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La gravità… attrae!
Come ho già avuto modo di anticipare, l’affermazione che dà il titolo a questo capitolo vuole essere meno banale di quanto potrebbe apparire a prima vista. Non intendo semplicemente ribadire l’esistenza di una «forza» fisica che si esercita tra due oggetti dotati di massa, attirandoli l’uno all’altro anche se si trovano a grande distanza. Anzi, nel capitolo 3 scopriremo che quest’idea, per quanto diffusa e di facile comprensione, è in realtà incorretta e, almeno in parte, fuorviante. Piuttosto, il mio intento è sottolineare che esiste qualcosa – la gravità, appunto – che ci attrae in senso lato, e attira anzitutto la nostra attenzione. Oltre che sugli oggetti fisici, essa esercita una presa irresistibile sulla nostra immaginazione; è in grado di spingere la fantasia verso orizzonti radicalmente nuovi, diversi da quelli consueti, e aprirci a panorami che si estendono ben al di là della nostra esperienza quotidiana.
Ma procediamo per gradi. Per definire un po’ meglio cosa sia la gravità, mi è utile suddividere la conoscenza che ne abbiamo – ossia il nostro rapporto con quel concetto – su tre livelli, distinti ma interconnessi. In particolare, potremmo dire che abbiamo della gravità una conoscenza istintiva, una conoscenza razionale e, infine, una conoscenza immaginativa.
Vediamo insieme di cosa si tratta, e come si differenzino tra loro.
Conoscenza istintiva
È noto a tutti che l’istinto è la tendenza naturale e intrinseca – ossia che non richiede l’intervento del ragionamento o della riflessione – a mettere in atto un particolare comportamento. Un esempio di istinto è quello che ci spinge a reagire, magari rannicchiandoci a proteggere la testa, quando siamo sorpresi da un suono forte, improvviso e sconosciuto. Messa la questione in questi termini, è difficile credere che qualcosa di istintivo o irrazionale ci leghi alla gravità. Eppure è così.
Chiunque abbia avuto a che fare con un neonato avrà probabilmente osservato in prima persona il cosiddetto riflesso di Moro, che prende il nome dal pediatra austriaco Ernst Moro (1874-1951). Si tratta di uno dei principali riflessi neonatali ed è ampiamente utilizzato nella valutazione della funzionalità del sistema nervoso centrale. Per indurlo è sufficiente prendere un neonato, anche pochi secondi dopo il parto, sollevarlo in posizione orizzontale e… lasciarlo cadere! Ovviamente sarebbe anche il caso di fermarlo prima che colpisca una superficie dura… La risposta del neonato all’inaspettata perdita di sostegno si manifesta con una reazione di sorpresa, accompagnata dalla repentina apertura delle braccia e delle mani alla ricerca di un appiglio, così come mostrato nella Figura 1.1.
Da un punto di vista medico, la comparsa di tale riflesso è un’evidenza importante della perfetta funzionalità fisiologica del sistema nervoso centrale del neonato. Ecco perché siamo stati tutti sottoposti a questa prova. Chi vi ha partecipato da genitore – e a me è capitato tre volte – conosce bene il sollievo provato nel vedere il proprio figlio o la propria figlia rispondere come dovrebbe allo stimolo. Sollievo cui se ne accompagna un secondo: constatare che la caduta è stata arrestata prima che il suddetto sistema nervoso perfettamente funzionante fosse maldestramente danneggiato.
A livello antropologico, il riflesso di Moro ci ricorda il nostro passato di primati, quando con tutta probabilità dovevamo essere subito pronti a seguire le nostre madri, attaccati alle loro spalle. Tuttavia, ciò che più ci interessa qui è il suo significato dal punto di vista fisico. La presenza di questo istinto a pochi secondi dal parto – quando siamo del tutto indifesi e non sappiamo nulla del mondo attorno a noi – rivela infatti una verità importante della nostra interazione con la gravità: la conosciamo a livello istintivo, ben prima di avere interazioni coscienti con il resto dell’universo fisico. Dopo aver passato nove comodi mesi nel grembo materno, pressoché isolati da tutto, siamo subito in grado di rispondere alla gravità (o meglio, alla sua assenza). Non è un dettaglio da poco.
Il riflesso di Moro scompare intorno ai sei mesi di vita, quindi la nostra conoscenza della gravità – pur rimanendo in parte istintiva – si modifica nel tempo, mentre sviluppiamo la capacità di osservare l’universo fisico e comprenderne le leggi.
Conoscenza razionale
Via via che la nostra esperienza del mondo si estende e le nostre capacità intellettuali si raffinano, la conoscenza che abbiamo della gravità passa da istintiva a razionale. In altre parole, essa diventa parte integrante delle aspettative che abbiamo sul funzionamento del mondo attorno a noi. A dimostrarlo in maniera evidente sono dei semplici esperimenti visivi condotti su bambini molto piccoli, sfruttando dei cartoni animati. Sebbene alcuni dei soggetti coinvolti non fossero neanche in grado di camminare, tutti si sono rivelati in grado di interpretare il moto di un oggetto consistente con la presenza di un campo gravitazionale. Il classico esempio è quello di una sfera che rotola su un tavolo: i bambini reagiscono in modo diverso – a livello di espressioni facciali e movimenti oculari – a seconda che la sfera, una volta raggiunto il bordo del tavolo, cada, prosegua il proprio moto senza variazioni o addirittura cominci a volare. È l’ennesima conferma di quanto a fondo sia radicata nella nostra mente la conoscenza della «forza» di gravità.
Essa gioca un ruolo fondamentale nella nostra percezione razionale della realtà, ed è proprio grazie a questa influenza profonda che il nostro cervello è in grado di elaborare in pochissimo tempo – e praticamente senza sforzo – soluzioni a problemi dinamici anche molto complessi. Un semplice esempio è dato dall’operazione di scendere in fretta una rampa di scale: si tratta di uno dei problemi più complessi nella programmazione degli automi (che infatti non ci riescono ancora), ma noi umani lo affrontiamo senza nemmeno esaminarlo in modo conscio. Eppure stabilire in quale sequenza e con quale velocità i nostri movimenti debbano essere eseguiti, per assicurare il sottile bilanciamento tra le varie forze in competizione con quella gravitazionale, non è affatto banale.
Infine, c’è un’altra proprietà della gravità sulla quale vale la pena riflettere: la sua capacità di stimolare la nostra immaginazione.
Conoscenza immaginativa
Se è chiaro che della gravità abbiamo una nozione al contempo istintiva e razionale, è altrettanto chiaro – a mio avviso – che essa esercita un’attrazione irresistibile anche sulla nostra immaginazione. Proprio perché immersi e soggetti per tutta la vita a un campo gravitazionale, siamo naturalmente affascinati da quegli scenari in cui la gravità è debole o assente. Chi non ha mai desiderato poter saltare da un’alta scogliera o dalla cima di una montagna e… volare? Chi non ha mai immaginato di essere un astronauta a bordo della Stazione spaziale internazionale, o un personaggio di un film di fantascienza che fluttui senza sforzo da un luogo all’altro in assenza di gravità? A me capita spesso… In altre parole, la gravità attira la nostra attenzione e stimola la nostra immaginazione proprio perché si tratta dell’unica «forza» di cui abbiamo una consapevolezza cosciente, e ci rendiamo conto di quanto difficile sia sottrarsi a essa. Cos’altro se non l’immaginazione ha portato prima Newton e poi Einstein a spiegare – in modi molto diversi – le leggi che la regolano?
Gli esempi che illustrano la potente attrazione esercitata dalla gravità sulla nostra immaginazione sono molteplici, ma mi limiterò a uno solo, che trovo rappresentativo e di facile comprensione. Nel 2013 il regista spagnolo Alfonso Cuarón ha girato un film dal titolo emblematico: Gravity. Per quasi due ore nella pellicola non si parla d’altro che di gravità; o meglio, della sua assenza. Non molti sanno, però, che Gravity ha battuto il precedente record di incasso per il primo fine settimana di proiezione, tra i film usciti in autunno. Qualcuno potrebbe sostenere che tale successo sia interamente dovuto agli attori protagonisti, le due superstar hollywoodiane Sandra Bullock e George Clooney; a mio avviso, però, a giocare un ruolo fondamentale è stato il fatto che – volenti o nolenti – non possiamo sottrarci alla gravità e alla sua irresistibile attrazione sulla nostra mente.
Una di quattro, ma decisamente diversa dalle altre
Le riflessioni fatte finora forniscono un ottimo spunto per introdurre un’altra considerazione importante, legata al ruolo che la gravità gioca all’interno della nostra comprensione della natura. La fisica moderna ci insegna che esistono quattro tipi di interazioni fondamentali, che descrivono essenzialmente tutti i processi in atto nell’universo: l’interazione elettromagnetica, l’interazione forte, l’interazione debole e l’interazione gravitazionale.
La prima, quella elettromagnetica, vi consente tra l’altro di leggere questo libro, a prescindere dal formato che state usando. Dalla pagina che avete di fronte si propagano infatti delle onde elettromagnetiche (dei fotoni; o, più semplicemente, della luce) che raggiungono i vostri occhi. Lì queste onde vengono convertite in segnali elettrici trasmessi tramite il nervo ottico fino al cervello, che – grazie a una ricca combinazione di scambi elettrici e chimici – li traduce nelle parole che avete appena letto. L’interazione elettromagnetica è inoltre responsabile della coesione e della dinamica delle molecole che ci compongono: senza di essa non esisteremmo nemmeno in quanto esseri umani, e le nostre molecole si disperderebbero come pezzettini di carta al vento. Le teorie che la inquadrano sono ben note, sia a livello di fisica classica (dove è regolata dalle equazioni di Maxwell) sia a livello di fisica quantistica necessaria per descrivere le particelle elementari (con la teoria dell’elettrodinamica quantistica, o QED, dall’inglese quantum electrodynamics).
La seconda interazione, quella forte, si sviluppa invece sulla scala più piccola a noi accessibile in natura, nell’ordine di pochi fermi (o femtometri): qualche millesimo di miliardesimo di millimetro. Essa, circa cento volte più intensa dell’interazione elettromagnetica, si esercita infatti tra i quark, ossia le particelle che fanno da elementi costitutivi di particelle elementari quali protoni o neutroni. In realtà questa interazione è presente anche su scale leggermente più grandi, ossia all’interno dei nuclei atomici (che hanno generalmente dimensioni dell’ordine di 100.000 fermi), dove prende il nome di forza nucleare forte. Nel primo caso le particelle mediatrici dell’interazione forte sono i cosiddetti gluoni, mentre nella forza nucleare forte sono i pioni. L’interazione forte rappresenta il collante che tiene insieme i nuclei atomici, dai più piccoli (quello dell’idrogeno) ai più grandi (ad esempio quello dell’uranio); inoltre regola la dinamica che si sviluppa quando due protoni vengono lanciati l’uno contro l’altro a velocità pressoché pari a quella della luce, o quando nasce una stella di neutroni (fenomeno di cui parleremo in dettaglio nel capitolo 5). La teoria che descrive questa interazione è ben sviluppata e prende il nome di cromodinamica quantistica (o QCD, dall’inglese quantum chromodynamics). Purtroppo, data la complessità della teoria e delle equazioni che la descrivono, è spesso difficile fare predizioni precise, specie se le energie sono elevate o se il numero di particelle coinvolte è grande, come nel caso delle stelle di neutroni.
La terza interazione, quella debole, è responsabile del decadimento radioattivo di alcuni nuclei atomici e agisce tra i leptoni – classe di particelle cui appartengono anche gli elettroni, di certo i più «familiari» del gruppo – e quark. È per merito suo se i neutrini – particelle leggerissime prodotte da materia ad alta densità e temperatura, come il centro del Sole – interagiscono solo di rado («debolmente») con protoni e neutroni, la materia ordinaria di cui siamo composti. È bene ricordare, infatti, che in questo preciso momento siamo attraversati da miliardi di neutrini emessi circa otto minuti fa dal Sole, e che hanno viaggiato pressoché alla velocità della luce. Se non ci «sentiamo» trapassati da queste particelle è appunto perché interagiscono solo debolmente con la materia ordinaria (o adronica) di cui siamo fatti. Detto in altre parole, c’è poco da preoccuparsi: siamo essenzialmente trasparenti ai neutrini. La teoria che descrive l’interazione debole è molto ben sviluppata e, com’è stato dimostrato, è unificabile a quella dell’elettromagnetismo: si parla, infatti, di interazione elettrodebole.
Così siamo infine giunti alla quarta interazione, quella gravitazionale. Non è ancora arrivato il momento di spiegare in dettaglio in cosa consista e come sia legata a uno dei concetti più sottili ed eleganti della fisica teorica: la curvatura dello spaziotempo. Tuttavia, già ora possiamo riflettere su ciò che la distingue da tutte le altre. La gravità è infatti l’unica interazione fisica di cui abbiamo consapevolezza cosciente; la sola della cui azione sul vostro corpo avete cognizione in questo momento, mentre leggete. Infatti, che siate sdraiati su un letto, sprofondati in poltrona o in piedi, sapete che una qualche «forza» influisce sulla vostra posizione. Senza di essa levitereste, galleggiando liberi come avviene a un astronauta nella Stazione spaziale internazionale.
Questo è un punto fondamentale per comprendere appieno il titolo del capitolo e coglierne il significato più profondo: la gravità attrae la nostra attenzione anche solo perché ne possiamo sperimentare direttamente – e in maniera tangibile – l’esistenza, a differenza di quanto avviene per altre interazioni fondamentali. Non possiamo apprezzare il livello di coesione delle molecole che compongono i nostri corpi, quanto di rado interagiamo con un neutrino o quante particelle radioattive emettiamo.1
Basta il fatto che possiamo sperimentarla in modo diretto e cosciente a dare alla gravità un posto speciale tra le interazioni fondamentali; e, a mio avviso, a porla al di sopra di tutte le altre. A renderla ancor più peculiare, poi, è l’evidenza che questa consapevolezza ci accompagna in ogni secondo della nostra vita, fin da prima di venire al mondo. Anche solo a livello inconscio, sappiamo dell’esistenza della gravità ben prima di sbucciarci le ginocchia quando impariamo a camminare e a correre, e di certo prima di incontrare le leggi della fisica a scuola o all’università.
Ma cos’è la gravità, e come funziona?
Con tutta probabilità, molti di voi sono convinti di poter fornire una risposta ragionevole alle semplici domande: «Cos’è la gravità? E come funziona?». Questo perché la conoscete sia a livello istintivo sia a livello razionale, e a scuola o all’università ve ne hanno dato una spiegazione «scientifica». Tuttavia, è altrettanto probabile che le spiegazioni fornitevi non siano del tutto corrette, anche se non saranno nemmeno completamente campate per aria. Insomma, ciò che vi hanno detto non è proprio sbagliato, ma non è nemmeno giusto.
Il motivo di questa apparente contraddizione è che è possibile comprendere la gravità a vari livelli. Ne esiste ad esempio la rappresentazione proposta da Newton, più semplice e intuitiva, che prevede la presenza di una forza gravitazionale e la cui descrizione matematica è relativamente semplice. Allo stesso tempo è possibile una comprensione diversa e più profonda: quella suggerita da Einstein, che implica una visione geometrica dello spazio e del tempo, nonché una descrizione matematica molto più complessa.
Nei capitoli successivi ci attende dunque una sorta di evoluzione: faremo maturare la nostra comprensione della gravità. La prima fase di questa evoluzione – e quindi la prima tappa del nostro viaggio virtuale – ci porterà dalla comprensione basilare della gravità così come codificata nel nostro cervello, anche a livello istintivo, alla descrizione fornita dalla teoria di Newton. La seconda fase – ovvero la tappa successiva del viaggio – ci condurrà invece alla descrizione matematicamente compatta e fisicamente profonda che ne propose Einstein con la sua teoria della Relatività Generale, e che è elegantemente incarnata nelle sue equazioni di campo.
In questo modo impareremo a collegare ciò che conosciamo e sperimentiamo sul nostro pianeta, dove i campi gravitazionali sono molto deboli, a ciò che osserviamo nell’universo, dove campi gravitazionali enormemente più forti danno vita a splendide realtà quali i buchi neri, le stelle di neutroni e le onde gravitazionali. Scopriremo che la nostra conoscenza e la nostra comprensione della gravità sono fortemente influenzate dal modo in cui essa si manifesta su questo pianeta, e realizzeremo di dover abbandonare una simile visione, perché non solo è errata, ma pone limiti troppo vincolanti alla nostra immaginazione.
Alla fine ci sarà chiara la risposta corretta alle domande poste poco sopra: «La gravità è semplicemente la manifestazione della curvatura dello spaziotempo». Al momento questa affermazione risulta ancora criptica, lo so; ma, come anticipato nell’introduzione, per imbarcarsi nel viaggio che ci attende serve una certa dose di pazienza. Posso assicurarvi che diventerà tutto molto più chiaro al termine del capitolo 3.