. Per un mese buono, non si vide che lui in città. Andava in giro per le strade, raccontando la sua storia a chi era disposto a sentirla. Tutte le volte che riusciva a farsi dare venti soldi da sua madre, andava a berli in qualche osteria, e là gridava a gran voce che suo fratello era una canaglia e che ben presto lui lo avrebbe sistemato a dovere. In simili luoghi, la dolce fraternità che regna fra gli ubriachi gli procurava un uditorio di simpatizzanti; tutti i beoni della città condividevano le sue proteste, erano invettive senza fine contro quel porco di Rougon che lasciava senza pane un valoroso soldato, e di solito la riunione terminava con una condanna generale di tutti i ricchi. Antoine, per un senso di vendetta particolarmente raffinato, continuava ad andare in giro col kepì, coi pantaloni militari e con la vecchia giacca di velluto giallo, sebbene sua madre gli avesse offerto di comprargli dei vestiti più decenti. Egli faceva mostra dei suoi stracci, li ostentava la domenica, nel corso Sauvaire affollato.

Una delle sue gioie più squisite era di passare dieci volte al giorno davanti al magazzino di Pierre. Allargava con le dita i buchi del vestito, rallentava il passo, qualche volta si metteva a chiacchierare davanti alla porta per rimanere in strada più a lungo. In quelle occasioni conduceva con sé qualcuno degli ubriaconi suoi amici, che gli faceva da compare; gli raccontava il furto dei cinquantamila franchi, accompagnando il suo racconto con ingiurie e minacce, ad alta voce, in modo che tutta la strada lo ascoltasse, e che le sue parole grosse arrivassero al loro destinatario, fino in fondo al negozio.

«Finirà per venire a chieder l'elemosina davanti a casa nostra», diceva Félicité esasperata.

La vanitosa donnetta soffriva terribilmente per questo scandalo. Le accadde perfino, in quel periodo, di pentirsi in cuor suo di avere sposato Rougon: era troppo terribile la famiglia di suo marito! Avrebbe dato qualsiasi cosa purché Antoine la smettesse di portare in giro i suoi stracci. Ma Pierre, che andava in bestia per il comportamento di suo fratello, non voleva nemmeno sentir pronunciare il suo nome. Quando sua moglie cercava di fargli capire che forse era meglio levarselo d'attorno dandogli qualche soldo, lui gridava infuriato:

«No, niente, neanche il becco d'un quattrino! Lascia che crepi!».

Tuttavia, anche lui finì per riconoscere che il comportamento di Antoine non si poteva più sopportare. Un giorno, Félicité, decisa a farla finita, fece entrare «quell'uomo», come lo chiamava con una smorfia di disprezzo. «Quell'uomo» stava per gridare che lei era una sgualdrina, lì in mezzo di strada, in compagnia di un suo compare ancor più sporco e cencioso di lui. Tutti e due erano mezzo ubriachi.

«Vieni dunque, ci chiamano di là dentro», disse Antoine al suo amico con un tono di beffa.

Félicité fece un passo indietro e sussurrò:

«Vogliamo parlare a voi solo!».

«Che storie son queste!», rispose Antoine, «il mio compagno è un bravo ragazzo. Può sentire tutto. Mi farà da testimone».

Il testimone si lasciò andare pesantemente su una seggiola. Non si tolse il cappello e si mise a guardare intorno, con quel sorriso ebete degli ubriachi e della gente rozza che si diverte della propria insolenza. Félicité, piena di vergogna, si mise davanti alla porta della bottega, in modo che dal di fuori non si vedesse che razza di gente riceveva. Fu una fortuna che a darle man forte arrivasse suo marito. Una rissa violenta si scatenò tra Pierre e suo fratello. Quest'ultimo, che, con la lingua impastata, durava fatica a pronunciare le sue parole ingiuriose, ripeté più di venti volte le stesse lamentele. Finì addirittura col mettersi a piangere, e poco mancò che, per contagio, il suo compagno non facesse altrettanto. Pierre si era difeso con molta dignità.

«Insomma», finì col dire, «voi siete un disgraziato e io ho pietà di voi. Anche se mi avete ferocemente insultato, non dimentico che siamo figli della stessa madre. Ma sappiate che, se vi do qualcosa, lo faccio per bontà e non per paura... Volete cento franchi per levarvi dagli impicci?».

Questa improvvisa offerta di cento franchi fece colpo sul compagno di Antoine. Egli guardò Antoine con un'aria estasiata che voleva dire chiaramente: «Visto che il borghese offre cento franchi, non è più il caso di trattarlo a parolacce». Ma Antoine era deciso a speculare sulle buone intenzioni di suo fratello. Gli chiese se voleva burlarsi di lui; era la sua parte, diecimila franchi, che lui esigeva.

«Hai torto, hai torto», farfugliava il suo amico.

Alla fine, siccome Pierre, impazientito, minacciava di metterli alla porta tutt'e due, Antoine diminuì le sue pretese e, tutt'a un tratto, chiese soltanto mille franchi. Su questa cifra litigarono ancora per un quarto d'ora buono. Intervenne Félicité. Cominciava a fermarsi parecchia gente davanti alla bottega.

«Ascoltate», disse Félicité con tono risoluto, «mio marito vi darà duecento franchi e io prendo l'impegno di comprarvi un vestito completo e di prendervi in affitto un alloggio per un anno».

Rougon si stizzì. Ma il compagno di Antoine, entusiasta, gridò:

«Affare fatto, il mio amico accetta».

E in effetti Antoine, con un viso arcigno, dichiarò che accettava. Capiva che non avrebbe ottenuto di più. Concordarono che l'indomani gli sarebbero stati mandati i soldi e il vestito, e che entro pochi giorni, appena Félicité gli avesse trovato un alloggio, Antoine sarebbe andato ad abitarvi. Nell'accomiatarsi, il beone che accompagnava Antoine fu altrettanto rispettoso quanto era stato insolente poco prima; salutò tutti più di dieci volte, con un'aria umile e impacciata, balbettando sconnesse parole di ringraziamento, come se i doni dei Rougon fossero destinati a lui.

Una settimana dopo, Antoine era alloggiato in una grande camera del quartiere vecchio, nella quale Félicité - andando al di là delle sue promesse, in cambio dell'esplicito impegno che da allora in poi Antoine li avrebbe lasciati tranquilli - aveva fatto collocare un letto, un tavolo e delle sedie. Adélaïde non provò rimpianti nel vedere che suo figlio se ne andava: il breve soggiorno di Antoine in casa sua l'aveva ridotta a dover vivere di pane ed acqua per i prossimi tre mesi. Antoine fece presto a consumare, bevendo e mangiando, i duecento franchi. Non aveva pensato neanche per un momento a impiegarli in una piccola attività commerciale che avrebbe potuto aiutarlo a tirare avanti. Quando fu di nuovo senza un soldo, senza un mestiere, provando, d'altronde, un'assoluta ripugnanza per ogni lavoro regolare, pensò di attingere ancora alla borsa dei Rougon. Ma le circostanze non erano più le stesse: non riuscì a estorcere nulla da loro. Anzi, Pierre approfittò dell'occasione per metterlo alla porta intimandogli di non metter piede mai più in casa sua. Antoine ricominciò ad accusare in giro il fratello, ma stavolta non ottenne nulla: la città, che conosceva la munificenza di Pierre, della quale Félicité aveva menato vanto dappertutto, gli dette torto e lo considerò un fannullone. Ma intanto la fame lo metteva alle strette. Minacciò di fare il contrabbandiere come suo padre e di commettere qualche colpo di testa che avrebbe disonorato tutta la famiglia. Ma i Rougon non se ne dettero per inteso; sapevano che era troppo pavido per rischiare la pelle. Alla fine, pieno di una sorda collera contro i suoi familiari e contro tutta quanta la società, Antoine si decise a cercare un lavoro.

In una bettola del, sobborgo aveva conosciuto un facitore di canestri che lavorava a domicilio. Gli propose di aiutarlo. In poco tempo imparò a intrecciare canestri e panieri, lavori di cattiva qualità e a basso prezzo, facili a vendersi. Ben presto si mise a lavorare per conto suo. Questo mestiere poco faticoso gli piaceva. Gli rimaneva tempo per stare senza far nulla, e questo era ciò che soprattutto voleva. Si metteva al lavoro quando non ne poteva più fare a meno: intrecciava in fretta una dozzina di canestri e andava a venderli al mercato. Finché i soldi bastavano, bighellonava, frequentava le osterie, faceva la siesta sdraiato all'aria aperta; poi, dopo aver passato un giorno senza aver da mangiare, riprendeva a intrecciar vimini brontolando invettive contro i ricchi, che vivono senza far niente. Il mestiere di canestraio, praticato in quella maniera, rende ben poco; Antoine non sarebbe certo riuscito a pagarsi le sue sbornie se non si fosse arrangiato in modo da procurarsi i vimini a buon mercato. Non ne comprava mai a Plassans; diceva che andava a far provvista una volta al mese in una città vicina, dove, a sentir lui, li vendevano a minor prezzo. La verità era che egli si riforniva nei vincheti in riva alla Viorne, nelle notti senza luna. Una volta una guardia campestre lo sorprese là, e ciò gli costò alcuni giorni di prigione. Fu da allora in poi che egli, in città, cominciò a darsi arie di fiero repubblicano. Diceva che, quando la guardia campestre l'aveva arrestato, egli stava fumando tranquillamente la pipa in riva al torrente. E soggiungeva:

«Vorrebbero sbarazzarsi di me perché conoscono le mie idee politiche. Ma io non li temo, quei ricchi della malora!».

Tuttavia, al termine di un decennio di fannullonaggine, Macquart ebbe l'impressione di lavorar troppo. Il suo sogno costante era di trovare un modo di vivere bene senza far niente. La sua pigrizia non era tale da accontentarsi di pane ed acqua, come quella di certi fannulloni che, pur di rimanere a braccia conserte, accettano di patir la fame. Lui no: voleva buoni pranzi e belle giornate d'ozio. Per un momento ebbe l'idea di entrare come domestico presso qualche nobile del quartiere di San Marco. Ma un palafreniere suo amico lo spaventò raccontandogli tutte le esigenze dei suoi padroni. Macquart, stanco di intrecciare canestri, vedendo arrivare il giorno in cui avrebbe dovuto acquistare i vimini, stava per vendersi come sostituto di qualche arruolato e per riprendere la vita militare, che egli preferiva mille volte al mestiere di artigiano, quando fece la conoscenza d'una donna che produsse un mutamento nei suoi progetti.

Joséphine Gavaudan, che in tutta la città era nota col diminutivo confidenziale di Fine, era un donnone grande e grosso di una trentina d'anni. Il suo viso dai tratti marcati, largo come quello di un uomo, aveva, sul mento e sulle labbra, dei peli radi, ma terribilmente lunghi. Era considerata come una donna energica, capace di fare a pugni se era necessario. Le sue spalle larghe, le sue braccia enormi imponevano un sacro rispetto ai monelli, che non osavano nemmeno sorridere dei suoi baffi. Ciò nonostante, Fine aveva una voce piccola piccola, una voce da bambina, esile e limpida. Chi la conosceva affermava che, malgrado il suo aspetto terribile, era dolce come un agnello. Era dotata di grande coraggio in caso di necessità; avrebbe potuto metter da parte un po' di soldi, se non avesse avuto la passione dei liquori: adorava l'anisetta. Spesso, la domenica sera, bisognava riportarla a casa perché era ubriaca.

Per tutta la settimana lavorava con l'ostinazione di una bestia da soma. Faceva tre o quattro mestieri: vendeva al mercato, a seconda della stagione, frutta o castagne bollite; sbrigava le faccende domestiche di qualche famiglia agiata; andava a lavare i piatti in casa dei borghesi nei giorni di grandi pranzi; gli intervalli di tempo libero, li occupava a rimpagliare le vecchie seggiole. Soprattutto come rimpagliatrice era conosciuta da tutta la città. Nel Mezzogiorno si fa un gran consumo di sedie impagliate, che si usano comunemente.

Antoine Macquart fece amicizia con Fine al mercato. Quando vi si recava a vendere i canestri, d'inverno, per ripararsi dal freddo si metteva accanto al fornello sul quale lei faceva cuocere le castagne. Antoine rimase meravigliato del suo spirito d'iniziativa, lui che si spaventava per il minimo lavoro da fare. A poco a poco, al di sotto dell'apparente rozzezza di quella donna energica, egli scoprì una timidezza, una bontà nascosta. Spesso la vedeva regalare manciate di castagne ai marmocchi cenciosi che si fermavano estatici davanti alla sua pentola fumante. Altre volte, quando l'ispettore del mercato le dava villanamente uno spintone, lei quasi si metteva a piangere: non pareva consapevole di poter reagire coi suoi grossi pugni. Antoine finì col dire a se stesso che quella era la donna che gli ci voleva. Lei avrebbe lavorato per due, lui avrebbe dettato legge in casa. Sarebbe stata la sua bestia da soma, una bestia infaticabile e obbediente. Quanto al suo gusto per i liquori, lo trovava più che naturale. Dopo aver ben ponderato i vantaggi d'una simile unione, le fece una proposta di matrimonio. Fine rimase estasiata. Nessun uomo si era mai fatto avanti per unirsi a lei. Ebbero un bel dirle che Antoine era il peggior mascalzone di questo mondo: lei non si sentì il coraggio di rinunziare al matrimonio, a cui il suo temperamento sanguigno anelava da tanto tempo. La sera stessa delle nozze, Antoine venne ad abitare nell'appartamento di sua moglie, in rue Civadière, vicino al mercato. Quell'appartamento, composto di tre stanze, era ammobiliato in modo molto più confortevole che il suo, e con un sospiro di soddisfazione egli si distese sui due soffici materassi del letto.

Tutto andò bene durante i primi giorni. Fine, come per l'innanzi, attendeva ai suoi molteplici lavori; Antoine, preso da una specie di amor proprio maritale che meravigliò lui stesso, intrecciò in una settimana più canestri di quanto avesse mai fatto in un mese. Ma, la domenica, scoppiò la guerra. C'era in casa una somma abbastanza grossa che i due coniugi intaccarono fortemente. La notte, ubriachi tutti e due, si picchiarono di santa ragione, senza che riuscissero, la mattina dopo, a ricordarsi come era incominciato il litigio. Fin verso le dieci c'era stata grande tenerezza; poi Antoine si era messo a picchiare brutalmente Fine, e Fine, esasperata, dimenticando la propria dolcezza, aveva reagito agli schiaffi di Antoine con altrettanti pugni. L'indomani, lei si rimise al lavoro di buona lena, come se nulla fosse accaduto. Ma suo marito, con un sordo rancore, si alzò tardi e passò il resto del giorno oziando al sole, a fumare la pipa.

Da allora in poi, i Macquart iniziarono il genere di vita che avrebbero poi sempre continuato. Vi fu tra loro come una tacita intesa: la moglie avrebbe sudato sangue per mantenere il marito. Fine, che amava il lavoro per istinto, non protestò. Se non aveva bevuto, aveva una pazienza angelica; trovava del tutto naturale che suo marito stesse in ozio e cercava di risparmiargli anche le minime faccende. Il suo peccatuccio, l'anisetta, la rendeva non cattiva, ma giusta: la sera in cui si era lasciata andare davanti a una bottiglia del suo liquore favorito, se Antoine attaccava briga, si scagliava su di lui menando le mani, gli rimproverava la sua fannullonaggine e la sua ingratitudine. I vicini si erano abituati alle baruffe periodiche che scoppiavano nella camera degli sposi. Si picchiavano di buona lena; la moglie dava busse come quelle di una mamma che castiga il figlio discolo; ma il marito, sleale e rancoroso, calcolava bene i suoi colpi, e, più volte, poco mancò che rendesse storpia la poveraccia.

«Avrai fatto un bel guadagno quando mi avrai fracassato una gamba o un braccio», diceva lei. «Chi ti manterrà, fannullone?».

A parte queste scene violente, Antoine incominciava a trovare sopportabile la sua nuova vita. Era ben vestito, mangiava a sazietà, beveva finché aveva sete. Aveva abbandonato del tutto la lavorazione delle ceste; qualche volta, quando s'annoiava troppo, si proponeva di intrecciare, per il prossimo giorno di mercato, una dozzina di canestri; ma spesso non arrivava a terminare neanche il primo. Sotto un divano conservò un manipolo di vimini che non finì di smaltire in vent'anni.

I Macquart ebbero tre figli: due femmine e un maschio.

Lisa, la primogenita, nata nel 1827, un anno dopo il matrimonio, non rimase in casa per molto tempo. Era una bella ragazzona, sanissima, sanguigna, che somigliava molto a sua madre. Ma da lei non aveva ereditato quell'obbedienza da bestia da soma. Macquart le aveva infuso un bisogno di benessere rimasto insaziato per tanto tempo. Ancora bambina, accettava di lavorare una giornata intera pur di avere un dolce in ricompensa. Non aveva ancora sette anni quando fu presa a ben volere da una vicina, moglie del direttore delle Poste. Costei la assunse come bambinaia. Quando perse il marito, nel 1839, e andò a ritirarsi a Parigi, portò Lisa con sé. I genitori, per così, dire, gliel'avevano regalata.

La seconda figlia, Gervaise, di un anno più piccola, era nata storpia. Concepita nell'ubriachezza, probabilmente in una di quelle notti vergognose in cui i due coniugi si ammazzavano a botte, aveva la coscia destra deviata e assottigliata: strana riproduzione ereditaria del trattamento brutale che sua madre aveva dovuto subire in un'ora di lotta e di ubriacatura folle. Gervaise rimase malaticcia, e Fine, vedendola così pallida e debole, le fece bere regolarmente l'anisetta, col pretesto che aveva bisogno di rinforzarsi. La povera creatura intristì ancor più. Era una ragazza alta e mingherlina. I vestiti, sempre troppo larghi per lei, le ondeggiavano addosso come se sotto ci fosse il vuoto. Al di sopra del corpo emaciato e deforme, aveva una deliziosa testa di bambola, una faccina rotonda e pallida di squisita delicatezza. La sua stessa deformità aveva qualcosa di grazioso; la sua figura si fletteva dolcemente ad ogni passo, in una specie di ondeggiamento cadenzato.

Il figlio di Macquart, Jean, nacque tre anni dopo. Diventò un pezzo di ragazzo che non aveva nulla di simile alla magrezza di Gervaise. Come la figlia primogenita, egli ereditava da sua madre, pur senza somigliarle nell'aspetto. Era, fra tutti i Rougon-Macquart, il primo ad avere un viso dai lineamenti regolari, con la freddezza pingue di un temperamento serio e di mediocre intelligenza. Questo ragazzo crebbe con la tenace volontà di crearsi un giorno una posizione indipendente. Frequentò assiduamente la scuola e si ruppe la testa, che aveva assai dura, per farvi entrare un po' d'aritmetica e d'ortografia. Si mise poi a fare l'apprendista artigiano, di nuovo profondendo ogni sforzo: ostinazione tanto più meritoria in quanto gli era necessario un giorno per imparare quello che gli altri sapevano già dopo un'ora.

Finché i poveri piccini rimasero a carico della madre, Antoine non fece che brontolare. Erano bocche inutili che gli scemavano la sua parte. Aveva giurato, come suo fratello, di non aver più figli, codesti mangia-tutto che riducono in miseria i genitori. Bisognava sentirlo dare in ismanie, da quando erano in cinque a tavola, e Fine dava i migliori bocconi a Jean, a Lisa e a Gervaise.

«Avanti», gridava, «rimpinzali, falli scoppiare!».

Ad ogni vestito, ad ogni paio di scarpe che Fine comprava ai ragazzi, egli restava imbronciato per più giornate di seguito. Ah! Se avesse saputo, non avrebbe mai messo al mondo quella marmaglia che lo costringeva a fumare soltanto quattro soldi di tabacco al giorno, e che troppo spesso faceva sì che, a pranzo, dovesse accontentarsi di patate in umido, un cibo che egli disprezzava profondamente.

Più tardi, quando Jean e Gervaise gli portarono le prime monete da venti soldi, egli trovò che i figli non erano poi da buttar via. Lisa non era più in casa. Antoine si fece foraggiare dai due che rimanevano, senza il minimo scrupolo, così come si faceva già foraggiare dalla loro madre. Fu, da parte sua, una speculazione fino all'ultimo centesimo. Da quando ebbe otto anni, la piccola Gervaise andò a snocciolare mandorle da un negoziante dei paraggi; guadagnava dieci soldi al giorno, che il padre, con gesto sovrano, intascava, senza che neppure la madre osasse chiedere che fine faceva quel denaro. Poi la ragazza entrò come apprendista presso una lavandaia, e, quando fu assunta come lavorante e riscosse due franchi al giorno, i due franchi scomparvero anch'essi tra le mani di Macquart. Jean, che aveva imparato il mestiere di falegname, era egualmente depredato nei giorni in cui lo pagavano, ogni volta che Macquart riusciva a fermarlo prima che egli consegnasse il denaro a sua madre. Se quel denaro gli sfuggiva, come accadeva qualche volta, era terribilmente ingrugnato. Per una settimana intera guardava i figli e la moglie con un'aria infuriata, attaccando briga per qualsiasi inezia, ma serbando ancora il pudore di non confessare il motivo della sua irritazione. Il giorno di paga successivo, si metteva in agguato e, appena era riuscito a estorcere ai ragazzi il denaro, scompariva per intere giornate.

Gervaise, maltrattata, cresciuta per la strada coi ragazzi del vicinato, divenne incinta a quattordici anni. Il padre del bambino che doveva nascere non aveva ancora diciott'anni. Era un lavorante conciatore di pelli; si chiamava Lantier. Macquart andò su tutte le furie. Poi, quando seppe che la madre di Lantier, che era una brava donna, era disposta ad allevare il bambino, si calmò. Ma tenne con sé Gervaise (guadagnava già venticinque soldi), ed evitò di parlare di matrimonio. Quattro anni dopo, Gervaise ebbe un secondo bambino, che, ancora una volta, la madre di Lantier prese con sé. Questa volta Macquart fece assolutamente finta di nulla. E siccome Fine gli disse timidamente che sarebbe stato opportuno prender contatto col conciapelli per regolarizzare una situazione che dava luogo a troppe chiacchiere, Antoine rispose chiaro e tondo che Gervaise non avrebbe lasciato la casa e che egli l'avrebbe data in moglie al suo seduttore più tardi, «quando sarebbe stato degno di lei e avrebbe avuto di che arredare un appartamento».

Quell'epoca fu la più felice nella vita di Antoine Macquart. Vestiva come un borghese, con delle redingotes e dei calzoni di stoffa fine. Accuratamente rasato, quasi ingrassato, non era più quel furfante smunto e male in arnese che scorrazzava per le bettole. Frequentava i caffè, leggeva i giornali, passeggiava su e giù per il corso Sauvaire. Finché aveva denaro in tasca, recitava la parte del gran signore. Nei giorni di miseria, restava in casa, esasperato per dover rimanere prigioniero in quella stamberga e per non potere andare a prendere la sua tazzina di caffè. In quelle giornate, incolpava della sua povertà il genere umano tutto intero, si ammalava di rabbia e d'invidia, fino al punto che Fine, mossa a compassione, gli dava spesso l'ultima moneta d'argento che c'era in casa, perché potesse trascorrere la serata al caffè. L'onest'uomo aveva un egoismo feroce. Gervaise portava a casa fino a sessanta franchi al mese, e andava vestita di straccetti di cotone, mentre Macquart ordinava per sé dei gilè di raso nero da uno dei più bravi sarti di Plassans. Jean, quel ragazzone che guadagnava da tre a quattro franchi al giorno, veniva svaligiato, forse, con un'impudenza ancora maggiore. Il caffè dove suo padre trascorreva giornate intere si trovava proprio di faccia alla bottega del suo padrone, e, mentre egli maneggiava la pialla o la sega, poteva scorgere, dall 'altra parte della piazza, il «signor» Macquart che versava lo zucchero nella tazza del caffè o giocava a picchetto con qualche redditiero di media condizione. Era il suo denaro quello che il vecchio fannullone giocava. Lui, Jean, non andava mai al caffè, non aveva neanche i cinque soldi necessari per prendere un gloria. Antoine lo trattava come se fosse una ragazzina: non gli lasciava un centesimo e gli chiedeva conto di come esattamente aveva passato tutto il suo tempo. Se il poveraccio, trascinato dai compagni, si permetteva un giorno di libertà per una scampagnata sulle rive della Viorne o sui pendii delle Garrigues, suo padre andava in bestia, alzava le mani per picchiarlo, gli serbava rancore a lungo per i quattro franchi in meno che aveva riscosso alla fine della quindicina. Così teneva suo figlio in una condizione di schiavitù che gli faceva molto comodo, e qualche volta arrivava fino al punto di considerare come sue le ragazze alle quali il giovane falegname faceva la corte. In casa dei Macquart venivano molte amiche di Gervaise, delle lavoranti tra i sedici e i diciotto anni, ragazze ardite e gaie nelle quali la pubertà si destava con ardori provocanti, e che, certe sere, riempivano la stanza di giovinezza e di allegria. Il povero Jean, privato di ogni gioia, rimasto in casa per mancanza di denaro, guardava quelle ragazze con occhi luccicanti di cupidigia; ma la vita da bambino che era costretto a condurre gli procurava una timidezza invicibile; scherzava con le compagne di sua sorella osando appena sfiorarle con la punta delle dita. Macquart alzava le spalle con aria di commiserazione:

«Povero innocente!», mormorava con tono di superiorità ironica.

Ed era lui che baciava sul collo le ragazze, appena sua moglie si voltava dall'altra parte. Spinse le cose ancor più in là con una piccola lavandaia che Jean corteggiava con più assiduità che le altre. Una sera gliela rubò, togliendogliela quasi di tra le braccia. Il vecchio mascalzone ci teneva a fare il conquistatore.

Ci sono uomini che si fanno mantenere dall'amante. Antoine Macquart si faceva mantenere da sua moglie e dai suoi figli, con non minore obbrobrio e impudenza. Senza provare la minima vergogna saccheggiava la casa e se ne andava fuori a far baldoria, quando in casa non era rimasto nulla. Assumeva anche arie da uomo superiore; non se ne andava dal caffè senza fare amare ironie sulla miseria che lo aspettava al suo ritorno a casa; diceva che il pranzo era detestabile; dichiarava che Gervaise era una stupida e che Jean non sarebbe mai stato un uomo. Sprofondato nei suoi godimenti egoistici, si fregava le mani quando aveva trangugiato i migliori bocconi; poi fumava la pipa a piccole boccate, mentre i due poveri ragazzi, spossati dalla fatica, si addormentavano sulla tavola. Così trascorreva le sue giornate, oziose e felici. Gli sembrava perfettamente naturale che lo mantenessero, come una prostituta, a rivoltolarsi nella pigrizia sulle panche di un caffè, a passeggiare per il Corso o per il Mail nelle ore in cui faceva un bel fresco. Finì col raccontare le sue scappatelle amorose davanti a suo figlio, che lo stava a sentire con sguardi ardenti di affamato. I ragazzi non protestavano, abituati com'erano a vedere la loro madre ridotta ad essere l'umile serva di suo marito. Fine, quella donnona che lo picchiava di santa ragione quando erano ubriachi tutti e due, appena era ritornata in sé tremava dinanzi a lui e lo lasciava regnare in casa come un despota. Di notte lui le rubava i bei gruzzoli di denaro che lei guadagnava al mercato durante la giornata, senza che lei si permettesse niente di più che, proteste a mezza bocca. Qualche volta, quando lui aveva divorato in anticipo il denaro di tutta la settimana, accusava quella poveretta, che si ammazzava di fatica, di essere una testa vuota, di non sapersela cavare. Fine, con una dolcezza da agnellina, con quella vocina limpida che faceva un effetto così strano provenendo da quel corpo nerboruto, rispondeva che non aveva più vent'anni e che campare era sempre più duro. Per consolarsi comprava un litro di anisetta, ne beveva qualche bicchierino la sera, con sua figlia, mentre Antoine ritornava al caffè. Erano quelli i loro stravizi. Jean andava a letto; le due donne rimanevano a tavola, con l'orecchio teso, per far scomparire la bottiglia e i bicchierini al minimo rumore. Se Macquart faceva tardi, capitava che esse si ubriacassero così, a piccole dosi, senza rendersene conto. Inebetite, guardandosi negli occhi con un sorriso incerto, madre e figlia finivano per balbettare. Macchie rosee spuntavano sulle guance di Gervaise; la sua faccina di bambola, così delicata, si annegava in un'espressione di beatitudine incosciente, e nulla era più straziante a vedersi che quella ragazza malaticcia e pallida, ubriaca fradicia, col riso idiota degli alcolizzati che le errava sulle labbra umide. Fine, abbandonata sulla sedia, rimaneva lì intorpidita. Qualche volta dimenticavano di stare in guardia, oppure non avevano più la forza di portar via la bottiglia e i bicchieri quando sentivano i passi di Antoine su per le scale. Quelle sere, in casa dei Macquart ci si accoppava a vicenda. Bisognava che Jean si alzasse per separare suo padre e sua madre e per far andare a letto sua sorella, che, senza il suo aiuto, avrebbe dormito sul pavimento.

Ogni partito politico ha i suoi buffoni e i suoi manigoldi. Macquart, róso dall'invidia e dal rancore, sognando vendetta contro tutta la società, accolse la Repubblica come una nuova èra felice nella quale egli avrebbe potuto riempirsi le tasche a spese del prossimo, e perfino strangolarlo se avesse mostrato il minimo accenno di resistenza. La vita che aveva trascorso al caffè, gli articoli di giornale che aveva letto senza capirli, avevano fatto di lui un terribile parolaio che enunciava, in politica, le teorie più bizzarre di questo mondo. Bisogna aver sentito, in qualche caffeuccio di provincia, perorare uno di codesti biliosi che hanno mal digerito le loro letture, per capire a quale grado di stupidità malvagia era arrivato Macquart. Siccome parlava molto, era stato nell'esercito e veniva, quindi, considerato un uomo energico, era molto seguito, molto ascoltato dagli ingenui. Senza essere il capo d'un partito, aveva saputo radunare attorno a sé un piccolo gruppo di operai che scambiavano la sua invidia rabbiosa per indignazione onesta e sincera.

Fin dalle giornate di febbraio, aveva detto a se stesso che Plassans era un suo dominio, e l'aria beffarda con cui, passando per la strada, guardava i piccoli commercianti che stavano, sbigottiti, sull'uscio della loro bottega, voleva dire chiaramente: «È arrivata la nostra ora, agnellini cari, e vi faremo ballare una danza indiavolata!». Era diventato incredibilmente insolente; recitava la parte di conquistatore e di despota, fino al punto che smise di pagare le consumazioni al caffè; e il padrone, uno sciocco che tremava alla vista dei suoi occhi spiritati, non osò mai presentargli il conto. Quante tazze di caffè bevve in quel periodo, sarebbe impossibile calcolare; qualche volta invitava gli amici, e per ore ed ore gridava che il popolo moriva di fame e che i ricchi dovevano spartire col popolo le loro ricchezze. Quanto a lui, non avrebbe dato a un povero nemmeno un soldo. Ciò che lo trasformò in un repubblicano arrabbiato fu soprattutto la speranza di vendicarsi una buona volta dei Rougon, i quali si erano apertamente schierati dalla parte della reazione. Ah, che trionfo, se avesse potuto un bel giorno tenere in pugno Pierre e Félicité! Sebbene essi non si fossero affatto arricchiti, erano pur sempre divenuti dei borghesi, e lui, Macquart, era rimato operaio. Questo lo esasperava. Una cosa ancor più mortificante, forse, era che i Rougon avevano un figlio avvocato, un altro medico, il terzo impiegato, mentre il suo Jean lavorava presso un falegname e la sua Gervaise presso una lavandaia. Quando confrontava i Macquart ai Rougon, provava ancora una grande vergogna nel vedere sua moglie che vendeva le castagne al mercato e, la sera, rimpagliava le vecchie sedie soffici del quartiere. Eppure Pierre era suo fratello, non aveva più diritto di lui a vivere beatamente di rendita. E, per di più, se adesso poteva darsi arie da signore, era per il denaro che un tempo gli aveva rubato. Ogni volta che Antoine toccava questo argomento, tutto il suo essere si ribellava; vociferava per ore intere, ripetendo a sazietà le sue vecchie accuse, senza mai stancarsi di dire:

«Se mio fratello fosse dove dovrebb'essere, oggi sarei io un benestante».

E quando gli domandavano dove avrebbe dovuto essere suo fratello, rispondeva con una voce terribile: «All'ergastolo!».

Il suo odio si accrebbe ancora quando i Rougon ebbero riunito attorno a sé i conservatori, ed ebbero acquistato un certo prestigio a Plassans. Il famoso salotto giallo divenne, nelle maldicenze sconclusionate che Antoine ripeteva al caffè, un antro di banditi, un'accolta di scellerati che ogni sera giuravano, brandendo i pugnali, di massacrare il popolo. Per aizzare gli affamati, contro Pierre, arrivò fino a far correre la voce che l'ex commerciante d'olio non era così povero come diceva, e che nascondeva i suoi tesori per avarizia e per paura dei ladri. La sua tattica tendeva a far sollevare i poveri, raccontando loro delle storie interminabili, alle quali spesso finiva per credere anche lui. Nascondeva molto male i suoi rancori personali e i suoi desideri di vendetta sotto la maschera del più puro patriottismo; ma si faceva talmente in quattro, aveva una voce così tonante, che nessuno avrebbe osato dubitare della sua buona fede.

In fondo, tutti i membri di quella famiglia avevano la stessa smania di brutale avidità. Félicité, la quale capiva che le idee politiche esaltate di Macquart non erano altro che rabbia repressa e gelosia inasprita, avrebbe desiderato moltissimo di comprarlo per farlo stare zitto. Purtroppo il denaro le mancava, e per di più non osava cointeressarlo nel gioco rischioso che suo marito giocava. Antoine era per i Rougon motivo di grande discredito presso i redditieri della città nuova. Il fatto che fosse un loro parente bastava per metterli in cattiva luce. Granoux e Roudier li rimproveravano, con continue allusioni sprezzanti, di avere nella loro famiglia un uomo simile. Félicité si chiedeva con angoscia come avrebbero potuto togliersi di dosso quella macchia.

Le sembrava mostruoso e indecente che, anche dopo il sospirato giorno della vittoria, il signor Rougon continuasse ad avere un fratello la cui moglie avrebbe venduto castagne, e che, per parte sua, sarebbe vissuto immerso nell'ozio e nella crapula. Finì col temere l'insuccesso delle loro mene segrete, che Antoine comprometteva a suo piacimento. Quando le riferivano le diatribe che quell'uomo declamava in pubblico contro il salotto giallo, rabbrividiva pensando che era capace di accanirsi sempre più e di mandare a vuoto le loro speranze suscitando uno scandalo.

Antoine intuiva fino a qual punto il suo comportamento doveva impaurire i Rougon, e soltanto per ridurli all'esasperazione ostentava, di giorno in giorno, atteggiamenti sempre più feroci. Al caffè, alludeva a Pierre chiamandolo «mio fratello», con un vocione che faceva voltare tutti i frequentatori; per la strada, se gli capitava d'incontrare qualche reazionario del salotto giallo, borbottava delle ingiurie che il buon borghese, costernato da tanta audacia, riferiva la sera ai Rougon, e sembrava che li ritenesse responsabili del cattivo incontro che aveva fatto.

Un giorno, Granoux arrivò furente.

«Insomma», gridò fin dalla soglia della porta, «è una cosa intollerabile; ad ogni passo si viene insultati».

rivolgendosi a Pierre:

«Signore, quando si ha un fratello come il vostro, bisogna sbarazzarne la società. Io venivo tranquillamente dalla piazza della sottoprefettura, quando quel miserabile, passandomi accanto, ha borbottato alcune parole fra le quali ho sentito perfettamente l'espressione "vecchio farabutto"».

Félicité impallidì e si credette in dovere di chiedere scusa a Granoux; ma il distinto signore non voleva saperne, diceva che sarebbe ritornato a casa sua. Il marchese si affrettò ad aggiustare le cose.

«È molto strano», disse, «che quel disgraziato vi abbia chiamato "vecchio farabutto"; siete sicuro che l'ingiuria fosse indirizzata a voi?».

Granoux rimase perplesso. Finì coll'ammettere che Antoine aveva forse borbottato: «Tu vai ancora da quel vecchio farabutto».

Il signor di Carnavant si accarezzò il mento per nascondere il sorriso che non riusciva a trattenere.

Rougon disse allora col massimo sangue freddo:

«Lo pensavo, dovevo essere io il "vecchio farabutto". Sono lieto che il malinteso sia chiarito. Vi prego, signore, evitate quell'uomo su cui ci siamo malauguratamente intrattenuti; io lo rinnego esplicitamente».

Ma Félicité non riusciva a prender le cose con tanta indifferenza; ad ogni escandescenza di Macquart, ne faceva una malattia; per notti intere si chiedeva che cosa ne avrebbero pensato quei signori.

Alcuni mesi prima del colpo di Stato, i Rougon ricevettero una lettera anonima: tre pagine di ignobili ingiurie, in cui fra l'altro vi era la minaccia che, se per caso il loro partito avesse trionfato, sarebbe apparsa in un giornale la storia scandalosa dei vecchi amori di Adélaïde e del furto di cui Pierre si era reso colpevole facendo firmare una ricevuta falsa di cinquantamila franchi a sua madre, inebetita dagli stravizi. Questa lettera fu una mazzata anche per Rougon. Félicité non riuscì a trattenersi dal rinfacciare a suo marito la sua vergognosa e sudicia famiglia: poiché i due coniugi non dubitarono neanche per un momento che la lettera provenisse da Antoine.

«Bisognerà che ci sbarazziamo a tutti i costi di questa canaglia», disse Pierre con aria cupa. «Ci dà troppi fastidi».

Ma intanto Macquart, riprendendo la sua vecchia tattica, cercava entro la famiglia stessa dei complici nella sua lotta contro i Rougon. Da principio, leggendo i terribili articoli dell'«Indépendant», aveva contato su Aristide. Ma il giovane, benché accecato dalla sua irosa invidia, non era talmente stupido da far causa comune con un tipo come suo zio. Non si curò nemmeno di fingersi suo amico e lo tenne sempre a distanza. Antoine, trattato in così malo modo, mise in giro la voce che quello era un uomo sospetto; nei caffeucci nei quali Antoine faceva il bello e il cattivo tempo si arrivò fino a dire che il giornalista era un agente provocatore. Sconfitto da questa parte, Macquart non aveva più altra risorsa che di tastare il terreno coi figli di sua sorella Ursule.

Ursule era morta nel 1839; la sinistra profezia di suo fratello si era avverata. La nevrosi di sua madre si era trasformata, in lei, in una lenta tisi che l'aveva consumata a poco a poco. Lasciava tre figli: una ragazza diciottenne, Hélène, sposata ad un impiegato, e due ragazzi: il maggiore, François, ventitreenne, e l'ultimo venuto, una povera creatura di sei anni appena, che si chiamava Silvère. Per Mouret la morte di sua moglie, da lui adorata, fu un colpo di fulmine. Si trascinò per un anno, senza occuparsi più dei suoi affari, perdendo il denaro che aveva messo da parte. Poi, una mattina, lo trovarono impiccato in una stanzetta in cui erano ancora appesi al muro i vestiti di Ursule. Il primogenito, al quale Mouret aveva potuto far dare una buona istruzione in campo commerciale, entrò come commesso nel negozio di suo zio Rougon, in sostituzione di Aristide che proprio allora aveva lasciato la ditta.

Rougon, nonostante il suo odio profondo per i Macquart, accolse molto volentieri suo nipote, che sapeva laborioso e sobrio. Sentiva il bisogno di un ragazzo a lui devoto, che lo aiutasse a rimettere in sesto i suoi affari. Del resto, durante il periodo di prosperità dei Mouret, egli aveva sentito una grande stima per quei coniugi che guadagnavano bene, ed era ben presto ritornato in buoni rapporti con sua sorella. Può anche darsi che, assumendo François come impiegato, volesse compiere un'espiazione: aveva derubato Ursule, si liberava da ogni rimorso dando da lavorare al figlio; i mascalzoni hanno simili onestà ben calcolate. Per Rougon fu un buon affare. Trovò in suo nipote l'aiuto che cercava. Se in quell'epoca la ditta Rougon non fece fortuna, nessuno poté incolparne quel ragazzo docile e meticoloso, che pareva fatto apposta per passar la vita seduto alla cassa di un droghiere, tra un orcio d'olio e un pacco di merluzzo secco. Pur avendo una grande somiglianza fisica con sua madre, aveva ereditato da suo padre una mente limitata e assennata, che aveva un amore istintivo per la vita regolare, i calcoli non rischiosi del piccolo commercio. Tre mesi dopo il suo ingresso in negozio, Pierre, continuando a seguire il suo criterio di espiazione, gli dette in sposa Marthe, la sua figlia minore, di cui non sapeva come sbarazzarsi. François e la ragazza si erano innamorati d'un tratto, in pochi giorni. Una singolare circostanza aveva senza dubbio determinato e accresciuto il loro innamoramento: si rassomigliavano straordinariamente, di una somiglianza stretta, come tra fratello e sorella. François, attraverso Ursule, aveva ereditato i lineamenti di Adélaïde, sua nonna. Il caso di Marthe era più curioso: anch'essa era il ritratto vivente di Adélaïde, sebbene Pierre Rougon non avesse, nei suoi lineamenti, nulla che ricordasse chiaramente sua madre; qui la somiglianza fisica era saltata al di là di Pierre, per riapparire con più nettezza in sua figlia. Del resto, l'identità dei due giovani sposi si limitava al volto; mentre in François si riconosceva il degno figlio del cappellaio Mouret, equilibrato e un po' sanguigno, Marthe aveva il volto spaurito, lo sconvolgimento interiore di sua nonna, della quale era la strana ed esatta riproduzione a distanza. Forse furono, nello stesso tempo, la somiglianza fisica e la dissimiglianza psichica i motivi che li gettarono l'uno nelle braccia dell'altra. Dal 1840 al 1844, ebbero tre figli. François rimase presso suo zio fino al momento in cui questi si ritirò dal commercio. Pierre voleva cedergli il suo fondo di magazzino, ma il giovane era ben informato sulla scarsa probabilità di far fortuna col commercio a Plassans; rifiutò e andò a stabilirsi a Marsiglia, con un po' di soldi che era riuscito a metter da parte.

Macquart dovette presto rinunciare a coinvolgere nella sua campagna contro i Rougon quel ragazzone laborioso: si mise a dire che era un avaro e un ipocrita, sfogando in questo modo il suo rancore di fannullone. Ma credette di trovare il complice di cui andava in cerca nel secondo dei figli di Mouret, Silvère, che allora era un ragazzo quindicenne. Quando avevano trovato Mouret impiccato tra i vestiti di sua moglie, il piccolo Silvère non andava ancora nemmeno a scuola. Il suo fratello maggiore, non sapendo cosa fare di quel povero bambino, lo portò con sé presso suo zio. Rougon fece un viso scuro vedendo il piccolo: non intendeva spingere la sua volontà di espiazione fino a nutrire una bocca inutile. Silvère, preso in uggia anche da Félicité, cresceva tra le lacrime come un povero derelitto, quando sua nonna, in una delle rare visite che faceva ai Rougon, ebbe pietà di lui e chiese di prenderlo con sé. Pierre fu contentissimo; lasciò andar via il bambino senza nemmeno far parola di un aumento della piccola pensione che egli corrispondeva ad Adélaïde, e che da allora in poi sarebbe dovuta bastare per due.

Adélaïde aveva allora circa settantacinque anni. Invecchiata in una vita monacale, non era più la ragazza snella e ardente che un tempo correva a gettarsi al collo del bracconiere Macquart. Si era irrigidita e inaridita, là nella catapecchia del vicolo SaintMittre, in quel buco silenzioso e oscuro in cui viveva in assoluta solitudine, e dal quale usciva sì e no una volta al mese, nutrendosi di patate e di legumi secchi. A vederla passare per la strada, la si sarebbe presa per una di quelle vecchie suore dal pallore sfatto, dall'andatura come di automi, alle quali la vita claustrale ha fatto perdere ogni interesse per le cose di questo mondo. La sua faccia livida, sempre ricinta da una cuffia bianca,, sembrava la faccia di una moribonda, una maschera senza espressione, senza vivacità, supremamente indifferente. L'abitudine al lungo silenzio l'aveva resa muta; la luce fioca della sua dimora, il vedere sempre gli stessi oggetti, avevano spento il suo sguardo e dato ai suoi occhi una limpidezza d'acqua sorgiva. Era una rinunzia a tutto, una morte lenta fisica e morale, che aveva trasformato a poco a poco l'amante folle in una vecchia triste. Quando fissava gli occhi macchinalmente, guardando senza vedere, si scorgeva attraverso quei fori chiari e profondi un grande vuoto interiore. Nulla rimaneva dei suoi ardori voluttuosi d'un tempo, se non una mollezza della carnagione, un tremito senile delle mani. Aveva amato con l'impeto selvaggio d'una lupa, e ora il suo povero corpo consunto, già decomposto come per essere messo nella bara, esalava soltanto un tenue odore di foglie secche. I suoi nervi avevano compiuto su di lei uno strano lavoro: acute bramosie si erano andate consumando, fino a ridurla a un'imperiosa e involontaria castità. Il suo bisogno d'amore, dopo la morte di Macquart, di quell'uomo necessario alla sua vita, era bruciato dentro di lei, distruggendola come una vergine rinchiusa in un monastero, senza che essa avesse mai pensato a dargli soddisfazione. Una vita dissoluta l'avrebbe probabilmente ridotta meno esaurita, meno inebetita di quanto avesse fatto quel desiderio insaziato, costretto a sfogarsi in un lento logorio interno, che andava alterando il suo organismo.

Qualche volta ancora questa morta, questa vecchia pallida che sembrava non avesse più nemmeno una goccia di sangue, era scossa da crisi nervose, simili a correnti elettriche che la galvanizzavano e le ridavano per un'ora una vitalità atrocemente intensa. Rimaneva distesa sul letto, rigida, con gli occhi sbarrati; poi era scossa da sussulti, si dibatteva; aveva la forza spaventosa di quelle pazze isteriche che bisogna legare perché non si rompano la testa contro il muro. Quel ritorno ai suoi ardori d'una volta, quei bruschi attacchi, squassavano in modo spaventoso il suo povero corpo dolente. Era come se tutta la calda passione della giovinezza riesplodesse, impudicamente, nel suo gelo di settuagenaria. Quando si riaveva dalla crisi, ristupidita, barcollava; appariva così stravolta che le comari del sobborgo dicevano: «Ha bevuto, la vecchia pazza!».

Il sorriso infantile del piccolo Silvère fu per lei un ultimo pallido raggio di sole che restituì un po' di calore alle sue membra raggelate. Aveva chiesto di prender con sé il bambino perché era accasciata dalla solitudine, terrorizzata al pensiero di morire sola, durante una crisi. Quel piccino che trotterellava intorno a lei le dava coraggio contro la morte. Pur senza abbandonare il suo mutismo, senza ridare flessibilità all'automatismo dei suoi movimenti, venne presa da un'ineffabile tenerezza per quella creatura. Rigida, muta, lo guardava giocare per ore intere, ascoltando estatica il fracasso insopportabile di cui egli riempiva la vecchia stamberga. Quella tomba era tutta vibrante di rumori, da quando Silvère la percorreva a cavalcioni su un manico di scopa, urtando nelle porte, frignando e gridando. Egli riconduceva Adélaïde su questa terra; essa si occupava di lui con un'inettitudine adorabile; lei che da giovane aveva dimenticato di essere madre per essere amante, provava le voluttà divine di una puerpera, mentre gli lavava il viso, lo vestiva, vegliava senza posa sulla sua fragile vita. Fu un risveglio d'amore, un'ultima passione raddolcita che il cielo concedeva a quella donna tutta devastata dal bisogno di amare. Commovente agonia di quel cuore che aveva vissuto in preda alle bramosie più violente e che si struggeva di affetto per un bambino.

Era già troppo morta per effondersi nei chiacchiericci e nei vezzeggiamenti delle nonne grasse e bonaccione; adorava l'orfanello in segreto, con un pudore di giovinetta, senza osare nemmeno accarezzarlo. Qualche volta se lo metteva sulle ginocchia, lo guardava a lungo coi suoi occhi vitrei. Quando il bambino, spaventato da quel viso pallido e muto, si metteva a singhiozzare, lei sembrava pentita di quel che aveva fatto, lo rimetteva a terra sùbito, senza baciarlo. Forse trovava in lui una lontana somiglianza col bracconiere Macquart.

Silvère crebbe stando sempre a tu per tu con Adélaïde. Con un vezzeggiativo infantile, la chiamava zia Dide, e la vecchia finì con l'esser chiamata così da tutti; il nome di zia, usato così, è in Provenza una generica parola affettuosa. Il bambino ebbe per la nonna una grande tenerezza mista ad un timore reverenziale. Quando era ancora molto piccolo ed essa aveva una crisi di nervi, andava a nascondersi piangendo, spaventato nel vederle la faccia così stravolta: poi, finito l'attacco, ritornava con aria timida, pronto a scappare di nuovo, come se la povera vecchia fosse stata capace di picchiarlo. Più tardi, a dodici anni, rimaneva coraggiosamente li, badando a che non si facesse male cadendo giù dal letto. Per ore ed ore la teneva stretta fra le braccia, per frenare le brusche scosse che le agitavano le membra. Durante gli intervalli di calma, guardava con grande pietà la sua faccia contratta, il suo corpo smagrito, sul quale il vestito si stendeva come un lenzuolo funebre. Questi drammi segreti che si ripetevano ogni mese, quella vecchia rigida come un cadavere e quel bimbo che, chino su di lei, spiava in silenzio il ritorno della vita, assumevano, nella fioca luce della stamberga, uno strano carattere di cupo spavento e di bontà dolorosa. Quando la zia Dide ritornava in sé, si alzava a stento, si riassettava le vesti, si rimetteva a fare le faccende domestiche, senza rivolgere nemmeno una domanda a Silvère. Non si ricordava di nulla, e il bambino, per un istinto di riservatezza, evitava di fare la minima allusione a quel che era successo. Furono soprattutto quelle crisi ricorrenti che legarono profondamente il ragazzino alla nonna. Ma, come essa lo adorava senza effusioni di vezzeggiamento, così egli ebbe per lei un affetto nascosto e quasi vergognoso. In fondo, se le era riconoscente per averlo raccolto e allevato, continuava a vedere in lei un essere fuori del comune, in preda a mali sconosciuti, che bisognava compassionare e rispettare. Certamente Adélaïde non aveva più uno slancio umano sufficiente, era troppo pallida e troppo rigida perché Silvère osasse abbracciarla. Perciò vissero in un silenzio triste, in fondo al quale l'uno e l'altra sentivano il brivido di un amore infinito. |[continua]|

 

|[CAPITOLO IV, 2]|

 

Questa atmosfera greve e malinconica che Silvère respirò fin da bambino gli dette un animo forte, nel quale si andarono sviluppando tutti gli entusiasmi. Ben presto divenne un ometto serio, riflessivo, che aspirò ad istruirsi con una sorta di ostinazione. Apprese soltanto un po' di ortografia e di aritmetica alla scuola dei frati, che dovette abbandonare a dodici anni per mettersi a fare l'apprendista operaio. Delle basi di un'istruzione seria rimase sempre privo. Ma lesse tutti i volumi scompagnati che gli capitarono sottomano, e si formò così un confuso bagaglio di conoscenze; sapeva molte cose su una quantità di argomenti, cose incomplete, male ordinate, che non riuscì mai a organizzare con un certo rigore nella sua mente. Ancora piccolo, era andato a giocare presso un mastro carradore, un brav'uomo di nome Vian, il cui laboratorio si trovava all'inizio del vicolo, davanti all'aia di SaintMittre, dove il carradore depositava le sue assi di legno. Silvère saliva sulle ruote dei carretti in riparazione, si divertiva a trascinare i pesanti utensili che le sue manine riuscivano a stento a sollevare; una delle sue più grandi gioie era di aiutare i lavoranti, reggendo qualche pezzo di legno o portando ad essi le guarnizioni di ferro di cui avevano bisogno. Quando fu cresciuto, entrò, naturalmente, come apprendista presso Vian, il quale aveva preso in simpatia quel ragazzino che si trovava continuamente tra i piedi; egli lo chiese a Adélaïde senza voler accettare nessuna ricompensa. A Silvère non parve vero di accettare: vedeva già il momento in cui avrebbe potuto restituire alla povera zia Dide quello che essa aveva speso per lui. In poco tempo divenne un eccellente operaio. Ma sentiva delle ambizioni più alte. Da un carrozziere di Plassans aveva veduto un bel calesse nuovo, tutto rilucente di vernice; aveva detto a se stesso che un giorno avrebbe costruito delle carrozze come quella. Quel calesse rimase nella sua memoria come un oggetto d'arte raro e unico al mondo, come un ideale verso il quale tendevano le sue ambizioni di artigiano. Adesso i carretti ai quali lavorava da Vian, quei carretti che aveva contribuito a costruire con tanto amore, gli sembravano indegni dei suoi entusiasmi. Si mise a frequentare la scuola di disegno, dove fece amicizia con un giovane che aveva abbandonato le scuole secondarie: costui gli prestò il suo vecchio trattato di geometria. Si sprofondò nello studiarlo, senza una guida, passando delle settimane a scervellarsi per capire le cose più semplici di questo mondo. Divenne, così, uno di quegli operai intellettuali che a mala pena sanno scrivere la loro firma e che parlano di algebra come di una persona di loro conoscenza. Nulla è tanto dannoso a un intelletto quanto un'istruzione di questo genere, acquistata frammentariamente, non costruita su alcuna base solida. Per lo più, codeste briciole di scienza danno un'idea assolutamente falsa delle grandi verità, e fanno sì che i poveri di spirito divengano insopportabili per la loro stupida saccenteria. Ma in Silvère questi pezzetti di sapere rubacchiato non fecero che accrescere le esaltazioni generose a cui era incline. Ebbe consapevolezza degli orizzonti che gli rimanevano chiusi. Si fece un'idea mistica delle cose che non arrivava a toccare con mano, e visse immerso in una profonda e ingenua religione dei grandi pensieri e delle grandi parole a cui cercava d'innalzarsi, senza riuscire a comprenderli. Fu un ingenuo, un sublime ingenuo, rimasto sulla soglia del tempio, in ginocchio davanti a dei ceri che, veduti da lontano, prendeva per stelle.

La stamberga del vicolo SaintMittre era formata, un tempo, da una grande stanza sulla quale si apriva direttamente la porta che dava sull'esterno; questa stanza, il cui impiantito era lastricato a pietre, e che serviva insieme da cucina e da sala da pranzo, aveva come unici mobili delle seggiole impagliate, una tavola poggiata su due cavalletti e un vecchio baule che Adélaïde aveva trasformato in un divano, stendendo sul coperchio un pezzo di stoffa di lana; in un angolo, a sinistra di un gran camino, c'era una Madonna di gesso, adornata di fiori artificiali: la buona Madre tradizionale delle vecchie provenzali, anche di quelle poco devote. Un corridoio conduceva dalla stanza a un cortiletto situato dietro la casa, nel quale si trovava un pozzo. A sinistra del corridoio c'era la camera della zia Dide, una stanzetta con un letto di ferro e una sedia; a destra, in una stanzetta ancora più piccola, dove c'era appena il posto per un letto di cinghie, dormiva Silvère, che aveva dovuto escogitare tutto un sistema di assicelle, dal pavimento fino al soffitto, per tenere accanto a sé i suoi cari volumi scompagnati, comprati, a soldo a soldo, da un rigattiere del vicinato. La notte, quando leggeva, appendeva la lampada a un chiodo, al capezzale del letto. Se la nonna era còlta da una crisi, gli bastava, al primo rantolo che udiva, di fare un salto per essere accanto a lei ad assisterla.

La vita di Silvère giovinetto rimase quella che era stata la vita di Silvère bambino. Quell'angolo solitario fu il centro della sua esistenza. Egli aveva la stessa ripugnanza di suo padre per le osterie e per i bighellonaggi della domenica. Il suo animo delicato rifuggiva dai godimenti brutali dei suoi compagni. Preferiva leggere, scervellarsi cercando di capire qualche problema, molto semplice, di geometria. Da quando la zia Dide lo incaricava delle piccole commissioni quotidiane, essa non usciva più di casa; viveva come estranea anche alla sua famiglia. Qualche volta il ragazzo pensava a quello stato di abbandono; guardava la povera vecchia che abitava a due passi dai suoi figli, e che i suoi figli facevano di tutto per dimenticare, come se fosse già morta; allora egli le voleva bene ancor più, per sé e per gli altri che l'avevano abbandonata. Se, ogni tanto, aveva una vaga consapevolezza che la zia Dide espiava vecchi peccati, pensava: «Io sono nato per perdonarla».

In uno spirito come il suo, ardente e represso, era naturale che le idee repubblicane giungessero ad uno stato di esaltazione. Di notte, nella sua cameretta solitaria, Silvère leggeva e rileggeva un volume di Rousseau, che aveva scoperto nella bottega del rigattiere, sepolto sotto vecchie serrature arrugginite. Quella lettura lo teneva sveglio fino all'alba. Nel miraggio della felicità universale, caro agli infelici, le parole di libertà, d'eguaglianza, di fraternità sonavano alle sue orecchie col rombo sonoro e sacro della campana che fa inginocchiare i fedeli. Perciò, quando seppe che la Repubblica era stata proclamata in Francia, credette che tutti sarebbero vissuti in uno stato di beatitudine celeste. La sua mezza istruzione lo faceva guardare più lontano degli altri operai, le sue aspirazioni non si fermavano al pane quotidiano; ma la sua profonda ingenuità, la sua mancata conoscenza degli uomini, lo mantenevano in uno stato di sogno puramente astratto, in mezzo a un Eden in cui regnava la giustizia eterna. Questo suo paradiso ideale fu per molto tempo un luogo di gioia nel quale rimaneva in estasi. Quando gli parve di accorgersi che tutto non andava per il meglio nella migliore delle repubbliche possibili, provò un dolore immenso; si abbandonò a un altro sogno, quello di costringere gli uomini ad essere felici, anche con la forza. Ogni azione che gli sembrava contraria agli interessi del popolo suscitava in lui un'indignazione che gridava vendetta. Dolce come un bambino, provò degli odi politici feroci. Lui che non avrebbe fatto male a una mosca, parlava ad ogni momento del dovere di prendere le armi, La libertà fu la sua passione, una passione che non sentiva ragioni, assoluta, nella quale egli riversò tutto l'ardore del suo sangue. Cieco di entusiasmo, troppo ignorante e insieme troppo istruito per poter conoscere la tolleranza, non volle fare i conti con gli uomini così come sono; aveva bisogno di un regime ideale di intera giustizia e di intera libertà. Fu in questo periodo che suo zio Macquart pensò di scatenarlo contro i Rougon. Macquart pensò che quel giovane folle avrebbe fatto cose terribili, se egli fosse riuscito a portarlo al grado giusto di esasperazione. Un simile calcolo non era privo di una certa accortezza.

Antoine cercò, dunque, di attirare a sé Silvère, ostentando una straordinaria ammirazione per le idee del giovane. Da principio, poco mancò che il suo piano fallisse completamente. Egli concepiva il trionfo della Repubblica in modo egoistico, come un'èra di dolce far niente e di mangia-mangia senza fine; le pure aspirazioni morali di suo nipote ne rimasero urtate. Antoine capì di aver preso una strada sbagliata, e si mise a fingere uno strano pathos, esprimendosi con una sfilza di parole vacue e altisonanti, che a Silvère parvero una prova sufficiente di patriottismo. Ben presto zio e nipote si videro due o tre volte la settimana. Durante le loro lunghe discussioni, nelle quali l'avvenire della nazione era deciso senza ambàgi, Antoine cercò di persuadere il giovane che il salotto dei Rougon era il principale ostacolo alla felicità della Francia. Ma, di nuovo, commise un grosso sbaglio chiamando sua madre «vecchia canaglia» dinanzi a Silvère. Arrivò fino a raccontargli i comportamenti scandalosi di cui la poveretta si era macchiata tanto tempo fa. Il giovane, rosso di vergogna, lo ascoltò senza interromperlo. Non era stato lui a domandargli quelle cose; fu offeso da simili confidenze, che lo ferivano nella sua rispettosa tenerezza per la zia Dide. Da quel giorno in poi, raddoppiò le premure verso la nonna, ebbe per lei sorrisi affettuosi e affettuosi sguardi di perdono. Dal canto suo, Macquart si era accorto di aver commesso una sciocchezza, e si sforzò di approfittare dell'affetto di Silvère per accusare Rougon dello stato di abbandono e di miseria in cui avevano lasciato Adélaïde. A sentir lui, era stato il miglior figlio di questo mondo, ma suo fratello si era comportato in modo ignobile: aveva derubato sua madre, e, ora che era ridotta senza un soldo, si vergognava di lei. Su questo argomento non la smise più di parlare e parlare. Silvère s'indignò contro lo zio Pierre, con grande gioia dello zio Antoine.

Ad ogni visita di Silvère, si riproduceva la stessa scena. Egli arrivava, la sera, durante la cena della famiglia Macquart. Il padre ingoiava brontolando un po' di patate in umido; sceglieva per sé i pezzetti di lardo, e seguiva con lo sguardo il piatto quando passava tra le mani di Jean e di Gervaise.

«Vedi, Silvère», diceva con una rabbia sorda mal dissimulata sotto un'aria d'indifferenza ironica, «ancora patate, sempre patate! Non mangiamo più nient'altro che questa roba. La carne è per i ricchi. Diventa impossibile sbarcare il lunario, con dei ragazzi che hanno un diavolo di appetito».

Gervaise e Jean abbassavano il naso sul piatto, non osando neppure tagliarsi una fetta di pane. Silvère, perduto nel suo sogno, non si rendeva minimamente conto della situazione. Con voce tranquilla pronunciava queste parole gravide di tempesta:

«Ma, zio, voi dovreste lavorare».

«Ah, sì!», sogghignava Macquart punto sul vivo, «vuoi che io lavori, non è vero? Perché queste canaglie di ricchi mi sfruttino ancor più! Riuscirei forse a guadagnare venti soldi col risultato di avere i nervi a pezzi. Davvero ne varrebbe la pena!».

«Si guadagna quel che si può», rispondeva il giovane. «Venti soldi sono venti soldi, e sono un aiuto in una famiglia... Del resto, voi siete stato sotto le armi; perché non cercate un impiego?».

Allora Fine interveniva, con una storditaggine di cui si pentiva immediatamente.

«È quello che gli ripeto ogni giorno», diceva. «L'ispettore del mercato ha bisogno d'un aiutante; gli ho parlato di mio marito, lui sembra ben disposto verso di noi...».

Macquart la interrompeva fulminandola con un'occhiataccia.

«Eh, sta' zitta!», borbottava con una rabbia repressa. «Queste donne non sanno quello che dicono! Al mercato non ne vorrebbero sapere di me: conoscono troppo bene le mie idee».

Così, ad ogni posto che gli veniva offerto, s'irritava profondamente. Eppure non la smetteva di chiedere degli impieghi, tranne a rifiutare quelli che qualcuno gli trovava, adducendo i pretesti più strampalati. Quando si toccava questo tasto, diventava terribile.

Se Jean, dopo cena, prendeva in mano un giornale:

«Faresti meglio ad andare a letto. Domani ti alzerai tardi, e sarà ancora una giornata perduta... E pensare che quel ragazzaccio ha portato a casa otto franchi in meno, la settimana scorsa! Ma ho pregato il suo padrone di non consegnare più a lui la sua paga. Andrò a prenderla io».

Jean andava a letto per non sentire le recriminazioni di suo padre. Egli aveva poca simpatia per Silvère ; la politica lo infastidiva, e pensava che suo cugino fosse «tocco di cervello».

Quando rimanevano soltanto le donne, se per disgrazia, dopo avere sparecchiato, chiacchieravano a bassa voce, Macquart gridava:

«Ah, ecco le fannullone! Non c'è niente da rammendare, qui? Siamo tutti vestiti di stracci... Stammi a sentire, Gervaise, sono passato dalla tua padrona e ne ho saputo delle belle. Sei una vagabonda e una buona a nulla».

Gervaise, che aveva ormai più di vent'anni, si vergognava di essere rimbrottata così davanti a Silvère. Lui, davanti a lei, si sentiva a disagio. Una sera, essendo arrivato tardi, quando suo zio non era in casa, aveva trovato madre e figlia ubriache fradice davanti a una bottiglia vuota. Da allora, non poteva rivedere sua cugina senza ricordare lo spettacolo vergognoso di quella ragazza, che rideva di un riso grossolano, e sul suo povero visino pallido aveva larghe chiazze rosse. Era anche intimidito dalle brutte storie che correvano sul suo conto. Cresciuto in una castità da cenobita, la guardava qualche volta furtivamente, con lo stupore imbarazzato di un collegiale davanti a una prostituta.

Quando le due donne avevano preso in mano l'ago e si finivano gli occhi a rammendare le vecchie camicie di Macquart, costui, seduto sulla sedia migliore, si stirava voluttuosamente, bevendo un sorso dopo l'altro e fumando, come uno che gode nell'assaporare la sua fannullonaggine. Era quella l'ora in cui il vecchio ribaldo accusava i ricchi di bere il sudore della povera gente. Aveva dei magnifici scatti di sdegno contro quei signori della città nuova, che vivevano nell'ozio e si facevano mantenere a spese del popolo. I brandelli d'idee comuniste che aveva adocchiato la mattina, scorrendo i giornali, assumevano in bocca sua un carattere grottesco e mostruoso. Parlava di un'epoca ormai prossima nella quale nessuno sarebbe stato costretto a lavorare. Ma le più feroci espressioni di odio le riservava per i Rougon. Non riusciva a digerire le patate che aveva mangiato.

«Ho visto stamattina», diceva, «quella canaglia di Félicité che comperava un pollo al mercato... Mangiano il pollo, questi ladri di eredità!».

«La zia Dide», rispondeva Silvère, «sostiene che mio zio Pierre è stato generoso con voi, al vostro ritorno dal servizio militare. Non ha speso una grossa somma per darvi vestiti e alloggio?».

«Una grossa somma!», urlava Macquart esasperato. «Tua nonna è pazza... Sono dei briganti quelli che hanno messo in giro queste dicerie, per tapparmi la bocca. Io non ho avuto nulla».

Fine interveniva, ancora una volta con poca accortezza, per rammentare a suo marito che aveva avuto duecento franchi, più un vestito completo e un anno di affitto. Antoine le gridava di stare zitta, e continuava con furia crescente:

«Duecento franchi' Un buon affare davvero! Io voglio quello che mi spetta, diecimila franchi. Ah, sì, ricordiamo anche il bugigattolo in cui mi hanno gettato come un cane, e la vecchia redingote che Pierre mi ha dato, perché si vergognava a mettersela, tanto era sporca e piena di buchi!».

Mentiva; ma, dinanzi alla sua collera, nessuno più protestava. Poi, rivolgendosi a Silvère, aggiungeva:

«Sei ancora proprio un ingenuo, tu che li difendi! Hanno rapinato tua madre e quella brava donna non sarebbe morta se avesse avuto i denari per curarsi».

«No, non siete giusto, zio», diceva il giovane; «mia madre non è morta per mancanza di denaro, e io so che mio padre non avrebbe mai accettato un soldo dalla famiglia di sua moglie».

«Basta! Non farmi andare in bestia! Tuo padre avrebbe preso il denaro come qualsiasi altro. Noi siamo stati indegnamente svaligiati; dobbiamo rientrare in possesso di quello .che è nostro».

E Macquart ricominciava per la centesima volta la storia dei cinquantamila franchi. Silvère, che la sapeva a memoria, con tutte le variazioni con cui la abbelliva, stava a sentire con una certa impazienza.

«Se tu fossi un uomo», concludeva Antoine, «verresti con me un giorno o l'altro, e faremmo un fracasso del diavolo in casa dei Rougon. Non usciremmo senza che ci dessero del denaro».

Ma Silvère si faceva serio e diceva con voce risoluta:

«Se quei miserabili ci hanno derubato, peggio per loro! Io non ne voglio sapere del loro denaro. Rendetevene conto, zio, non spetta a noi colpire la nostra famiglia. Hanno agito male, saranno puniti terribilmente un giorno».

«Ah, che fiore di innocenza!», gridava lo zio. «Quando saremo noi i più forti, vedrai se non ci penserò da me a sistemare i miei affarucci. Figurati se il buon Dio pensa a noi! Famiglia sudicia, famiglia sudicia la nostra! Potrei crepare di fame, e nemmeno uno di quei mascalzoni mi butterebbe un tozzo di pane duro».

Quando Macquart prendeva l'aìre su questo argomento, non si chetava più. Mostrava a nudo le ferite sanguinanti della sua invidia. Vedeva rosso appena gli veniva in mente che lui solo, in famiglia, non aveva avuto fortuna, e che mangiava patate mentre quegli altri avevano carne a volontà. Tutta la sua parentela, fino ai pronipoti, veniva allora passata al setaccio, e per ciascuno egli escogitava ingiurie e minacce.

«Sì, sì», ripeteva con rancore, «mi lascerebbero crepare come un cane».

Gervaise, senza sollevare la testa, senza smettere di far lavorare l'ago, qualche volta diceva timidamente:

«Eppure, babbo, mio cugino Pascal è stato buono verso di noi, l'anno scorso, quando eri malato».

«Ti ha curato senza chiederti mai un soldo», interveniva Fine in appoggio a sua figlia, «e spesso mi ha dato di nascosto delle monete da cinque franchi perché potessi farti del brodo».

«Lui! Mi avrebbe fatto crepare, se non avessi avuto una buona costituzione!», gridava Macquart. «State zitte, bestie! Vi lascereste prendere in giro come dei bambinetti. Quelli là, tutti, vorrebbero vedermi morto. Quando sarò malato, vi prego di non andar più a chiamare mio nipote, perché già l'altra volta non ero troppo tranquillo, sentendomi tra le sue mani. È un medico da quattro soldi, non ha una sola persona distinta tra i suoi clienti».

Una volta preso lo slancio, Macquart non si fermava più.

«È come quella piccola vipera di Aristide», continuava; «è un fratello falso, un traditore. Forse tu, Silvère, ti lasci abbindolare dai suoi articoli dell'"Indépendant"? Saresti davvero il più grande ingenuo di questo mondo. Non sono nemmeno scritti in francese, i suoi articoli. Io l'ho sempre detto, che quel repubblicano di contrabbando è d'accordo col suo degno padre per burlarsi di noi. Vedrai che voltafaccia farà... E suo fratello, l'illustre Eugène, quel bestione di cui i Rougon sono tanto orgogliosi! Hanno la faccia tosta di sostenere che ha un'alta posizione a Parigi! La so io, la sua posizione. È impiegato in rue de Jérusalem; è una spia...».

«Chi ve l'ha detto? Voi non ne sapete niente», lo interrompeva Silvère, il cui spirito onesto finiva con sentirsi offeso dalle accuse menzognere di suo zio.

«Ah, non ne so niente? Lo credi? Ti dico che è una spia... Ti farai tosare come un agnello, con la tua dabbenaggine. Tu non sei un uomo. Io non voglio parlar male di tuo fratello François; ma, se fossi in te, avrei una rabbia bella e buona per il suo comportamento da spilorcio nei tuoi riguardi. Guadagna somme di danaro grosse quanto lui, a Marsiglia, e mai e poi mai ti manderebbe una miserabile moneta da venti franchi per i tuoi svaghi. Se una volta o l'altra cadi in miseria, non ti consiglio di rivolgerti a lui».

«Non ho bisogno di nessuno», rispondeva Silvère con una voce fiera e alquanto alterata. «Il mio lavoro ci basta, a me e alla zia Dide. Siete cattivo, zio».

«Io dico la verità, ecco tutto... Io vorrei aprirti gli occhi. La nostra famiglia è una famiglia ignobile: è triste, ma è così. Perfino il piccolo Maxime, il figlio di Aristide, quel bamboccio di nove anni, mi fa le boccacce quando m'incontra. Verrà il giorno in cui quel bambino picchierà sua madre, e sarà una cosa ben fatta. Va' là, hai un bel dire, tutti quei signori non meritano la loro fortuna. Ma succede sempre così nelle famiglie: i buoni soffrono e i cattivi se la spassano».

Tutti quei panni sporchi che Macquart si divertiva tanto a lavare in faccia a suo nipote amareggiavano profondamente il giovane. Egli avrebbe voluto risalire nella sfera dei suoi sogni. Quando Silvère si mostrava troppo spazientito, Antoine usava un mezzo infallibile per esasperarlo contro i parenti.

«Difendili, difendili pure!», diceva facendo finta di calmarsi. «Io, tutto sommato, mi sono arrangiato in modo da non aver più a che fare con loro. Quel che ti dico sul loro conto, te lo dico per affetto verso la mia povera madre, che tutta questa cricca tratta davvero in una maniera indegna».

«Sono dei miserabili!», mormorava Silvère.

«Oh, tu non sai nulla, non senti nulla, tu! Non ci sono ingiurie che i Rougon non dicano contro quella brava donna. Aristide ha proibito a suo figlio di salutarla. Félicité sta progettando di farla rinchiudere in manicomio».

Silvère, bianco come un cencio lavato, interrompeva bruscamente suo zio.

«Basta!», gridava, «non voglio saperne di più. Bisognerà che tutto ciò finisca».

«Mi metto zitto per non irritarti», replicava il vecchio briccone fingendosi di animo delicato. «Tuttavia ci sono cose che tu non devi ignorare, a meno che non voglia far la parte di un imbecille».

Pur sforzandosi di aizzare Silvère contro i Rougon, Macquart provava una gioia raffinata nel fare sgorgare lacrime di dolore dagli occhi del giovane. Lo detestava forse più degli altri, perché era un lavoratore eccellente e non beveva mai. Perciò affilava la lama della sua crudeltà inventando atroci menzogne che colpivano al cuore il povero ragazzo. Allora gioiva del suo pallore, del tremito delle sue mani, dei suoi sguardi pieni di dolore, con la voluttà di un malvagio che calcola bene i suoi colpi e che ha ferito la sua vittima nel punto giusto. Poi, quando gli pareva di aver ferito ed esasperato Silvère a sufficienza, passava finalmente alla politica.

«Mi hanno assicurato», diceva abbassando la voce, «che i Rougon preparano un brutto tiro».

«Un brutto tiro?», chiedeva Silvère, fattosi attento.

«Sì: progettano di arrestare, una delle prossime notti, tutti i buoni cittadini di Plassans e di gettarli in prigione».

Da principio il giovane era incredulo. Ma suo zio dava particolari precisi: parlava di elenchi già stesi, faceva i nomi di quelli che si trovavano in questi elenchi, indicava in qual modo, a quale ora, in quali circostanze il complotto sarebbe stato attuato. A poco a poco Silvère si lasciava ingannare da questa storia da donnicciole, e ben presto s'infuriava contro i nemici della Repubblica.

«Sono loro», gridava, «che dovremmo ridurre all'impotenza, se continuano a tradire la nazione. E che pensano di fare dei cittadini che arresteranno?».

«Che pensano di farne!», rispondeva Macquart con un risolino amaro; «li fucileranno nei sotterranei delle prigioni».

E siccome il giovane, esterrefatto, lo guardava senza riuscire a trovare una parola:

«E non saranno i primi che verranno assassinati», continuava Macquart. «Va' un poco a gironzolare, la sera, dietro il Palazzo di giustizia, e sentirai colpi d'arma da fuoco e gemiti».

«Oh, infami!», mormorava Silvère.

Allora zio e nipote si lanciavano nell'alta politica. Fine e Gervaise, vedendoli infervorati, andavano pian piano a dormire, senza che quelli se ne accorgessero. Fino a mezzanotte i due uomini rimanevano a commentare le notizie provenienti da Parigi, a parlare della lotta imminente e inevitabile. Macquart inveiva con parole amare contro gli uomini del suo partito; Silvère sognava a occhi aperti, e soltanto per sé, il proprio sogno di libertà ideale. Strane conversazioni, durante le quali lo zio beveva un numero incalcolabile di bicchierini, e dalle quali il nipote usciva ebbro d'entusiasmo. Tuttavia Antoine non riuscì mai ad ottenere dal giovane repubblicano l'assenso a una vendetta ben calcolata, a un piano di guerra contro i Rougon; ebbe un bell'insistere, sentì uscire dalla sua bocca soltanto degli appelli alla giustizia eterna che, presto o tardi, avrebbe punito i malvagi.

Certo, il generoso ragazzo diceva con voce febbrile che bisognava prendere le armi e massacrare i nemici della Repubblica; ma, appena i nemici uscivano dalla genericità del sogno e s'impersonavano in suo zio Pierre o in ogni altra persona di sua conoscenza, egli faceva assegnamento sul Cielo perché gli risparmiasse l'orrore dello spargimento di sangue. Probabilmente avrebbe anche smesso di frequentare Macquart, il cui invido furore gli causava una sorta di malessere, se non avesse gustato la gioia di parlare liberamente, in casa sua, della sua cara Repubblica. Tuttavia, suo zio ebbe su di lui un influsso decisivo: eccitò i suoi nervi con le sue continue diatribe; finì col fargli desiderare con asprezza la lotta armata, la conquista violenta della felicità universale.

Quando Silvère entrò nel suo sedicesimo anno di età, Macquart lo fece iniziare alla società segreta dei Montagnardi, quella società potente che si estendeva per tutto il Mezzogiorno. Da allora, il giovane repubblicano divorò con gli occhi la carabina del contrabbandiere, che Adélaïde aveva appeso sulla cappa del camino. Una notte, mentre sua nonna dormiva, egli la pulì, la rimise in stato di funzionare. Poi la riappese al chiodo e aspettò. Si cullava nelle sue fantasticherie di «illuminato», sognava gigantesche epopee, vedeva, nella sua immaginazione di idealista, lotte omeriche, specie di tornei cavallereschi, da cui i difensori della libertà uscivano vittoriosi e acclamati dal mondo intero.

Macquart, nonostante l'inutilità dei suoi sforzi, non si scoraggiò. Disse a se stesso che ce l'avrebbe fatta da solo a strangolare i Rougon, se un giorno avesse potuto tender loro un agguato. La sua irosità di fannullone invidioso e avido si accrebbe ancora in seguito a una serie di disgrazie che lo costrinsero a rimettersi a lavorare. Verso i primi giorni del 1850, Fine morì quasi improvvisamente di una polmonite che aveva preso andando a lavare, una sera, la biancheria di famiglia nelle acque della Viorne, e riportandola umida sulla schiena; rientrò madida d'acqua e di sudore, schiacciata da quel fardello che pesava enormemente, e non si risollevò più. Quella morte fu un duro colpo per Macquart. Il suo guadagno più sicuro gli sfuggiva. Quando, in capo a qualche giorno, vendette il paiolo nel quale sua moglie aveva fatto bollire le castagne e il trespolo che le serviva per rimpagliare le vecchie seggiole, accusò con parole violente il buon Dio di avergli rapito la defunta, quella donna forte di cui si era vergognato e di cui adesso sentiva tutto il valore. Si gettò con avidità ancor maggiore sui guadagni dei figli. Ma, un mese dopo, Gervaise, stanca delle continue esigenze del padre, andò via coi suoi due bambini e con Lantier, la cui madre era morta. I due amanti si rifugiarono a Parigi. Antoine, costernato, insultò ignobilmente sua figlia, augurandole di crepare all'ospedale, come le donne della sua risma. Questo trabocco di ingiurie non migliorò la sua situazione, che si faceva davvero cattiva. Ben presto anche Jean seguì l'esempio di sua sorella. Aspettò un giorno in cui si riscuoteva il salario e seppe agire in modo da metter lui le mani sul proprio denaro. Partendo, disse a un suo amico, il quale lo ripeté ad Antoine, che non voleva più mantenere a sue spese quel fannullone di suo padre, e che, se questi pensava di farlo ricondurre a casa dai gendarmi, egli era ben deciso a non toccare più né una sega né una pialla. L'indomani, quando Antoine lo ebbe cercato invano e si trovò solo, senza un soldo, nell'appartamento in cui si era fatto lautamente mantenere per vent'anni, fu preso da una rabbia atroce, si mise a dar calci ai mobili, a urlare le più mostruose imprecazioni. Poi si accasciò, incominciò a strascinare le gambe, a gemere come un infermo. La paura di doversi guadagnare il pane lo rendeva malato per davvero. Quando Silvère venne a vederlo, si lagnò, piangendo, dell'ingratitudine dei figli. Non era stato sempre un buon padre? Jean e Gervaise erano dei mostri, che ricompensavano nel peggior modo tutto quello che lui aveva fatto per loro. Ora lo abbandonavano perché era vecchio e loro non potevano più spremere nulla da lui.

«Ma, zio», disse Silvère, «voi siete ancora in un'età da poter lavorare».

Macquart, tossendo, curvando la schiena, scosse lugubremente la testa, come per dire che non avrebbe retto a lungo alla minima fatica. Quando suo nipote stava per andarsene, prese a prestito da lui dieci franchi. Andò avanti per un mese, portando a un rivendugliolo, ad uno ad uno, gli oggetti che erano appartenuti ai suoi figli e vendendo, a poco a poco, tutta la minutaglia che trovava in casa. Quando fu alla fine di ogni risorsa, piangendo di rabbia, col pallore feroce d'un uomo che, disperato, decide di suicidarsi, si mise a cercare il pacco di vimini dimenticato in un angolo da un quarto di secolo. Quando lo prese, ebbe l'aria di sollevare una montagna. E si rimise a intrecciare ceste e panieri, accusando il genere umano di averlo abbandonato. Allora più che mai si mise a parlare di spartizione dei beni dei ricchi. Si mostrò terribile. Coi suoi discorsi infiammava tutto il caffeuccio, dove i suoi sguardi furibondi gli assicuravano un credito illimitato. Del resto, egli lavorava solo nei giorni in cui non era riuscito a spillare cento soldi a Silvère o a un suo compagno. Non fu più «il signor Macquart», l'artigiano ben rasato e vestito a festa tutti i giorni, che si dava arie da borghese; ridiventò il teppista male in arnese che, un tempo, aveva speculato sui propri stracci. Ora che egli era presente quasi tutti i giorni di mercato per vendere i suoi panieri, Félicité non osava più recarsi là. Una volta lui le fece una scenata atroce. Il suo odio per i Rougon cresceva col crescere della sua povertà. Giurava - e accompagnava il giuramento con terribili minacce - di farsi giustizia da sé, dal momento che i ricchi erano in combutta fra loro per costringerlo a lavorare.

In questo stato d'animo, Macquart accolse il colpo di Stato con la gioia calda e bruciante di un cane che fiuta la preda. Siccome i pochi liberali degni di stima che c'erano a Plassans non erano riusciti a intendersi e si tenevano in disparte, egli si trovò ad essere, per la forza delle cose, uno dei più ascoltati fautori dell'insurrezione. Gli operai, nonostante la disistima che avevano finito con l'avere nei riguardi di codesto fannullone, si videro costretti a prenderlo, in quell'occasione, come una bandiera attorno a cui raccogliersi. Ma nei primi giorni, poiché la città rimaneva tranquilla, Macquart temé che i suoi piani andassero in fumo. Solamente quando giunsero le notizie della sollevazione delle campagne, egli si rimise a sperare. Non voleva andarsene da Plassans per nulla al mondo; perciò inventò un pretesto per non unirsi agli operai che, la domenica mattina, andarono a raggiungere la banda d'insorti della Palud e di Saint-Martin-de-Vaulx. La sera di quello stesso giorno egli si trovava con alcuni suoi fedeli in un'osteriaccia del quartiere vecchio, quando un compagno accorse a informarli che gli insorti si trovavano a pochi chilometri da Plassans. Questa notizia era stata portata da una staffetta che era riuscita a introdursi in città, e che era incaricata di far aprire le porte alla colonna degli insorti. Vi fu un'esplosione di gioia. Soprattutto Macquart sembrò delirante di entusiasmo. L'arrivo imprevisto degli insorti gli parve una delicata premura della Provvidenza nei suoi riguardi. Le sue mani tremavano al pensiero che tra poco avrebbe stretto alla gola i Rougon.

Antoine e i suoi amici uscirono in fretta dall'osteria. Tutti i repubblicani che non avevano ancora lasciato la città si trovarono ben presto riuniti nel corso Sauvaire. Era questo gruppo quello che Rougon aveva visto mentre correva a nascondersi in casa di sua madre. Quando il gruppo fu arrivato all'altezza di rue de la Banne, Macquart, che si era messo alla coda, fece rimanere indietro quattro dei suoi compagni, omaccioni di poco cervello che egli dominava con tutte le sue chiacchiere da caffè. Non durò fatica a persuaderli che bisognava arrestare immediatamente i nemici della Repubblica, se si volevano evitare le sciagure più gravi. La verità era che egli temeva di vedersi sfuggire di mano Pierre, in mezzo al parapiglia che l'entrata degli insorti avrebbe causato. I quattro omaccioni lo seguirono con una docilità esemplare e andarono a bussare con violenza alla porta dei Rougon. In quel momento critico, Félicité mostrò un coraggio ammirevole. Scese ad aprire la porta che dava sulla strada.

«Vogliamo salire su da te», disse brutalmente Macquart

«Bene, signori, salite», rispose lei con una gentilezza ironica, fingendo di non riconoscere suo cognato.

Salito sopra, Macquart le ordinò di andare a cercare suo marito.

«Mio marito non è qui», disse Félicité sempre più calma, «è in viaggio per affari; ha preso la diligenza per Marsiglia, stasera alle sei».

Antoine, davanti a questa dichiarazione fatta con voce sicura, ebbe un moto di rabbia. Entrò violentemente nel salotto, di li passò nella camera, mise sottosopra il letto, guardò dietro le tendine e sotto i mobili. I quattro omaccioni lo aiutavano. Rovistarono l'appartamento per un quarto d'ora. Félicité, tranquilla, si era seduta sul divano del salotto ed era affaccendata a riannodare i cordoncini del suo vestito, come una persona che è stata sorpresa nel sonno e che non ha avuto il tempo di vestirsi come si deve.

«Eppure è vero, l'ha fatta franca, quel vigliacco», borbottò Macquart rientrando nel salotto.

Continuò tuttavia a guardare attorno a sé con uno sguardo sospettoso. Intuiva che Pierre non poteva avere abbandonato la partita nel momento decisivo. Si avvicinò a Félicité che sbadigliava.

«Fammi sapere dove tuo marito si è nascosto», le disse, «e ti prometto che non gli sarà fatto alcun male».

«Vi ho detto la verità», rispose lei con tono spazientito. «Io non posso dare in vostro potere mio marito, perché non è qui. Avete guardato dappertutto, no? Ora lasciatemi in pace».

Macquart, esasperato dal suo sangue freddo, stava certamente per picchiarla, quando un brusio salì dalla strada. Era la colonna degli insorti che imboccava rue de la Banne.

Macquart dovette lasciare il salotto giallo, dopo aver mostrato i pugni a sua cognata, dandole della vecchia strega e minacciandola di ritornare presto. In fondo alla scala, egli prese a parte uno degli uomini che l'avevano accompagnato, uno sterratore che si chiamava Cassoute, il più grosso dei quattro, e gli ordinò di sedersi sul primo gradino e di non muoversi di lì fino a nuovo ordine.

«Vieni ad avvertirmi», gli disse, «se per caso vedessi rincasare il farabutto che abita lassù».

L'uomo si sedette pesantemente. Quando Macquart fu sul marciapiede, alzò lo sguardo e vide Félicité affacciata a una finestra del salotto giallo, che guardava con curiosità gli insorti che sfilavano, come se si trattasse. d'un reggimento che attraversava la città, con la musica in testa. Quest'ultima dimostrazione di tranquillità lo irritò fino a tal punto che per un momento ebbe la tentazione di risalire e di scaraventare la vecchia giù nella strada. Seguì la colonna mormorando con voce sorda:

«Sì, sì, guardaci passare. Vedremo se anche domani ti affaccerai alla finestra».

Erano quasi le undici della sera quando gli insorti entrarono in città dalla Porta di Roma. Furono gli operai rimasti a Plassans che aprirono loro quella porta a due battenti, nonostante le proteste del guardiano; soltanto con la forza poterono strappargli di mano le chiavi. Quell'uomo, gelosissimo della sua mansione, restò annientato davanti a quella marea umana, lui che non lasciava entrare più di una persona alla volta, dopo averla fissata in viso a lungo; diceva fra sé che era disonorato. In testa alla colonna marciavano ancora gli uomini di Plassans, guidando gli altri; Miette, in prima fila, con Silvère alla sua sinistra, teneva alta la bandiera con aria ancor più spavalda, poiché intuiva, dietro le persiane chiuse, sguardi atterriti di borghesi svegliati di soprassalto. Gli insorti percorsero con prudente lentezza rue de Rome e rue de la Banne: ad ogni crocevia temevano di essere accolti a fucilate, sebbene conoscessero l'indole poco battagliera degli abitanti. Ma la città sembrava morta; a mala pena si udivano dalle finestre delle esclamazioni soffocate. Soltanto cinque o sei persiane si aprirono; alcuni vecchi possidenti si mostrarono, in camicia da notte, con una candela, sporgendosi per veder meglio; poi, appena codesti bempensanti discernevano la grande ragazza rossa che sembrava trascinasse dietro di sé quella folla di demòni neri, richiudevano precipitosamente le finestre, atterriti da quell'apparizione diabolica. Il silenzio della città addormentata tranquillizzò gli insorti, i quali si arrischiarono a inoltrarsi nelle viuzze del quartiere vecchio, e arrivarono così in piazza del Mercato e in piazza del Municipio, comunicanti tra loro mediante una strada corta e larga. Le due piazze, circondate da alberi grami, erano illuminate dalla luna in tutto il suo chiarore. L'edificio del municipio, restaurato di recente, appariva, sullo sfondo del cielo chiaro, come una grande macchia d'un bianco crudo, sulla quale il balcone del primo piano faceva spiccare le piccole strisce nere dei suoi arabeschi in ferro battuto. Si scorgevano chiaramente molte persone in piedi su quel balcone: il sindaco, il maggiore Sicardot, tre o quattro consiglieri comunali e altri funzionari. In basso, il portone era chiuso. I tremila repubblicani, che riempivano le due piazze, si fermarono, alzando la testa, pronti a sfondare le porte a spallate.

L'arrivo della colonna degli insorti a quell'ora aveva còlto di sorpresa le autorità. Prima di recarsi al municipio, il maggiore Sicardot aveva perso tempo per andare a indossare la divisa. Poi dovette andare di corsa a svegliare il sindaco. Quando il guardiano della porta di Roma, lasciato libero dagli insorti, venne ad annunciare che gli scellerati erano già in città, il maggiore era riuscito a radunare a gran fatica soltanto una ventina di guardie nazionali. Nemmeno i gendarmi poterono essere avvisati, benché la loro caserma non fosse lontana. Bisognò chiudere in fretta la porta del municipio per discutere sul da farsi. Cinque minuti dopo, un rumore sordo e continuo preannunciava l'arrivo della colonna.

Garçonnet, per odio verso la Repubblica, avrebbe vivamente desiderato di difendersi. Ma era un uomo prudente e capi l'inutilità della lotta, vedendo attorno a sé soltanto pochi uomini pallidi e svegliati appena allora. La discussione non fu lunga. Soltanto Sicardot si ostinò: voleva battersi, sosteneva che venti uomini sarebbero bastati per ridurre alla ragione quei tremila farabutti. Garçonnet alzò le spalle e dichiarò che l'unica decisione possibile era di capitolare in modo non disonorante. Poiché le grida della folla si facevano più forti, egli venne sul balcone, e lì lo seguirono tutti i presenti. A poco a poco si fece silenzio. In basso, nella massa nera e fremente degli insorti, i fucili e le falci luccicavano al chiaro di luna.

«Chi siete e che cosa volete?», chiese il sindaco ad alta voce.

Allora un uomo incappottato, un proprietario della Palud, si fece avanti.

«Aprite il portone», disse senza rispondere alle domande di Garçonnet. «Evitate una lotta fratricida».

«Io v'intimo di ritirarvi», replicò il sindaco. «Io protesto in nome della legge».

Queste parole suscitarono nella folla un clamore assordante. Quando il tumulto si fu un po' calmato, frasi veementi si fecero sentire fin su al balcone. Alcune voci gridarono:

«È in nome della legge che siamo venuti».

«Il vostro dovere, come funzionario, è di far rispettare la legge fondamentale del Paese, la Costituzione, che è stata ignobilmente violata».

«Viva la Costituzione! Viva la Repubblica!».

E siccome Garçonnet cercava di farsi ascoltare e continuava ad invocare la sua qualità di funzionario, il proprietario della Palud, che era rimasto sotto il balcone, lo interruppe con grande energia:

«Voi non siete più nient'altro che il funzionario di un funzionario decaduto; noi veniamo ad esautorarvi».

Fin allora, il maggiore Sicardot si era morso con furore i baffi, masticando ingiurie a bassa voce. La vista dei bastoni e delle falci lo esasperava; faceva sforzi inauditi per non trattare come meritavano quei soldati da quattro soldi, che non avevano neppure un fucile per ciascuno. Ma quando udì che un signore vestito d'un semplice cappotto diceva di voler esautorare un sindaco che cingeva la sciarpa, non riuscì più a stare zitto; gridò:

«Massa di canaglie! Se io avessi soltanto quattro soldati e un caporale, scenderei a tirarvi le orecchie per richiamarvi all'ordine!».

Ce n'era più del necessario per suscitare gli incidenti più gravi. Un lungo grido corse tra la folla, la quale si precipitò contro le porte del municipio. Garçonnet, costernato, si affrettò a ritirarsi dal balcone, supplicando Sicardot di essere ragionevole, se non voleva farli tutti massacrare dagli insorti. In due minuti il portone cedette, la folla invase il municipio e disarmò le guardie nazionali. Il sindaco e gli altri funzionari presenti furono arrestati. Sicardot, che voleva rifiutarsi di consegnare la sua spada, dovette esser protetto dal capo del contingente delle Tulettes, uomo di grande sangue freddo, contro l'esasperazione di alcuni insorti. Quando il municipio fu in potere dei repubblicani, questi condussero i prigionieri in un piccolo caffè della piazza del Mercato, dove furono guardati a vista.

L'armata insurrezionale avrebbe evitato di attraversare Plassans, se i capi non avessero pensato che un po' di cibo e qualche ora di riposo erano un'assoluta necessità per i loro uomini. Invece di puntare direttamente sul capoluogo, la colonna, per un'inesperienza e un'indecisione imperdonabili del generale improvvisato che la comandava, stava compiendo allora una conversione a sinistra, una sorta di largo giro che doveva condurla al disastro. Essa si dirigeva verso gli altipiani di Sainte-Roure, distanti ancora una decina di leghe, ed era la prospettiva di questa lunga marcia che l'aveva decisa a penetrare in città, nonostante l'ora tarda. Saranno state le undici e mezzo.

Quando Garçonnet seppe che la banda voleva dei viveri, si offrì per procurarli. Questo funzionario mostrò, in una circostanza così difficile, un intùito molto chiaro della situazione. A quei tremila affamati bisognava dar soddisfazione; Plassans, al risveglio, non doveva trovarli ancora seduti sui marciapiedi delle strade; se fossero partiti prima dell'alba, sarebbero semplicemente passati attraverso la città addormentata come un brutto sogno, come uno di quegli incubi che l'alba dissolve. Pur rimanendo prigioniero, Garçonnet, seguito da due guardiani, andò a picchiare alle porte dei fornai e fece distribuire agli insorti tutte le provviste che poté scovare.

Verso l'una di notte, i tremila uomini, accovacciati a terra, tenendo fra le gambe le loro armi, mangiavano. La piazza del Mercato e quella del Municipio si erano trasformate in grandi refettori. Nonostante il freddo intenso, c'erano degli sprazzi di buon umore in quella folla brulicante, di cui anche i più piccoli gruppi erano illuminati nettamente dal vivo chiarore lunare. I poveri affamati divoravano allegramente la loro parte, soffiandosi sulle mani; dal fondo delle strade vicine, dove si scorgevano vaghe forme scure sedute sulle soglie bianche delle case, giungevano anche delle risate improvvise che passavano tra l'ombra e si perdevano nel brusio generale. Alle finestre, alcune buone donne con la cuffia in testa, rese audaci dalla curiosità, guardavano il pasto di quei terribili insorti, di quei bevitori di sangue che, a turno, andavano a bere alla pompa del mercato, nel cavo delle mani.

Mentre il municipio era invaso, la gendarmeria, situata a due passi, nella rue Canquoin, che dà sul mercato, cadeva anch'essa in potere del popolo. I gendarmi furono sorpresi a letto e disarmati in pochi minuti. La spinta della folla aveva condotto da quella parte Miette e Silvère. La ragazza, che stringeva sempre al petto l'asta della bandiera, si trovò addossata al muro della caserma, mentre il giovane, trascinato dalla fiumana degli insorti, penetrava nell'interno e aiutava i suoi compagni a strappar di mano ai gendarmi le carabine che avevano afferrato in tutta fretta. Silvère, inferocito, inebriato dallo slancio di tutta la banda, si scagliò contro un diavolaccio di gendarme, di nome Rengade, col quale lottò per qualche istante. Con un movimento brusco riuscì a togliergli la carabina. La canna dell'arma andò a colpire violentemente Rengade al viso e gli cavò l'occhio destro. Il sangue sgorgò, degli spruzzi andarono a macchiare le mani di Silvère, il cui furore svanì d'un tratto. Egli si guardò le mani, lasciò andar giù la carabina; poi uscì di corsa, fuori di sé, scuotendo le dita.

«Sei ferito!», gridò Miette.

«No, no», rispose Silvère con voce soffocata, «è un gendarme che ho ucciso».

«È morto?».

«Non lo so; aveva la faccia coperta di sangue. Vieni, presto».

Trascinò con sé la ragazza. Giunto al mercato, la fece sedere su una panchina di pietra. Le disse di aspettarlo lì. Si guardava sempre le mani, balbettava. Dalle sue parole smozzicate, Miette finì col capire che voleva andare ad abbracciare la sua nonna prima di partire.

«Ebbene, va'», disse lei. «Non preoccuparti di me. Lavati le mani».

Lui si allontanò velocemente, tenendo le dita distanti tra loro, senza pensare a immergerle nelle fontane vicino alle quali passava. Da quando aveva sentito sulla pelle il tepore del sangue di Rengade, una sola idea lo possedeva: correre dalla zia Dide e lavarsi le mani nella vasca del pozzo, in fondo al cortiletto. Soltanto là pensava di poter far sparire quel sangue. Tutta la sua infanzia dolce e tenera si risvegliava; provava un bisogno irresistibile di rifugiarsi tra le braccia della nonna, non fosse che per un minuto solo. Arrivò ansimante. La zia Dide non era a letto; in qualsiasi altra circostanza, ciò avrebbe meravigliato Silvère. Ma egli non vide neppure, entrando, suo zio Rougon, seduto in un angolo, sul vecchio baule. Non aspettò che la povera vecchia gli rivolgesse domande.

«Nonna», disse in gran fretta, «dovete perdonarmi... Sto per partire con gli altri... Vedete qui, ho del sangue... Credo di aver ucciso un gendarme».

«Tu hai ucciso un gendarme!», ripeté la zia Dide con una voce strana.

Un chiarore acuto si accese nei suoi occhi fissi sulle macchie di sangue. Tutt'a un tratto si voltò verso la cappa del camino.

«Hai preso il fucile», disse; «dov'è il fucile?».

Silvère, che aveva lasciato la carabina in custodia a Miette, le giurò che l'arma era al sicuro. Per la prima volta Adélaïde fece un'allusione al contrabbandiere Macquart dinanzi a suo nipote.

«Riporterai il fucile? Me l'hai promesso!», disse lei con un'eccezionale energia. «È tutto quello che mi rimane di lui... Tu hai ucciso un gendarme; lui, sono stati i gendarmi a ucciderlo».

Continuava a guardare fissamente Silvère, con un'aria di soddisfazione crudele; non sembrava che pensasse a trattenerlo. Non gli chiese alcuna spiegazione, non pianse affatto, a differenza di quelle buone nonne che per un minimo graffio vedono già i loro nipotini moribondi. Tutto il suo essere era teso verso un unico pensiero, che essa finì per esprimere con una curiosità ardente:

«È col fucile che hai ucciso il gendarme?», chiese.

Certamente Silvère capì male o non capì affatto.

«Sì», rispose. «... Vado a lavarmi le mani».

Solo nel ritornare dal pozzo scorse suo zio. Pierre aveva udito con terrore le parole del giovane. Félicité aveva ragione: davvero, la sua famiglia faceva di tutto per comprometterlo. Ecco che un suo nipote si metteva ad ammazzare i gendarmi! Egli non avrebbe mai avuto il posto di ricevitore se non impediva a quel pazzo furioso di raggiungere gli insorti. Si mise davanti alla porta, deciso a non lasciarlo uscire.

«Sentite», disse a Silvère che era molto meravigliato di trovarlo là, «io sono il capofamiglia, io vi proibisco di lasciare questa casa. È in gioco il vostro e il nostro onore. Domani cercherò di farvi passare il confine».

Silvère alzò le spalle.

«Lasciatemi passare», rispose con voce calma. «Io non sono una spia; non farò sapere a nessuno il vostro nascondiglio, state tranquillo».

E siccome Rougon continuava a parlare della dignità della famiglia e dell'autorità che egli aveva perché era il primogenito:

«Sono forse uno della vostra famiglia?», continuò il giovane. «Voi mi avete sempre rinnegato. Oggi la paura vi ha fatto venir qui, perché avete capito bene che il giorno della giustizia è venuto. Avanti, fatemi passare! Io non mi nascondo mica; ho un dovere da compiere».

Rougon non si muoveva. Allora la zia Dide, che ascoltava le veementi parole di Silvère con una specie di estasi, posò la mano ossuta sul braccio di suo figlio.

«Scòstati, Pierre», disse, «il ragazzo deve uscire».

Il giovane dette una leggera spinta a suo zio e si slanciò fuori. Rougon, richiudendo con cura la porta, disse a sua madre con una voce piena d'ira e di minaccia:

«Se gli succede una disgrazia, sarà colpa vostra... Voi siete una vecchia pazza, non sapete quel che avete fatto».

Ma sembrò che Adélaïde non lo sentisse nemmeno; andò a gettare un ramo nel fuoco che si stava spengendo, e mormorò con un misterioso sorriso:

«Riconosco tutto ciò... Lui restava lontano per mesi interi; poi ritornava a me più forte di prima».

Senza dubbio parlava di Macquart,

Nel frattempo Silvère ritornò di corsa al mercato. Mentre si avvicinava al luogo dove aveva lasciato Miette, sentì un violento rumore di voci e vide un assembramento di gente che gli fece affrettare il passo. Era appena accaduta una scena feroce. Dei curiosi circolavano tra la folla degli insorti, dopo che questi si erano tranquillamente messi a mangiare. Tra quei curiosi si trovava Justin, il figlio del mezzadro Rébufat, un giovane d'una ventina d'anni, un essere vile e losco che nutriva un odio implacabile per sua cugina Miette. A casa, le rinfacciava il pane che mangiava, la trattava come una miserabile raccattata per carità in mezzo alla strada. Probabilmente la ragazza aveva rifiutato di essere la sua amante. Gracile, smunto, con le membra troppo lunghe, col viso storto, si vendicava su di lei della propria bruttezza e del disprezzo che la bella e rigogliosa ragazza doveva avergli dimostrato. Il sogno che covava era di farla mettere alla porta da suo padre. Per ciò la spiava senza tregua. Da qualche tempo aveva scoperto i suoi incontri con Silvère; aspettava soltanto un'occasione decisiva per riferire tutto a Rébufat. Quella sera, avendola veduta uscire di casa in fretta verso le otto, fu sopraffatto dall'odio, e non tacque più. Rébufat, udito il racconto del figlio, si adirò terribilmente e disse che avrebbe buttato fuori a calci quella vagabonda, se avesse avuto la sfacciataggine di rifarsi viva. Justin andò a letto, pregustando la bella scena che avrebbe avuto luogo l'indomani. Poi fu preso da un acuto desiderio di gustare subito un po' della sua vendetta. Si rivestì e uscì. Forse avrebbe potuto incontrare Miette. Si riprometteva di essere molto insolente. Fu per questo che egli assisté all'entrata degli insorti in città e li seguì fino al municipio, col vago presentimento che avrebbe scoperto i due innamorati da quella parte. In effetti, finì per scorgere sua cugina sulla panca di pietra, là dove aspettava Silvère. Nel vederla vestita della sua grande pelliccia e con la bandiera rossa accanto, appoggiata a un pilastro del mercato coperto, si mise a ridacchiare, a prenderla in giro grossolanamente. La ragazza, esterrefatta nel vederlo, non seppe trovare una parola di risposta. Singhiozzava sotto quella grandine di ingiurie. E mentre era tutta scossa dai singhiozzi, con la testa bassa, nascondendosi il viso con le mani, Justin la chiamava figlia di un forzato e le gridava che papà Rébufat l'avrebbe conciata per le feste se si fosse arrischiata a ritornare al Jas-Meiffren. Per un buon quarto d'ora la tenne così tremante e umiliata. Alcuni si erano radunati attorno a loro, ridendo stupidamente nell'assistere a quella scena vergognosa. Finalmente alcuni degli insorti intervennero e minacciarono il giovane di somministrargli una lezione esemplare se non lasciava stare Miette. Ma Justin, pur facendo qualche passo indietro, dichiarò che lui non li temeva. In quel momento apparve Silvère. Vedendolo, il giovane Rébufat fece un salto improvviso, come per prendere la fuga: lo temeva, sapeva che era molto più robusto di lui. Tuttavia non seppe resistere all'ardente voluttà di insultare un'ultima volta la ragazza davanti al suo innamorato.

«Ah! Lo sapevo bene», gridò, «che il carradore non doveva esser lontano. Per seguire questo pazzo tu ci hai lasciato, non è vero? Disgraziata! e non ha nemmeno sedici anni! A quando il battesimo?».

Fece ancora qualche passo indietro, vedendo Silvère stringere i pugni.

«E soprattutto», continuò con un sogghigno ignobile, «non venire a partorire in casa nostra. Non avresti bisogno di una levatrice: mio padre ti farebbe sgravare a calci, hai capito?».

Scappò urlando, col viso stravolto. Silvère, d'un balzo, si era gettato su di lui e gli aveva assestato in piena faccia un pugno terribile. Non lo inseguì. Quando ritornò vicino a Miette, la trovò in piedi, sconvolta; si asciugava le lacrime col palmo della mano. Poiché Silvère la guardava con dolcezza, come per consolarla, lei fece un gesto bruscamente energico.

«No», disse, «non piango più, vedi... Meglio così. Adesso non ho più rimorso d'essere andata via. Sono libera».

Riprese in mano la bandiera, e fu lei a ricondurre Silvère tra gli insorti. Erano all'incirca le due di notte. Il freddo era diventato così pungente che i repubblicani si erano alzati, finendo di mangiare in piedi e cercando di riscaldarsi segnando il passo. Infine i capi dettero l'ordine di partenza. La colonna si ricostituì. I prigionieri furono situati nel mezzo; oltre Garçonnet e il maggiore Sicardot, gli insorti avevano arrestato e conducevano con sé il ricevitore Peirotte e parecchi altri funzionari.

In quel momento si vide Aristide aggirarsi fra i gruppi. Il bravo giovane, dinanzi a quella sollevazione formidabile, aveva pensato che era imprudente non rimanere amico dei repubblicani; ma siccome, d'altra parte, non voleva compromettersi troppo con loro, era venuto a dir loro addio, col braccio al collo, lagnandosi amaramente di quella maledetta ferita che gli impediva di impugnare un'arma. Tra la folla incontrò suo fratello Pascal, munito di una borsa e di una cassetta di medicazione. Il medico gli disse, con la sua solita voce calma, che avrebbe seguito gli insorti. Aristide, a bassa voce, gli dette dell'ingenuo. Poi se la svignò, temendo che gli si affidasse la tutela della città, una mansione che egli considerava particolarmente pericolosa.

Gli insorti non potevano sperar di conservare in loro potere Plassans. La città era animata da uno spirito troppo reazionario perché essi potessero anche soltanto tentare di insediarvi un comitato democratico, come avevano già fatto altrove. Si sarebbero puramente e semplicemente allontanati, se Macquart, aizzato e reso audace dal suo spirito vendicativo, non si fosse offerto per tenere Plassans sotto controllo, a condizione che si lasciasse ai suoi ordini una ventina di uomini, scelti da lui. Gli furono dati i venti uomini, alla testa dei quali egli andò trionfalmente a prender possesso del municipio. Frattanto la colonna discendeva giù per il corso Sauvaire e usciva per la Porta Grande, lasciandosi dietro, silenziose e deserte, le vie che aveva attraversato come un turbine. Lontano si snodavano le strade maestre, tutte bianche per il chiarore lunare. Miette aveva rifiutato di appoggiarsi al braccio di Silvère; essa marciava arditamente, risoluta e diritta, tenendo con le due mani la bandiera rossa, senza lagnarsi del freddo che le rendeva livide le dita.