CAPITOLO VI
Verso le cinque del mattino, Rougon si arrischiò finalmente a uscire dalla casa di sua madre. La vecchia s'era addormentata su una seggiola. Lui si avventurò pian piano fino all'estremità del vicolo SaintMittre. Non un rumore, non un'ombra. Si spinse fino alla Porta di Roma. Il vano della porta, coi due battenti aperti, tutta spalancata, si confondeva con l'oscurità della città addormentata. Plassans dormiva profondamente, senza darsi pensiero, sembrava, dell'enorme imprudenza di questo dormire con le porte aperte. Si sarebbe detto che era una città morta. Rougon si fece coraggio e s'inoltrò nella strada di Nizza. Osservava di lontano gli sbocchi dei viottoli. Ogni volta che passava davanti a una porta aperta, rabbrividiva, temendo sempre di vederne uscire e saltargli alle spalle una banda d'insorti. Ma arrivò fino al corso Sauvaire senza incidenti. Evidentemente gli insorti erano svaniti nelle tenebre, come un fantasma.
Allora Pierre si fermò un momento sul marciapiede deserto. Tirò un gran sospiro di sollievo e di vittoria. Dunque quei pezzenti di repubblicani lasciavano Plassans in suo potere. La città gli apparteneva, in quel momento: dormiva come una stupida; era là, scura e calma, muta e fiduciosa, e a lui bastava stendere la mano per prenderla. Questa breve sosta, questo sguardo d'uomo superiore gettato sul sonno di un'intera sottoprefettura, gli produssero una gioia indicibile. Rimase là, a braccia conserte, assumendo, nella notte deserta, un atteggiamento da grande condottiero alla vigilia di una battaglia vittoriosa. Lontano, non udiva nient'altro che il canto delle fontane del Corso, i cui getti d'acqua cadevano gorgogliando nelle vasche.
Poi fu assalito da preoccupazioni. Se, per disgrazia, avessero fatto l'Impero senza di lui? Se i Sicardot, i Garçonnet, i Peirotte, invece di essere arrestati e portati via dalla banda degli insorti, l'avessero gettata tutta nelle prigioni della città? Gli venne un sudore freddo; si rimise in cammino, nella speranza che Félicité gli avrebbe dato informazioni esatte. Camminava più svelto, rasente ai muri delle case di rue de la Banne, quando uno spettacolo strano, che egli vide alzando la testa, lo fece fermare di colpo. Una delle finestre del salotto giallo era fortemente illuminata, e, nella luce, una figura scura - sua moglie, la riconobbe - si sporgeva, agitava le braccia come una disperata. Pierre chiedeva a se stesso che cosa poteva succedere, sbigottito, quando un oggetto duro rimbalzò sul marciapiede, dinanzi a lui. Félicité gli gettava la chiave del deposito, dove egli aveva nascosto un buon numero di fucili. Quella chiave voleva dire senza dubbio che bisognava prendere le armi. Egli tornò indietro, immaginandosi cose terribili, senza sapersi spiegare perché sua moglie gli aveva impedito di salire.
Andò difilato da Roudier, che trovò alzato, pronto a mettersi in cammino, ma senza saper niente di ciò che era accaduto durante la notte. Roudier abitava all'estremità della città nuova, in una zona deserta nella quale il passaggio degli insorti non aveva destato alcuna eco. Pierre gli propose di andare a cercare Granoux, la cui abitazione era all'angolo della piazza dei Récollets: sotto le sue finestre la banda aveva dovuto passare per forza. La domestica del consigliere municipale parlamentò a lungo prima di farli entrare, ed essi sentirono la voce tremante del poveruomo, che dal primo piano ,gridava:
«Non aprite, Catherine! Le strade sono infestate da briganti».
Granoux era nella camera da letto, al buio. Quando riconobbe i suoi due buoni amici, tirò un sospiro di sollievo, ma non volle che la domestica portasse un lume, per timore che la luce gli attirasse qualche fucilata. Sembrava che credesse la città ancora piena d'insorti. Sprofondato in una poltrona, vicino alla finestra, in mutande e con la testa ravvolta in una sciarpa, gemeva:
«Ah, amici miei, se sapeste!... Ho cercato di andare a letto; ma quelli facevano un baccano... Allora mi sono buttato su questa poltrona. Ho visto tutto, tutto. Dei figuri orrendi, una banda di evasi dalle galere. Poi sono passati ancora una volta; trascinavano con sé il valoroso maggiore Sicardot, il bravo Garçonnet, il direttore delle Poste, lanciando, quei messeri, urla da cannibali!».
Rougon ebbe un empito di gioia. Fece ripetere a Granoux che aveva visto con sicurezza, portati via da quei briganti, il sindaco e gli altri personaggi.
«Come ve lo debbo dire!», frignava il poveruomo. «Ero dietro le persiane della mia stanza... E anche Peirotte hanno arrestato. L'ho sentito io che, diceva, mentre passava sotto la mia finestra: "Signori, non fatemi del male!". Probabilmente lo malmenavano... Ah, che vergogna, che vergogna!».
Roudier calmò Granoux assicurandolo che la città era sgombra. Subito il degno uomo fu preso da un bell'ardore guerriero, quando Pierre gli disse che era venuto a cercarlo per salvare Plassans. I tre salvatori tennero consiglio. Decisero di andare ciascuno a svegliare i propri amici e di convocarli nel deposito, l'arsenale segreto della reazione. Rougon continuava a ripensare a quei grandi gesti di Félicité, fiutava un pericolo da qualche parte. Granoux, benché fosse certamente il più cretino dei tre, fu il primo ad aver l'idea che in città dovevano essere rimasti dei repubblicani. Fu un lampo rischiaratore: Rougon, con un intuito che non lo ingannò, disse tra sé: «C'è qualche tiro mancino di Macquart là sotto».
Un'ora dopo, si ritrovarono nel deposito, situato in fondo a un quartiere di periferia. Erano andati cauti, di porta in porta, sonando i campanelli e battendo i martelletti delle porte il più piano possibile; avevano raccolto quanti più uomini avevan potuto. Ma non erano riusciti a portarne con sé più d'una quarantina, che arrivarono in fila indiana, camminando pian piano nell'oscurità, vestiti alla meno peggio, con le facce pallide e insonnolite dei borghesi sgomenti. Il deposito, preso in affitto da un bottaio, era ingombro di vecchi cerchioni di legno, di barili sfondati, ammucchiati negli angoli dello stanzone. In mezzo, i fucili erano riposti in tre lunghe casse. Un lumicino, posato su un pezzo di legno, rischiarava col suo chiarore vacillante questo ambiente strano. Quando Rougon ebbe scoperchiato le tre casse, avvenne una scena grottescamente sinistra. Sopra i fucili, le cui canne luccicavano, bluastre e come fosforescenti, si allungavano i colli di quei signori, si chinavano le loro teste con un atteggiamento di mal celato orrore, mentre, sui muri, la luce giallastra del lumicino disegnava le ombre di enormi nasi e di ciuffi di capelli irti.
La banda reazionaria si contò, e, constatando il loro numero così piccolo, i presenti ebbero un momento d'esitazione. Erano soltanto trentanove: ciò significava, senza dubbio, andare a farsi massacrare. Un padre di famiglia rammentò i suoi figli; altri, senza nemmeno addurre pretesti, si diressero verso la porta. Ma arrivarono ancora due congiurati: abitavano in piazza del municipio e sapevano che nel palazzo comunale erano rimasti, tutt'al più, una ventina di repubblicani. Ci fu un nuovo consulto: quarantuno contro venti sembrò una proporzione accettabile. La distribuzione delle armi si compì tra un leggero fremito. Rougon attingeva dalle casse, e ciascuno, nel ricevere il suo fucile, la cui canna, in quella notte di dicembre, era gelata, sentiva un gran freddo penetrargli dentro e gelarlo fino alle viscere. Le ombre, sui muri, assunsero l'aspetto bizzarro di coscritti inesperti, che allargavano le loro dieci dita. Pierre richiuse le casse con dispiacere: lasciava là dentro centonove fucili che avrebbe distribuito ben volentieri. Poi si mise a distribuire le cartucce. In fondo al deposito ce n'erano due grandi barili pieni fino agli orli; sarebbero bastati a difendere Plassans contro un esercito. Quell'angolo era buio. Uno accostò il lumicino; un altro - un grosso salumaio, con mani da gigante - si arrabbiò: non era prudente avvicinare così la fiamma. Ricevette calde approvazioni: le cartucce furono distribuite al buio più completo. Quei signori se ne riempirono le tasche fino a farle scoppiare. Poi, quando furono pronti, quando ebbero caricato i fucili con infinite precauzioni, rimasero là un istante, guardandosi di traverso, scambiandosi occhiate nelle quali la crudeltà vile spiccava su un fondo di idiozia.
Per la strada, si avanzarono costeggiando le case, muti, in fila indiana, come dei selvaggi che partono per la guerra. Rougon aveva rivendicato l'onore di marciare in testa alla fila. Era venuta l'ora in cui doveva pagare di persona, se voleva il successo dei suoi progetti. Aveva la fronte imperlata di sudore, nonostante il freddo, ma continuava a camminare con un passo molto marziale. Dietro a lui venivano Roudier e Granoux. Per due volte la colonna si fermò bruscamente: avevano creduto di sentire lontani rumori di battaglia; si trattava soltanto di piccole bacinelle di rame, appese con catenelle, che i parrucchieri del Mezzogiorno usano come insegne delle loro botteghe, e che erano scosse da soffi di vento. Dopo ciascuna fermata, i salvatori di Plassans riprendevano la loro prudente marcia nell'oscurità, con la loro andatura di eroi impauriti. Arrivarono così in piazza del municipio. Là si riunirono attorno a Rougon, per consultarsi ancora una volta. Davanti a loro, sulla facciata scura del palazzo comunale, veniva luce da una sola finestra. Erano quasi le sette: stava per spuntare il giorno.
Dopo dieci minuti buoni di discussione, decisero di avanzarsi fino alla porta, per capire che cosa significavano quell'oscurità e quel silenzio inquietanti. La porta era socchiusa. Uno dei congiurati introdusse la testa e la ritrasse immediatamente, dicendo che sotto il porticato c'era un uomo che dormiva seduto con le spalle al muro, col fucile tra le gambe. Rougon, accortosi che poteva incominciare con un'azione di gran rilievo, entrò per primo, aggredì l'uomo e lo tenne fermo, mentre Roudier lo imbavagliava. Questo primo successo, ottenuto nel silenzio, infuse un eccezionale coraggio nel piccolo drappello, che aveva temuto uno scambio di fucilate con molto spargimento di sangue. E Rougon faceva dei gesti imperiosi per evitare che la gioia dei suoi soldati esplodesse con troppo ardore.
Continuarono ad avanzare in punta di piedi. A sinistra, nel posto di guardia che si trovava là, scorsero una quindicina di uomini sdraiati su un letto da campo, che russavano nel chiarore morente d'una lanterna appesa al muro. Rougon, che stava diventando davvero un gran capitano, lasciò metà dei suoi uomini davanti al posto di guardia, con l'ordine di non svegliare i dormienti, ma di sorvegliarli e di farli prigionieri se si movevano. Ciò che lo preoccupava era la finestra illuminata che aveva veduto dalla piazza; in questa faccenda egli sospettava sempre la presenza di Macquart, e siccome capiva che bisognava anzitutto impadronirsi di quelli che vegliavano al piano di sopra, avrebbe voluto agire di sorpresa, prima che il rumore di una lotta li inducesse a barricarsi. Salì le scale pian piano, seguito dai venti eroi che ancora gli rimanevano. Roudier era rimasto al comando del distaccamento che Rougon aveva lasciato giù, nel cortile.
In effetti, Macquart si pavoneggiava al piano di sopra, nell'ufficio del sindaco, seduto in poltrona, coi gomiti sulla scrivania. Dopo la partenza degli insorti, con quella beata fiducia in sé che è tipica dell'uomo d'intelligenza grossolana, tutto preso dalla sua idea fissa e tutto convinto della sua vittoria, aveva detto a se stesso che ormai era il padrone di Plassans e si sarebbe comportato da trionfatore. Per lui, quella banda di tremila uomini che aveva attraversato la città era un esercito invincibile: la vicinanza di quegli uomini sarebbe bastata a fargli tenere in pugno, umili e docili, i borghesi di Plassans. Gli insorti avevano rinchiuso i gendarmi in caserma, la guardia nazionale era dispersa, i nobili dovevano tremare di paura, i ricchi della città nuova non avevano certo preso in mano un fucile in tutta la loro vita. Del resto, non c'erano armi a Plassans, come non c'erano soldati. Macquart non prese neanche la precauzione di far chiudere le porte della città, e mentre i suoi uomini erano ancor più sicuri di sé, fino ad addormentarsi, egli aspettava tranquillamente il giorno in cui, pensava, tutti i repubblicani della zona sarebbero venuti e si sarebbero riuniti attorno a lui.
Già progettava grandi decisioni rivoluzionarie: la nomina di una Comune della quale egli sarebbe stato il capo, l'incarcerazione dei nemici della patria e soprattutto di coloro che gli erano antipatici. Il pensiero dei Rougon sconfitti, del salotto giallo deserto, di tutta quella cricca che sarebbe venuta da lui a implorare pietà, lo colmava di una dolce gioia. Per calmare l'impazienza, aveva deciso di rivolgere un proclama agli abitanti di Plassans. Ci s'erano messi in quattro, per redigere questo manifesto. Quando fu terminato, Macquart, assumendo un'aria piena di dignità nella poltrona del sindaco, se lo fece leggere, prima di mandarlo alla tipografia dell'«Indépendant», nel cui civismo egli aveva fiducia. Uno dei redattori del manifesto aveva cominciato a leggere con tono enfatico: «Cittadini di Plassans, l'ora dell'indipendenza è suonata, il regno della giustizia è venuto...», quando si sentì un rumore alla porta dell'ufficio, la quale si apriva lentamente.
«Sei tu, Cassoute?», chiese Macquart facendo interrompere la lettura.
Nessuna risposta; la porta continuava lentamente ad aprirsi.
«Entra dunque!», disse Macquart spazientito. «Quel brigante di mio fratello è in casa sua?».
Allora, d'un tratto, i due battenti della porta, spinti con violenza, sbatterono contro i muri, e un fiotto d'uomini armati, tra i quali c'era Rougon, rosso in viso, con gli occhi fuori delle orbite, invase l'ufficio brandendo i fucili come se fossero bastoni.
«Ah, canaglie! Sono armati!», urlò Macquart.
Voleva afferrare un paio di pistole che si trovavano sul tavolo, ma già cinque uomini lo tenevano stretto alla gola. I quattro redattori del proclama lottarono per ben poco tempo. Ci furono delle spinte, dei calpestii sordi, dei rumori di gente che cadeva. I combattenti erano estremamente impacciati dai loro fucili, che non servivan loro a niente, ma che non volevano cessare d'impugnare. Nel tafferuglio, il fucile di Rougon, che uno degli insorti cercava di strappargli di mano, sparò da sé, con una detonazione spaventosa, riempiendo di fumo la stanza. Il proiettile mandò in frantumi un magnifico specchio, che dal camino saliva fino al soffitto, e aveva la fama di essere uno degli specchi più belli della città. Quel colpo, che nessuno capiva perché fosse stato sparato, assordì tutti i presenti e mise fine alla battaglia.
Allora, mentre quei signori ansimavano, si sentirono tre detonazioni provenienti dal cortile. Granoux corse a una finestra dell'ufficio. Le facce si protesero, e tutti, sporgendosi ansiosamente, aspettarono, con poca voglia di dover ricominciare la lotta contro gli uomini del posto di guardia, di cui, nell'ebbrezza della vittoria, si erano dimenticati. Ma Rougon gridò che tutto andava bene. Granoux, raggiante, richiuse la finestra. Era accaduto che lo sparo del fucile di Rougon aveva svegliato i dormienti. Essi si erano arresi, vedendo che qualsiasi resistenza era impossibile. Soltanto, nella fretta cieca di farla finita, tre degli uomini di Roudier avevano sparato in aria, come per rispondere alla detonazione venuta dall'alto, senza rendersi ben conto di quello che facevano. Vi sono dei momenti in cui i fucili sparano da sé in mano ai codardi.
Intanto Rougon fece legare strettamente le mani di Macquart coi lacci delle grandi tende verdi dell'ufficio. Macquart sogghignava e insieme piangeva di rabbia.
«E va bene!», balbettava. «Stasera o domani, quando gli altri ritorneranno, faremo i conti!».
Questa allusione alla banda dei rivoluzionari fece correre un brivido nella schiena ai vincitori. Soprattutto Rougon provò un certo senso di soffocamento. Suo fratello, al colmo dell'esasperazione per essere stato sorpreso come un bambino da quei vili borghesi, verso i quali aveva il disprezzo di chi è stato un militare, lo guardava fisso, lo sfidava con occhi luccicanti di odio.
«Ah, ne so delle belle, io, ne so delle belle sul vostro conto», continuò senza smettere di guardarlo fisso. «Mandatemi un po' davanti alla Corte d'Assise, e racconterò al giudice delle storie che li divertiranno».
Rougon impallidì. Ebbe una paura atroce che Macquart parlasse del passato e gli facesse perdere la stima di quei signori che l'avevano aiutato a salvare Plassans. D'altronde, quei signori, sbigottiti nell'assistere al drammatico incontro tra i due fratelli, si erano ritirati in un angolo della stanza, vedendo che stava per incominciare tra i due un tempestoso scambio di accuse. Rougon prese una decisione eroica. Si avvicinò al gruppo dei suoi amici e disse, con tono molto dignitoso:
«Terremo qui quest'uomo in stato d'arresto. Quando avrà riflettuto sulla propria situazione, potrà fornirci delle notizie utili».
Poi, con una voce ancora più solenne:
«Compirò il mio dovere, signori. Ho giurato di salvare la città dall'anarchia, e la salverò, dovessi anche essere il carnefice del mio familiare più stretto».
Si sarebbe detto che era un romano antico in procinto di sacrificare la propria famiglia sull'altare della patria. Granoux, molto commosso, gli strinse la mano con le lacrime agli occhi, come a dire: «Vi comprendo: siete sublime!». Poi gli rese un buon servizio: condusse via tutti gli altri, col pretesto di portare giù nel cortile i quattro prigionieri che erano là.
Quando Pierre fu solo con suo fratello, si sentì di nuovo sicuro di sé. Disse:
«Non mi aspettavate, eh? Capisco, ora: preparavate un agguato contro di me a casa mia. Disgraziato! Vedete dove vi hanno condotto i vostri vizi, le vostre dissolutezze!».
Macquart fece una spallucciata.
«Lasciate stare», disse, «non rompetemi le scatole. Siete un vecchio farabutto. Riderà bene chi riderà per ultimo».
Rougon, che non aveva predisposto un piano nei riguardi di suo fratello, lo spinse in uno stanzino in cui qualche volta Garçonnet andava a riposarsi. Questo stanzino riceveva luce dall'alto e non aveva altra via d'uscita che l'unica porta. C'erano alcune poltrone, un divano e un lavabo di marmo. Pierre chiuse la porta a doppia mandata, dopo aver slegato a metà le mani a suo fratello. Questi si gettò sul divano e si mise a cantare il Ça ira con voce stentorea, come per farsi coraggio.
Rougon, finalmente solo, si sedette a sua volta nella poltrona del sindaco. Tirò un sospiro di sollievo, si asciugò la fronte. Com'era difficile la conquista della fortuna e degli onori! Finalmente la meta era vicina. Egli sentiva la morbida poltrona affossarsi sotto il peso del suo corpo; con un gesto involontario si mise ad accarezzare la scrivania di mogano, che gli parve liscia e delicata come la pelle d'una bella donna.
Si pavoneggiò ancor più, prese quella stessa posa piena di dignità che poco prima aveva Macquart quando ascoltava la lettura del proclama. Attorno a lui, gli sembrava che il silenzio della stanza assumesse una gravità religiosa che gli compenetrava l'anima di una voluttà divina. Perfino l'odore di polvere e di vecchie scartoffie giungeva come un profumo d'incenso alle sue narici dilatate. Quella stanza dalle pareti scolorite, che mandava un odore di amministrazione gretta, di misere pratiche d'un municipio di terz'ordine, era ai suoi occhi un tempio del quale egli diventava il dio. Egli entrava in un luogo sacro. Proprio lui che, in fondo, non amava i preti, si ricordò dell'emozione deliziosa della sua prima comunione, quando aveva creduto di ingerire Gesù.
Ma, in mezzo a questa estasi, ad ogni urlo di Macquart provava dei piccoli soprassalti nervosi. Attraverso la porta, gli arrivavano, come folate violente, le parole «aristocratico», «alla lanterna», le minacce d'impiccagione, e interrompevano sgradevolmente i suoi sogni di trionfo. Sempre quel maledetto! E al sogno ad occhi aperti, che gli mostrava tutta Plassans ai suoi piedi, subentrava improvvisamente la visione della Corte d'Assise, dei giudici, dei giurati, del pubblico, tutti in ascolto delle rivelazioni di Macquart, che lo sprofondavano nella vergogna: la faccenda dei cinquantamila franchi e tutto il resto. In un altro momento, pur continuando a gustare la soffice poltrona di Garçonnet, si vedeva tutt'a un tratto impiccato a un lampione di rue de la Banne. Come sbarazzarsi, una buona volta, di quel miserabile? Finalmente, Antoine si addormentò. Pierre poté godersi dieci buoni minuti di pura estasi.
Da quella beatitudine vennero a scuoterlo Roudier e Granoux. Venivano dalla prigione, dove avevano portato gli insorti. Si faceva giorno pieno, la città stava per svegliarsi, bisognava prendere una decisione. Roudier dichiarò che prima di tutto era opportuno rivolgere un proclama agli abitanti. Pierre, proprio in quel momento, stava leggendo il proclama che gli insorti avevano lasciato su un tavolo.
«Ma ecco», gridò, «quello che fa perfettamente al caso nostro. Basta cambiare poche parole».
in effetti, bastò un quarto d'ora: dopo di che, Granoux lesse con voce commossa:
«Abitanti di Plassans, l'ora della resistenza è suonata, l'ordine ritorna a regnare...».
Fu stabilito che la tipografia della «Gazette» avrebbe stampato il proclama, e che lo si sarebbe affisso a tutte le cantonate delle strade.
«Ora state a sentire», disse Rougon; «noi andiamo a casa mia; nel frattempo, il signor Granoux riunirà qui i membri del Consiglio municipale che non sono stati arrestati, e racconterà loro i terribili eventi di questa notte».
Poi aggiunse, con tono maestoso:
«Io sono pronto in tutto e per tutto ad accettare la responsabilità delle mie azioni. Se quello che ho già fatto appare una garanzia sufficiente del mio amore per l'ordine, sono disposto a mettermi a capo di una Commissione municipale, fino al momento in cui le autorità ufficiali possano essere ristabilite. Ma, siccome non voglio che mi si accusi di essere un ambizioso, io rientrerò al municipio soltanto se vi sarò chiamato dalla volontà dei miei concittadini».
Granoux e Roudier protestarono. Plassans non sarebbe stata ingrata: in fin dei conti, il loro amico aveva salvato la città. Ed essi rammentarono tutto ciò che egli aveva fatto per la causa dell'ordine: il salotto giallo sempre aperto agli amici del Potere, la propaganda sana che egli aveva diffuso nei tre quartieri, il deposito d'armi che era stato un'idea sua, e soprattutto quella notte memorabile, quella notte di prudenza e di eroismo, nella quale egli aveva acquistato una gloria imperitura. Granoux aggiunse che si sentiva sicuro in anticipo dell'ammirazione e della riconoscenza dei signori consiglieri municipali; e concluse:
«Non movetevi da casa vostra: io vi verrò a trovare e a ricondurvi qui in trionfo».
Roudier disse anche che, d'altra parte, capiva il tatto e la modestia del loro amico, e li approvava. Nessuno, certo, si sarebbe sognato di accusarlo di essere un ambizioso; ma tutti avrebbero sentito la delicatezza grazie alla quale egli non voleva essere niente senza il consenso dei suoi concittadini. Ciò era molto degno, molto nobile, veramente grande.
Sotto quella pioggia di elogi, Rougon chinava umilmente la testa. Diceva: «No, no, voi andate troppo oltre», con dei piccoli fremiti, come se lo accarezzassero voluttuosamente. Ogni frase dell'ex fabbricante di maglierie e del venditore di mandorle, situati l'uno alla sua destra, l'altro alla sua sinistra, gli aleggiava dolcemente sul viso; abbandonato mollemente nella poltrona del sindaco, rintontito dal tanfo delle scartoffie burocratiche dell'ufficio, faceva segni di saluto a sinistra, a destra, con un'aria da principe pretendente che in seguito a un colpo di Stato è in procinto di diventare imperatore.
Quando furono stanchi d'incensarsi, scesero giù. Granoux si mise alla ricerca del Consiglio municipale. Roudier disse a Rougon d'incamminarsi verso casa; lui lo avrebbe raggiunto dopo aver dato gli ordini necessari per sorvegliare il palazzo del municipio. Era ormai buon mattino. Pierre raggiunse rue de la Banne, facendo risonare i tacchi con passo militaresco sui marciapiedi ancora deserti. Teneva il cappello in mano, nonostante il freddo pungente; degli empiti d'orgoglio gli facevano salire il sangue al viso.
In fondo alla scala di casa sua, trovò Cassoute. Lo sterratore non s'era mosso, non avendo visto rincasare nessuno. Stava là, sul primo gradino, con la grossa testa fra le mani, guardando fisso dinanzi a sé, con lo sguardo atono e la muta ostinazione d'un cane fedele.
«Mi aspettavate, non è vero?», disse Pierre, che capì tutto appena lo vide. «Ebbene, andate a dire al signor Macquart che sono rincasato. Domandate di lui al municipio».
Cassoute si alzò e si mise in cammino, salutando goffamente. Andò a farsi arrestare come una pecora, con grande gioia di Pierre, che, mentre saliva le scale, rideva tra sé e sé, meravigliato di se stesso, rimuginando questo pensiero:
«Coraggio ne ho; avrò l'intelligenza necessaria?».
Félicité non era andata a letto. Pierre la trovò vestita a festa, col cappello adorno di nastri gialli, come se aspettasse visite. Era rimasta invano alla finestra, non aveva saputo nulla, moriva di curiosità.
«Ebbene?», chiese, precipitandosi dinanzi a suo marito.
Pierre, ansante, entrò nel salotto giallo, dove lei lo seguì, chiudendo con cura la porta dietro di sé. Lui si sprofondò in una poltrona, e disse con voce strozzata:
«È fatta: sarò ricevitore particolare».
Lei gli gettò le braccia al collo, lo baciò.
«Davvero, davvero?» gridò. «Ma io non so niente di quello che è successo. Oh, carino mio, raccontami, raccontami tutto».
Sembrava che avesse quindici anni, faceva mosse da gattina, si agitava tutt'intorno con rapidi voli di cicala ebbra di luce e di calore. E Pierre, nella gioia della vittoria, le confidò tutto. Non tralasciò un solo particolare. Espose anche i suoi progetti futuri, dimenticando che, secondo lui, le donne erano delle buone a nulla, e la sua doveva ignorare tutto se lui voleva rimanere il padrone. Félicité, china su di lui, beveva le sue parole. Gli fece ripetere alcune parti del racconto, dicendo che non aveva bene inteso; e in effetti, la gioia le produceva un tale putiferio nella testa che, a momenti, era come se diventasse sorda, stordita dal piacere troppo vivo. Quando Pierre raccontò quel che era accaduto al municipio, fu presa da un accesso di risa, si lasciò andare su tre poltrone l'una dopo l'altra, si mise a spostare i mobili, non riusciva a stare ferma un momento. Dopo quarant'anni di sforzi continui, la fortuna si lasciava finalmente prender per la chioma. Questo pensiero la faceva impazzire, fino a farle dimenticare ogni ritegno.
«Eh! Tutto questo lo devi a me!», gridò in un'esplosione di trionfo. «Se ti avessi lasciato fare, ti saresti fatto pizzicare dagli insorti come uno sciocco. A quelle bestie feroci bisognerebbe dare in pasto Garçonnet, Sicardot e gli altri, scimunito che non sei altro!».
con un sorriso di vecchia sdentata, ma gioiosa come una monella, aggiunse:
«Ah, viva la Repubblica, che ha fatto piazza pulita!».
Ma Pierre si era messo di malumore.
«Tu, tu», borbottò, «credi sempre di aver previsto tutto. Sono stato io che ho avuto l'idea di nascondermi. Sta' a vedere che le donne capiscono qualcosa di politica! Va' là, vecchia mia, se al timone ci fossi tu, faremmo presto naufragio». Félicité si morse le labbra. Si era spinta troppo oltre, aveva dimenticato la sua parte di buona fata silenziosa. Ma fu presa da una di quelle rabbie sorde che le venivano quando suo marito voleva schiacciarla con la sua superiorità. Ancora una volta si ripromise, quando fosse venuto il momento giusto, di prendersi qualche raffinata rivalsa che mettesse quel sempliciotto alla sua mercé, legato mani e piedi.
«Ah, dimenticavo!», riprese Rougon. «Peirotte è nei pasticci. Granoux l'ha visto mentre si dibatteva tra le mani degli insorti».
Félicité ebbe un sussulto. Proprio in quel momento si era affacciata alla finestra, guardando con desiderio le finestre del ricevitore particolare. Aveva sentito il bisogno di rivolgere ancora una volta ad esse lo sguardo, perché l'idea della vittoria si univa, in lei, alla bramosia di quel bell'appartamento, i cui mobili, da tanti anni, mangiava con gli occhi.
Si volse indietro e, con una voce piena di sottintesi, chiese:
«Peirotte è prigioniero?».
Sorrise di compiacimento, poi arrossì vivamente. Dentro di sé aveva espresso questo desiderio brutale: «Ah, se gli insorti lo ammazzassero!». Pierre lesse certamente questo pensiero nei suoi occhi.
«Perbacco! Se buscasse qualche proiettile», mormorò, «le nostre faccende sarebbero sistemate... Non ci sarebbe bisogno di destituirlo, eh? E nessuno potrebbe incolparci di nulla».
Ma Félicité, più nervosa, ebbe un fremito. Le sembrò di aver condannato a morte un uomo. Se Peirotte fosse stato ucciso, lei lo avrebbe riveduto in sogno, sarebbe venuto a tirarle i piedi... Si limitò a lanciare verso le finestre di fronte qualche occhiata sorniona, in cui alla voluttà si mescolava l'orrore. Da allora, nella sua gioia vi fu una punta di spavento criminale che la rese più acuta.
Dal canto suo Pierre, dopo essersi sfogato, incominciava a vedere il lato cattivo della situazione. Parlò di Macquart. Come sbarazzarsi di quel farabutto? Ma Félicité, riafferrata dalla febbre del successo, esclamò:
«Non si può far tutto in una volta. Lo imbavaglieremo, perbacco! Troveremo pure qualche modo...».
Andava e veniva, rimettendo a posto le poltrone, spazzolandone gli schienali. Tutt'a un tratto si fermò in mezzo alla stanza, guardò a lungo la mobilia mal ridotta:
«Buon Dio», disse, «che bruttura qua dentro! E sta per arrivare tutta quella gente!».
«Basta!», rispose Pierre con un tono di superba indifferenza. «Cambieremo tutto questo».
Lui che, il giorno prima, aveva un religioso rispetto per le poltrone e per il divano, ora vi sarebbe saltato sopra a piè pari. Félicité, che provava lo stesso disprezzo, finì col rovesciare una poltrona a cui mancava una rotella e che le obbediva troppo lentamente.
In quel momento entrò Roudier. L'anziana donna ebbe l'impressione che fosse diventato molto più gentile. Le espressioni «signore!», «signora!» andavano da un capo all'altro del salotto, con una musica deliziosa. I frequentatori del salotto arrivavano l'uno dopo l'altro; il salotto si riempiva. Nessuno conosceva ancora gli avvenimenti della notte nei loro particolari, e tutti accorrevano, con tanto d' occhi, con grandi sorrisi, sollecitati dalle voci che cominciavano a spargersi per la città. Quei signori che, la sera del giorno prima, avevano abbandonato così precipitosamente il salotto giallo all'annunzio dell'avvicinarsi, degli insorti, ora ritornavano, ronzanti, curiosi, importuni, come uno sciame di mosche che si raccoglieva dopo essere stato disperso da un colpo di vento. Alcuni non avevano nemmeno indugiato a vestirsi di tutto punto. Grande era la loro impazienza; ma si vedeva bene che Rougon, prima di parlare, aspettava qualcuno. Ad ogni minuto rivolgeva verso la porta uno sguardo ansioso. Per un'ora buona, fu tutto uno stringersi le mani con l'aria di chi la sa lunga, un congratularsi con parole vaghe, e mormorii di ammirazione ed espressioni di gioia repressa, senza un motivo ben definito: tutti aspettavano una parola per darsi all'entusiasmo.
Finalmente apparve Granoux. Si fermò per un istante sulla soglia, con la mano destra infilata nella giacca a doppio petto. La sua grossa faccia giallastra, sorridente, tentava invano di nascondere l'emozione sotto un'aria di grande dignità. Al suo apparire, tutti tacquero: si intuì che qualcosa di straordinario stava per accadere. Tra due file di persone assiepate Granoux si avanzò verso Rougon. Gli tese la mano:
«Amico mio», gli disse, «vi porto l'omaggio del Consiglio municipale. Siete chiamato a capo del Consiglio, fino a quando ci sia restituito il nostro sindaco. Voi avete salvato Plassans. Nell'epoca abominevole che stiamo attraversando, c'è bisogno di uomini che alla vostra intelligenza uniscano il vostro coraggio. Venite...».
Granoux stava recitando un discorsetto che aveva preparato con gran fatica, mentre dal Consiglio municipale si recava in rue de la Banne. Arrivato a questo punto, sentì che la memoria gli si offuscava. Ma Rougon, commosso, lo interruppe, stringendogli tutt'e due le mani e dicendo:
«Grazie, mio caro Granoux, vi ringrazio di cuore».
Non trovò altro da dire. Allora vi fu un'esplosione assordante di voci. Ognuno si precipitò verso Rougon, gli tese la mano, lo coprì di elogi e di complimenti, gli fece domande su domande. Ma Rougon, che aveva già assunto il tono fiero di un magistrato, chiese qualche minuto per poter avere un colloquio coi signori Granoux e Roudier. Le cose pratiche prima di tutto. La città si trovava in una situazione così critica! I tre si appartarono in un angolo del salotto, e, a bassa voce, si spartirono il potere, mentre gli altri, discosti di qualche passo e dandosi l'aria di gente che conosce la discrezione, lanciavano sotto sotto delle occhiate in cui l'ammirazione si mescolava alla curiosità. Rougon avrebbe assunto il titolo di presidente della Commissione municipale; Granoux sarebbe stato segretario della medesima; quanto a Roudier, diveniva comandante in capo della Guardia nazionale riorganizzata. Quei messeri giurarono di sostenersi a vicenda, con una lealtà a tutta prova.
Félicité, che si era avvicinata a loro, chiese d'un tratto:
«E Vuillet?».
Essi si guardarono l'un l'altro. Nessuno aveva visto Vuillet. Rougon ebbe una leggera smorfia d'inquietudine.
«Forse l'hanno arrestato e portato via con gli altri...», disse per tranquillizzare se stesso.
Ma Félicité scosse la testa. Vuillet non era un tipo da farsi acchiappare. Dal momento che non lo si vedeva e non lo si sentiva, faceva certo qualcosa di male.
Si aprì la porta, entrò Vuillet. Salutò umilmente, col suo strizzar di palpebre, col suo sorriso ipocrita da sagrestano. Poi tese la mano umida a Rougon e agli altri due. Vuillet aveva sbrigato da solo le sue piccole faccende. Come avrebbe detto Félicité, si era tagliato da sé la sua parte di torta. Dalla finestrella della sua cantina aveva visto gli insorti che arrestavano il direttore delle Poste, il cui ufficio era vicino alla sua libreria. Fin dalla mattina, alla stessa ora in cui Rougon si sedeva nella poltrona del sindaco, era andato a installarsi tranquillamente nell'ufficio del direttore delle Poste. Conosceva gli impiegati: li accolse al loro arrivo, dicendo che egli avrebbe sostituito il loro capo fino al suo ritorno: non dovevano avere alcuna preoccupazione. Poi aveva passato in rassegna la posta della mattina con una curiosità mal dissimulata: annusava le lettere, sembrava che ne cercasse una in particolare. Senza dubbio la sua nuova situazione corrispondeva a un suo progetto segreto, poiché, nella gioia che lo invadeva, arrivò fino a regalare a uno degli impiegati un esemplare delle Opere giocose di Piron. Vuillet aveva un fondo molto ben assortito di libri osceni, nascosti in un grande cassetto, sotto uno strato di rosari e di immagini sacre. Era lui che inondava la città di fotografie e incisioni pornografiche, senza che ciò arrecasse alcun danno alla vendita di libri per gente bigotta. Ma durante la mattinata si spaventò pensando al modo un po' troppo disinvolto con cui si era impadronito dell'ufficio postale. Pensò che era meglio far ratificare la propria usurpazione; e per questo accorreva in casa di Rougon, il quale stava certamente diventando un uomo potente.
«Di dove venite?», gli chiese Félicité con aria sospettosa.
Allora egli raccontò, con qualche abbellimento, quello che aveva fatto. Aveva salvato dal saccheggio l'ufficio postale, disse.
«Ebbene, siamo intesi, rimanetevi», disse Pierre dopo aver riflettuto un istante. «Rendetevi utile».
Da quest'ultima frase traspariva quello che era il grande terrore dei Rougon: che qualcuno si rendesse troppo utile, che salvasse la città più di loro. Ma a Pierre non sembrò che il lasciare Vuillet come direttore provvisorio delle Poste costituisse alcun pericolo; anzi, era un modo di sbarazzarsene. Félicité ebbe un moto violento di contrarietà.
Terminato il conciliabolo, i tre ritornarono ad unirsi ai gruppi di persone che riempivano il salotto. Dovettero, finalmente, soddisfare la curiosità generale. Bisognò che raccontassero gli eventi della mattina in tutti i più minuti particolari. Rougon fu magnifico. Amplificò ulteriormente, abbellì e drammatizzò il racconto che aveva fatto a sua moglie. La distribuzione dei fucili e delle cartucce tenne tutti col fiato sospeso. Ma furono soprattutto la marcia nelle strade deserte e la presa del municipio che lasciarono stupefatti, come fulminati, quei borghesi. Ad ogni particolare del racconto, qualcuno interrompeva Rougon.
«Ed eravate soltanto quarantuno: è prodigioso!».
«Ah, lo credo bene, doveva esserci un buio d'inferno».
«No, devo confessarlo, mai avrei avuto tanto coraggio!».
«Dunque lo avete afferrato alla gola, proprio così?».
«E gli insorti che hanno detto?».
Queste brevi frasi non facevano che stimolare la verve di Rougon. Rispondeva a tutti. Mimava le azioni. Quell'omaccione, preso da ammirazione per le proprie imprese, ritrovava in sé delle finezze da giovane ben educato: ripeteva, tornava a raccontare, in mezzo allo scambio di frasi degli altri, alle grida di sorpresa, alle discussioni che si accendevano d'un tratto per precisare un singolo episodio. E così acquistava grandezza, trasportato da un vento di epopea. Dal canto loro, Granoux e Roudier gli rammentavano dei fatti, dei fatterelli impercettibili che lui aveva tralasciato. Anche loro erano bramosi di inserire qua e là una parola, di raccontare un episodio; e qualche volta toglievano la parola a Rougon, oppure accadeva che parlassero tutti e tre contemporaneamente. Ma quando, per riservare come finale, come massimo ornamento del racconto l'episodio omerico dello specchio in frantumi, Rougon volle dire ciò che era accaduto giù, nel cortile, nel momento in cui il corpo di guardia veniva arrestato, Roudier lo accusò di danneggiare il racconto cambiando l'ordine dei fatti. E per un momento ebbero un battibecco un po' aspro. Poi Roudier, vedendo che l'occasione gli era favorevole, gridò con voce decisa:
«Dite quel che volete, ma voi non c'eravate... Lasciatemi parlare!».
Allora spiegò per filo e per segno come gli insorti si erano svegliati e come lui e i suoi compagni avevano spianato i fucili contro di loro per ridurli all'impotenza. Aggiunse che, per fortuna, non c'era stato spargimento di sangue. Quest'ultima frase produsse una certa delusione nell'uditorio: almeno un cadavere l'avrebbero voluto.
«Ma voi avete sparato, credo bene», disse Félicité, accorgendosi che la scena era troppo priva di tinte forti.
«Sì, sì, tre colpi», rispose Roudier. «Sono stati il salumiere Dubruel, il signor Liévin e il signor Massicot che hanno scaricato le loro armi con una fretta colpevole».
E siccome ci fu qualche mormorio, ripeté:
«Colpevole, non ritiro quel che ho detto. La guerra presenta già situazioni di forza maggiore molto crudeli: non c'è bisogno di versare, in più, del sangue inutile. Avrei voluto vedere voi al mio posto... D'altra parte, quei signori mi hanno giurato che non l'avevano fatto di proposito; essi stessi non riescono a capire come i loro fucili hanno sparato... E intanto, c'è stato un proiettile tirato a vuoto, che, dopo essere rimbalzato, è andato a produrre un livido su una guancia d'uno degli insorti...».
Questo livido, questa lesione insperata dette una certa soddisfazione all'uditorio. Su quale guancia si era prodotto il livido? E come un proiettile, anche andato a vuoto, può colpire una guancia senza perforarla? Ciò diede adito a lunghe discussioni
«Al piano di sopra», riprese Rougon alzando la voce il più possibile, senza lasciare all'assemblea il tempo di calmarsi, «al piano di sopra avevamo cose grosse da fare. La lotta è stata violenta...».
E narrò l'arresto di suo fratello e degli altri quattro ribelli, dilungandosi molto, ma senza fare il nome di Macquart, che egli chiamò «il capo». Le espressioni «lo stanzino del sindaco», «la poltrona», «l'ufficio dei sindaco» ritornavano nel suo racconto ad ogni istante e conferivano, per chi lo stava ad ascoltare, una meravigliosa grandezza a quella scena terribile. Non più in portineria, ma nell'ufficio stesso del primo magistrato della città ci si era battuti. Roudier passava in seconda linea. Infine Rougon arrivò all'episodio a cui mirava fin dal principio del suo racconto, e che doveva mettere definitivamente in luce la sua statura eroica.
«Allora», disse, «uno degli insorti si precipita su di me. Io scosto la poltrona dei sindaco, afferro quell'uomo alla gola. E stringo, pensate! Ma il mio fucile mi era d'impaccio. Non volevo lasciarlo andare a terra: non si abbandona mai il proprio fucile. Lo tenevo sotto il braccio sinistro, così. Ad un tratto, il colpo parte...».
Tutti pendevano dalle labbra di Rougon. Ma Granoux, che aveva una feroce bramosia di parlare, gridò:
«No, no, non è andata così... Voi non avete potuto vedere, amico mio: voi vi stavate battendo come un leone... Ma io, che aiutavo gli altri ad ammanettare uno dei prigionieri, ho visto tutto... Quell'uomo voleva assassinarvi: è stato lui a far partire il colpo di fucile; io ho visto perfettamente le sue dita nere che egli ficcava sotto il vostro braccio...».
«Credete?», disse Rougon impallidendo.
Non sapeva di aver corso un pericolo di quella fatta, e il racconto del vecchio mercante di mandorle lo fece gelare di terrore... Di solito, Granoux non mentiva; ma, in un giorno di lotta, dev'essere pur consentito di vedere le cose sotto una luce drammatica.
«Come ve lo devo dire? Quell'uomo ha cercato di assassinarvi», ripeté con tono convinto.
«Per questo, dunque», disse Rougon con un filo di voce, «ho sentito il proiettile sibilare accanto al mio orecchio».
Vi fu una violenta emozione; l'uditorio apparve preso da un senso di venerazione dinanzi a quell'eroe. Aveva sentito un proiettile sibilargli accanto a un orecchio! Certo, nessuno dei borghesi che eran là avrebbe potuto raccontare una cosa simile accaduta a lui. Félicité credette di doversi gettare fra le braccia del marito, per far salire al colmo l'emozione dell'assemblea. Ma Rougon si svincolò e terminò il racconto con questa frase eroica, che è rimasta famosa a Plassans:
«Il colpo parte, io sento sibilare la pallottola al mio orecchio, e, paf!, la pallottola va a mandare in frantumi lo specchio del sindaco».
Tutti rimasero costernati. Uno specchio così bello! Incredibile, davvero! La sventura capitata allo specchio diminuì la simpatia di quei signori per l'eroismo di Rougon. Quello specchio diventava una persona: se ne parlò per un quarto d'ora, con espressioni di commiserazione, con effusioni di rimpianto, come se fosse stato colpito al cuore. Era il culmine del racconto che Pierre aveva sapientemente costruito, la conclusione di quella prodigiosa odissea. Un gran brusio di voci riempì il salotto giallo. Ciascuno ripeteva tra sé e sé il racconto che aveva udito, e ogni tanto un signore si distaccava da un gruppetto per andare a chiedere ai tre eroi la versione esatta di qualche particolare sul quale c'era ancora un residuo di incertezza. Gli eroi precisavano i fatti con una scrupolosa minuzia; sentivano che parlavano per la Storia.
A un certo momento Rougon e i suoi due luogotenenti dissero che erano attesi al municipio. Si diffuse un silenzio pieno di rispetto; i saluti furono accompagnati da sorrisi misti a serietà. Granoux era gonfio di vanagloria: lui solo aveva visto quell'insorto premere il grilletto e mandare in pezzi lo specchio. Ciò lo ingigantiva: non stava più nella pelle. Uscendo dal salotto, si appoggiò al braccio di Roudier, con un'aria da grande capitano oppresso dalla fatica, e mormorò:
«Sono trentasei ore che sono in piedi, e Dio sa quando potrò andare a riposarmi!».
Rougon, nell'andarsene, prese da parte Vuillet e gli disse che il partito dell'ordine contava più che mai su di lui e sulla «Gazette». Doveva pubblicare un bell'articolo per rassicurare la popolazione e trattare come meritava quella banda di scellerati che aveva attraversato Plassans.
«Non preoccupatevi», rispose Vuillet. «La "Gazette" dovrebbe uscire domattina, ma la diffonderò fin da stasera».
Quando i tre furono usciti, i frequentatori del salotto giallo rimasero ancora un poco, chiacchieroni come comari che si siano riunite su un marciapiede alla ricerca di un canarino scappato. Questi mercanti d'olio, questi fabbricanti di cappelli ormai a riposo si trovavano improvvisamente immersi in un'atmosfera di dramma sensazionale. Mai avevano subito una scossa così intensa. Non riuscivano a rendersi conto del fatto che dalle loro file fossero usciti degli eroi come Rougon, Granoux e Roudier. Alla fine, respirando a fatica nel salotto strapieno, stanchi di raccontarsi a vicenda sempre la stessa storia, provarono una viva bramosia di andare a informare la gente della grande notizia. Disparvero ad uno ad uno, ciascuno solleticato dall'ambizione di essere il primo a sapere tutto, a dire tutto; e Félicité, rimasta sola, affacciata alla finestra, li vide disperdersi in rue de la Banne, sconvolti, agitando le braccia come grandi uccelli ossuti, diffondendo l'emozione ai quattro angoli della città. |[continua]|
|[CAPITOLO VI, 2]|
Erano le dieci. Gli abitanti di Plassans, svegliati, correvano per le strade, sbalorditi dalle voci che si diffondevano. Quelli che avevano visto o sentito la banda degli insorti raccontavano storie che non finivano più, si contraddicevano, facevano ipotesi atroci. Ma i più non sapevano neppure che cosa era successo: erano quelli che abitavano alla periferia della città. Essi ascoltavano a bocca aperta, come una novella che si racconta ai bambini, questa storia di migliaia di banditi che avevano invaso le strade ed erano scomparsi prima che facesse giorno, come un esercito di fantasmi. I più scettici dicevano: «Macché!». Eppure alcuni particolari erano precisi. Plassans finì per rimanere convinta che una sciagura spaventosa era passata su di lei mentre dormiva, senza toccarla. Questa catastrofe imprecisata aveva assunto, per effetto delle tenebre notturne e delle contraddizioni tra i vari racconti, un carattere misterioso, un senso di orrore impenetrabile che faceva rabbrividire anche i più coraggiosi. Chi, dunque, aveva stornato il fulmine? Pareva un prodigio. Si parlava di salvatori ignoti, di un piccolo gruppo di uomini che avevano tagliato la testa all'idra, ma i particolari scarseggiavano, la cosa sembrava poco credibile: quand'ecco che i frequentatori del salotto giallo si sparsero per le strade, diffondendo le notizie, ripetendo davanti ad ogni porta lo stesso racconto.
Fu una ventata che percorse tutta Plassans. In pochi minuti, da un capo all'altro della città, la storia si diffuse. Il nome di Rougon volò di bocca in bocca, accompagnato da esclamazioni di sorpresa nella città nuova, da grida di elogio nel quartiere vecchio. In un primo tempo, gli abitanti rimasero costernati all'idea di trovarsi senza sottoprefetto, senza sindaco, senza direttore delle Poste, senza ricevitore particolare, senza autorità di alcuna sorta. Erano stupefatti per aver potuto fare la loro solita dormita ed essersi risvegliati come al solito, senza alcun governo in carica. Passato il primo stupore, si gettarono con entusiasmo tra le braccia dei liberatori. I pochi repubblicani alzavano le spalle; ma i piccoli commercianti, i piccoli redditieri, i conservatori di ogni specie benedicevano quegli eroi modesti le cui imprese erano rimaste celate nelle tenebre. Quando si seppe che Rougon aveva tratto in arresto suo fratello, l'ammirazione non ebbe più limiti; si fece il nome di Bruto; Rougon aveva temuto che la notizia si diffondesse, e invece essa tornò tutta a sua gloria. In quel momento di paura che stentava ancora a dissolversi, la riconoscenza fu unanime. Si accettava senza discutere Rougon, il salvatore.
«Ma pensate un po'», dicevano quei pusillanimi, «erano solo quarantuno!».
Questa cifra di quarantuno mise in orgasmo tutta la città. Sorse così a Plassans la leggenda dei quarantun borghesi che avevano fatto mordere la polvere a tremila insorti. Solamente alcuni invidiosi della città nuova - avvocati senza cause, militari a riposo che si vergognavano di aver dormito quella notte - espressero qualche dubbio. In fin dei conti, poteva darsi che gli insorti se ne fossero andati spontaneamente. Non c'era alcuna traccia di combattimento: nessun cadavere, nessuna macchia di sangue. Davvero i nostri eroi avevano avuto un compito facile.
«Ma lo specchio, lo specchio!», ripetevano i fanatici. «Non potete negare che lo specchio del sindaco sia in frantumi. Andate dunque a vederlo!».
E in effetti, fino al calar della notte vi fu una processione d'individui che, con mille pretesti, entrarono nell'ufficio del sindaco, la cui porta principale, del resto, fu lasciata aperta da Rougon. Si fermavano davanti allo specchio, nel quale il proiettile aveva fatto un buco tondo, da cui si diramavano grandi fenditure. Poi tutti dicevano la stessa frase:
«Perdinci! La pallottola aveva davvero una forza diabolica».
E andavano via, convinti.
Félicité, alla finestra, aspirava con delizia quei rumori, quelle voci d'elogio e di riconoscenza che salivano dalla città. Tutta Plassans, in quel momento, si occupava di suo marito; lei sentiva, al di sotto del suo posto d'osservazione, i due quartieri che fremevano, che le inviavano la speranza di un prossimo trionfo. Ah, come avrebbe schiacciato quella città che essa poteva finalmente calpestare dopo tanto tempo! Risentiva tutte le umiliazioni passate; le amarezze che aveva dovuto subire raddoppiavano la bramosia di un trionfo immediato.
Si discostò dalla finestra, fece lentamente il giro del salotto. Era lì che, poco prima, tutte le mani si erano tese verso di loro. Avevano vinto; la borghesia era ai loro piedi. I mobili sgangherati, il velluto logoro, la sporcizia che sui mobili avevano lasciato le mosche, tutte queste magagne assunsero ai suoi occhi l'aspetto di avanzi gloriosi rimasti su un campo di battaglia. La pianura di Austerlitz non le avrebbe causato un'emozione più profonda.
Si rimise alla finestra, e vide Aristide che gironzolava, col naso in aria, nella piazza della sottoprefettura, Gli fece segno di salire. Sembrava che lui non aspettasse nient'altro che questo invito.
«Entra, dunque», gli disse sua madre sul pianerottolo, vedendolo esitante. «Tuo padre non è in casa».
Aristide aveva l'aria imbarazzata d'un figliol prodigo. Erano press'a poco quattro anni che non metteva piede nel salotto giallo. Aveva ancora il braccio al collo.
«La mano ti fa ancora male?», gli chiese Félicité con tono di canzonatura.
Egli arrossì e rispose con un certo imbarazzo:
«Oh, va molto meglio, è quasi guarita».
Poi rimase lì, voltandosi da una parte e dall'altra, senza saper che cosa dire. Félicité gli venne in aiuto.
«Hai sentito parlare della splendida azione svolta da tuo padre?», gli chiese.
Egli rispose che tutta la città ne parlava. Ma nel frattempo aveva riacquistato la sua presenza di spirito: all'ironia di sua madre replicò con un'altra ironia; la guardò fisso negli occhi, e disse:
«Ero venuto a vedere se il babbo era ferito».
«Andiamo, non fare lo stupido!», gridò Félicité col suo tono petulante. «Io, se fossi al tuo posto, agirei senza tanti sotterfugi. Tu ti sei ingannato, confessalo, intruppandoti con quei cialtroni di repubblicani. Adesso non dovrebbe rincrescerti troppo di abbandonarli al loro destino e di ritornare con noi, che siamo i più forti. Avanti! La casa è aperta per te».
Ma Aristide protestò. La Repubblica era un grande ideale. E poi, gli insorti potevano ancora vincere.
«Non farmi perdere la pazienza!», rispose la vecchia, irritata. «La verità è che temi che tuo padre ti accolga male. Di questo mi occupo io... Stammi a sentire: tu andrai al tuo giornale, redigerai per domani un numero favorevolissimo al colpo di Stato, e domani sera, quando il numero sarà uscito, tornerai qui e sarai accolto a braccia aperte».
E siccome il giovane rimaneva silenzioso:
«Capisci?», continuò lei a voce più bassa e più ardente. «Si tratta della nostra fortuna, della tua. Non ricominciare a fare sciocchezze. Ti sei già compromesso anche troppo finora».
Il giovane fece un gesto, il gesto di Cesare che passava il Rubicone. In questo modo, egli non prendeva nessun impegno esplicito. Mentre stava per andar via, sua madre aggiunse, toccando il nodo della sciarpa che teneva al braccio:
«E tanto per cominciare, mi farai il piacere di farti togliere quel cencio. La cosa sta diventando ridicola, lo sai bene!».
Aristide la lasciò fare. Quando la sciarpa fu tolta, egli la piegò con cura e se la mise in tasca. Poi abbracciò sua madre dicendo: «A domani!».
Nel frattempo Rougon prendeva ufficialmente possesso del municipio. Erano rimasti soltanto otto consiglieri municipali: gli altri si trovavano in mano agli insorti, come pure il sindaco e i due consiglieri supplenti. Quegli otto signori, d'un livello pari a quello di Granoux, sudarono freddo quando egli li mise al corrente della situazione critica della città. Per capire con quale senso di smarrimento andarono a gettarsi tra le braccia di Rougon, bisognerebbe conoscere gli sprovveduti che compongono i consigli municipali di certe cittadine. A Plassans, il sindaco aveva in suo potere degli allocchi incredibili, puri strumenti di un assenso passivo. Perciò, dal momento che Garçonnet non era più lì, la macchina municipale doveva incepparsi: sarebbe appartenuta a chiunque avesse saputo rimetterne in moto gli ingranaggi. In quel momento, poiché il sottoprefetto se n'era andato, Rougon veniva ad essere, per la forza delle circostanze, il padrone unico e assoluto della città: un momento critico eccezionale, che metteva il potere in mano ad un uomo screditato, al quale, il giorno prima, nessuno dei suoi concittadini avrebbe prestato cento franchi.
La prima iniziativa di Pierre fu di dichiarare che la commissione provvisoria sedeva in permanenza. Poi si occupò della riorganizzazione della Guardia nazionale, e riuscì a mettere insieme trecento uomini. I centonove fucili rimasti nel deposito furono distribuiti, e con ciò il numero degli uomini armati per la causa della reazione salì a centocinquanta.
Gli altri centocinquanta, rimasti senz'armi, erano dei borghesi di buona volontà e dei soldati di Sicardot. Quando il comandante, Roudier, passò in rivista il minuscolo esercito sulla piazza del municipio, rimase male nel vedere che i mercanti di legumi ridevano sotto i baffi: non tutti i componenti della Guardia avevano una divisa, e alcuni apparivano assai ridicoli, col cappello nero, il vestito a doppio petto e il fucile. Ma, in fondo, le intenzioni erano buone. Al municipio fu lasciato un posto di guardia. Il resto del piccolo esercito fu diviso in plotoni che vennero collocati alle singole porte della città. Roudier assunse il comando del contingente della Porta Grande, la più minacciata.
Rougon, che in quel momento si sentiva molto forte, andò personalmente in rue Canquoin, per pregare i gendarmi di rimanere ai loro posti, senza immischiarsi in baruffe. D'altra parte, fece aprire le porte della gendarmeria, delle quali gli insorti avevano portato via le chiavi. Ma egli voleva essere l'unico trionfatore, non gradiva che i gendarmi gli sottraessero una parte della sua gloria. Li avrebbe chiamati soltanto se ne avesse avuto assolutamente bisogno. E spiegò ad essi che la loro presenza in città avrebbe forse irritato gli operai, aggravando la situazione. Il brigadiere gli fece molti elogi per la sua prudenza. Quando Rougon apprese che nella caserma c'era un ferito, volle rendersi popolare, chiese di poterlo vedere. Trovò Rengade sdraiato, con l'occhio coperto da una benda, coi grossi baffi che spuntavano dal lenzuolo. Lo confortò con belle parole sul senso del dovere, mentre l'orbo bestemmiava e sbuffava, esasperato per la ferita che lo avrebbe costretto a lasciare il servizio. Rougon gli promise che gli avrebbe mandato un medico.
«Vi ringrazio tanto, signore», rispose Rengade, «ma, vedete, quello che mi conforterebbe più di qualsiasi medicina sarebbe di torcere il collo al miserabile che mi ha cavato l'occhio. Oh, lo riconoscerei! È un mingherlino, palliduccio, molto giovane...».
Pierre si ricordò del sangue che macchiava le mani di Silvère. Fece un passo indietro, come se temesse che Rengade gli saltasse al collo dicendo: «È tuo nipote che m'ha accecato; ecco, ora pagherai tu per lui!». E mentre malediceva dentro di sé la propria famiglia indegna, dichiarò solennemente che, se il colpevole si trovava, sarebbe stato punito con tutto il rigore della legge.
«No, no, non val la pena di processarlo», rispose l'orbo; «gli torcerò io il collo».
Rougon si affrettò a ritornare al municipio. Il pomeriggio fu utilizzato per prendere vari provvedimenti. Il proclama, affisso verso l'una, produsse un'impressione eccellente. Terminava con un appello al senso civico degli abitanti, e assicurava recisamente che l'ordine non sarebbe stato più turbato. In effetti, fino al crepuscolo le strade dettero l'impressione di un sollievo generale, di una fiducia senza incrinature. Sui marciapiedi, i gruppi di gente che leggevano il proclama dicevano:
«È andata bene. Presto vedremo passare le truppe mandate ad inseguire gli insorti».
Questa convinzione, che dei soldati stessero avvicinandosi, divenne così forte che i fannulloni del corso Sauvaire si recarono sulla strada di Nizza per precedere la banda musicale. Ritornarono a notte alta, delusi, non avendo visto nulla. Allora, una sorda inquietudine serpeggiò per la città.
Al municipio, la commissione provvisoria aveva parlato tanto senza dire nulla, che i suoi componenti, digiuni, frastornati dalle loro stesse chiacchiere, si sentirono riafferrati dalla paura. Rougon li mandò a rifocillarsi, e li convocò di nuovo per le nove della sera. Stava anche lui per andarsene dall'ufficio, quando Macquart si svegliò e bussò violentemente alla porta della sua prigione. Disse che aveva fame, poi chiese che ore erano, e quando da suo fratello seppe che erano le cinque si finse molto meravigliato e borbottò, con una cattiveria diabolica, che gli insorti gli avevano promesso di ritornare più presto: stavano tardando troppo a liberarlo. Rougon, dopo avergli fatto dar da mangiare, scese, turbato da quell'insistenza di Macquart nel parlare del ritorno della banda insurrezionale.
Per la strada, provò un senso di malessere. La città gli parve cambiata: assumeva un aspetto singolare. Lungo i marciapiedi filavano rapidamente delle ombre, il vuoto e il silenzio si diffondevano, e sulle case cupe sembrava scendere, col crepuscolo, una paura grigia, lenta, ostinata come una pioggerella fine. L'ottimismo loquace della giornata si tramutava inevitabilmente in questo terrore senza motivo, in questa paura della notte incipiente. Gli abitanti erano stanchi, troppo sazi del loro trionfo, a tal punto che le poche forze che avevano ancora venivano utilizzate per immaginare terribili rappresaglie da parte degli insorti. Rougon rabbrividì in quest'atmosfera di scoraggiamento. Affrettò il passo, con un nodo alla gola. Passando davanti a un caffè della piazza dei Récollets, che proprio allora aveva acceso le lampade, e nel quale si riunivano i piccoli redditieri della città nuova, sentì un brano di conversazione molto preoccupante.
«Ebbene, signor Picou», diceva una voce pastosa, «la sapete la notizia? Il reggimento che si aspettava non è arrivato».
«Ma non si aspettava nessun reggimento, signor Touche», rispose una voce stridula.
«Scusatemi, dunque non avete letto il proclama?».
«Certo, i manifesti promettevano che l'ordine sarebbe stato mantenuto con la forza, se era necessario».
«Vedete bene: si parla di forza: di forza armata, come è naturale».
«E che dicono adesso?».
«Ma, capite, la gente ha paura: si dice che questo ritardo dei soldati non è naturale, e che gli insorti potrebbero averli massacrati».
Vi fu un grido d'orrore nel caffè. Rougon ebbe voglia di entrare per dire che il proclama non aveva mai annunciato l'arrivo d'un reggimento, che non bisognava interpretare in modo sforzato ciò che era scritto e diffondere simili chiacchiere. Ma lui stesso, preso dal turbamento, non si sentiva del tutto sicuro di non aver fatto assegnamento su un invio di truppe, e in effetti incominciava a trovare molto strano che nemmeno un soldato fosse comparso. Rincasò molto inquieto. Félicité, sempre petulante e piena di coraggio, s'arrabbiò vedendolo sconvolto per simili sciocchezze. Quando arrivarono alla frutta, lo rincuorò.
«Eh, stupido che non sei altro», disse, «tanto meglio se il prefetto si dimentica di noi. Salveremo la città noi soli. Ma io vorrei vederli ritornare, gli insorti, per riceverli a fucilate e coprirci di gloria... Dammi retta, va' a chiudere le porte della città, poi non venire a letto; muoviti molto da ogni parte per tutta la notte: più tardi lo considereranno come un tuo merito».
Pierre ritornò al municipio, un po' rincuorato. Gli ci volle del coraggio per rimanere coi nervi saldi in mezzo alle lamentele dei suoi colleghi. I membri della commissione provvisoria trasudavano paura dai loro vestiti, così come, quando è cattivo tempo, si porta con sé un odore di pioggia. Tutti sostenevano che avevano contato sull'arrivo d'un reggimento, e lanciavano grida di rabbia: non era lecito abbandonare in questo modo dei cittadini onesti al furore dei demagoghi. Pierre, per calmarli, dovette far loro una mezza promessa che il giorno dopo avrebbero avuto il loro bravo reggimento. Poi dichiarò solennemente che avrebbe fatto chiudere le porte della città. Quei signori si sentirono un po' rassicurati. Delle guardie nazionali dovettero recarsi immediatamente a ciascuna porta, con l'ordine di dare doppia mandata alle chiavi. Quando furono di ritorno, parecchi consiglieri ammisero che si sentivano davvero più tranquilli; e quando Pierre disse che la situazione critica della città imponeva loro il dovere di restare ai propri posti, alcuni fecero i loro piccoli preparativi per trascorrere la notte in poltrona. Granoux si mise in capo una papalina di seta nera, che aveva portato con sé per precauzione. Verso le undici, una metà di quei signori dormivano attorno alla scrivania di Garçonnet. Quelli che tenevano ancora gli occhi aperti pensavano, udendo giù nel cortile il passo cadenzato delle guardie nazionali, che erano dei valorosi e che avrebbero avuto delle decorazioni. Una grande lampada, posata sulla scrivania, illuminava quella curiosa veglia d'armi. Rougon, che sembrava assopito, a un certo punto si alzò di scatto e mandò a cercare Vuillet. Gli era venuto in mente che non aveva ancora ricevuto la «Gazette».
Il libraio si mostrò altezzoso, di pessimo umore.
«Ebbene», gli chiese Rougon prendendolo in disparte, «e l'articolo che mi avevate promesso? Non ho ancora visto il giornale».
«È per questo motivo che venite a seccarmi?», rispose Vuillet incollerito. «Perdìo! La "Gazette" non è uscita. Non ho nessuna voglia di farmi trucidare domani, se ritornano gli insorti».
Rougon si sforzò di sorridere, e disse che, grazie a Dio, nessuno sarebbe stato trucidato. Proprio perché si stavano diffondendo voci false e allarmistiche, l'articolo avrebbe reso un gran servizio alla buona causa.
«Può darsi», replicò Vuillet, «ma la causa migliore, in questo momento, è di mantenere la testa sulle spalle».
E aggiunse, con una cattiveria pungente:
«Ed io che credevo che voi aveste ucciso tutti gli insorti! Ne avete lasciati in vita troppi perché io possa arrischiarmi».
Rougon, rimasto solo, si stupì di quel moto di rivolta d'un uomo che di solito era così umile, così nullo. Il comportamento di Vuillet gli parve equivoco; ma non ebbe il tempo di cercarne una spiegazione. Si era appena sprofondato di nuovo nella sua poltrona, ed ecco che entrò Roudier, facendo risonare terribilmente su una coscia uno sciabolone che portava alla cintura. I dormienti si svegliarono sbigottiti. Granoux pensò ad una chiamata alle armi.
«Eh? che cosa c'è?», chiese riponendo precipitosamente in tasca la papalina di seta nera.
«Signori», disse ansimando Roudier, senza curarsi di preamboli, «io credo che una banda d'insorti si stia avvicinando alla città».
Queste parole furono accolte con un silenzio gravido di terrore. Soltanto Rougon ebbe la forza di chiedere:
«Li avete visti?».
«No», rispose Roudier; «ma sentiamo strani rumori nella campagna; uno dei miei uomini mi ha assicurato di aver visto dei fuochi in movimento sul pendio delle Garrigues».
E mentre tutti quei signori si guardavano l'un l'altro con facce pallide e mute, egli aggiunse:
«Io torno al mio posto; temo qualche attacco. Voi, dal canto vostro, avvertite la gente».
Rougon volle corrergli dietro, per avere altre notizie; ma Roudier era già lontano. Certo, la commissione non ebbe alcuna voglia di rimettersi a dormire. Dei rumori strani! Dei fuochi! Un attacco! E tutto questo a notte alta! Dar l'allarme era facile, ma poi, che fare? Mancò poco che Granoux consigliasse la stessa tattica che era riuscita il giorno prima: nascondersi, aspettare che gli insorti avessero attraversato Plassans, e poi trionfare nelle strade deserte. Pierre, per fortuna, ricordandosi dei consigli di sua moglie, disse che Roudier poteva essersi ingannato, e che la cosa migliore era di andare a vedere. Alcuni si mostrarono poco entusiasti; ma quando si stabilì che una scorta armata avrebbe accompagnato la commissione, tutti discesero con gran coraggio. Al pianterreno lasciarono solo pochi uomini; si fecero attorniare da una trentina di guardie nazionali, poi si avventurarono nella città addormentata. La luna, scorrendo all'altezza dei tetti, allungava le sue molli ombre. Camminarono invano lungo i bastioni, di porta in porta, non potendo spingere lo sguardo fino all'orizzonte, senza vedere né udire niente. È vero che le guardie nazionali delle varie postazioni dissero che dalla campagna venivano dei soffi strani, dal di sopra delle porte chiuse; essi tesero l'orecchio senza udire nient'altro che un mormorio lontano: secondo Granoux, era il rumore delle acque della Viorne.
E con tutto ciò, rimanevano inquieti; si dirigevano di nuovo verso il municipio, molto preoccupati, pur facendo la mossa di alzare le spalle e pur dicendo che Roudier era un vigliacco e un visionario. A questo punto Rougon, che ci teneva a rassicurare del tutto i suoi amici, ebbe l'idea di mostrar loro lo spettacolo della pianura, per un'estensione di parecchie leghe. Condusse il piccolo drappello nel quartiere di San Marco e andò a bussare al palazzo Valqueyras.
Il conte, fin dai primi sommovimenti, era partito per il suo castello di Corbière. Nel palazzo non c'era che il marchese di Carnavant. Fin dal giorno prima si era tenuto prudentemente in disparte, non perché avesse paura, ma perché gli ripugnava di essere veduto in combutta coi Rougon nel momento decisivo. In fondo al cuore, la curiosità lo divorava; aveva dovuto rinchiudersi in casa per non correre a regalarsi lo spettacolo esilarante degli intrighi del salotto giallo. Quando un servitore venne ad avvertirlo, in piena notte, che c'erano per la strada dei signori che chiedevano di lui, non seppe mantenere più a lungo la propria saggezza: si alzò e discese in tutta fretta.
«Caro marchese», disse Rougon presentandogli i membri della commissione municipale, «abbiamo un favore da chiedervi. Potreste farci condurre nel giardino del palazzo?».
«Certo», rispose il marchese meravigliato; «vi ci accompagnerò io stesso».
Strada facendo, si fece raccontare come stavano le cose. Il giardino dava su una terrazza che dominava la pianura. In quel punto, un'ampia parte dei baluardi era crollata: l'orizzonte si estendeva senza limiti. Rougon aveva capito che quello era un eccellente posto d'osservazione. Le guardie nazionali erano rimaste alla porta. Continuando a conversare, i membri della commissione si affacciarono al parapetto della terrazza. L'eccezionale spettacolo che si profilò dinanzi ai loro occhi li rese silenziosi. Lontano, nella valle della Viorne, in quell'immensa infossatura che si apriva, verso occidente, tra la catena delle Garrigues e le montagne della Seille, la luce della luna scendeva giù come un fiume di luce pallida. I boschetti d'alberi, le rocce scure formavano qua e là degli isolotti, delle lingue di terra, che emergevano da quel mare luminoso. A seconda delle anse della Viorne, si distinguevano dei piccoli promontori, dei tratti di riva sopraelevata, che spiccavano come riflessi metallici nel fine pulviscolo argenteo che cadeva dal cielo. Era un oceano, un mondo intero che la notte, il freddo, un senso di sbigottimento segreto allargavano all'infinito. Da principio quei signori non sentirono e non videro nulla. Nel cielo c'era un fremito di luce e di voci lontane che li assordava e li accecava. Perfino Granoux, che aveva un temperamento ben poco poetico, mormorò, conquistato dalla pace serena di quella notte invernale:
«Che bella notte, signori!».
«Senza dubbio Roudier ha avuto le traveggole», disse Rougon con un certo tono sdegnoso.
Ma il marchese tendeva le orecchie: aveva l'udito fine.
«Eh!», disse con la sua voce ben scandita, «io sento le campane a martello».
Tutti si sporsero dal parapetto, trattenendo il respiro. Leggeri, con una purezza cristallina, i tintinnii lontani d'una campana salivano dalla Pianura. Quei signori non poterono negarlo: era la campana a martello. Rougon sostenne che riconosceva la campana del Béage, un villaggio situato almeno a una lega da Plassans. Lo disse per rassicurare i suoi colleghi.
«Ascoltate, ascoltate!», lo interruppe il marchese. «Questa volta è la campana di Saint-Maur».
E indicava un altro punto dell'orizzonte. In effetti, una seconda campana piangeva nella notte limpida. Poi, ben presto, furono dieci campane, venti campane, di cui le orecchie di quei signori, abituate ai vaghi fremiti dell'oscurità, udirono i tintinnii disperati. Appelli lugubri salivano da ogni parte, indeboliti dalla distanza, simili a rantoli di agonizzanti. Ben presto tutta la pianura risonò di singhiozzi. Quei signori non presero più in giro Roudier. Il marchese, che provava una gioia maligna a spaventarli, si compiacque di spiegare il motivo di tutto questo scampanio:
«Sono», disse, «i villaggi vicini che si radunano per venire ad attaccare Plassans sul far del giorno».
Granoux spalancava tanto d'occhi.
«Non avete visto niente laggiù?», chiese tutt'a un tratto.
Nessuno guardava. Chiudevano gli occhi per ascoltare meglio.
«Ah, guardate!», riprese Granoux dopo un momento di silenzio. «Al di là della Viorne, vicino a quella massa scura».
«Sì, vedo», rispose Rougon, disperato: «accendono un fuoco».
Un altro fuoco fu acceso quasi immediatamente, di fronte al primo; poi un terzo, poi un quarto. Macchie rosse apparvero sulla valle per tutta la sua lunghezza, press'a poco equidistanti, simili alle lampade di qualche viale gigantesco. La luna, la cui luce le smorzava in parte, le faceva sembrare chiazze di sangue. Questa minacciosa illuminazione atterrì definitivamente la commissione municipale.
«Perdio!», disse il marchese col sogghigno più acuto di cui fu capace; «quei briganti si fanno delle segnalazioni».
E si compiacque di contare i fuochi, per sapere, disse, con quanti uomini all'incirca avrebbe avuto a che fare «la valorosa guardia nazionale di Plassans». Rougon tentò di esprimere dei dubbi: disse che gli abitanti dei villaggi prendevano le armi per andare a raggiungere l'esercito degli insorti, non per rivolgersi contro Plassans. Ma i suoi colleghi, col loro silenzio costernato, fecero intendere che la loro opinione era ormai irremovibile e che rifiutavano qualsiasi consolazione.
«Ecco, sento cantare la Marsigliese», disse Granoux con un fil di voce.
Anche questo era vero. Una banda doveva costeggiare la Viorne e passare, in quel momento, proprio sotto la città. Il grido «All'armi, cittadini! Formate i vostri battaglioni!» arrivava, a folate, con una vibrante chiarezza. Fu una notte atroce. Quei signori la trascorsero coi gomiti appoggiati al parapetto della terrazza, intirizziti dal freddo terribile, senza riuscire a sottrarsi allo spettacolo di quella pianura tutta agitata dallo scampanio e dalla Marsigliese, tutta infiammata dalle luci dei segnali. Si trovarono con gli occhi invasi da quel mare di luce, cosparso di fuochi sanguigni; ebbero le orecchie rintronate da quelle grida diffuse: tanto che le loro sensazioni si alteravano, ed essi credevano di vedere e di udire cose ancor più tremende. Per nulla al mondo avrebbero lasciato i loro posti: se si fossero voltati, avrebbero avuto l'impressione che un esercito li incalzasse già alle spalle. Come certi paurosi, volevano veder arrivare il pericolo, certamente per prender la fuga al momento buono. Perciò, verso la mattina, quando la luna tramontò ed essi non ebbero davanti a sé nient'altro che un abisso nero, furono presi da un'angoscia terribile. Sembrava loro di essere circondati da nemici invisibili che si arrampicavano nelle tenebre, pronti ad afferrarli alla gola. Al minimo rumore, ecco, si trattava certo di uomini che si consultavano ai piedi della terrazza, prima di darle la scalata. E niente si poteva vedere, nient'altro che nero, nel quale, esterrefatti, fissavano lo sguardo. Il marchese, fingendo di volerli rincuorare, diceva loro con voce beffarda:
«Suvvia, non vi preoccupate! Aspetteranno che si levi il giorno».
Rougon bestemmiava. Si sentiva riafferrato dalla paura. I capelli di Granoux finirono col diventar tutti bianchi. Infine, con una lentezza mortale, venne l'alba. Ancora una volta, fu un brutto momento. Allo spuntare del primo raggio di luce, quei signori si aspettavano di vedere un esercito schierato in battaglia davanti alla città. Per l'appunto, quella mattina il giorno durava fatica a spuntare, indugiava sulla linea dell'orizzonte. Tendendo il collo, con gli occhi fissi, essi interrogavano quel vago chiarore. Nell'ombra incerta intravedevano profili mostruosi; la pianura si trasformava in un lago di sangue, le rocce in cadaveri galleggianti alla superficie, i boschetti in battaglioni minacciosi, pronti all'assalto. Poi, quando il chiarore crescente ebbe dissolto quei fantasmi, il giorno si levò così pallido, così triste, così intriso di malinconia, che perfino il marchese sentì una stretta al cuore. Non si vedevano insorti, le strade erano sgombre; ma la vallata, tutta grigia, aveva un aspetto deserto e cupo come uno scannatoio. I fuochi erano spenti; le campane sonavano ancora. Verso le otto, Rougon scorse solamente un gruppo di pochi uomini che si allontanavano lungo la Viorne.
Quei signori erano morti di freddo e di stanchezza. Non vedendo alcun pericolo immediato, si decisero ad andare a prendersi qualche ora di riposo. Una guardia nazionale fu lasciata come sentinella sulla terrazza, con l'ordine di correre ad avvertire Roudier se si fosse vista in lontananza qualche banda. Granoux e Rougon, accasciati dalle emozioni della notte, ritornarono alle loro case, che erano vicine, cercando di farsi coraggio l'un l'altro.
Félicité mise a letto suo marito con attenzioni d'ogni sorta. Lo chiamava «povero il mio gatto»; gli ripeteva che non doveva farsi prendere a quel modo da timori immaginari, e che tutto sarebbe andato bene. Ma lui scuoteva la testa; aveva timori seri. Lei lo lasciò dormire fino alle undici. Poi, dopo pranzo, adagio adagio lo indusse a uscire, facendogli capire che bisognava andare fino in fondo alla faccenda. Al municipio, Rougon trovò soltanto quattro membri della commissione. Gli altri mandarono giustificazioni dell'assenza: erano davvero malati. Il panico, dalla mattina in poi, soffiava sulla città con una violenza più sconvolgente. Quei signori non avevano potuto trattenersi dal narrare la notte memorabile trascorsa sulla terrazza del palazzo Valqueyras. Le loro donne di servizio si erano affrettate a spargere la notizia, aggiungendovi ulteriori particolari drammatici. A quell'ora, era ormai un fatto storicamente accertato che dalle colline di Plassans si erano viste nella campagna delle danze selvagge di cannibali che divoravano i loro prigionieri, dei balli di streghe che facevano il girotondo attorno alle marmitte nelle quali cuocevano dei bambini, delle interminabili sfilate di banditi le cui armi rilucevano al chiaro di luna. Si parlava anche di campane che, da sé, sonavano a martello nell'aria fosca, e si affermava che gli insorti avevano appiccato il fuoco alle foreste dei dintomi e che tutta la zona era in fiamme.
Era un martedì, giorno di mercato a Plassans. Roudier aveva creduto opportuno di far spalancare le porte della città per far entrare qualche contadina che portava legumi, burro, uova. Appena fu riunita, la commissione municipale, che ormai era composta solo da cinque membri compreso il presidente, giudicò che si trattasse di un'imperdonabile imprudenza. Benché la sentinella lasciata al palazzo Valqueyras non avesse visto niente, bisognava mantenere chiusa la città. Rougon decise che l'araldo pubblico, accompagnato da un tamburino, percorresse le strade dichiarando che la città era in stato d'assedio e annunciando agli abitanti che chi usciva non poteva più rientrare. Le porte furono ufficialmente chiuse, a mezzogiorno in punto. Questa deliberazione, presa per rassicurare la gente, portò al culmine lo spavento. Nulla di più ridicolo di questa città che si chiudeva ermeticamente, che metteva il catenaccio alle porte di casa in pieno giorno, nel bel mezzo del secolo diciannovesimo.
Quando Plassans ebbe chiuso attorno a sé la cintura mezzo diroccata dei suoi bastioni, quando si fu inchiavardata come una fortezza assediata in attesa dell'assalto nemico, un'angoscia mortale invase le case dall'aspetto tetro. Di ora in ora, dal centro sembrava alla gente di udire degli scambi di fucilate nei sobborghi. Non si sapeva più niente, ci si trovava come in fondo a una cantina, a un corridoio murato, nell'ansiosa attesa della liberazione o del colpo di grazia. Da due giorni le bande d'insorti che battevano la campagna avevano interrotto ogni comunicazione. Plassans, addossata al colle sulle cui pendici sorge, si trovava separata dal resto della Francia. La città aveva la sensazione di essere sola in un paese tutto in rivolta: intorno, le campane a martello sonavano, la Marsigliese si udiva minacciosa, con un frastuono di fiume in piena. La città, abbandonata e terrorizzata, stava lì come una preda promessa ai vincitori, e chi percorreva il corso Sauvaire oscillava, ogni minuto, fra lo spavento e la speranza, credendo di scorgere alla Porta Grande ora le bluse degli insorti, ora le divise dei soldati. Giammai una sottoprefettura, rinchiusa fra le sue mura mezzo diroccate, ebbe un'agonia più dolorosa.
Verso le due si diffuse la voce che il colpo di Stato era fallito; il principe-presidente era prigioniero nella torre di Vincennes; Parigi si trovava in balìa dei demagoghi più scatenati; Marsiglia, Tolone, Draguignan, tutto il Mezzogiorno appartenevano all'esercito insurrezionale vittorioso. Gli insorti sarebbero arrivati la sera e avrebbero messo a ferro e fuoco Plassans.
Allora una deputazione di cittadini si recò al municipio per rimproverare la commissione municipale di aver fatto chiudere le porte: ciò serviva solo a irritare gli insorti. Rougon, che stava perdendo la testa, difese con tutto il resto delle proprie energie la sua ordinanza. Quella chiusura delle serrature a doppia mandata gli sembrava uno degli atti più intelligenti della sua amministrazione; per giustificarlo, trovò parole suadenti. Ma lo mettevano in imbarazzo, gli domandavano dov'erano i soldati, il reggimento da lui promesso. Allora egli mentì: dichiarò con faccia tosta che non aveva mai promesso un bel nulla. L'assenza di questo reggimento-fantasma, che gli abitanti desideravano a tal punto che avevano creduto di vederlo arrivare, era la causa principale del panico. Le persone bene informate sapevan dire in quale punto preciso della strada i soldati erano stati trucidati,
Alle quattro, Rougon, seguito da Granoux, si recò al palazzo Valqueyras. Piccole bande, che volevano raggiungere gli insorti a Orchères, passavano tuttora lontano, nella valle della Viorne. Per tutta la giornata, dei monelli si erano arrampicati sui bastioni, dei borghesi erano venuti a guardare attraverso le feritoie, Queste sentinelle volontarie mantenevano vivo il terrore dei cittadini, contando ad alta voce le bande, che venivano scambiate per altrettanti grossi battaglioni. Quei vigliacchi credevano di assistere dalle feritoie ai preparativi di qualche massacro totale. Al crepuscolo, come il giorno prima, il panico si diffuse come un vento ancor più gelido.
Rientrando al municipio, Rougon e l'inseparabile Granoux capirono che la situazione diventava insostenibile. Durante la loro assenza un altro membro della commissione si era dileguato. Erano ormai soltanto quattro. Si sentirono ridicoli, stando lì, pallidi, a guardarsi in faccia per ore di seguito, senza dir nulla. Inoltre, avevano una terribile paura di trascorrere una seconda notte sulla terrazza dei palazzo Valqueyras.
Rougon dichiarò con tono serio che, poiché lo stato delle cose rimaneva invariato, non c'era motivo di sedere in permanenza. Se capitava qualche avvenimento grave, lo venissero subito ad avvertire. E con una decisione debitamente approvata dal Consiglio, scaricò su Roudier le incombenze dell'amministrazione. Il povero Roudier, che si ricordava d'essere stato guardia nazionale a Parigi sotto Luigi Filippo, vigilava alla Porta Grande, convinto di fare il suo dovere.
Pierre rincasò a testa bassa, nascondendosi nell'ombra delle case. Attorno a lui, sentiva Plassans divenirgli ostile. Tra i gruppetti di gente sentiva pronunciare il suo nome con commenti incolleriti e sprezzanti. Vacillando, col sudore alle tempie, salì le scale di casa sua. Félicité lo ricevette senza parlare, con la costernazione sul volto. Anche lei incominciava a disperare. Tutto il loro bel sogno crollava. Rimasero là, nel salotto giallo, l'uno di fronte all'altra. Calava la sera, una sporca sera d'inverno che dava un colore fangoso alla carta arancione a grandi arabeschi. Mai la stanza era sembrata più stinta, più mal messa, più brutta. E loro due, adesso, erano soli; non avevano più, come il giorno prima, una folla di adulatori che si congratulavano con loro. Era bastata una giornata per sconfiggerli, proprio nel momento in cui cantavano vittoria. Se il giorno seguente la situazione non cambiava, la partita era perduta. Félicité, che il giorno innanzi sognava la pianura di Austerlitz, ora, guardando lo stato rovinoso del salotto giallo, così cupo e deserto, pensava al campo maledetto di Waterloo.
Poi, siccome suo marito non diceva niente, essa andò macchinalmente alla finestra, a quella finestra dalla quale aveva aspirato deliziosamente il profumo d'incenso di tutta una sottoprefettura. Vide giù, in piazza, parecchi gruppi di persone; chiuse le persiane, scorgendo che alcune teste si rivolgevano verso la loro casa: ebbe paura che le vociassero contro. Quella gente parlava di loro: ne ebbe il presentimento.
Nell'oscurità della sera salivano delle voci. Un avvocato starnazzava col tono di chi pronuncia un'arringa vittoriosa:
«Lo avevo detto io, gli insorti sono andati via da soli, e per ritornare non chiederanno il permesso dei "quarantuno!". I «quarantuno»! Che farsa bella e buona! Io credevo che fossero almeno duecento».
«Ma no», disse un negoziante corpulento, mercante d'olio e grande intenditore di politica, «forse non erano neppure dieci. Giacché, in fin dei conti, non hanno combattuto: si sarebbe pur visto il sangue, la mattina. Io, proprio io sono andato a vedere al municipio. Il cortile era pulito come la mia mano».
Un operaio che si era insinuato timidamente nel gruppo aggiunse:
«Non ci voleva molta bravura per prendere il municipio. La porta non era nemmeno chiusa».
Questa frase fu accolta da scoppi di risa, e l'operaio, vedendosi incoraggiato, continuò:
«I Rougon, lo sanno tutti, non sono un gran che».
Questo insulto colpì al cuore Félicité. L'ingratitudine di quella gente la straziava, poiché lei stessa aveva finito per credere alla «missione» dei Rougon. Chiamò suo marito: voleva che anche lui imparasse una lezione sulla volubilità della folla.
«E come la faccenda dello specchio», riprese l'avvocato. «Ne hanno fatto di chiasso, su questo povero specchio rotto. Voi sapete che quel Rougon è capace di avere sparato una fucilata là dentro, per far credere che fosse avvenuto un combattimento».
Pierre trattenne a stento un grido di dolore. Nemmeno al suo specchio si credeva più! Ben presto avrebbero sostenuto che egli non aveva sentito sibilare la pallottola accanto al proprio orecchio. La leggenda dei Rougon si sarebbe dissolta, della loro gloria non sarebbe rimasto niente. Ma Pierre non era ancora arrivato alla fine del suo calvario. Quei gruppetti si accanivano contro di lui con lo stesso impeto con cui lo avevano applaudito il giorno prima. Un ex fabbricante di cappelli, un vecchio di settant'anni, la cui fabbrica un tempo si trovava nel sobborgo, incominciò a frugare nel passato dei Rougon. Parlò vagamente, con le incertezze di una memoria indebolita dall'età, del recinto dei Fouque, di Adélaïde, dei suoi amori con un contrabbandiere. Ne disse abbastanza per dare un nuovo impulso alle maldicenze. Il gruppo si avvicinò alla casa. Parole come «canaglie», «ladri», «intriganti svergognati» salivano fino alle persiane dietro le quali Pierre e Félicité sudavano di paura e di rabbia. Si finì col compiangere Macquart. Questo fu il colpo di grazia. Ieri Rougon era un Giunio Bruto, uno spirito stoico che sacrificava alla patria i propri affetti familiari; oggi non era altro che un vile ambizioso che calpestava il corpo di quel povero suo fratello e se ne serviva da sgabello per la sua ascesa verso la fortuna.
«Senti, senti», mormorava Pierre con voce strozzata. «Ah, furfanti! Ci uccidono; non ci risolleveremo più».
Félicité, furiosa, tambureggiava sulla persiana con le nocche delle dita avvizzite e rispondeva:
«Lasciali dire. Se ridiventeremo i più forti, vedranno che cosa io sono capace di fare. Lo so io da che parte viene il colpo. È la città nuova che ce l'ha con noi».
Félicité vedeva giusto. L'improvvisa impopolarità dei Rougon era il risultato dei maneggi d'un gruppo di avvocati molto irritati per l'importanza che aveva assunto un vecchio mercante d'olio, senza cultura, la cui ditta era stata sull'orlo del fallimento. Il quartiere di San Marco, da due giorni, era come morto. Restavano sulla breccia soltanto il quartiere vecchio e la città nuova. Quest'ultima aveva approfittato del panico per distruggere la fiducia dei commercianti e degli operai nella cricca del salotto giallo. Roudier e Granoux erano uomini eccellenti, cittadini onorati, ingannati da quegli intriganti dei Rougon. Bisognava aprir loro gli occhi. Il signor Isidore Granoux non avrebbe dovuto sedersi, lui, sulla poltrona di sindaco invece di quel pancione, di quel pezzente senza un soldo? Gli invidiosi incominciavano di lì per rimproverare a Rougon tutti gli atti della sua amministrazione che era durata meno di due giorni. Non avrebbe dovuto mantenere il vecchio Consiglio municipale; aveva commesso una grave sciocchezza col far chiudere le porte; si doveva alla sua idiozia se cinque commissari si erano buscati una bronchite sulla terrazza del palazzo Valqueyras. E non la smettevano più! Anche i repubblicani rialzavano la testa. Si parlava della possibilità che gli operai del sobborgo tentassero un colpo di mano sul municipio. La reazione agonizzava.
Pierre, in mezzo a questo crollo di tutte le sue speranze, pensava a quale appoggio, caso mai, poteva ancora ricorrere.
Domandò: «Aristide non doveva venir qui stasera per fare la pace con noi?».
«Sì», rispose Félicité. «Mi aveva promesso un bell'articolo. Ma l'"Indépendant" non è uscito...».
Ma suo marito la interruppe:
«Eh! Non è lui che esce dalla sottoprefettura?».
La vecchia lanciò appena uno sguardo.
«Ha di nuovo il braccio al collo!», gridò.
Aristide, in effetti, aveva di nuovo la mano ravvolta nella sciarpa. L'Impero andava male senza che la Repubblica trionfasse, ed egli aveva pensato che era prudente rimettersi a fare il mutilato.
Attraversò adagio adagio la piazza, senza sollevare la testa; poi, siccome udì certamente delle parole minacciose e compromettenti che provenivano dai gruppetti, si affrettò a svignarsela all'angolo di rue de la Banne.
«Non salirà da noi, sta' sicuro», disse Félicité con amarezza. «Siamo a terra... Anche i nostri figli ci abbandonano!».
Chiuse con impeto la finestra: non voleva più vedere, più sentire nulla. Accese la lampada. Cenarono, scoraggiati, senza appetito, lasciando la roba sul piatto. Avevano solo poche ore per prendere una decisione. Se non volevano rinunciare alla fortuna sognata, bisognava che la mattina dopo tenessero sotto i piedi Plassans e le facessero chiedere perdono. La sola causa della loro indecisione ansiosa era la mancanza assoluta di notizie precise. Félicité, con la sua lucidità di mente, lo comprese subito. Se avessero potuto sapere il risultato del colpo di Stato, avrebbero rischiato e continuato a recitare ad ogni costo la parte dei salvatori di Plassans, o, in caso di fallimento, si sarebbero affrettati a far dimenticare il più presto possibile i loro intrighi sfortunati. Ma non sapevano niente di preciso, perdevano la testa, sudavano freddo nel giocare così, d'azzardo, la loro fortuna, ignorando tutto quello che era accaduto.
«E quello sciagurato di Eugène che non mi scrive!», gridò Rougon in un parossismo di disperazione, senza pensare che rivelava alla moglie il segreto della loro corrispondenza epistolare.
Ma Félicité fece finta di non aver sentito. Quel grido di suo marito l'aveva colpita profondamente. In effetti, perché mai Eugène non scriveva a suo padre? Dopo averlo tenuto al corrente con tanta accuratezza dei successi della causa bonapartista, avrebbe dovuto affrettarsi ad annunciargli il trionfo o la disfatta del principe Luigi. Un'elementare prudenza gli avrebbe dovuto consigliare la comunicazione di questa notizia. Se taceva, voleva dire che la Repubblica vittoriosa lo aveva mandato a tener compagnia al Pretendente nelle carceri oscure di Vincennes. Félicité si sentì gelare: il silenzio di Eugène dissolveva le sue ultime speranze. |[continua]|
|[CAPITOLO VI, 3]|
In quel momento portarono «La Gazette», ancora fresca di stampa.
«Come!», disse Pierre meravigliatissimo, «Vuillet ha pubblicato il suo giornale?».
Strappò la fascetta, lesse l'articolo di fondo, arrivò fino alle ultime parole, pallido come un cencio lavato, accasciandosi sulla sedia.
«Tieni, leggi», disse porgendo il giornale a Félicité.
Era un articolo coi fiocchi, di una violenza inaudita contro gli insorti. Mai tanto fiele, tante menzogne, tante mascalzonate bigotte erano state scritte da una penna. Vuillet incominciava col fare il racconto dell'entrata della banda rivoluzionaria a Plassans. Un vero capolavoro: c'erano «quei banditi, quelle facce patibolari, quella schiuma di evasi dalle galere» che invadevano la città, «ebbri d'acquavite, di lussuria e di bramosia di darsi al saccheggio». Poi Vuillet li raffigurava mentre «ostentavano il loro cinismo per le strade, spaventavano la popolazione con grida selvagge, nient'altro cercavano che lo stupro e l'assassinio». Più oltre, la scena del palazzo municipale e l'arresto delle autorità divenivano tutto un dramma atroce: «Allora, hanno preso alla gola gli uomini più rispettabili; e, come Gesù, il sindaco, il valoroso comandante della Guardia nazionale, il direttore delle Poste (un funzionario così zelante), sono stati coronati di spine da quei miserabili e hanno ricevuto in viso gli sputi dei manigoldi». Il capoverso dedicato a Miette e alla sua pelliccia rossa saliva ad altezze liriche. Vuillet aveva visto dieci, venti donne rosso-sangue: «E chi non ha veduto, tra quei mostri, certe creature infami vestite di rosso, che dovevano essersi rivoltolate nel sangue dei martiri che quei briganti avevano assassinato per le strade? Esse agitavano delle bandiere, si abbandonavano, ad ogni angolo di strada, alle ignobili lascivie di tutta quanta l'orda». Con enfasi biblica Vuillet aggiungeva: «La Repubblica non va mai avanti se non è accompagnata dalla prostituzione da un lato, dall'assassinio dall'altro». E questa era soltanto la prima parte dell'articolo: terminato il racconto, il libraio chiedeva, con una perorazione virulenta, se il paese avrebbe sopportato più oltre «la vergogna di queste belve che non rispettano né la proprietà né le persone»; faceva appello a tutti i cittadini valorosi, dicendo che una tolleranza protratta più a lungo avrebbe costituito un incoraggiamento per quei manigoldi, e che, se non si reagiva, gli insorti sarebbero venuti a strappare «la figlia dalle braccia della madre, la sposa dalle braccia dello sposo». Infine, dopo una pia frase in cui dichiarava che Dio voleva che i briganti fossero sterminati, finiva con questo squillo di tromba: «Si sente dire che quei miserabili sono di nuovo alle nostre porte: ebbene, che ciascuno di noi prenda un fucile, e che siano ammazzati come cani; quanto a me, mi si vedrà in prima fila, ben lieto di sbarazzare il mondo da una simile feccia».
Questo articolo, in cui la pacchianeria del giornalismo di provincia snocciolava una sfilza di frasi sconce, aveva lasciato di stucco Rougon, che mormorò, appena Félicité ebbe posato «La Gazette» sulla tavola:
«Ah, sciagurato! Ci dà l'ultimo colpo. Crederanno che sia stato io l'ispiratore di questa diatriba».
«Ma», disse Félicité pensierosa, «non m'hai detto stamattina che lui si rifiutava nel modo più assoluto di attaccare i repubblicani? Le ultime notizie lo avevano atterrito, tu mi assicuravi che era pallido come un cadavere».
«È vero, non ci capisco nulla. Siccome io insistevo, è arrivato fino a rimproverarmi di non avere ucciso tutti gli insorti... Questo articolo, avrebbe dovuto scriverlo ieri; oggi, ci fa trucidare».
Félicité rimaneva stupefatta. Quale insetto, dunque, aveva punto Vuillet? L'immagine di quel sagrestano mancato che, armato d'un fucile, combatteva sui bastioni di Plassans, le sembrava una delle cose più ridicole che si potessero immaginare. C'era senza dubbio là sotto qualche motivo determinante che le sfuggiva. Vuillet aveva scritto un articolo pieno di insulti troppo sfacciati e di coraggio troppo facilmente esibito, perché si potesse credere davvero che la banda rivoluzionaria fosse così vicina alle porte della città.
«È un mascalzone, l'ho sempre detto», ripeté Rougon dopo aver letto l'articolo una seconda volta. «Forse si è soltanto compiaciuto di danneggiarci. Sono stato davvero un ingenuo a lasciargli la direzione delle Poste».
Fu un lampo rischiaratore. Félicité si alzò di scatto, come illuminata da un pensiero improvviso; si mise il cappello, si gettò uno scialle addosso.
«Dove vai?», chiese suo marito, meravigliato. «Sono le nove passate».
«Tu va' a letto», rispose lei con un tono brusco. «Ti senti male, hai bisogno di riposarti. Dormi finché non sarò di ritorno; se è necessario, poi, ti sveglierò, e parleremo».
Uscì col suo passo lesto, e corse all'ufficio postale. Entrò difilato nella stanza in cui Vuillet lavorava ancora. Nel vederla, egli non poté trattenere una mossa di viva contrarietà.
Vuillet, da quando era direttore delle Poste, non era mai stato così felice. Potendo far scivolare le sue dita sottili tra la massa delle lettere, gustava delle voluttà profonde: voluttà di prete curioso che si apprestava ad assaporare le confessioni delle sue penitenti. Tutte le indiscrezioni più delicate, tutti i cicalecci delle sagrestie risonavano alle sue orecchie. Accostava il suo lungo naso pallido alle lettere, fissava amorosamente gli indirizzi coi suoi occhi loschi, orecchiava sugli involucri dei pacchi, con lo stesso gusto con cui i pretonzoli sondano l'anima delle ragazze. Erano gioie infinite, tentazioni che lo solleticavano. I mille segreti di Plassans erano là; Vuillet aveva a portata di mano l'onore delle donne, la fortuna degli uomini, e gli bastava rompere i sigilli per saperla altrettanto lunga quanto il Gran vicario della cattedrale, il confidente delle persone più altolocate della città. Vuillet era una di quelle terribili pettegole, fredde, astute, che sanno tutto, riescono a farsi dire tutto e diffondono le chiacchiere solo per il gusto di rovinare le persone. Perciò aveva avuto spesso il desiderio di affondare il braccio fino alla spalla nella cassetta delle lettere. Per lui, dal giorno innanzi, l'ufficio del direttore delle Poste era un grande confessionale pieno d'ombre e di un mistero religioso, che lo mandava in estasi nel fiutare i sussurri segreti, le confessioni eccitanti che esalavano dalla corrispondenza epistolare. Del resto, il libraio faceva le sue meschine illegalità con una perfetta impudenza. La crisi che la città stava attraversando gli assicurava l'impunità. Se alcune lettere arrivavano un po' in ritardo, se altre non arrivavano addirittura al destinatario, egli poteva dire che la colpa era di quei maledetti repubblicani, che battevano la campagna e interrompevano le comunicazioni. La chiusura delle porte della città l'aveva contrariato per un momento; ma aveva preso accordi con Roudier perché la corrispondenza postale potesse entrare e gli fosse portata direttamente, senza passare per il municipio.
Per la verità, egli aveva dissigillato solo poche lettere, quelle «buone», che il suo fiuto di sagrestano gli aveva indicato come ricche di notizie che era vantaggioso conoscere prima di tutti gli altri. Dopo averle lette, si era limitato a serbare in un cassetto quelle che avrebbero potuto aprire gli occhi alla gente e togliergli il merito di apparire un coraggioso mentre ancora tutta la città, non sapendo niente, tremava. Il nostro bravo bigotto, scegliendo per sé la direzione delle Poste, aveva davvero capito a meraviglia la situazione.
Quando la signora Rougon entrò, Vuillet stava facendo la sua cernita in un mucchio enorme di lettere e di giornali, col pretesto, certamente, di classificare quella corrispondenza. Si alzò, col suo sorriso umile, e mise avanti una sedia. Le sue palpebre arrossate sbattevano, tradendo uno stato di inquietudine. Ma Félicité non si sedette; disse brutalmente:
«Voglio la lettera».
Vuillet sgranò gli occhi con l'aria più innocente di questo mondo.
«Quale lettera, cara signora?», domandò.
«La lettera che avete ricevuto stamattina, diretta a mio marito... Su, signor Vuillet, ho fretta».
E siccome lui balbettava che non sapeva, che non aveva visto niente, che il caso era davvero strano, Félicité disse, con un tono di velata minaccia nella voce:
«Una lettera da Parigi, di mio figlio Eugène; sapete bene che cosa intendo dire, no?... La cercherò da me».
E fece l'atto di metter le mani tra la corrispondenza. Allora egli si fece in quattro, disse che avrebbe visto subito. Il servizio, per causa di forza maggiore, funzionava così male! Certamente, poteva darsi che la lettera ci fosse; in questo caso, si sarebbe trovata. Ma, quanto a lui, giurava di non averla veduta. Continuando a parlare, si aggirava nell'ufficio, metteva sossopra tutte le lettere. Poi aprì i cassetti, gli involucri. Félicité aspettava impassibile.
«In fede mia, avete ragione, ecco una lettera per voi», esclamò infine, estraendo un mucchietto di lettere da un plico. «Ah, questi diavoli d'impiegati! Approfittano della situazione per non fare niente a modo».
Félicité prese la lettera e ne esaminò attentamente il sigillo, senza aver l'aria di preoccuparsi affatto di quel che un simile esame poteva avere di offensivo per Vuillet. Essa si accorse bene che la busta doveva essere stata aperta; il libraio, ancora inesperto, si era servito d'una cera più scura per richiudere la lettera. Félicité ebbe cura di aprire la busta lasciando intatto il sigillo: al momento opportuno, avrebbe potuto essere una prova. Eugène, in poche parole, annunziava il completo successo del colpo di Stato: Parigi era domata, le province non si agitavano; egli consigliava ai suoi genitori un atteggiamento molto risoluto contro l'insurrezione parziale che era sorta nel Mezzogiorno. Concludendo, diceva che la loro fortuna era cosa fatta, se non si mostravano deboli.
La signora Rougon mise la lettera nella tasca del suo vestito e, lentamente, si sedette, guardando Vuillet negli occhi. Vuillet, fingendosi occupatissimo, aveva ripreso con ansia febbrile il lavoro di cernita.
«Statemi a sentire, signor Vuillet», disse lei.
quando lui ebbe alzato la testa:
«Giochiamo a carte scoperte, siamo intesi? Fate male a tradire, potrebb'essere un guaio per voi. Se, invece di dissigillare le nostre lettere...».
Lui protestò, si finse offeso. Ma lei, tranquilla:
«Lo so; conosco la scuola da cui provenite; voi non confesserete mai... Andiamo, basta con le parole inutili: che interesse avete a mettervi dalla parte del colpo di Stato?».
E siccome lui insisteva a giurare sulla sua perfetta innocenza, lei finì con l'impazientirsi:
«Mi prendete dunque per una stupida?», gridò. «Ho letto il vostro articolo... Fareste meglio a intendervi con noi».
Allora, continuando a non confessare nulla, egli disse chiaro e tondo che voleva avere per sé gli acquirenti dei libri del Collegio. Un tempo, era stato lui a rifornire il Collegio di testi classici. Ma erano venuti a sapere che vendeva sottobanco agli alunni materiale pornografico, in quantità così grande che i leggii traboccavano di stampe e di libri osceni. Per questo motivo aveva addirittura corso il rischio di una denuncia alla polizia correzionale. Da allora, egli aspirava, con un accanimento che lo ossessionava, a ritornare nelle buone grazie dell'amministrazione.
Félicité sembrò stupefatta per la modestia delle sue aspirazioni. Glielo fece anche capire. Violare il segreto epistolare, rischiare la galera per vendere qualche dizionario!
«Eh», disse lui con una voce stizzosa, «è una vendita sicura da quattro a cinquemila franchi all'anno. Io non aspiro all'impossibile, come certe persone».
Lei finse di non raccogliere l'allusione. Non si discusse più di lettere dissigillate. Fu concluso un patto d'alleanza, in base al quale Vuillet s'impegnava a non divulgare alcuna notizia e a non mettersi in vista, e i Rougon gli avrebbero fatto riavere la vendita dei libri del Collegio. Félicité, nell'andarsene, lo impegnò a non compromettersi più oltre. Bastava che egli conservasse le lettere e le distribuisse due giorni dopo.
«Che mascalzone!», disse tra sé quando fu per la strada, senza pensare che anche lei, proprio allora, aveva messo un fermo illegale sulla corrispondenza.
Rincasò a passi lenti, pensierosa. Allungò addirittura il percorso, passò per il corso Sauvaire, per poter riflettere più a lungo e con più calma, prima di essere a casa. Sotto gli alberi del viale incontrò Carnavant, che profittava della notte per fare il ficcanaso nella città nuova senza compromettersi. Il clero di Plassans, restio ad agire, manteneva, dopo l'annuncio del colpo di Stato, la neutralità più assoluta. L'Impero era ormai una realtà: il clero aspettava il momento adatto per riprendere, in una nuova direzione, i suoi millenari intrighi. Il marchese, divenuto ormai un agente al quale non veniva dato alcun incarico, aveva una sola curiosità: vedere come andava a finire quel parapiglia e in che modo i Rougon avrebbero portato a termine l'impresa che si erano assunti.
«Sei tu, piccina?», disse il marchese riconoscendo Félicité. «Volevo venire a trovarti. Le tue faccende s'imbrogliano».
«Ma no, va tutto bene», rispose lei, preoccupata.
«Tanto meglio; mi racconterai tutto, non è vero? Ah, devo confessartelo, ho messo addosso una paura atroce a tuo marito e ai suoi colleghi, l'altra notte. Se tu avessi visto com'erano buffi sulla terrazza, mentre io facevo veder loro una banda d'insorti in ogni ciuffo di vegetazione della valle!... Mi perdoni d'aver fatto questo?».
«Vi ringrazio, anzi», esclamò Félicité. «Avreste dovuto farli crepare dalla paura. Mio marito è un buono a nulla. Venite dunque da me una di queste mattine, quando sarò sola in casa».
E riprese il cammino a passi rapidi, come se l'incontro col marchese l'avesse decisa. Tutto il suo corpicino esprimeva una volontà implacabile. Finalmente si sarebbe vendicata di tutte le dissimulazioni di Pierre, lo avrebbe messo sotto i piedi, avrebbe assicurato per sempre la sua onnipotenza in casa. Era un colpo di scena necessario, una commedia della quale gustava in anticipo le beffe crudeli, e ne maturava il progetto con le raffinatezze di una donna ferita nell'orgoglio.
Trovò Pierre a letto: dormiva d'un sonno pesante. Avvicinò per un momento al letto la candela, e guardò, con un'aria di commiserazione, quel viso grossolano, scosso ogni tanto da leggeri brividi. Poi si sedette al capezzale, si tolse il cappello, si arruffò i capelli, assunse l'aria di una persona disperata e si mise a singhiozzare forte.
«Eh, che cos'hai, perché piangi?», chiese Pierre, svegliatosi di soprassalto.
Lei non rispose, pianse ancor più amaramente.
«Ti prego, rispondimi», insisté suo marito, terrorizzato da quella muta disperazione. «Dove sei andata? Hai veduto gli insorti?».
Lei fece cenno di no; poi, con voce spenta:
«Vengo dal palazzo Valqueyras», mormorò. «Volevo chiedere consiglio al marchese di Carnavant. Ah, povero mio caro, tutto è perduto».
Pierre si sedette sul letto, pallidissimo. Il collo taurino che si vedeva dalla camicia sbottonata, la carne floscia, eran tutti gonfiati dalla paura. Sprofondava in mezzo al letto disfatto, come un fantoccio cinese, livido e piagnucoloso.
«Il marchese», proseguì Félicité, «ritiene che il principe Luigi abbia perduto la partita. Siamo rovinati, resteremo sempre senza un soldo».
Allora, come accade ai vigliacchi, Pierre andò su tutte le furie. Era colpa del marchese, colpa di sua moglie, colpa di tutta la sua famiglia. Pensava forse alla politica, lui, quando Carnavant e Félicité lo avevano spinto in mezzo a quei pasticci?
«Io me ne lavo le mani», gridò. «Siete voi due che avete fatto questa sciocchezza. Non era una cosa più saggia mangiarsi tranquillamente le proprie piccole rendite? Ma tu, tu hai voluto dominare. Lo vedi, ora, a che punto ci ha portati tutto questo».
Perdeva la testa, non si ricordava più di essersi mostrato altrettanto accanito quanto sua moglie. Provava soltanto un immenso desiderio: sfogare la sua collera accusando gli altri della sua disfatta.
del resto», continuò, «potevamo forse riuscire con dei figli come i nostri? Eugène ci abbandona nel momento decisivo; Aristide ci ha trascinati nel fango, e perfino quel bel santocchio di Pascal ci ha compromessi facendo il filantropo al seguito degli insorti... E dire che ci siamo ridotti al verde per farli studiare!».
Nella sua esasperazione, si lasciava andare a dire parole che non aveva mai usato. Félicité, vedendo che riprendeva fiato, gli disse con tono tranquillo:
«Ti dimentichi di Macquart».
«Ah, sì, me ne stavo dimenticando!», riprese lui con maggior violenza. «Eccone ancora uno il cui solo pensiero mi mette fuori di me!... Ma non è tutto; sai, il piccolo Silvère, l'altra sera, l'ho veduto in casa di mia madre, con le mani insanguinate. Ha cavato un occhio a un gendarme. Non te ne avevo parlato per non turbarti. Ed ecco un mio nipote in Corte d'Assise. Ah, che famiglia! Quanto a Macquart, ci ha tormentati fino al punto che ho avuto voglia di fracassargli la testa, l'altro giorno, quando avevo un fucile. Si, l'ho avuta questa voglia...».
Félicité lasciava passare l'uragano. Aveva ricevuto i rimproveri di suo marito con una dolcezza angelica, abbassando la testa come una colpevole, il che le consentiva di essere raggiante in viso senza farsi vedere. Con questo suo atteggiamento eccitava Pierre sempre più, lo faceva andare in bestia. Quando il poveruomo rimase senza voce, lei tirò dei profondi sospiri, fingendosi pentita; poi ripeté con voce desolata:
«Che faremo? Dio mio! Che faremo? Siamo sommersi dai debiti».
«Colpa tua!», gridò Pierre, usando per lanciare questo grido le ultime forze che gli rimanevano,
I Rougon, effettivamente, avevano debiti da ogni parte. La fiducia in un successo imminente aveva fatto perder loro ogni prudenza. Dall'inizio del 1851, si erano lasciati andare fino ad offrire ai frequentatori del salotto giallo, ogni sera, bicchieri di sciroppo e di ponce, dolciumi, spuntini senza risparmio, durante i quali si beveva alla morte della Repubblica. Per di più, Pierre aveva messo a disposizione del partito reazionario un quarto del suo capitale, per contribuire all'acquisto di fucili e di cartucce.
«Il conto del pasticciere è almeno di mille franchi», proseguì Félicité con tono dolciastro, «e al liquorista ne dobbiamo forse il doppio. Poi c'è il macellaio, il fornaio, il fruttivendolo...».
Pierre agonizzava. Félicité gli sferrò l'ultimo colpo, aggiungendo:
«E non parlo dei diecimila franchi che hai dato per le armi».
«Io, io!», balbettò lui; «ma mi hanno imbrogliato, mi han derubato! È stato quell'imbecille di Sicardot che mi ha messo nel sacco, giurandomi che i Napoleònidi avrebbero vinto. Io ho creduto di pagare un anticipo; ma quel vecchio idiota dovrà pure restituirmi i miei soldi».
«Eh, non ti restituirà un bel niente!», disse la donna alzando le spalle. «Subiremo la sorte della guerra. Quando avremo pagato tutti i debiti, non avremo neanche da mangiare un tozzo di pane. Ah, è un bell'affare! Consòlati, potremo andare ad abitare in qualche tugurio del quartiere vecchio».
Quest'ultima frase ebbe un suono lugubre. Era la campana a morto di tutta la loro vita. A Pierre sembrò di vedere il tugurio del quartiere vecchio, di cui sua moglie gli evocava l'immagine. Sarebbe dunque andato a crepare là, su un pagliericcio, dopo avere aspirato per tutta la vita agli agi pingui e facili. Invano aveva derubato sua madre, messo le mani nei più sporchi intrighi, mentito per anni interi. L'Impero non avrebbe pagato i suoi debiti, quell'Impero che, esso soltanto, avrebbe potuto salvarlo dalla rovina. Saltò giù dal letto, in camicia da notte, gridando:
«No, imbraccerò un fucile, preferisco che gli insorti mi ammazzino»,
«Questo lo potrai fare domani o dopodomani», rispose Félicité con la massima calma, «poiché gli insorti non sono lontani da qui. È un modo come un altro di farla finita».
Pierre rimase di gelo. Ebbe l'impressione che, tutt'a un tratto, gli versassero sulle spalle un gran secchio d'acqua fredda. Lentamente si rimise a letto, e quando fu ravvolto nel tepore delle coperte, si mise a piangere. Quell'omaccione era facile alle lacrime: lacrime dolci, inesauribili, che gli sgorgavano dagli occhi senza sforzo. Avveniva in lui una reazione inevitabile. Tutta la collera si tramutava in scoramenti, in lamenti bambineschi. Félicité, che aspettava questa crisi, ebbe un lampo di gioia, nel vederlo così debole, svuotato, ridotto a terra davanti a lei. Mantenne il suo atteggiamento silenzioso, la sua umiltà desolata. Dopo un lungo silenzio, lo spettacolo di quella donna immersa in un accasciamento muto esasperò il dolore di Pierre.
«Ma parla dunque!», la implorò; «cerchiamo insieme. Non c'è davvero nessuna via di salvezza?».
«Nessuna, lo sai bene», rispose lei; «tu stesso esponevi la situazione poco fa; noi non possiamo aspettarci da nessuno un aiuto; perfino i nostri figli ci hanno tradito».
«Scappiamo, allora... Vuoi che abbandoniamo Plassans subito, questa notte?».
«Scappare! Ma, povero mio caro, domani saremmo la favola di tutta la città Non ti ricordi che sei stato tu a far chiudere le porte?».
Pierre si dibatteva; faceva ogni sforzo per escogitare qualcosa; poi, vinto, con un tono supplichevole, mormorò:
«Ti prego, trova un'idea; non mi hai ancora detto nulla».
Félicité alzò la testa, fingendosi meravigliata; e, con un gesto di assoluta impotenza, disse:
«Io sono una sciocca in queste faccende; di politica non capisco niente, me l'hai detto cento volte».
E poiché suo marito taceva, imbarazzato, con gli occhi bassi, lei continuò lentamente, senza tono di rimprovero:
«Non mi hai messo mai al corrente dei tuoi affari; non è così? Io non so nulla, non posso neanche darti un consiglio... Del resto hai fatto bene; le donne qualche volta sono troppo chiacchierone, ed è cento volte meglio che soltanto gli uomini guidino la barca».
Diceva tutto ciò con uno scherno così sottile, che suo marito non sentì la crudeltà dei suoi motteggi Egli provò soltanto un gran rimorso. E, improvvisamente, si confessò. Parlò delle lettere di Eugène, spiegò i suoi piani, il suo modo di agire, con la loquacità d'un uomo che fa il suo esame di coscienza e implora un salvatore. Ad ogni momento s'interrompeva per chiedere: «Che avresti fatto, tu, al mio posto?», oppure esclamava: «Non è così? Avevo ragione, non potevo agire in altro modo». Félicité non si degnava nemmeno di fare un cenno. Ascoltava, con la durezza arcigna di un giudice. In fondo al cuore, assaporava una gioia squisita; lo teneva in pugno, finalmente, questo grosso ipocrita; se ne prendeva giuoco come una gatta gioca con un gomitolo; e lui le tendeva le mani perché lei gli mettesse le manette.
«Ma aspetta un momento», disse lui saltando in fretta giù dal letto, «ti farò leggere le lettere di Eugène. Giudicherai meglio la situazione».
Lei cercò inutilmente di trattenerlo per un lembo della camicia. Lui mise le lettere sul comodino, si rimise a letto, ne lesse pagine intere, la costrinse a scorrerne molte anche lei. Félicité si tratteneva dal sorridere: cominciava ad aver pietà del poveruomo.
«Ebbene», disse lui ansiosamente quando ebbe terminato la lettura; «ora che sai tutto, non vedi un modo di salvarci dalla rovina?».
Lei non rispose ancora. Sembrava che riflettesse profondamente.
«Tu sei una donna intelligente», disse ancora lui per lusingarla; «ho avuto torto a non fidarmi di te, lo ammetto».
«Non parliamone più», rispose lei; «secondo me, se tu avessi molto coraggio...».
E mentre lui la guardava aspettando con ansia che continuasse, lei s'interruppe e disse con un sorriso:
«Ma tu davvero mi prometti di non diffidare più di me? Mi dirai tutto? Non agirai senza aver sentito il mio parere?».
Pierre giurò, accettò le condizioni più dure. Allora Félicité si mise a letto anche lei; le era venuto freddo, venne a mettersi accanto a lui; e, a bassa voce, come se qualcuno avesse potuto sentirli, gli spiegò a lungo il suo piano di battaglia. Secondo lei, bisognava che nella città soffiasse più violento il panico, e che Pierre mantenesse un contegno da eroe in mezzo ai cittadini costernati. Un presentimento segreto le diceva che gli insorti erano ancora lontani. Del resto, presto o tardi, il partito dell'ordine avrebbe vinto, e i Rougon avrebbero avuto la loro ricompensa. Dopo la parte di salvatori, la parte di martiri non era da buttar via. Félicité si espresse così bene, parlò con tanta convinzione, che suo marito, dapprima meravigliato per la semplicità del suo piano, che consisteva nel fare un colpo di audacia, finì per vedervi una strategia meravigliosa e per promettere di attenervisi, mostrando tutto il coraggio di questo mondo.
«E non dimenticare che sono io la tua salvatrice», disse la vecchia con voce carezzevole. «Sarai gentile con me?».
Si baciarono, si diedero la buona notte. Fu un rasserenamento, tra quei due anziani che ardevano di insaziabile brama di potere. Ma né l'uno né l'altra si addormentarono. Un quarto d'ora dopo, Pierre, che guardava sul soffitto un tondo di luce riverberato dalla lampada del comodino, si voltò di fianco e, a bassa voce, comunicò a sua moglie un'idea che gli era sorta in testa.
«Oh, no, no», sussurrò Félicité con un brivido, «sarebbe troppo crudele».
«Perdinci!», disse lui, «tu vuoi che gli abitanti rimangano costernati!... Mi prenderebbero sul serio se accadesse quel che ti ho detto...».
Poi, a complemento del suo progetto, esclamò:
«Potremmo servirci di Macquart... Sarebbe un buon modo di sbarazzarcene».
Félicité parve colpita da questa idea. Rifletté, esitò, e, col turbamento nella voce, balbettò:
«Forse hai ragione. Bisogna pensarci... Dopo tutto, saremmo davvero stupidi se avessimo degli scrupoli: per noi si tratta d'una questione di vita o di morte... Lascia fare a me, domani andrò a trovare Macquart e vedrò se è possibile intendersi con lui. Tu ti metteresti a litigare, guasteresti tutto... Buonanotte, dormi bene, povero il mio caro... Coraggio, i nostri guai finiranno».
Si baciarono ancora, si addormentarono. Sul soffitto, il riflesso della luce si arrotondava come un occhio atterrito, aperto e fisso, per lungo tempo, sul sonno di quei borghesi lividi che, avvolti nelle coperte, trasudavano il delitto, e vedevano in sogno cadere sulla loro camera una pioggia di sangue, le cui grosse gocce si trasformavano sul pavimento in monete d'oro.
Il giorno dopo, di buon mattino, Félicité andò al municipio, dopo essersi fatta spiegare da Pierre il modo di penetrare fin là dov'era recluso Macquart. Portava, ravvolta in un panno, l'uniforme di guardia nazionale di suo marito. Non trovò nessuno tranne pochi uomini che, nel posto di guardia, dormivano profondamente. Il custode, che aveva l'incarico di dar da mangiare al prigioniero, salì con lei per aprirle la porta del gabinetto trasformato in cella. Poi ridiscese senza preoccupazioni.
Macquart era rinchiuso là dentro da due giorni e due notti. Aveva avuto il tempo di fare lunghe riflessioni. Dopo il primo sonno, fu assalito per alcune ore dalla collera, da una rabbia impotente. Avrebbe voluto fracassare la porta, al pensiero che suo fratello si pavoneggiava nella stanza accanto. Si riprometteva di strangolarlo con le sue mani appena gli insorti fossero venuti a liberarlo. Ma verso sera si calmò, smise di aggirarsi furiosamente nello stanzino. Sentì là dentro un odore dolce, un senso di benessere che gli distese i nervi. Garçonnet, uomo ricchissimo, femmineo e snob, aveva fatto sistemare quel piccolo vano con molta eleganza; il divano era soffice e tiepido; profumi, pomate, saponette erano a disposizione sul lavabo di marmo, e la luce del giorno morente scendeva giù dal lucernario suscitando un senso di voluttà morbida, simile al brillare d'una lampada sul soffitto d'una alcova. Macquart, in quest'atmosfera odorosa, carezzevole e invitante al sopore, che aleggia nelle toilettes, si addormentò pensando che questi gaglioffi di ricchi «erano davvero felici, dopo tutto». Si era ravvolto in una coperta che gli avevan dato. Vi rimase fino alla mattina dopo, con la testa, la schiena, le braccia appoggiate ai cuscini. Quando riaprì gli occhi, un raggio di sole filtrava dal lucernario. Non si alzò subito dal divano; aveva caldo; si mise a pensare guardandosi attorno. Diceva a se stesso che un posticino così bello per lavarsi non l'avrebbe avuto mai. Soprattutto il lavabo attirava la sua attenzione; non era una cattiva idea, pensava, di curare la propria persona, con tanti vasetti e tante boccette. Questo lo fece ripensare con amarezza alla sua vita fallita. Gli venne in mente che forse aveva preso una strada sbagliata. Non si guadagna niente a frequentare i pezzenti; avrebbe dovuto venire a più miti consigli e intendersi coi Rougon. Poi scacciò questo pensiero: i Rougon erano dei manigoldi che l'avevano derubato. Ma i tepori e le morbidezze del divano continuavano ad addolcirgli l'animo, a dargli un vago rimpianto. Dopo tutto, gli insorti lo abbandonavano, si facevano sconfiggere come degli imbecilli. Finì col concludere che la Repubblica era una chimera. Ripensò alle sue inutili cattiverie, alla sua lotta ostinata: nessuno dei suoi familiari lo aveva appoggiato: né Aristide, né il fratello di Silvère, né lo stesso Silvère, che era uno sciocco con i suoi entusiasmi per i repubblicani, e non avrebbe mai combinato niente. Ora sua moglie era morta, i suoi figli lo avevano abbandonato; sarebbe crepato solo, in un cantone, senza un soldo, come un cane. Non c'erano dubbi: avrebbe dovuto vendersi ai reazionari. Pensando a ciò, sbirciava il lavabo: aveva una gran voglia di lavarsi le mani con un certo sapone in polvere contenuto in un fiacone di cristallo. Macquart, come tutti i fannulloni mantenuti dalla moglie o dai figli, aveva dei particolari gusti per l'abbigliamento. Benché portasse dei calzoni rattoppati, gli piaceva inondarsi d'olio aromatico. Passava delle ore dal barbiere, dove si discuteva di politica, e il barbiere gli dava una pettinata tra una discussione e l'altra. La tentazione divenne troppo forte: Macquart si mise davanti al lavabo. Si lavò le mani, la faccia; si acconciò i capelli, si profumò, fece una toilette completa. Si servì di tutti i flaconi, di tutte le saponette, di tutte le polveri. Ma il suo piacere più grande fu di asciugarsi con gli asciugamani del sindaco: erano morbidi, spessi. Vi mise dentro la faccia bagnata, vi respirò beatamente tutti i buoni odori della ricchezza. Poi, quando si fu impomatato, quando si fu profumato da capo a piedi, tornò a stendersi sul divano, ringiovanito, incline ai propositi concilianti. Sentì per la Repubblica un disprezzo ancor più grande, dopo aver messo il naso nei fiaconi del signor Garçonnet. Pensò che forse era ancora in tempo a far la pace con suo fratello. Si mise a riflettere su ciò che poteva chiedere in cambio del tradimento. Il rancore contro i Rougon gli attanagliava ancora il cuore; ma era arrivato a uno di quei momenti in cui, sdraiato, nel silenzio, un uomo dice a se stesso delle verità amare, si rimprovera di non essersi scavato, anche rinunziando agli odii più tenaci, una tana tranquilla, per godervi la sua viltà morale e fisica. Verso sera, Antoine si decise a far chiamare suo fratello il giorno dopo. Ma quando, la mattina del giorno dopo, vide entrare Félicité, capi che avevano bisogno di lui; e si tenne in guardia.
I negoziati furono lunghi, pieni di mosse subdole, condotti con arte sopraffina. I due incominciarono con lo scambiarsi delle lagnanze generiche. Félicité, meravigliata di trovare Antoine quasi gentile, dopo la scena truculenta che aveva fatto in casa sua la domenica sera, assunse un tono di dolce rimprovero. Deplorò gli odii che dividono le famiglie. Ma, d'altra parte, lui aveva calunniato e perseguitato suo fratello con un accanimento che aveva fatto andar fuori di sé quel povero Rougon.
«Perbacco! Mio fratello non si è mai comportato da fratello con me», disse Macquart con una violenza tenuta a freno. «È mai venuto in mio soccorso? M'avrebbe lasciato crepare nel mio tugurio... La sola volta che è stato gentile con me - voi ve ne ricordate -, all'epoca dei duecento franchi, non credo che mi si possa rimproverare di avere sparlato di lui. Dicevo dappertutto che era un uomo di buon cuore».
Ciò significava evidentemente:
«Se aveste continuato a darmi del denaro, sarei stato un tesoro con voi, vi avrei aiutato invece di combattervi. La colpa è vostra: dovevate comprarmi».
Félicité lo capì così bene, che rispose:
«Lo so, ci avete accusato di poco affetto perché la gente crede che noi siamo persone agiate; ma si sbagliano, caro il mio fratello: siamo dei poveracci; non abbiamo mai potuto comportarci verso di voi come il nostro cuore avrebbe desiderato».
Esitò un momento, poi continuò:
«A rigore, in una circostanza grave, potremmo fare un sacrificio; ma siamo tanto poveri, tanto poveri!».
Macquart drizzò le orecchie. «Li ho in pugno!», pensò. Allora, senza mostrare di aver sentito l'offerta implicita di sua cognata, sciorinò con voce dolente le proprie disgrazie, narrò la morte di sua moglie, la fuga dei suoi figli. Félicité, da parte sua, parlò della crisi che il paese attraversava: sostenne che la Repubblica aveva dato loro l'ultimo colpo. Passando da una frase all'altra, arrivò a maledire un'epoca che obbligava il fratello a imprigionare il fratello. Come avrebbe sanguinato il loro cuore, se la Giustizia non avesse voluto rilasciare la sua preda! E lasciò scivolare la parola «galera».
«Eh, vi sfido a provarvici», disse Macquart senza scomporsi.
Ma lei protestò con calore:
«Piuttosto redimerei col mio sangue l'onore della famiglia. Quel che vi ho detto, l'ho detto per farvi capire che non vi abbandoneremo... Vengo a procurarvi il modo di evadere, caro Antoine».
Si guardarono per un istante negli occhi, tastandosi con lo sguardo prima di ingaggiare la lotta.
«Senza condizioni?», si decise a domandare lui.
«Senza alcuna condizione», rispose lei.
Gli si sedette accanto, sul divano, poi continuò con voce risoluta:
«E per di più, se prima di passare il confine volete guadagnare un biglietto da mille franchi, posso fornirvene il mezzo».
Ci fu ancora un silenzio.
«Se l'affare è pulito», mormorò Antoine, che aveva l'aria di rifletterci su. «Sapete, nei vostri intrighi non mi ci voglio ficcare».
«Ma non ci sono intrighi», rispose Félicité sorridendo per gli scrupoli morali del vecchio mascalzone. «Nulla di più semplice: voi uscirete immediatamente da questo stanzino, andrete a nascondervi in casa di vostra madre e questa sera radunerete i vostri amici e verrete a riconquistare il municipio».
Macquart non poté nascondere una profonda meraviglia. Non capiva.
«Io credevo», disse, «che voi aveste vinto».
«Oh, non ho il tempo di mettervi al corrente», rispose la vecchia con una certa impazienza. «Accettate o non accettate?».
«Ebbene, no, non accetto. Devo almeno rifletterci. Per mille franchi, sarei proprio uno stupido a rischiare, forse, di perdere una fortuna».
Félicité si alzò in piedi.
«A piacer vostro, mio caro», disse freddamente. «Davvero non vi rendete conto della situazione in cui vi trovate. Siete venuto a casa mia a insultarmi dandomi della vecchia pezzente, e ora che io ho la bontà di tendervi la mano nella fossa in cui avete avuto la cretinaggine di cadere, voi fate il difficile, non volete essere salvato. Ebbene, rimanete costì, aspettate che ritornino le autorità. Quanto a me, me ne lavo le mani».
Era già sulla soglia.
«Ma», implorò Macquart, «datemi qualche spiegazione. Non posso concludere con voi un affare senza saper niente. Sono due giorni che ignoro quello che accade. Avrò almeno il diritto di sapere se voi non mi imbrogliate?».
«Credetemi, siete uno sciocco», rispose Félicité, che era ritornata sui suoi passi sentendo quel grido disperato di Antoine. «Avete tutti i torti a non mettervi con fede cieca dalla nostra parte. Mille franchi sono una bella somma, non la si rischia se non per una causa vinta. Accettate, ve lo consiglio».
Egli esitava ancora.
«Ma quando vorremo impadronirci del municipio, ci lasceranno entrare tranquillamente?».
«Questo non lo so», disse lei con un sorriso. «Forse ci sarà qualche colpo di fucile».
Lui la guardò fisso.
«Eh, ditemi un po', mammina cara», disse con voce, rauca. «Non avete mica l'intenzione di farmi ficcare una pallottola nella testa?».
Félicité arrossì. Stava pensando, per l'appunto, che una pallottola, durante l'assalto al municipio, avrebbe reso ad essi un gran servizio, sbarazzandoli di Antoine. Sarebbero stati mille franchi risparmiati. Ma proprio per questo fece l'offesa, dicendo:
«Che idea!... Davvero, è atroce avere idee simili».
Poi, calmata tutt'a un tratto:
«Accettate? Avete capito, non è vero?».
Macquart aveva capito perfettamente. Era un tradimento quello che gli veniva proposto. Non ne scorgeva né i motivi né le conseguenze; e questo lo indusse a mercanteggiare. Dopo aver parlato della Repubblica come di un'amante che, col cuore straziato, era costretto ad abbandonare, insisté sui pericoli che avrebbero corso, e finì col chiedere duemila franchi. Ma Félicité tenne duro. E continuarono a discutere finché lei gli promise di procurargli, al suo rientro in Francia, un posto in cui non avrebbe avuto nulla da fare e avrebbe guadagnato bene. Allora il mercato fu concluso. Lei gli fece indossare la divisa di guardia nazionale che aveva portato con sé. Egli avrebbe dovuto rifugiarsi senza dar nell'occhio in casa della zia Dide, poi condurre, verso mezzanotte, sulla piazza del municipio tutti i repubblicani che poteva incontrare, assicurandoli che il palazzo era vuoto e che bastava spingere la porta per impadronirsene. Antoine chiese un anticipo, ed ebbe duecento franchi. Lei si impegnò a dargli gli altri ottocento il giorno dopo. Con ciò, i Rougon mettevano a rischio gli ultimi soldi di cui potevano disporre.
Quando Félicité fu scesa, rimase per un momento in piazza per vedere scendere Macquart. Egli passò tranquillamente davanti al posto di guardia, soffiandosi il naso. Nello stanzino aveva rotto il vetro del lucernario, per far credere che era scappato di là.
«L'affare è fatto», disse Félicité a suo marito, rientrando in casa. «La cosa avverrà a mezzanotte... A me, non importa più della loro sorte. Vorrei vederli tutti fucilati. Ieri ci avrebbero linciato per la strada!».
«Tu eri troppo buona, con le tue esitazioni», rispose Pierre, che si faceva la barba. «Chiunque avrebbe fatto come noi, al nostro posto».
Quella mattina - era mercoledì - egli curò particolarmente la sua toilette. Sua moglie lo pettinò e gli fece il nodo alla cravatta. Lo aggiustò per benino come un ragazzo che va alla distribuzione dei premi. Poi, quando fu pronto, lei lo guardò, disse che aveva un aspetto eccellente e che avrebbe fatto un'ottima figura nei gravi eventi che sarebbero accaduti. In effetti, la sua grossa faccia pallida aveva un'aria di grande dignità e di eroica risolutezza. Lei lo accompagnò fino al primo piano, facendogli le ultime raccomandazioni: non doveva perdere in nessun caso il suo comportamento coraggioso, anche in mezzo al panico generale; bisognava far chiudere le porte più ermeticamente che mai, lasciare che la città si consumasse nel terrore, all'interno dei baluardi; l'importante era che lui sembrasse l'unico deciso a morire per la causa dell'Ordine.
Che giornata! I Rougon ne parlano ancora, come di una battaglia gloriosa e decisiva. Pierre andò difilato al municipio, senza badare né agli sguardi né alle parole che notò mentre passava per la strada. Vi si installò solennemente, come un uomo che non intende più abbandonare il suo posto. Mandò soltanto due righe a Roudier, per avvisarlo che riprendeva il potere. Sapendo che quello scritto poteva diventare oggetto della lettura di tutti, si espresse così:
«Vigilate alle porte, io vigilerò all'interno della città, farò rispettare la proprietà e le persone. Nel momento in cui le passioni malvagie si ridestano e prendono piede, i buoni cittadini devono cercare di soffocarle, a rischio della loro vita».
Lo stile, gli errori d'ortografia rendevano più eroico quel biglietto, ispirato a un laconismo classico. Nessuno dei membri della commissione provvisoria si fece vedere. I due ultimi fedeli, perfino Granoux, rimasero prudentemente in casa loro. Di quella commissione, i cui rappresentanti si erano dileguati man mano che le ventate di terrore si facevano più violente, soltanto Rougon rimaneva al suo posto, sulla sua poltrona di presidente. Non si degnò nemmeno di mandare un avviso di convocazione: lui solo bastava. Spettacolo sublime che un giornale del luogo doveva più tardi definire con un motto: «Il coraggio che dà la mano al dovere».
Durante tutta la mattina, si vide Pierre andare e venire dentro il palazzo municipale. Era assolutamente solo, in quel grande edificio vuoto, le cui alte sale risonavano a lungo per il rumore dei suoi passi. Del resto, tutte le porte erano aperte. In mezzo a quel deserto egli portava in giro la propria presidenza del Consiglio, con un'aria così compresa della sua missione, che il portiere, incontrandolo una volta o due nei corridoi, lo salutò con un'aria meravigliata e rispettosa. Fu visto dietro ogni finestra e, nonostante il freddo intenso, apparve a più riprese sul balcone, con degli incartamenti tra le mani, come un uomo che aspetta dei messaggi importanti.
Poi, verso mezzogiorno, percorse la città; ispezionò i posti di guardia, parlando di un attacco possibile, dando a credere che gli insorti non erano lontani. Ma egli faceva assegnamento - così disse - sul coraggio delle valorose guardie nazionali; se era necessario, dovevano farsi ammazzare fino all'ultimo uomo per la difesa della buona causa. Quando ritornò da questo giro, a passi lenti, con aria grave, con l'atteggiamento d'un eroe che ha predisposto le cose della sua patria e che non aspetta altro che la morte, poté constatare un vero stupore sui volti della gente. Quelli che passeggiavano nel corso, i piccoli redditieri incorreggibili cui nessuna catastrofe avrebbe potuto impedire di venire a crogiolarsi al sole, lo guardavano passare stupefatti, come se non lo riconoscessero e non riuscissero a credere che uno dei loro, un mercante d'olio a riposo, avesse il coraggio di tener testa a un esercito intero.
Nella città l'ansia era al colmo. Si aspettava la banda insurrezionale da un momento all'altro. La notizia dell'evasione di Macquart fu commentata con terrore. Si disse che era stato liberato dai suoi amici, i «rossi», e che, nascosto da qualche parte, aspettava la notte per mettere a ferro e fuoco i quattro angoli della città. Plassans, chiusa in sé, angosciata, straziandosi da sé entro la sua prigione di mura, non sapeva più che cosa inventare per avere ancor più paura. I repubblicani, vedendo il comportamento baldanzoso di Rougon, ebbero un momento di diffidenza. Quanto alla città nuova, gli avvocati e i commercianti a riposo che il giorno prima blateravano contro il salotto giallo rimasero talmente meravigliati che non osarono più attaccare apertamente un uomo di tale coraggio. Si accontentarono di dire che bisognava esser pazzi per sfidare così degli insorti vittoriosi, e che quell'eroismo inutile avrebbe attirato su Plassans le più terribili sventure. Poi, verso le tre, misero insieme una delegazione. Pierre, che ardeva dal desiderio di mostrare apertamente ai suoi concittadini la sua devozione alla Causa, non aveva tuttavia osato sperare che si presentasse un'occasione così bella.
Disse parole sublimi. La delegazione della città nuova fu ricevuta nell'ufficio del sindaco. Quei signori, dopo aver reso omaggio al suo patriottismo, lo supplicarono di non prepararsi alla resistenza. Ma lui, ad alta voce, parlò di senso del dovere, di patria, di ordine, di libertà, e di altre cose ancora. D'altronde, non voleva far pressioni su nessuno perché lo imitassero; egli compiva semplicemente quello che gli dettava il suo cuore, la sua coscienza.
«Vedete, signori, io sono solo», disse concludendo il suo discorso. «Voglio prendere su di me tutta la responsabilità perché nessun altro venga compromesso. E, se è necessario che ci sia una vittima, mi offro di buon animo; voglio che il sacrificio della mia vita salvi la vita degli abitanti».
Un notaio, il più accorto della delegazione, gli fece presente che andava incontro a una morte sicura.
«Lo so», rispose Rougon con tono grave, «sono pronto!».
Quei signori si guardarono l'un l'altro. Quel «sono pronto!» li lasciò interdetti per l'ammirazione. Non c'era dubbio; quell'uomo era un coraggioso. Il notaio lo scongiurò di chiamare in sua difesa i gendarmi; ma egli rispose che il sangue di quei soldati era prezioso e che lo avrebbe fatto spargere solo in caso estremo. La delegazione si ritirò lentamente, molto commossa. Un'ora dopo, a Plassans si diceva che Rougon era un eroe; solo i più vili lo chiamavano «un vecchio pazzo». |[continua]|
|[CAPITOLO VI, 4]|
Verso sera, Rougon fu molto meravigliato nel veder accorrere Granoux. Il vecchio commerciante di mandorle gli si gettò tra le braccia, chiamandolo «grand'uomo» e dicendo che voleva morire con lui. Quel «sono pronto!» che la sua donna di servizio aveva sentito dire dalla fruttivendola e gli aveva riferito, lo aveva letteralmente entusiasmato. In fondo all'animo di quel pauroso, di quell'uomo ridicolo, c'era un'ingenuità disarmante. Pierre lo guardò, pensando che davvero non sapeva quel che faceva. Fu persino commosso dalla devozione del poveruomo. Si ripromise di fargli fare pubblicamente le congratulazioni dal prefetto: ciò avrebbe fatto crepare di rabbia gli altri borghesi, che lo avevano abbandonato con tanta viltà. E tutt'e due aspettarono la notte nel palazzo deserto.
Nel frattempo, Aristide s'aggirava in casa propria con una profonda inquietudine. L'articolo di Vuillet lo aveva sorpreso. L'atteggiamento di suo padre lo riempiva di stupore. Poco prima l'aveva visto a una finestra, con la cravatta bianca, con un vestito nero, così calmo all'avvicinarsi del pericolo che tutte le sue idee si erano ingarbugliate nella sua povera testa. Eppure gli insorti stavano ritornando vincitori: tutta la città ne era convinta. Ma dei dubbi gli sorgevano: fiutava qualche farsa lugubre. Non osando più presentarsi a casa dei suoi genitori, vi aveva mandato sua moglie. Quando Angèle ritornò, gli disse con la sua voce strascicata:
«Tua madre ti aspetta. Non è proprio in collera; ma ha l'aria di prendersi gioco di te. Mi ha ripetuto più volte che potevi rimetterti in tasca la sciarpa».
Aristide rimase terribilmente imbarazzato. Ma corse in rue de la Banne, pronto a fare il più umile atto di sottomissione. Sua madre si accontentò di accoglierlo con risatine di disprezzo.
«Ah, povero ragazzo mio», gli disse, «davvero non hai un carattere risoluto».
«Ma che cosa si può sapere, in questo buco di Plassans!», gridò lui indispettito. «Ci divento scemo, parola d'onore. Non una notizia, e tutti tremanti di paura. Ed essere rinchiusi dentro questi maledetti bastioni!... Ah, se avessi potuto seguire Eugène a Parigi!».
Poi, con amarezza, vedendo che sua madre continuava a ridere:
«Non siete stata amorevole con me, mamma. So molte cose, lasciamo stare... Mio fratello vi teneva al corrente di quello che succedeva, e non una sola volta mi avete dato la minima indicazione utile».
«Tu sai questo?», disse Félicité, divenuta seria e diffidente. «Ebbene, allora sei meno stupido di quel che credevo. Forse tu dissigilli le lettere, come qualcun altro di mia conoscenza?».
«No, ma origlio alle porte», rispose Aristide con una magnifica faccia tosta.
Questa franchezza non dispiacque alla vecchia. Riprese a sorridere e, con un tono più dolce, chiese:
«Allora, stupidone, come mai non ti sei avvicinato a noi più presto?».
«Ecco», disse il giovane, imbarazzato; «io non avevo molta fiducia in voi. Ricevevate certi imbecilli: mio suocero, Granoux e gli altri!... E poi non volevo espormi troppo...».
Esitava. Riprese con voce preoccupata:
«Oggi siete davvero sicura, almeno, del successo del colpo di Stato?».
«Io?», esclamò Félicité, sentendosi ferita dai dubbi di suo figlio; «io non sono sicura di un bel niente».
«Eppure mi avete mandato a dire di togliermi dal braccio la sciarpa».
«Sì, perché tutti questi signori si fanno beffe di te».
Aristide rimase in piedi, guardando nel vuoto: sembrava che osservasse uno degli arabeschi di carta arancione della parete. Sua madre fu presa da un'impazienza improvvisa nel vederlo così esitante.
«Via», disse, «ritorno alla mia opinione di prima: non sei risoluto. E tu avresti voluto che ti facessimo leggere le lettere di Eugène! Ma, poveretto, con le tue continue incertezze avresti rovinato tutto. Tu stai ancora lì a esitare...».
«Esitante io?», la interruppe Aristide lanciando verso sua madre uno sguardo deciso e freddo. «Ah, davvero non mi conoscete. Darei fuoco alla città se avessi voglia di scaldarmi i piedi. Ma capite una buona volta che non posso prendere una strada sbagliata! Sono stanco di vivere a pane ed acqua, e voglio far fortuna. Ma non giocherò che a colpo sicuro!».
Aveva pronunciato queste parole con tale asprezza, che sua madre riconobbe in questa ardente bramosia di successo il grido del suo sangue. Mormorò:
«Tuo padre sta dimostrando molto coraggio».
«Si, l'ho visto», rispose lui sogghignando. «Ha una bella testa. M'ha fatto venire in mente Leonida alle Termopili... Sei stata tu, mamma, ad acconciarlo in quel modo?».
E allegramente, con un gesto deciso, aggiunse:
«Vada come vada, io sono bonapartista!... Il babbo non è un uomo che corra il rischio di farsi ammazzare senza esser sicuro di guadagnarci bene».
«E hai ragione», disse sua madre; «ora non posso parlare, ma vedrai domani».
Lui non insisté, le promise che sarebbe stata presto orgogliosa di averlo come figlio, e se ne andò, mentre Félicité, alla finestra, sentendo ridestarsi le sue preferenze di un tempo, diceva a se stessa, vedendolo allontanarsi, che aveva un cervello indiavolato, e che lei non avrebbe avuto mai il coraggio di lasciarlo partire senza metterlo finalmente sulla buona strada.
Per la terza volta la notte, la notte piena d'angoscia scendeva su Plassans. La città agonizzante era agli ultimi rantoli. I borghesi rientravano rapidamente a casa, le porte venivano barricate con un gran rumore di chiavistelli e di sbarre di ferro. Sembrava che tutti prevedessero che l'indomani Plassans non sarebbe più esistita: sarebbe sprofondata sotterra o evaporata in cielo. Quando Rougon rincasò per la cena, trovò le strade del tutto deserte. Questa solitudine lo rese cupo e malinconico: tanto che, alla fine della cena, ebbe un momento di debolezza, e chiese a sua moglie se era proprio necessario lasciar scatenare l'insurrezione che Macquart stava preparando.
«Non si mormora più contro di noi», disse. «Se tu avessi visto quei signori della città nuova, come mi hanno salutato! Ormai non mi sembra più necessario ammazzare della gente. Eh, che ne pensi? Faremmo i nostri affari senza bisogno di arrivare fin là».
«Ah, smidollato che non sei altro!», gridò Félicité incollerita. «Sei stato tu ad avere l'idea, ed ecco che ti tiri indietro. Te lo dico io, senza di me non combinerai mai niente!... Va' dunque, va' per la tua strada. I repubblicani ti risparmierebbero se ti tenessero in pugno?».
Rougon, di ritorno al municipio, preparò il tranello. Granoux gli fu utilissimo. Rougon lo mandò a portare i propri ordini ai vari presidii che erano stanziati sui bastioni. Le guardie nazionali dovevano venire al municipio a piccoli gruppi, il più segretamente possibile. Roudier, quel borghese parigino andato a finire in provincia, non fu nemmeno avvertito, avrebbe potuto rovinare tutto raccomandando la clemenza. Verso le undici il cortile del municipio era pieno di guardie nazionali. Rougon li spaventò: disse che i repubblicani rimasti a Plassans stavano per tentare un colpo di mano disperato, e si attribuì il merito di essere stato preavvertito in tempo dai suoi agenti segreti. Poi, quando ebbe tracciato un quadro cruento del massacro della città nel caso in cui quei miserabili si fossero impadroniti del potere, ordinò di non pronunciare più una parola e di spengere tutti i lumi. Anche lui imbracciò un fucile. Fin dalla mattina, viveva come in sogno: non si riconosceva più; sentiva dietro di sé Félicité, che lo teneva in suo potere dopo la crisi della notte precedente, e si sarebbe lasciato impiccare dicendo: «Non m'importa, mia moglie verrà a sciogliermi». Per accrescere la confusione e scuotere con un terrore più prolungato la città addormentata, pregò Granoux di andare alla cattedrale e di far suonare la campana a martello fin dalle prime fucilate. Facendo il nome del marchese, si sarebbe fatto aprire la porta dal sagrestano. Nell'ombra, nel nero silenzio del cortile, le guardie nazionali, sempre più sovreccitate, aspettavano, con gli occhi fissi sul porticato, impazienti di sparare, come cacciatori all'agguato di un branco di lupi.
Intanto Macquart aveva trascorso la giornata in casa della zia Dide. Si era disteso sulla vecchia cassapanca, rimpiangendo il divano del signor Garçonnet. Più volte fu preso da una voglia matta di andare a spendere un po' dei suoi duecento franchi in qualche caffè lì vicino; quel denaro, che egli aveva messo in una tasca del gilè, gli bruciava il torace; passò il tempo a immaginare come spenderlo. Sua madre, nella cui casa, da qualche giorno, i figli si rifugiavano come sperduti, con facce pallide, gli girava attorno, senza dire una parola, senza che il suo viso perdesse la solita immobilità cadaverica; girava coi suoi movimenti rigidi, da automa, e non sembrava nemmeno che si accorgesse della sua presenza. Essa non sapeva niente del terrore che agitava la città chiusa entro le mura; era con la mente a mille leghe da Plassans, assorta in quella continua idea fissa che le faceva tenere gli occhi aperti, vuoti di pensiero. Quel giorno, tuttavia, un'inquietudine, una preoccupazione umana le faceva ogni tanto battere le palpebre. Antoine, non potendo resistere alla voglia di mangiare qualcosa di buono, la mandò a comprare un pollo arrosto da un trattore del sobborgo. Quando si fu seduto a tavola, le disse:
«Eh, tu non ne mangi spesso, di polli. È roba per quelli che lavorano e sanno fare i loro affari. Tu hai sempre sperperato tutto... Scommetto che tu regali i tuoi risparmi a quel santocchio di Silvère. Ha un'amante, quell'ipocrita. Sta' sicura, se hai un gruzzolo nascosto da qualche parte, te lo prenderà senza complimenti, un giorno o l'altro».
Ridacchiava, era tutto ardente di una gioia selvaggia. Il denaro che aveva in tasca, il tradimento che preparava, la certezza di essersi venduto a un buon prezzo, tutto ciò lo riempiva di quella soddisfazione delle persone malvagie che ridiventano allegre e beffarde quando possono fare del male. Di tutto quel discorso, la zia Dide sentì soltanto il nome di Silvère.
«L'hai visto?», domandò, decidendosi finalmente a parlare.
«Chi? Silvère? Marciava in mezzo agli insorti a braccetto di una ragazzona rossa. Se si buscasse una pallottola, sarebbe una buona cosa».
La nonna lo guardò fisso e, con una voce grave:
«Perché?», chiese soltanto.
«Eh, non si può essere imbecilli come lui», rispose Antoine con un certo imbarazzo. «Si va forse a rischiare la pelle per degli ideali? Io ho sistemato le mie piccole faccende. Non sono un bambino».
Ma la zia Dide non lo ascoltava più. Mormorava:
«Aveva già le mani piene di sangue. Me lo ammazzeranno come l'altro; i suoi zii manderanno contro di lui i gendarmi».
«Che cosa borbottate costà?», disse suo figlio, che finiva di succhiare le ossa del pollo. «Lo sapete, io preferisco che le cose mi si dicano in faccia. Se qualche volta ho parlato della Repubblica con quel ragazzino, era per ricondurlo a idee più ragionevoli. Lui era pazzo. Io amo la libertà, ma non bisogna che degeneri in licenza... E quanto a Rougon, lo stimo. È un uomo d'ingegno e di coraggio».
«Aveva il fucile, non è vero?», lo interruppe la zia Dide, la cui mente trasognata sembrava che seguisse di lontano Silvère per la strada.
«Il fucile? Ah, sì, la carabina di Macquart», rispose Antoine, dopo aver gettato un'occhiata sulla cappa del camino, dove l'arma di solito era appesa. «Credo di averglielo veduto tra le mani. Un arnese adatto a scorrazzare per la campagna a braccetto d'una ragazza. Che imbecille!».
E si credette in dovere di dire alcune celie grossolane. La zia Dide aveva ricominciato ad aggirarsi per la stanza. Non disse più una parola. Verso sera, Antoine se ne andò, dopo essersi messo una blusa ed essersi calato sugli occhi un berretto che sua madre era andata a comprargli. Rientrò in città come ne era uscito, raccontando una storia qualsiasi alle guardie nazionali che erano di sentinella alla Porta di Roma. Poi raggiunse il quartiere vecchio, dove, senza farsi notare, scivolò di porta in porta. Tutti i repubblicani entusiasti, tutti gli affiliati che non avevano seguito la banda si trovarono, verso le nove, riuniti in una bettola dove Macquart aveva dato loro appuntamento. Quando furono una cinquantina, Macquart tenne loro un discorso in cui parlò di una vendetta personale da soddisfare, di una vittoria da riportare, d'un giogo vergognoso da scuotersi di dosso, e terminò garantendo che in dieci minuti li avrebbe resi padroni del municipio. Lui proveniva di lì, disse; il palazzo era vuoto; se lo volevano, quella notte stessa vi avrebbe sventolato la bandiera rossa. Gli operai tennero consiglio: in quel momento la reazione era ridotta agli estremi, gli insorti erano alle porte della città; era cosa onorevole non aspettarli per riprendere il potere; avrebbero potuto accoglierli fraternamente, con le porte della città aperte, con le strade e le piazze imbandierate. D'altronde, nessuno ebbe sospetti su Macquart; il suo odio contro i Rougon, la vendetta personale a cui aveva accennato, erano garanzie della sua lealtà. Si decise che tutti quelli che erano cacciatori e avevano un fucile a casa loro sarebbero andati a prenderlo, e a mezzanotte il gruppo si sarebbe trovato in piazza del municipio. Una questione particolare poco mancò che li fermasse: non avevano proiettili; ma decisero che avrebbero caricato le armi con pallini da caccia; anche questo, d'altronde, era superfluo, poiché non avrebbero incontrato alcuna resistenza.
Ancora una volta, Plassans vide passare, nel muto chiaro di luna delle sue strade, uomini armati che sfilavano lungo le case. Quando la banda si trovò riunita davanti al municipio, Macquart, pur stando sempre in guardia, si avanzò risolutamente. Bussò, e quando il portinaio, che sapeva la lezione, domandò che cosa volevano, gli fece delle minacce così terribili, che quell'uomo, fingendosi spaventato, si affrettò ad aprire. Lentamente i due battenti del portone si aprirono. Apparve il porticato, silenzioso, deserto.
Allora Macquart gridò:
«Venite, amici!».
Era il segnale convenuto. Lui si buttò in fretta da un lato. E mentre i repubblicani si precipitavano, dal buio del cortile proruppe un torrente di fuoco, una grandine di pallottole, che con un rumore di tuono passarono sotto le arcate del portico. Il portico vomitava morte. Le guardie nazionali, esasperate per l'attesa, non vedendo l'ora di sentirsi libere da quell'incombenza odiosa che pesava su di loro in quel cupo cortile, avevano sparato tutte insieme, con fretta febbrile. Il lampo delle fucilate fu così forte che Macquart vide chiaramente, nel luccichio giallastro della polvere da sparo, Rougon che prendeva la mira. Gli parve di vedere la canna del fucile puntata su di lui, si ricordò del rossore di Félicité, e scappò, borbottando:
«Non facciamo sciocchezze! Quel farabutto sarebbe capace di uccidermi. Mi deve ottocento franchi».
Delle grida, intanto, si erano udite. I repubblicani presi di sorpresa, gridando al tradimento, avevano sparato anche loro. Una guardia nazionale cadde sotto il portico. Ma loro lasciavano tre morti sul terreno. Presero la fuga, inciampando nei cadaveri, fuori di sé, ripetendo nelle viuzze silenziose. «Assassinano i nostri fratelli!», con una voce disperata che non trovava eco. I difensori dell'ordine, che avevano avuto il tempo di ricaricare le armi, si precipitarono sulla piazza vuota, come impazziti, e spararono in tutte le direzioni, là dove il vano scuro di una porta, l'ombra d'un lampione, il profilo d'un paracarro davan loro l'impressione di vedere degli insorti. Rimasero là, per dieci minuti, a scaricare nel vuoto i loro fucili.
L'imboscata era esplosa come un colpo di fulmine nella città addormentata. Gli abitanti delle strade vicine, risvegliati dal frastuono di quel fuoco di fucileria infernale, si erano seduti sul letto, battendo i denti per la paura. Per nulla al mondo avrebbero messo il naso alla finestra. E lentamente, nell'aria solcata dai proiettili, una campana della cattedrale suonò a martello, con un ritmo così irregolare, così strano, che pareva il rumore d'un maglio sull'incudine, o il frastuono d'un calderone colossale sotto i colpi d'un bambino imbizzito. L'urlo di quella campana, che i borghesi non riconobbero, li spaventò ancor più delle detonazioni dei fucili, e ad alcuni sembrò di udire il rumore d'una fila interminabile di cannoni rotolanti sul selciato. Si rimisero sdraiati, si stesero sotto le coperte, come se avessero corso qualche rischio a rimanere seduti sul letto, nelle loro camere ben chiuse. Rannicchiati con le coltri fino al mento, col respiro affannoso, si fecero piccoli piccoli; gli angoli dei lenzuoli ricadevano loro sugli occhi, e le loro mogli, accanto, mezze svenute, sprofondavano la testa nel guanciale.
Anche le guardie nazionali che erano rimaste ai bastioni avevano sentito gli spari. Accorsero in disordine, a gruppi di cinque o sei, credendo che gli insorti fossero entrati in città attraverso qualche sotterraneo, e turbarono il silenzio delle strade col rumore della loro corsa affannosa. Roudier fu uno dei primi ad arrivare. Ma Rougon li rimandò ai loro posti, dicendo severamente che non si abbandonano così le porte d'una città. Sbigottiti da questo rimprovero - giacché, presi dal panico, avevano in realtà lasciato le porte senza nemmeno un difensore - essi ripresero all'indietro la loro corsa, ripassarono per le strade con un fracasso ancor più spaventoso. Per un'ora buona Plassans poté credere che un esercito impazzito la attraversasse in ogni direzione. Le fucilate, la campana a martello, le marce e le contromarce delle guardie nazionali, le armi che esse trascinavano per terra come randelli, i loro appelli sovreccitati nell'oscurità, producevano un frastuono assordante, come quello di una città presa d'assalto e abbandonata al saccheggio. Fu il colpo di grazia per i poveri abitanti, che credettero tutti all'arrivo degli insorti. L'avevano ben capito che quella sarebbe stata la loro ultima notte, che prima della mattina seguente Plassans si sarebbe inabissata sotterra o si sarebbe dissolta in fumo. Nei loro letti aspettavano la catastrofe, pazzi di terrore, avendo ogni tanto l'impressione che la loro casa stesse già per crollare.
Granoux suonava ancora la campana a martello. Quando sulla città ricadde il silenzio, il rumore di quella campana divenne ancor più lamentoso. Rougon, già in stato d'eccitazione, si sentì esasperato per quei singhiozzi lontani, Corse alla cattedrale, trovò la porta più piccola aperta. Il sagrestano era sulla soglia.
«Eh, ora basta!», gridò a costui; «sembra che qualcuno pianga: è sfibrante!».
«Ma non è colpa mia, signore», rispose il sagrestano con un'aria mortificata. «È il signor Granoux che è salito sul campanile... Dovete sapere che io avevo tolto il battaglio della campana, per ordine del signor curato, proprio per evitare che si sonasse a martello. Il signor Granoux non ha voluto sentir ragioni. È salito su a tutti i costi. Non so con che diavolo d'arnese riesce a fare codesto fracasso».
Rougon salì a precipizio la scala che conduceva alle campane, gridando:
«Basta! Basta! Per l'amor di Dio, smettetela dunque!».
Quando fu in cima, scorse, alla luce di un raggio di luna che filtrava dal vano di un'ogiva, Granoux, senza cappello, con un volto da pazzo furioso, che batteva colpi su colpi con un grosso martello. E come ce la metteva tutta! Arretrava un poco, prendeva lo slancio e si buttava sul bronzo sonoro, come se avesse voluto spaccarlo. Si contraeva in tutto il suo corpo tozzo; poi, quando si era lanciato sulla grande campana immobile, le vibrazioni lo respingevano indietro, e tornava alla carica con foga rinnovata. Lo si sarebbe detto un fabbro che batteva su un ferro rovente; ma un fabbro col vestito a doppio petto, basso e calvo, maldestro e rabbioso.
La meraviglia lasciò Rougon stupito per un istante, davanti a questo borghese indiavolato che combatteva contro una campana, alla luce della luna. Allora egli capi quei rumori di calderone che il bizzarro suonatore diffondeva sulla città. Gli gridò di smettere. Granoux non sentì. Dovette prenderlo per il vestito, e Granoux, riconoscendolo, disse con aria di trionfo:
«Ah, avete sentito! Da principio ho cercato di picchiare sulla campana a forza di pugni; ma mi facevo male. Per fortuna ho trovato questo martello... Ancora qualche colpo, no?».
Ma Rougon lo trascinò via. Granoux era radioso. Si asciugava il sudore della fronte, voleva che il suo amico gli promettesse di dire a tutti, l'indomani, che tutto quel frastuono lo aveva fatto soltanto con un martello. Quale gloria, quale importanza gli avrebbe procurato quello scampanio furioso!
Verso la mattina, Rougon pensò a rassicurare Félicité. Per suo ordine, le guardie nazionali si erano asserragliate nel municipio. Aveva proibito che si portassero via i morti, col pretesto che si doveva dare un esempio alla gente del quartiere vecchio. E quando, per accorrere in rue de la Banne, attraversò la piazza, non più illuminata dalla luna, posò un piede sulla mano di un cadavere, raggrinzita, sull'orlo di un marciapiede. Rischiò di cadere. Quella mano molle, schiacciata dal suo piede, gli procurò una sensazione indefinibile di disgusto e d'orrore. Proseguì per le strade deserte a grandi passi: gli sembrava di sentire dietro la schiena un pugno insanguinato che lo incalzava.
«Ce ne sono quattro a terra», disse entrando in casa.
Si guardarono negli occhi, come stupiti essi stessi del loro delitto. La lampada dava al loro pallore un aspetto di cera gialla.
«Li hai lasciati là?», chiese Félicité; «bisogna che tutti li trovino là».
«Perbacco! Certo non li ho raccolti. Stanno là supini... Ho messo il piede su qualcosa di molle...».
Guardò la suola della scarpa. Il tacco era tutto insanguinato. Mentre Rougon si cambiava le scarpe, Félicité soggiunse:
«Ebbene, tanto meglio! È andata... Non diranno più che tu tiri fucilate negli specchi».
La sparatoria, che i Rougon avevano escogitato per farsi accettare definitivamente come i salvatori di Plassans, gettò ai loro piedi la città spaventata e riconoscente, Si levò il giorno, cupo, con quel grigiore malinconico delle mattinate invernali. Gli abitanti, non udendo più nulla, stanchi di aver tremato sotto le coperte, si azzardarono a uscire. Dapprima furono solo dieci o quindici; poi, siccome correva la voce che gli insorti avevano preso la fuga, lasciando dei cadaveri in tutti i rigagnoli, Plassans si alzò tutta quanta e scese in piazza del municipio. Durante tutta la mattina i curiosi si aggirarono intorno ai quattro cadaveri. Erano orribilmente straziati, uno specialmente, colpito da tre pallottole alla testa; il cranio, spaccato, lasciava vedere scoperto il cervello. Ma lo spettacolo più atroce era quello della guardia nazionale caduta sotto il porticato: aveva ricevuto in pieno viso un'intera scarica di quei pallini da caccia di cui si erano serviti i repubblicani, per mancanza di proiettili; il viso bucherellato, crivellato, versava sangue. La folla non si stancava di guardare quell'orrore, con quell'attrazione che i vigliacchi provano per gli spettacoli ignobili. Il morto fu riconosciuto: era il salumaio Dubruel, quello che il lunedì mattina Rougon aveva accusato di sparare con colpevole imprevidenza. Degli altri tre morti, due erano operai; il terzo rimase sconosciuto. Davanti alle chiazze rosse che costellavano il selciato, gruppi di persone, a bocca aperta, rabbrividivano, guardandosi dietro con un'espressione di diffidenza, come se quella giustizia sommaria che, nelle tenebre, aveva ristabilito l'ordine a fucilate, li osservasse, spiasse i loro gesti e le loro parole, pronta a fucilarli a loro volta se non avessero baciato con entusiasmo la mano che li aveva salvati dalla rivoluzione.
Il panico che si era diffuso nella notte ingrandì ancora l'effetto terribile causato, la mattina, dalla vista dei quattro cadaveri. La vera storia di quello scambio di fucilate non si seppe mai. I colpi sparati dai combattenti, i colpi di martello di Granoux, il viavai delle guardie nazionali per le strade, avevano riempito le orecchie di rumori così spaventosi, che la maggior parte della gente continuò a immaginare una battaglia gigantesca, combattuta contro un numero incalcolabile di nemici. Quando i vincitori, esagerando il numero dei loro avversari per un istintivo impulso di vanteria, parlarono di circa cinquecento uomini, la gente protestò: ci furono dei borghesi che sostennero di essere stati alla finestra e di aver veduto passare, per più d'un'ora, la grande fiumana dei fuggitivi. Tutti, del resto, avevano sentito correre i banditi sotto le loro finestre. Soltanto cinquecento uomini non avrebbero mai potuto svegliare di soprassalto in quel modo una città intera. Era stato un esercito, un esercito bello e buono, quello che i bravi combattenti di Plassans avevano fatto scomparire sotterra. Questa frase pronunciata da Rougon: «Sono scomparsi sotterra», sembrò perfettamente giusta, poiché le guardie incaricate di difendere i bastioni giurarono sempre per tutti gli dèi del cielo che non un solo uomo era né entrato né uscito. Ciò aggiunse al fatto d'arme una punta di mistero, un'immagine di diavoli con le corna inabissantisi tra le fiamme, che portò al colmo la sfrenatezza delle fantasticherie. Vero è che le guardie nazionali evitarono di narrare i loro affannosi andirivieni. Perciò, le persone meno irragionevoli si accontentarono di concludere che una banda d'insorti aveva dovuto penetrare da una breccia, da un buco qualsiasi. Più tardi, voci di tradimento si sparsero, si parlò di un'imboscata. Certo, gli uomini condotti al macello da Macquart non poterono tacere l'atroce verità; ma regnava ancora un tale terrore, la vista del sangue aveva gettato nelle braccia della reazione un tal numero di vigliacchi, che queste voci furono attribuite alla rabbia dei repubblicani sconfitti. Si disse, d'altra parte, che Macquart era prigioniero di Rougon, e che Rougon lo teneva in una cella umida, dove lo lasciava morire lentamente di fame. Questa favola orribile fece si che la gente s'inchinasse fino a terra dinanzi a Rougon.
Fu così che questo personaggio grottesco, questo borghese grasso, molle e pauroso, divenne, in una sola nottata, un terribile signore di cui nessuno osò più ridere. Aveva messo un piede nel sangue. La gente del quartiere vecchio rimase muta di terrore alla vista dei morti. Ma, verso le dieci, quando arrivarono i signori della città nuova, la piazza si riempì di confabulazioni a bassa voce, di esclamazioni soffocate. Si rammentava l'altro attacco, quell'occupazione del municipio durante la quale era rimasto danneggiato soltanto uno specchio; e stavolta non si prendeva più in giro Rougon, si faceva il suo nome con un tono di rispetto sbalordito: era davvero un grand'uomo, un salvatore. I cadaveri, con gli occhi spalancati, guardavano quei signori - gli avvocati e i redditieri - i quali rabbrividivano sussurrando che la guerra civile ha delle necessità molto tristi. Il notaio, il capo della delegazione che il giorno prima si era recata al municipio, andava da un gruppo all'altro, ricordando il «Sono pronto!» dell'uomo energico al quale la città era debitrice della propria salvezza. Si diffuse un senso generale di riverenza. Quelli che più crudelmente si erano beffati dei «quarantuno», quelli soprattutto che avevano chiamato i Rougon intriganti e vigliacchi, capaci solo di sparare in aria, furono i primi a proporre di offrire una corona d'alloro «al grande concittadino di cui Plassans sarebbe stata orgogliosa in eterno». Le chiazze di sangue si asciugavano sul selciato; i morti, con le loro ferite, testimoniavano fino a quale audacia il partito del disordine, del saccheggio, dell'eccidio era arrivato, e quale pugno di ferro era stato necessario per soffocare l'insurrezione.
Anche Granoux, tra la folla, riceveva congratulazioni e strette di mano. Si era diffusa la notizia del martello. Soltanto, con una bugia innocente di cui ben presto egli stesso divenne inconsapevole, sostenne che, avendo visto per primo gli insorti che arrivavano, si era messo a battere sulla campana per dare l'allarme; se non era per lui, le guardie nazionali sarebbero state massacrate. La sua importanza ne risultò raddoppiata. Il suo atto fu dichiarato miracoloso. Ci si riferiva sempre, ormai, a lui dicendo: «Il signor Isidore, sapete? quello che ha suonato la campana con un martello!». Sebbene la frase fosse un po' lunga, Granoux l'avrebbe volentieri assunta come titolo nobiliare; e da allora in poi non fu più possibile pronunziare davanti a lui la parola «martello» senza che egli credesse che si voleva alludere, con un'adulazione sottintesa, a quel suo atto.
Quando stavano per portar via i cadaveri, Aristide venne a fiutarli. Li osservò da ogni punto di vista, esaminandone l'aspetto, interrogandone i volti. Aveva il viso impassibile, lo sguardo acuto. Con quella mano, il giorno prima fasciata, adesso libera, sollevò la blusa di uno dei morti, per vedere meglio la sua ferita. Questo esame sembrò convincerlo, togliergli un dubbio. Strinse le labbra, rimase lì un momento senza dire una parola, poi si allontanò per andare ad affrettare la distribuzione dell'«Indépendant», nel quale aveva inserito un grande articolo. Strada facendo, si ricordava quella frase di sua madre: «Vedrai domani!». Aveva visto, non era uno spettacolo da poco; ne rimase perfino un po' spaventato.
Ma intanto, Rougon cominciava a sentire l'imbarazzo della propria vittoria. Solo nell'ufficio di Garçonnet, ascoltando i rumori indistinti che salivano dalla folla, provava una strana sensazione che gli impediva di mostrarsi al balcone. Quel sangue sul quale aveva camminato gli appesantiva le gambe. Si chiedeva che fare fino a sera. La sua povera testa vuota, ancora sconvolta dalla crisi della notte, cercava disperatamente un'occupazione, un ordine da impartire, una disposizione da prendere, che lo distraesse. Ma non sapeva più a che cosa appigliarsi. Dove Félicité lo conduceva? Era tutto finito, o bisognava ancora ammazzare delle persone? Lo riafferrava la paura: gli venivano dei dubbi terribili, gli sembrava di vedere la cinta delle mura battuta in breccia tutt'intorno dall'esercito vendicatore dei repubblicani, quando un grande urlo: «gli insorti! gli insorti!», esplose sotto le finestre del municipio. Si alzò d'un balzo e, sollevando la tendina, vide la folla che correva disperatamente sulla piazza. A questo colpo di fulmine, in meno d'un secondo egli si vide rovinato, depredato, assassinato; maledì sua moglie, maledì tutta la città. Ma mentre sbirciava dietro di sé, in cerca di una via d'uscita, sentì la folla scoppiare in applausi, lanciare grida di gioia, scuotere i vetri con un'allegria folle. Ritornò alla finestra: le donne facevano sventolare i fazzoletti, gli uomini si abbracciavano; alcuni si prendevano per mano e ballavano. Stupefatto, rimase là, non comprendendo più nulla, preso da un capogiro. Attorno a lui, il grande palazzo del municipio, deserto e silenzioso, lo spaventava.
Quando si confidò con Félicité, Rougon non fu in grado di dire quanto era durato quello stato angoscioso. Si ricordava soltanto che un rumore di passi riecheggianti nelle vaste sale lo aveva fatto uscire da quell'intontimento. Si aspettava di veder entrare uomini in blusa, armati di falci e di bastoni, e invece fu la commissione municipale che entrò, impeccabile, in abito nero, con volti radiosi. Nemmeno uno dei membri della commissione era assente. Una lieta novella aveva guarito tutti insieme quei signori. Granoux si gettò tra le braccia del suo amato presidente.
«I soldati!», disse con voce strozzata, «i soldati!».
In effetti era arrivato proprio allora un reggimento, agli ordini del colonnello Masson e del signor de Blériot, prefetto del dipartimento. I fucili, avvistati dai bastioni, lontano, là, nella pianura, in un primo tempo avevano fatto credere all'avvicinarsi degli insorti. L'emozione di Rougon fu così forte che due grosse lacrime gli colarono sulle guance. Piangeva, il grande cittadino! La commissione municipale guardò cadere quelle lacrime con un'ammirazione reverente. Ma Granoux si gettò di nuovo al collo del suo amico, gridando
«Ah, che felicità!... Lo sapete, sono un uomo sincero, io. Ebbene, avevamo tutti paura, dico tutti, non è vero, signori? Voi solo eravate grande, coraggioso, sublime. Quale energia avete dovuto dimostrare! Lo dicevo or ora a mia moglie: Rougon è un grand'uomo, merita una decorazione».
Allora, quei signori proposero di andare incontro al prefetto. Rougon, stordito, ansimante, non riusciva a credere a quel trionfo improvviso: balbettava come un bambino. Riuscì a riprender fiato: discese, lento, con l'atteggiamento dignitoso che una simile occasione solenne esigeva. L'entusiasmo che, in piazza del municipio, accolse la commissione e il suo presidente rischiò di turbare di nuovo la sua gravità di magistrato. Il suo nome circolava tra la folla, accompagnato, questa volta, dai più caldi elogi. Sentì un popolo intero ripetere la dichiarazione di Granoux, parlar di lui come di un eroe rimasto in piedi e irremovibile in mezzo al panico universale. E fino alla piazza della sottoprefettura, dove la commissione incontrò il prefetto, Rougon assaporò la propria popolarità, la propria gloria, con l'estasi intima di una donna avida di piacere, le cui brame sono finalmente placate.
Il signor de Blériot e il colonnello Masson entrarono soli in città, lasciando i soldati accampati sulla strada di Lione. Avevano perduto molto tempo, essendosi ingannati sul percorso degli insorti. D'altronde, ora sapevano che gli insorti si trovavano a Orchères; non potevano rimanere a Plassans più di un'ora, il tempo necessario per rassicurare la popolazione e per rendere pubbliche le crudeli ordinanze che decretavano il sequestro dei beni degli insorti e la morte per ogni individuo che venisse sorpreso con un'arma in mano. Il colonnello Masson non poté trattenere un sorriso, quando il comandante della Guardia nazionale fece aprire i chiavistelli della Porta di Roma, con un rumore spaventoso di vecchia ferraglia. Il drappello di guardie nazionali accompagnò, in segno di onore, il prefetto e il colonnello. Per tutto il corso Sauvaire, Roudier narrò a quei signori l'epopea di Rougon, i tre giorni di panico terminati con la vittoria schiacciante dell'ultima notte. Così, quando i due cortei si trovarono l'uno di fronte all'altro, Blériot si fece incontro con slancio al presidente della commissione, gli strinse le mani, si congratulò con lui, lo pregò di vigilare ancora sulla città fino al ritorno delle autorità. E Rougon si profondeva in saluti, mentre il prefetto, arrivato al portone della sottoprefettura, dove voleva riposarsi un momento, diceva a voce alta che nel suo rapporto non avrebbe dimenticato di render nota quella bella e coraggiosa condotta.
Nonostante il freddo intenso, tutti erano alle finestre. Félicité, sporgendosi dalla sua a rischio di cadere di sotto, era tutta pallida di gioia. Proprio allora era giunto Aristide con un numero dell'«Indépendant» in cui si era dichiarato nettamente a favore del colpo di Stato, che egli accoglieva come «l'aurora della libertà nell'ordine e dell'ordine nella libertà». E aveva anche alluso delicatamente al salotto giallo, riconoscendo i propri torti,-dicendo che «la gioventù è presuntuosa» e che «i grandi cittadini tacciono, riflettono in silenzio, non si curano degli insulti, pronti ad innalzarsi in tutto il loro eroismo nel giorno della lotta». Egli era soprattutto contento di questa frase. Sua madre trovò che l'articolo era un capolavoro. Dette un bacio al suo figlio prediletto, lo mise alla propria destra. E marchese di Carnavant, che, stanco di stare rinchiuso, preso da una curiosità furiosa, era anche lui venuto a trovare Félicité, si collocò alla sua sinistra, coi gomiti appoggiati alla finestra.
Quando Blériot, in mezzo alla piazza, tese la mano a Rougon, Félicité scoppiò in lacrime.
«Oh, guarda, guarda», disse ad Aristide. «Gli ha stretto la mano. Ecco, gliela stringe un'altra volta!».
gettando un'occhiata verso le finestre dove le teste si pigiavano:
«Che rabbia devono provare! Guarda la moglie di Peirotte: morde il fazzoletto. E là in basso, le figlie del notaio, e la signora Massicot, e la famiglia Brunet, che facce, eh? che nasi lunghi! Ah, perbacco, tocca a noi, ora».
Essa seguì la scena che si svolgeva sul portone della sottoprefettura, con un rapimento, un dimenio che scuoteva il suo corpo di cicala ardente. Interpretava i minimi gesti, inventava le parole che non riusciva a cogliere, diceva che Pierre era molto bravo nel far cenni di saluto. Per un istante si indispettì, quando il prefetto concesse una parola a quel povero Granoux che gli ronzava attorno, mendicando un elogio. Blériot sapeva già la storia del martello, poiché Granoux arrossì come una verginella e sembrò che dicesse che aveva fatto soltanto il proprio dovere. Ma quel che le fece ancora più rabbia fu la troppa bontà di suo marito, che presentò Vuillet a quei signori. È vero che Vuillet si insinuava tra loro, e Rougon fu costretto a fare il suo nome.
«Che intrigante!», borbottò Félicité. «Si ficca dappertutto... Quel mio povero caro dev'essere così emozionato! Ecco il colonnello che gli parla. Che cosa gli dirà?».
«Eh, piccina mia», rispose il marchese con un'ironia pungente, «lo elogia per aver chiuso le porte della città con tanto zelo».
«Mio padre ha salvato la città», disse Aristide con voce aspra. «Avete visto i cadaveri, signore?».
Carnavant non rispose. Anzi, si ritirò dalla finestra, e andò a sedersi su una poltrona scuotendo la testa, con un'aria leggermente disgustata. In quel momento, poiché il prefetto se n'era andato dalla piazza, Rougon accorse, si gettò fra le braccia di sua moglie.
«Ah, mia cara!», balbettò.
Non riuscì a dire di più. Félicité gli fece anche abbracciare Aristide, parlandogli del superbo articolo dell'«Indépendant». Pierre avrebbe persino baciato sulle guance il marchese, tanto era commosso. Ma sua moglie lo trasse da parte e gli dette la lettera di Eugène che aveva riinfilato nella busta. Sostenne che glie l'avevano portata proprio in quel momento. Pierre, trionfante, gliela rese dopo averla letta.
«Sei una maga», le disse ridendo. «Avevi indovinato tutto. Ah, che sciocchezze avrei fatto senza di te! Sta' sicura, faremo insieme i nostri affarucci. Abbracciami, sei una donna coraggiosa».
La prese tra le braccia, mentre lei scambiava col marchese un sorriso d'intesa.