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Mercy rimase seduta al tavolo ancora per un paio di minuti, cercando di spiegarsi cosa fosse successo. Evidentemente Mr. Caitheart conosceva la famiglia della nonna e non ne aveva una buona opinione.

Un motivo in più per lasciare il castello al più presto. Si alzò, forse un po’ troppo in fretta, perché subito ebbe un capogiro. Si aggrappò al bordo del tavolo e attese finché la stanza non smise di girarle attorno.

Udendo la porta che si apriva, si voltò, già pronta a interrogare Mr. Caitheart sulla sua avversione per i Macrory. Invece sulla soglia vide Connor, insieme a Ruthie.

«Se state cercando Mr. Caitheart» esordì Mercy, «non ho idea di dove sia andato. Deve essersi infastidito quando ha scoperto dove siamo dirette.»

«A Macrory House» disse Connor, scambiando un’occhiata con Ruthie prima di riportare lo sguardo su di lei. «Appena l’ho saputo, ho immaginato che non ne sarebbe stato affatto contento.»

«Cosa mai gli hanno fatto i Macrory?»

«Suo fratello maggiore si innamorò di una Macrory. Fuggirono insieme e rimasero uccisi in un incidente in carrozza.»

«Tutti e due?»

Connor annuì. «Da allora le due famiglie non si sono più parlate.»

Che storia triste!

«Dunque il semplice fatto di essere imparentata con i Macrory, anche solo alla lontana, mi rende sgradita qui a Duddingston Castle.»

«Lennox non voleva essere scortese, signorina. Robert era suo fratello maggiore e l’aveva praticamente cresciuto dopo la morte dei loro genitori.»

Mercy non ribatté. Non c’era nulla da dire.

Il sole aveva giovato a Ruthie, perché era decisamente meno pallida di prima.

«Stai bene?» le chiese Mercy. «Te la senti di risalire in carrozza?»

«Non vi manca molto» osservò Connor. «Siete quasi sulle terre dei Macrory.»

«Davvero?»

«In un’altra occasione sareste potute andare a piedi» le rispose il giovane, gettando un’altra occhiata furtiva a Ruthie. «Non oggi, naturalmente, con le vostre ferite.»

Ruthie non disse nulla, limitandosi a ricambiare lo sguardo di Connor con occhi adoranti, le guance arrossate per l’emozione.

In altre circostanze Mercy avrebbe sconsigliato a Ruthie di manifestare così apertamente i propri sentimenti. Non era mai una buona idea rendersi vulnerabili, tanto più in un luogo strano e sconosciuto. Inoltre un’eventuale relazione con Connor non avrebbe avuto alcun futuro. Lui era scozzese, Ruthie americana.

Ma, in fondo, chi era lei per dare consigli sull’amore a chicchessia?

Si era lasciata suggestionare dalla frenesia scatenata dalla Guerra Civile. Aveva visto Gregory partire insieme al suo reggimento, nella sua splendida uniforme blu, il suo giuramento di proteggere l’Unione che ancora le risuonava nelle orecchie. Era stata decisa ad aspettarlo, a essere una di quelle donne che leggevano i giornali in cerca di notizie del reggimento dei loro amati, che sferruzzavano calzini per i soldati al fronte e pregavano per il loro ritorno a casa. Dopo un po’, tuttavia, l’entusiasmo iniziale era svanito, via via che l’orrore della guerra si manifestava sempre più chiaro. Nei quattro lunghi anni di conflitto, aveva avuto tutto il tempo di rendersi conto di aver compiuto un terribile errore.

Lei non amava Gregory. Non era nemmeno sicura che le piacesse. Ma come avrebbe potuto respingere un pretendente impegnato al fronte? Tanto più che suo padre non ne sarebbe stato per niente contento.

Quando la guerra era finita, tuttavia, i nodi erano venuti al pettine. Gregory era tornato a casa aspettandosi di sposarla in fretta e furia, senza nemmeno corteggiarla. Il loro matrimonio gli era parso scontato, una missione già compiuta. Perché avrebbe dovuto sprecare tempo ed energie a conquistare una donna che considerava già sua?

Gregory odiava i sudisti, anche se la madre di Mercy era nata e cresciuta nella Carolina del Nord. Con il padre di lei si mostrava estremamente ossequioso, ma ciò la spingeva a chiedersi se volesse sposarla solo perché era la figlia di James Gramercy Rutherford. Non era particolarmente affezionato alla propria famiglia, anzi si lamentava spesso dell’invadenza della madre e dell’eccessiva frivolezza delle sorelle. Mercy aveva conosciuto i suoi familiari – compreso il padre, che Gregory non menzionava quasi mai – e le erano sembrati brave persone. Il fatto che Gregory non la pensasse così la inquietava.

Gregory era molto ambizioso, come confermava la sua smania di parlare di affari ogni volta che incontrava il futuro suocero. Sapendo che l’uomo non aveva eredi maschi, aveva già deciso che gli sarebbe bastato sposarne la figlia per calarsi in quel ruolo.

Malgrado tutto ciò, forse lei l’avrebbe sposato comunque, se non fosse stato per un semplice commento che le aveva spalancato gli occhi sul futuro che l’attendeva, spingendola a rivedere l’intera situazione.

Una sera, dopo avere sceso le scale per salutare Gregory, appena arrivato a casa sua, l’aveva visto accigliarsi all’improvviso.

«Preferisco il vestito azzurro, Mercy. Quello che indossate non mi piace. E avete cambiato pettinatura? Non vi dona affatto.»

Quel commento era stato rivelatore. Una volta sposata, non sarebbe più stata libera di decidere alcunché. L’acconciatura, il colore degli abiti, le persone che avrebbe frequentato o il modo in cui avrebbe occupato le proprie giornate... ogni dettaglio sarebbe stato sottoposto al giudizio di suo marito. Se fino a quel momento aveva dovuto assecondare il volere dei genitori, dopo le nozze sarebbe stato Gregory a comandare.

La guerra aveva cambiato molte cose. Mercy aveva letto da qualche parte che le donne avevano iniziato ad assumersi responsabilità prima inimmaginabili. Dirigevano le aziende al posto dei propri mariti arruolati. Piantavano raccolti, vendevano i proventi delle loro terre, formavano associazioni di donne che aiutavano altre donne. I giorni in cui la donna restava a casa, silenziosa e sottomessa, erano ormai lontani.

Eppure quel progresso epocale doveva essere sfuggito a Gregory. Lui non desiderava altro che una moglie docile e accondiscendente.

Se già i suoi genitori non avevano mai smesso di considerarla una bambina, agli occhi di Gregory sarebbe stata poco più che un burattino.

Quella sera il seme della ribellione era stato piantato nel suo animo.

Quando aveva detto a Gregory che non voleva più sposarlo, lui aveva reagito male. Senza dubbio perché aveva visto andare in fumo i propri piani ambiziosi. Non erano valse a calmarlo le rassicurazioni che non per quello il padre di lei l’avrebbe rimosso dal suo incarico nella ditta dei Rutherford.

Non si era immaginata che il giovane si rifiutasse di accettare la sua decisione.

Ma le minacce di Gregory non l’avevano piegata, come pure le sue visite assidue, i suoi regali. Purtroppo, i genitori di Mercy avevano interpretato quelle attenzioni come una prova di quanto tenesse a lei.

Un giorno Mercy aveva trovato il coraggio di affrontare l’argomento con la madre.

«Non voglio sposare Gregory» le aveva annunciato senza mezzi termini.

Prima di allora non aveva mai discusso con i genitori e raramente ne aveva sfidato la volontà. Non voleva far soffrire sua madre né deluderla. La vita non era stata benevola con Fenella Rutherford, malgrado fosse sposata con un uomo molto ricco.

Sua madre si era mostrata sorpresa, ma all’inizio non aveva replicato. Mercy si era sentita in dovere di riempiere quel silenzio imprevisto.

«Non sto dicendo che non sia un uomo ammirevole, madre. Né che non sarebbe un buon marito.»

«E allora perché non vuoi sposarlo?»

Mercy aveva chinato lo sguardo. «Non siamo fatti l’uno per l’altra.»

«Eppure durante la guerra sembravi sostenerlo con grande convinzione.»

Mercy aveva annuito. Per forza... che razza di donna avrebbe rotto il fidanzamento con un soldato intento a combattere per il proprio Paese?

«Inoltre Gregory non la pensa come te, Mercy.»

Come poteva spiegare a sua madre che Gregory non teneva davvero a lei, che l’avrebbe sposata anche se avesse avuto due teste, purché fosse figlia di James Rutherford?

Scelse con cura le parole giuste. Sua madre doveva capire.

«Non voglio sposarlo, madre. Non riesco a immaginarmi di vivere il resto della vita con Gregory.»

«Queste sono sciocchezze, Mercy, e tu non sei di certo sciocca. È normale per una ragazza sentirsi nervosa. Ma il matrimonio non è spaventoso come credi. Vedrai.»

«Non voglio sposarlo. Dico davvero.»

Sua madre aveva scosso il capo e sorriso. Poi si era protesa a darle un colpetto affettuoso sul braccio.

«Questi sentimenti spariranno nell’istante stesso in cui l’avrai sposato, Mercy. Ne sono certa. È solo la paura a farti parlare.»

Forse era sì paura, ma non del genere che la donna pensava. Mercy non voleva vivere la vita che i suoi genitori e Gregory avevano già scelto per lei.

«Non ne parleremo più, d’accordo? Andrà tutto bene. Quello che provi ora sparirà con il tempo. Un giorno ne sorriderai addirittura.»

A quel punto Mercy si era rassegnata: sua madre non avrebbe capito. E, di riflesso, nemmeno suo padre. Il matrimonio si sarebbe tenuto, che lei lo volesse o meno.

Venire in Scozia non era stato solo un modo di ottenere un poco di libertà, ma anche una fuga da Gregory. Quella libertà non sarebbe durata a lungo, naturalmente. Presto o tardi sarebbe dovuta tornare, ma quando ciò fosse accaduto, si augurava che il giovane si sarebbe rassegnato alla fine del loro fidanzamento.

Dunque, no: lei si sentiva la persona meno indicata a dare consigli di cuore a Ruthie o a chiunque altro.

Meno di un’ora dopo erano già in viaggio, la loro partenza senz’altro affrettata quanto più possibile da Mr. Caitheart. La carrozza era più lussuosa di quanto Mercy non si fosse aspettata. Essendo ben molleggiata, Ruthie non dovette subire scossoni, tanto più che Connor le aveva sistemato un cuscino sotto il braccio.

I cavalli di Mr. McAdams li seguivano legati per le redini al retro della carrozza, il che obbligava il veicolo a procedere lentamente. Anche così, meno di mezz’ora dopo Connor guardò dal finestrino e annunciò che erano arrivati.

Erano davvero vicini a Duddingston Castle: le due tenute erano confinanti. La carrozza imboccò un vialetto ricoperto di ghiaia e Mercy guardò fuori dal finestrino.

Per diversi momenti riuscì solo a fissare sbalordita la vista che le si presentava.

Macrory House era costruita in mattoni rossi e a forma di E, con il vialetto circolare che le passava davanti. Non la si poteva definire una casa, ma piuttosto una serie di edifici collegati da portici e ali. Il complesso occupava l’equivalente di un isolato cittadino.

Almeno due dozzine di comignoli si ergevano sui tetti digradanti e altrettante finestre incorniciate di bianco si affacciavano sul viale.

Mercy non aveva immaginato neppure lontanamente che la famiglia di sua madre fosse abbastanza ricca da poter costruire quel sontuoso palazzo.

«Siamo arrivati?» domandò Ruthie con un filo di voce.

Mercy guardò Connor per averne conferma.

«Sì» disse lui.

Quando si fermarono davanti all’imponente portone a due battenti ne uscirono due domestici, uno per tenere fermi i cavalli, l’altro per aprire lo sportello della carrozza. Entrambi indossavano una giubba verde e pantaloni neri.

Mercy non si era aspettata nemmeno una livrea, ma ormai aveva capito di dover essere pronta a tutto. Da quando avevano lasciato Inverness, quella mattina, niente era andato come previsto.

Connor scese per primo dalla carrozza, tendendo la mano a Mercy e poi a Ruthie. Non era del tutto appropriato che per aiutare la cameriera le cingesse la vita, ma anche in questo caso Mercy si astenne dal commentare.

«Benvenuta a Macrory House.»

Mercy si girò e scoprì che quel saluto era giunto da un uomo dai capelli bianchi fermo in cima ai gradini antistanti al portone, vestito di una giacca nera, un panciotto verde e una cravatta. Ma non appena il suo sguardo si fu soffermato sulla carrozza, l’espressione dell’uomo mutò.

«Quella appartiene a Caitheart?»

Connor rispose. «Sì, McNaughton, ma ce ne andremo appena possibile.»

L’uomo, che doveva essere il maggiordomo, riportò la propria attenzione su Mercy. Strinse le labbra, inarcò le sopracciglia irsute e i suoi occhi nocciola si fecero ostili. Tutto perché aveva visto la carrozza di Mr. Caitheart. Evidentemente, l’antipatia tra le famiglie era reciproca.

«Mi chiamo McNaughton, signorina» disse a Mercy con voce gelida. «Come posso aiutarvi?»

In verità stava implicando di non voler aiutare nessuno che fosse arrivato in una carrozza di Lennox Caitheart.

Mercy aveva riflettuto a lungo su come annunciarsi ai suoi parenti, ma non aveva previsto di doverlo fare attraverso un maggiordomo. Si era immaginata un incontro commovente con sua nonna e sua zia, che poi l’avrebbero presentata al resto del parentado.

Quella visione era ormai infranta.

«Sono Mercy Rutherford» dichiarò. «E sono venuta a trovare mia nonna.»

McNaughton inclinò il capo ma, prima che avesse il tempo di chiederle ragguagli, Mercy lo prevenne.

«Mrs. Ailsa Macrory Burns» aggiunse.

Se il maggiordomo ne restò stupito, non lo diede a vedere. Invece annuì e si trasse da parte.

«Se volete seguirmi, Miss Rutherford...» disse, il tono ancora glaciale.

Mercy annuì, quindi si rivolse a Connor e al cocchiere.

«Mi rincresce di tutto, Mr. McAdams» dichiarò. «Ho viaggiato molto bene... fino all’incidente.»

L’uomo si alzò il cappello e abbozzò un inchino.

«Grazie dell’aiuto» disse poi Mercy a Connor. «Siete stato molto gentile.»

Diede a Ruthie l’occasione di salutarlo in relativa intimità e intanto recuperò la valigetta e la borsetta e seguì McNaughton su per i gradini.