Nove
INVERNO 2010
Quando ero bambina condividevo con mio padre un rituale serale. Io recitavo le mie ventuno bismallah, lui mi rimboccava le coperte; solo allora si sedeva al mio fianco e con il pollice e l’indice strappava dalla mia testa i brutti sogni. Le sue dita saltavano dalla fronte alle tempie, frugando pazientemente dietro le mie orecchie, poi sulla nuca e, per ogni incubo di cui mondava il mio cervello, faceva un ploc come quando si stappa una bottiglia. Infilava i sogni, uno per uno, dentro un sacco invisibile che teneva in grembo e che serrava stretto tirando una funicella. Poi perlustrava l’aria alla ricerca dei bei sogni che dovevano sostituire quelli brutti che aveva catturato. Lo osservavo mentre, con la testa leggermente china, aggrottava la fronte e i suoi occhi vagavano da un punto all’altro della stanza, come se si sforzasse di sentire una musica lontana. Trattenevo il respiro, aspettando il momento in cui la faccia di mio padre si sarebbe aperta in un sorriso, e lui avrebbe esclamato: Ah, eccone uno, per poi lasciare che il sogno atterrasse nelle sue mani a coppa come un petalo che si stacca da un albero e cade volteggiando lentamente. Allora con dolcezza, con estrema dolcezza – mio padre diceva che tutte le cose buone della vita sono fragili e svaniscono facilmente – posava le mani sul mio viso, le strofinava sulla fronte perché vi penetrasse la felicità.
Cosa sognerò questa notte, Baba? chiedevo.
Ah! questa notte. Be’, questa notte è speciale, diceva sempre, prima di raccontarmi il sogno. Inventava una storia lì per lì. In uno dei sogni che mi regalava io ero la pittrice più famosa del mondo. In un altro ero la regina di un’isola incantata e avevo un trono volante. Mi aveva regalato persino un sogno in cui si parlava del mio dolce preferito, la gelatina di frutta. Io, con un colpo di bacchetta magica, avevo il potere di trasformare qualsiasi cosa in gelatina di frutta: il bus della scuola, l’Empire State Building, tutto l’oceano Pacifico, se ne avessi avuto voglia. Più di una volta ho salvato la terra dalla distruzione, agitando la mia bacchetta magica davanti a un meteorite che stava per colpirla. Baba non parlava molto di suo padre, ma mi diceva che aveva ereditato da lui la bravura nel raccontare storie. Diceva che quando lui era bambino, suo padre, se era dell’umore giusto, lo faceva sedere di fronte a sé, cosa che non capitava spesso, e gli raccontava fiabe popolate di jinn, di fate e di div.
A volte ci scambiavamo i ruoli. Baba chiudeva gli occhi e io, partendo dalla fronte, gli passavo le mani sulla faccia, sulle guance non rasate e sui baffi ispidi.
E allora, qual è il mio sogno stasera?, mi sussurrava prendendomi le mani. E il suo viso si apriva in un sorriso, perché già sapeva quale sogno gli avrei regalato. Era sempre lo stesso. Nel sogno lui e la sua sorellina sotto un melo si abbandonavano a un sonnellino pomeridiano. Il sole caldo sulle guance, la luce che inondava l’erba, e, in alto, le foglie e grappoli di fiori.
Ero figlia unica e per questo ero spesso sola. Dopo la mia nascita, i miei genitori, che si erano conosciuti in Pakistan quando erano entrambi sulla quarantina, avevano deciso di non tentare la sorte una seconda volta. Ricordo che guardavo con invidia tutti i ragazzini del vicinato e i miei compagni di scuola che avevano un fratellino o una sorellina. Ero sbalordita dal modo brusco in cui alcuni si trattavano, dimentichi di quanto fossero fortunati. Sembravano cani selvatici. Si pizzicavano, si picchiavano, si spintonavano, si tradivano in tutti i modi possibili. E poi ci ridevano sopra e non si rivolgevano la parola. Io non capivo. Ho passato gran parte della mia fanciullezza morendo dalla voglia di avere una sorella. Il mio vero desiderio era di avere una gemella, qualcuno che piangesse accanto a me nella culla, che dormisse vicino a me, che succhiasse il latte della mamma insieme a me. Qualcuno da amare totalmente e perdutamente e nel cui viso potessi sempre ritrovare me stessa.
E così la sorellina di Baba, Pari, era diventata la mia compagna segreta, invisibile a tutti tranne che a me. Era mia sorella, quella che da sempre desideravo e che i miei genitori non mi avevano dato. La vedevo nello specchio del bagno, quando, una accanto all’altra, ci lavavamo i denti il mattino. Poi ci vestivamo e lei mi seguiva a scuola, si sedeva vicino a me in classe, guardava la lavagna dritto davanti a sé, e in ogni momento potevo scorgere con la coda dell’occhio il nero dei suoi capelli e il candore del suo profilo. La portavo con me in cortile a giocare durante l’intervallo, sentivo la sua presenza dietro di me quando sfrecciavo giù dallo scivolo o quando mi dondolavo da una parallela all’altra. Dopo la scuola, quando disegnavo seduta al tavolo di cucina, anche lei si metteva a scarabocchiare pazientemente accanto a me, oppure guardava fuori dalla finestra finché terminavo i miei disegni e allora correvamo fuori a giocare alla corda e le nostre ombre saltellavano in sintonia su e giù sul cemento.
Nessuno sapeva dei miei giochi con Pari. Neppure mio padre. Lei era il mio segreto.
A volte, quando eravamo sole, chiacchieravamo senza tregua mangiando dell’uva. Parlavamo di giocattoli, dei cereali più buoni, dei cartoni animati che preferivamo, dei compagni di scuola che non ci piacevano, degli insegnanti cattivi. Il nostro colore preferito era il giallo, ci piaceva lo stesso gelato al gusto di ciliegia, lo stesso programma televisivo e cioè la serie di Alf, ed entrambe da grandi avremmo voluto diventare delle artiste. Naturalmente immaginavo che fossimo una il ritratto dell’altra, visto che eravamo gemelle. A volte mi sembrava di vederla, di vederla sul serio, al margine del mio campo visivo. Cercavo di farle il ritratto e ogni volta disegnavo gli stessi occhi verde chiaro, uno leggermente diverso dall’altro, proprio come i miei, gli stessi capelli scuri e ricci, le stesse sopracciglia lunghe che quasi si toccavano in centro. Se qualcuno mi faceva delle domande rispondevo che era il mio ritratto.
Conoscevo il racconto di come mio padre avesse perso sua sorella, così come conoscevo le storie del Profeta che mia madre mi aveva raccontato e che avrei riascoltato quando i miei genitori mi avrebbero iscritta alla scuola domenicale della moschea di Hayward. Tuttavia, nonostante la conoscessi a memoria, ogni sera pretendevo di riascoltare la storia di Pari, catturata in tutta la sua drammaticità. Forse dipendeva dal fatto che avevamo lo stesso nome. Forse era questa la ragione per cui sentivo tra noi un legame oscuro, avvolto di mistero, ma non per questo meno reale. Ma c’era dell’altro. Mi sentivo in contatto con lei, come se anch’io fossi stata segnata da quello che le era accaduto. Eravamo legate, lo sentivo, da un meccanismo invisibile, in modi che non riuscivo pienamente a capire e che andavano al di là del nome, al di là dei legami familiari, come se insieme completassimo un puzzle.
Ero certa che se avessi ascoltato attentamente la sua storia, questa mi avrebbe rivelato qualcosa che riguardava me.
Pensi che a tuo padre sia dispiaciuto il fatto di averla dovuta vendere?
Alcune persone nascondono molto bene la loro infelicità, Pari. Lui era così. Non l’avresti mai detto guardandolo, ma era un uomo duro. Eppure penso di sì, penso che dentro di sé fosse infelice.
E tu?
Mio padre sorrideva e chiedeva: Perché dovrei essere infelice, visto che ho te? Ma, anche se ero piccola, vedevo la tristezza impressa sul suo viso, come una voglia indelebile.
Quando ne parlavamo, nella mia mente prendeva corpo una fantasia. Nel mio sogno a occhi aperti, io risparmiavo il più possibile i miei soldini, non spendevo un solo dollaro né in caramelle né in adesivi, in attesa che il mio salvadanaio, che aveva la forma di una sirena seduta su uno scoglio, fosse pieno, e a quel punto l’avrei rotto, avrei preso tutti i soldi e sarei partita alla ricerca della sorellina del mio papà, dovunque fosse, e quando l’avessi trovata l’avrei comprata a mia volta per portarla a casa da Baba. Così avrei reso mio padre felice. Non c’era niente che desiderassi di più al mondo, quanto riuscire a liberarlo dalla sua tristezza.
Allora qual è il mio sogno stasera? chiedeva Baba.
Lo sai già.
Un altro sorriso. Sì, lo so.
Baba?
Sì?
Era brava tua sorella?
Era perfetta.
Mi dava un bacio sulla guancia e mi sistemava la coperta sotto il mento. Un attimo dopo aver spento la luce, si fermava sulla soglia.
Era perfetta, diceva. Come te.
Aspettavo che chiudesse la porta, prima di sgusciare fuori dal letto, prendere un altro cuscino e posarlo accanto al mio. Ogni sera mi addormentavo sentendo battere nel mio petto due cuori gemelli.
Controllo l’ora quando imbocco la superstrada all’entrata di Old Oakland Road. Sono già le dodici e mezza. Mi ci vorranno almeno quaranta minuti per arrivare all’aeroporto di San Francisco, se non incontrerò incidenti o lavori stradali sulla 101. Per fortuna il suo è un volo internazionale, il che la costringerà a passare dalla dogana e forse questo mi darà un po’ più di tempo. Passo sulla corsia di sinistra e accelero.
Ricordo una conversazione che ho avuto con Baba circa un mese fa. Un piccolo miracolo, uno scambio simile a una effimera bollicina di normalità, come una piccola sacca d’aria sul fondo freddo e buio dell’oceano. Ero in ritardo con il pranzo; lui dalla poltrona a sdraio aveva girato la testa verso di me e, con il tono più garbato, aveva osservato che ero geneticamente programmata a non essere puntuale. Come tua madre, che Dio conceda pace all’anima sua.
Ma poi, aveva continuato con un sorriso, come volesse rassicurarmi, una persona deve pur avere almeno un difetto.
Allora è questo il difetto di cui Dio mi ha dotata? gli avevo chiesto posando sulle sue ginocchia il piatto di riso e fagioli. L’abitudine alla pigrizia?
E l’ha fatto proprio contro voglia, aggiungerei. Baba mi aveva preso le mani tra le sue. Solo perché eri troppo vicina alla perfezione.
Be’, se vuoi sarò felice di confessartene altri.
Allora li tieni nascosti, vero?
Oh, ne ho un sacco. Pronti a essere messi in libertà. Per quando sarai vecchio e indifeso.
Sono già vecchio e indifeso.
Adesso vuoi che ti compatisca.
Giocherello con la radio, cambiando stazione di continuo e passando da un dibattito alla musica country, al jazz, a un altro dibattito. Poi spengo. Sono inquieta e nervosa. Prendo il cellulare sul sedile del passeggero, chiamo casa e lascio il telefono acceso in grembo.
«Pronto?»
«Salam, Baba. Sono io.»
«Pari?»
«Sì, Baba. A casa tutto bene? Come va con Héctor?»
«È un ragazzo meraviglioso. Ha cucinato le uova e le abbiamo mangiate su una fetta di pane tostato. Dove sei?»
«In macchina.»
«Vai al ristorante? Non sei di turno oggi?»
«No, sto andando all’aeroporto, Baba. A prendere una persona.»
«Va bene. Dirò a tua madre di pensare lei al pranzo» dice. «Potrebbe portare qualcosa dal ristorante.»
«Va bene, Baba.»
Con mio grande sollievo non la nomina più. Ma ci sono giorni che non demorde. Perché non mi dici dov’è, Pari? È all’ospedale per essere operata? Non dirmi bugie! Perché tutti mi dicono bugie? È partita? È in Afghanistan? Allora ci vado anch’io! Vado a Kabul e non sarai tu a fermarmi. Andiamo avanti così, Baba che annaspa, sconvolto, e io che gli propino bugie, e cerco di distrarlo con la sua collezione di cataloghi del fai da te o con qualche programma televisivo. A volte funziona, ma altre volte non abbocca ai miei trucchi. Si tormenta finché scoppia in lacrime. Un attacco isterico. Si dà manate in testa e si dondola avanti e indietro sulla poltrona, singhiozzando, con le gambe che gli tremano, finché non gli do un sedativo. Aspetto che gli si annebbi la vista e allora crollo sul divano, esausta, senza fiato, anch’io sull’orlo del pianto. Guardo la porta d’ingresso con una gran voglia di uscire e vorrei semplicemente varcare la soglia e camminare senza fermarmi, in cerca di libertà. E poi Baba si lamenta nel sonno e io torno di colpo alla realtà, oppressa dai sensi di colpa.
«Posso parlare con Héctor, Baba?»
Sento che la cornetta passa di mano. Sullo sfondo il clamore di una folla che ride, il pubblico di un gioco tv, e infine un applauso.
«Salve, ragazza.»
Héctor Juarez abita di fronte a noi. Siamo vicini di casa da molti anni, ma solo recentemente siamo diventati amici. Viene da noi un paio di volte alla settimana e insieme mangiamo schifezze e guardiamo il peggio della televisione, per lo più dei reality show, fino a tardi. Mangiucchiamo pizza fredda e scuotiamo la testa, affascinati dalle pagliacciate che vediamo sullo schermo. Héctor ha un passato di marine, di stanza nel sud dell’Afghanistan. Un paio d’anni prima era stato gravemente ferito da un rudimentale ordigno esplosivo. Quando alla fine era tornato a casa, tutte le persone dell’isolato erano andate ad accoglierlo. I suoi genitori avevano appeso nel cortile davanti a casa uno striscione con la scritta Bentornato Héctor, contornata da palloncini e da una profusione di fiori. Era scoppiato un grande applauso quando i suoi genitori avevano parcheggiato davanti a casa. Molti vicini avevano preparato torte. La gente lo ringraziava per il servizio reso al paese. Dicevano: Sii forte. Che Dio ti benedica. Cesar, il padre di Héctor, qualche giorno dopo era venuto a casa nostra e insieme avevamo costruito una rampa per la sedia a rotelle, uguale a quella che lui aveva costruito a casa di Héctor, che conduceva alla porta d’ingresso su cui sventolava la bandiera americana. Ricordo che, mentre lavoravamo alla rampa, avevo sentito il bisogno di chiedere scusa a Cesar per quello che era capitato a Héctor nel paese di mio padre.
«Salve» dico. «Volevo sapere come vanno le cose.»
«Tutto bene qui» dice Héctor. «Abbiamo mangiato. Abbiamo guardato Il prezzo è giusto. In questo momento stiamo morendo di paura con Wheel. Poi passeremo a qualcos’altro.»
«Oh, mi spiace.»
«Di cosa, mija? Ci stiamo divertendo, vero, Abe?»
«Grazie d’avergli cucinato le uova.»
Héctor abbassa un po’ la voce. «Erano delle frittelle, per dire la verità. Gli sono piaciute da matti: ne ha mangiate quattro.»
«Ti sono veramente grata.»
«Ehi, sai che mi piace molto il tuo nuovo quadro? Quello del ragazzo con il cappello buffo. Me l’ha mostrato Abe. Era tutto orgoglioso. E anch’io, accidenti! Come si fa a non essere orgogliosi?»
Sorrido e cambio corsia per lasciare passare uno che mi sta alle calcagna. «Mi sa che adesso so cosa regalarti a Natale.»
«Ricordami perché non possiamo sposarci» chiede Héctor. Sento in sottofondo le proteste di Baba e Héctor che ride allontanando la cornetta. «Sto scherzando, Abe. Non prendertela. Sono uno storpio, lo so.» Poi a me: «Tuo padre ha tirato fuori il pashtun che è in lui».
Gli ricordo di dare a Baba le pillole che deve prendere a fine mattina e chiudo la comunicazione.
È come vedere la fotografia di un personaggio radiofonico, non è mai come te lo sei figurato nella fantasia, ascoltando la sua voce mentre guidi. Per prima cosa è vecchia. O piuttosto anziana. Naturalmente questo lo sapevo. Avevo fatto i miei conti, arrivando alla conclusione che doveva essere sulla sessantina. Solo che è difficile conciliare questa donna sottile con i capelli grigi con la bambina che mi ero sempre figurata, una bambina di tre anni con i capelli scuri, ricci e le lunghe sopracciglia che quasi si toccano. Ed è più alta di come me l’ero immaginata; lo capisco anche se è seduta su una panca vicino a un chiosco di panini e si guarda attorno intimidita, come se si sentisse sperduta. Ha le spalle strette e una corporatura delicata, un viso gradevole, i capelli tirati indietro, stretti da un fermacapelli all’uncinetto. Porta orecchini di giada, jeans sbiaditi, una lunga maglia di lana color salmone e una sciarpa gialla avvolta attorno al collo con un’eleganza disinvolta, europea. Nella sua ultima mail mi aveva detto che avrebbe indossato quella sciarpa, perché potessi riconoscerla subito.
Non mi ha ancora visto, e io indugio un momento in mezzo ai viaggiatori che spingono il carrello con i bagagli, gli autisti degli hotel che tengono in mano il cartello con il nome del cliente. Con il cuore in tumulto penso: È lei. Questa è lei. È veramente lei. Poi i nostri occhi si incontrano e dall’espressione che si fa strada sul suo viso capisco che mi ha riconosciuta. Mi saluta con la mano.
Mi avvicino alla panca. Lei sorride, a me tremano le ginocchia. Ha lo stesso sorriso di Baba, non fosse per una fessura larga come un grano di riso tra i due incisivi superiori, un sorriso che le raggrinza un po’ la faccia sulla sinistra e le fa quasi chiudere gli occhi, mentre la testa le si inclina leggermente all’indietro. Si alza e io noto le mani, le giunture nodose, le dita che si piegano in modo strano all’altezza della prima falange, il bozzo al polso della grossezza di un cece. Sento una stretta allo stomaco, pensando a quanto dev’essere doloroso.
Ci abbracciamo e lei mi dà un bacio sulle guance. La sua pelle è morbida come velluto. Poi mi allontana tenendomi le mani sulle spalle e mi guarda in faccia come stesse valutando un dipinto. C’è un velo di lacrime sui suoi occhi, che però sprizzano felicità.
«Mi scuso di essere in ritardo.»
«Niente! Finalmente, che piacere vederti! Sono così contenta.» Niante! Finalmante, che piascere vederrti! L’accento francese è più forte ora che non al telefono.
«Anch’io sono contenta. Hai fatto un buon viaggio?»
«Ho preso una pillola altrimenti sapevo di non riuscire a dormire. Sono così felice ed eccitata che starei sveglia tutto il tempo.» Non mi abbandona con gli occhi, sorridendomi estasiata – come se temesse che l’incantesimo si possa spezzare se distoglie lo sguardo – finché l’altoparlante prega i passeggeri di avviarsi al controllo bagagli a mano e a quel punto la sua faccia si rilassa un po’.
«Abdullah sa già che sto arrivando?»
«Gli ho detto che avrei portato a casa un’ospite.»
Una volta sedute in macchina, le lancio delle occhiate furtive. È una cosa bizzarra. C’è qualcosa di stranamente illusorio nel fatto che Pari Wahdati sia seduta nella mia macchina, a pochi centimetri da me. Un momento la vedo con assoluta chiarezza: la sciarpa gialla attorno al collo, i capelli corti e leggeri, la verruca color caffè sotto l’orecchio sinistro, e un momento dopo i suoi tratti sono avvolti in una sorta di foschia come se la scrutassi attraverso lenti smerigliate. Tra i due attimi provo una sensazione di vertigine.
«Stai bene?» mi chiede allacciando la cintura di sicurezza.
«Continuo a pensare che potresti svanire all’improvviso.»
«Scusa?»
«È un po’... incredibile» dico con una risatina nervosa. «Il fatto che tu esista veramente. Che tu sia davvero qui.»
Annuisce, sorridendo. «Anche per me. Anche per me è strano. Sai, in vita mia non ho mai incontrato nessuno che portasse il mio nome.»
«Neanche io.» Giro la chiave dell’accensione. «Parlami dei tuoi figli.»
Mentre esco dal parcheggio mi racconta tutto, chiamando i figli per nome come se li conoscessi da una vita, come se fossimo cresciuti assieme, avessimo condiviso picnic e campeggi, e le vacanze estive assieme in posti di mare dove avevamo infilato conchiglie per farne collane e ci eravamo reciprocamente sepolti sotto la sabbia.
Mi sarebbe piaciuto che fosse andata così.
Mi racconta che suo figlio Alain, «tuo cugino» aggiunge, e sua moglie Ana hanno avuto il quinto figlio, una bambina, e si sono trasferiti a Valencia dove hanno comprato una casa. «Finalement lasceranno quell’odioso appartamento di Madrid!» Sua figlia maggiore, Isabelle, che scrive musica per la televisione, ha avuto l’incarico di comporre la colonna sonora per il suo primo film importante. E il marito di Isabelle, Albert, è diventato capocuoco in un prestigioso ristorante parigino.
«Avevi un ristorante, no? Me l’hai detto in una mail.»
«Be’, era dei miei genitori. È sempre stato il sogno di mio padre avere un ristorante. Io davo loro una mano. Ma ho dovuto venderlo qualche anno fa. Dopo che la mamma è morta e Baba non c’è più con la testa.»
«Mi spiace.»
«Non è il caso. Non ero tagliata per lavorare in un ristorante.»
«Immagino. Sei un’artista.»
Incidentalmente la prima volta che ci eravamo parlate, quando mi aveva chiesto cosa facevo, le avevo accennato al mio sogno di frequentare una scuola d’arte.
«In realtà sono quella che viene definita una trascrizionista.»
Mi ascolta con grande attenzione mentre le spiego che lavoro per una azienda che elabora i dati di cinquecento compagnie che gestiscono grandi patrimoni. «Scrivo moduli. Opuscoli, ricevute, liste di clienti, liste di indirizzi e-mail, cose del genere. La cosa indispensabile è saper scrivere a macchina. E lo stipendio non è male.»
«Capisco.» Ci pensa, poi chiede: «Ti interessa questo lavoro?».
Siamo dirette verso sud e ora stiamo passando da Redwood City. Le dico di guardare fuori dal suo finestrino: «Vedi quell’edificio? Quello con l’insegna azzurra?».
«Sì.»
«È là che sono nata.»
«Ah bon?» Guarda fuori. «Sei fortunata.»
«Perché?»
«A sapere da dove vieni.»
«Non credo di averci mai fatto caso.»
«Bah, certo che no. Ma è importante saperlo. Conoscere le proprie radici. Sapere dove hai cominciato a formarti come persona. Altrimenti la vita finisce per sembrarti irreale. Come un puzzle. Vous comprenez? Come se ti mancasse l’inizio di una storia e ora che ti ritrovi a metà cerchi di capire.»
Immagino che sia così che Baba si sente ora. I vuoti di memoria hanno reso la sua vita un enigma. Ogni giorno è una storia di confusione, un rebus da risolvere.
Viaggiamo in silenzio per qualche chilometro.
«Se trovo il mio lavoro interessante? Un giorno sono tornata a casa e ho trovato aperto il rubinetto della cucina. Il pavimento era coperto di cocci di vetro e il gas era rimasto acceso. È stato così che ho capito che non potevo più lasciarlo solo. E dal momento che non potevo permettermi una persona che lo assistesse a tempo pieno, ho cercato un lavoro che potessi fare a casa. Il mio interesse non c’entrava granché.»
«E la scuola d’arte può aspettare.»
«Per forza.»
Temo che tra un po’ mi dirà quanto è fortunato Baba ad avere una figlia come me, ma sono contenta e grata che si limiti ad annuire mentre i suoi occhi scorrono sui segnali stradali della superstrada. Altre persone, però, soprattutto gli afghani, non fanno che sottolineare quanto è fortunato Baba, e che benedizione sono per lui. Parlano di me con ammirazione. Mi fanno passare per una santa, la figlia che ha eroicamente rinunciato a una vita brillante di agi e di privilegi per rimanere in famiglia a occuparsi di suo padre. Prima la madre, dicono, con la voce che risuona di sincera comprensione. Tutti quegli anni a farle da infermiera. Che disastro. Ora il padre. Certo non è mai stata una gran bellezza, ma aveva un corteggiatore. Un americano, un tipo solare. Avrebbe potuto sposarlo. Ma non l’ha fatto. Le cose che ha sacrificato per loro. Ogni genitore dovrebbe avere una figlia così. Si complimentano per il mio buon umore. Si meravigliano del mio coraggio e della mia nobiltà d’animo, come si fa con chi ha sconfitto una deformità fisica, o un grave difetto di parola.
Ma non mi riconosco in questa versione della storia. Per esempio, qualche mattina scorgo Baba seduto sul bordo del letto che mi osserva con quei suoi occhi lacrimosi, aspettando impaziente che gli infili i calzini sui piedi dalla pelle secca e macchiata, e brontolando il mio nome con espressione infantile. Raggrinza il naso in un modo che lo fa assomigliare a un piccolo roditore spaurito e io mi irrito quando fa quella faccia. Mi irrito perché è ridotto così. Ce l’ho con lui perché i confini della mia esistenza si sono ristretti, perché è a causa sua che si stanno inutilmente consumando i migliori anni della mia vita. Ci sono giorni in cui vorrei solo liberarmi di lui, della sua petulanza e della sua dipendenza. Non sono per niente una santa.
Prendo l’uscita della Tredicesima Strada. Dopo qualche chilometro imbocco il vialetto di Beaver Creek Court e spengo il motore.
Pari guarda dal finestrino la nostra casa a un piano, la porta del garage con la vernice scrostata, le cornici decorate delle finestre, i due orridi leoni di pietra a guardia della porta d’ingresso. Non ho avuto il cuore di disfarmene, perché Baba li ama, anche se dubito che si accorgerebbe della loro mancanza. Abitiamo in questa casa dal 1989, cioè da quando avevo sette anni. Prima eravamo in affitto poi, nel ’93, Baba l’ha comprata. La mamma è morta qui, una mattina di sole la vigilia di Natale, in un letto da ospedale che avevamo allestito per lei nella camera degli ospiti, dove ha passato gli ultimi tre mesi della sua vita. Mi aveva chiesto di sistemarla in quella stanza per via della vista. Diceva che la tirava su di morale. Stava sdraiata in quel letto, le gambe gonfie e grigie, e passava le giornate guardando fuori dalla finestra quello scampolo di serenità, il giardino davanti a casa con la bordura di aceri giapponesi che lei stessa aveva piantato anni prima, l’aiuola a forma di stella, il prato diviso da uno stretto sentiero di ciottoli, e, in lontananza, le basse colline che a mezzogiorno, quando il sole le illuminava in pieno, si rivestivano d’oro smagliante e intenso.
«Sono molto agitata» dice Pari a voce bassa.
«È comprensibile. Dopo cinquantotto anni.»
Si guarda le mani intrecciate sul grembo. «Non ricordo quasi niente di lui. Ciò che porto con me non sono la sua faccia o la sua voce, ma la sensazione che nella mia vita sia sempre mancato qualcosa. Una presenza cara... Ah, non saprei dire. Tutto qui.»
Faccio segno di sì con la testa. Preferisco non confessarle quanto la capisco. Sono a un passo dal chiederle se non abbia mai avuto sentore della mia esistenza.
Gioca con le frange della sciarpa. «Pensi che si possa ricordare di me?»
«Vuoi la verità?»
Studia la mia faccia. «Sì, certo.»
«Direi di no e forse è meglio così.» Penso a cosa aveva detto il dottor Bashiri, che è stato per molto tempo il medico curante dei miei genitori. Ha detto che a Baba serve disciplina, ordine. Le sorprese ridotte al minimo. Un senso di prevedibilità.
Apro la portiera. «Ti spiace rimanere in macchina un minuto? Mando a casa il mio amico, poi potrai incontrare Baba.»
Pari si copre gli occhi con una mano e io non aspetto di vedere se sta per piangere.
Quando avevo undici anni, tutte le ultime classi delle elementari che frequentavo si recarono in gita di studio all’acquario di Monterey Bay. Per tutta la settimana prima di quel venerdì, i miei compagni non avevano parlato d’altro, in biblioteca, mentre giocavano ai quattro cantoni durante l’intervallo. Erano esaltati all’idea di quanto si sarebbero divertiti dopo la chiusura dell’acquario al pubblico, liberi di correre in pigiama tra le vasche, in mezzo ai pesci martello, le razze, i draghi di mare e i calamari. La nostra insegnante, Mrs Gillespie, ci disse che avrebbero predisposto qua e là nell’acquario dei punti di ristoro dove gli studenti avrebbero potuto scegliere tra panini al burro d’arachidi o con l’hamburger e il formaggio. Come dessert biscotti al cioccolato o gelato alla vaniglia, disse. La sera gli studenti si sarebbero infilati nel loro sacco a pelo, ascoltando gli insegnanti che leggevano loro le storie della buona notte, poi sarebbero scivolati nel sonno in mezzo a cavallucci marini, sardine e squali leopardo che nuotavano tra grandi alghe ondeggianti. Già dal giovedì l’aspettativa aveva elettrizzato l’atmosfera della classe. Persino i soliti disturbatori facevano di tutto per comportarsi bene, per paura che una qualche marachella potesse costare loro la gita.
Per me era un po’ come vedere un film emozionante con l’audio spento. Mi sentivo lontana da tutta quella allegria, tagliata fuori dall’atmosfera di festa, come mi capitava ogni dicembre quando i miei compagni di classe a casa avrebbero trovato l’albero di Natale, le calze che pendevano dai caminetti e piramidi di regali. Dissi a Mrs Gillespie che non sarei andata in gita. Quando mi chiese perché, le risposi che la gita di studio cadeva in corrispondenza di una festività musulmana. Non ero sicura che mi avesse creduto.
La sera della gita rimasi a casa con i miei genitori e guardammo La signora in giallo. Cercai di concentrarmi sul film e di non pensare alla gita, ma continuavo a distrarmi. Immaginavo i miei compagni in quel momento, in pigiama, torcia in mano, la fronte contro il vetro della gigantesca vasca delle anguille. Sentivo una stretta allo stomaco e mi muovevo inquieta sul divano. Baba, spaparanzato sull’altro divano, si gettò un’arachide tostata in bocca e ridacchiò a una battuta di Angela Lansbury. Vicino a lui sorpresi la mamma che mi osservava, pensosa, il viso scuro, ma quando i nostri occhi s’incrociarono, i suoi tratti si rasserenarono subito e sorrise, un sorriso furtivo, intimo, che io, ingoiando il mio dispiacere, mi sforzai di ricambiare. Quella notte sognai di essere sulla spiaggia, immersa nell’acqua sino alla vita, un’acqua dalle mille sfumature – verde, azzurro, giada, zaffiro, smeraldo, turchese – che mi ondeggiava attorno ai fianchi. Ai miei piedi scivolavano torme di pesci, come se l’oceano fosse il mio acquario privato. Mi sfioravano le dita e mi solleticavano le caviglie, un’infinità di mille lampi di colore che sfrecciavano scintillanti sul fondo di sabbia bianca.
Quella domenica Baba mi fece una sorpresa. Tenne chiuso il ristorante, cosa che non faceva quasi mai, e mi accompagnò in macchina all’acquario di Monterey. Parlò in modo eccitato per tutto il tragitto. Quanto ci saremmo divertiti. Che voglia aveva di vedere tutti i pesci, gli squali in particolare. Cosa avremmo mangiato a mezzogiorno? Mentre parlava mi ricordai di quando da piccola lui mi accompagnava allo zoo per bambini di Kelly Park e agli attigui giardini giapponesi per vedere le carpe ornamentali. Ci divertivamo a dare un nome a tutti i pesci e io stringevo la sua mano pensando che per tutta la vita non avrei mai avuto bisogno di nessun altro.
All’acquario, vagai da brava in mezzo alle vasche e feci del mio meglio per rispondere alle domande di Baba sui diversi tipi di pesci che riconoscevo. Ma il posto era troppo illuminato e troppo rumoroso e davanti ai pesci più interessanti c’erano troppi visitatori. Era tutto diverso dalle mie fantasie su come sarebbe stato. La visita fu una lotta. Fingere di divertirmi mi aveva sfinito. Sentivo che stava per venirmi il mal di stomaco, quando finalmente, dopo esserci trascinati in giro per un’ora, ce ne andammo. Durante il viaggio di ritorno Baba continuava a guardare dalla mia parte con aria preoccupata, come se fosse sul punto di dire qualcosa. Sentivo i suoi occhi indagatori. Finsi di dormire.
L’anno successivo, alle medie, le ragazze della mia età mettevano già l’ombretto e il lucidalabbra. Andavano ai concerti dei Boyz II Men, ai balli scolastici, e si davano appuntamento al parco dei divertimenti di Great America dove sulle montagne russe strillavano come matte. Le mie compagne di classe si misuravano con il basket e il cheerleading. La ragazza che era seduta dietro di me a lezione di spagnolo, con la carnagione pallida e lentigginosa, faceva parte della squadra di nuoto e un giorno, appena suonata la campanella, mentre riordinavamo i banchi, mi chiese, come se niente fosse, perché non ci provavo anch’io. Non poteva capire. I miei genitori si sarebbero scandalizzati se avessi indossato un costume da bagno in pubblico. Non che io ci tenessi, anche perché mi vergognavo terribilmente del mio corpo. Ero sottile dalla vita in su, ma ero robusta in modo sproporzionato dalla vita in giù, come se la forza di gravità avesse trascinato tutto il peso in basso. Sembravo messa assieme da un bambino alle prese con uno di quei giochi da tavolo in cui si mischiano le varie parti anatomiche e poi le si combinano in modo da far ridere. La mamma diceva che era una questione di ossatura. Diceva che anche sua madre aveva avuto la stessa corporatura. Alla fine smise di commentare, rendendosi conto, immagino, che a una ragazza non faceva piacere essere descritta come una con le ossa grosse.
Insistetti con Baba perché mi permettesse di far parte della squadra di pallavolo, ma lui mi prese tra le braccia, stringendomi la testa tra le mani. Chi mi avrebbe accompagnato agli allenamenti? argomentava. Chi mi avrebbe portato alle partite? Oh, mi piacerebbe che fossimo ricchi come i genitori dei tuoi amici, Pari, ma dobbiamo guadagnarci da vivere, tua madre e io. Non voglio tornare a campare di sussidi pubblici. Capisci, vero, amore? So che capisci.
Nonostante dovesse guadagnarsi da vivere, Baba trovava il tempo di accompagnarmi sino a Campbell per il corso di farsi. Ogni martedì pomeriggio, dopo la scuola, mi recavo a lezione e, come un pesce costretto a risalire la corrente, cercavo di guidare la penna da destra a sinistra, contro la natura stessa della mia mano. Pregai Baba di farmi smettere, ma lui si rifiutò. Mi diceva che in seguito avrei apprezzato il regalo che mi stava facendo. Diceva che se la cultura fosse stata una casa, la lingua era la chiave della porta che permetteva di accedere a tutte le stanze. Senza conoscerla si finiva male, privi di una casa o di un’identità legittima.
Poi c’erano le domeniche, quando, con il foulard di cotone bianco, mi lasciava alla moschea di Hayward per le lezioni di Corano. La stanza dove studiavo con una dozzina di altre ragazze afghane era molto piccola, priva di aria condizionata, e puzzava di biancheria sporca. Aveva delle finestre strette, situate in alto, come le finestre di una cella. La nostra insegnante era la moglie di un droghiere di Fremont. A me piacevano soprattutto le storie della vita del Profeta, che trovavo interessanti, come avesse trascorso la fanciullezza nel deserto, come l’angelo Gabriele gli fosse apparso in una caverna e gli avesse ordinato di recitare i versetti, come tutti coloro che lo incontravano rimanessero colpiti dalla gentilezza e luminosità del suo viso. Ma l’insegnante passava la maggior parte del tempo a scorrere la lunga lista di tutte le cose che, da virtuose ragazze musulmane, dovevamo evitare a tutti i costi, per non essere corrotte dalla cultura occidentale: innanzitutto i ragazzi, ma anche la musica rap, Madonna, Melrose Place, i calzoncini corti, il ballo, nuotare in piscina, il cheerleading, l’alcol, il bacon, i peperoni, gli hamburger di carne non halal e una caterva di altre cose. Seduta sul pavimento, sudavo per il gran caldo, mi si addormentavano i piedi e desideravo solo di togliermi il foulard, ma naturalmente non era possibile all’interno della moschea. Alzavo gli occhi alle finestre dove si scorgevano solo delle sottili strisce di cielo. Morivo dalla voglia di uscire e di lasciare che il vento fresco mi accarezzasse il viso. Quando ero all’aria aperta avevo l’impressione che qualcosa mi si schiudesse nel petto e sentivo con sollievo che il fastidioso nodo che mi opprimeva andava sciogliendosi.
Ma la sola fuga possibile era allentare le redini della fantasia. Ogni tanto mi ritrovavo a pensare a Jeremy Warwick, in classe con me a matematica. Aveva occhi azzurri impassibili e una pettinatura afro del tipo che a volte si fanno i ragazzi bianchi. Era riservato e riflessivo. Suonava la chitarra in un gruppo di dilettanti. Allo spettacolo annuale della scuola avevano suonato una versione piuttosto cupa di House of the Rising Sun. In classe sedevo quattro banchi dietro a lui, alla sua sinistra. A volte mi immaginavo che ci baciassimo, la sua mano che mi teneva la nuca, la sua faccia così vicina alla mia da eclissare il mondo intero. Mi sentivo invadere da una sensazione di calore come se qualcuno mi stesse strofinando dolcemente una piuma sul ventre e sulle gambe. Naturalmente non sarebbe mai potuto accadere. Tra Jeremy e me, un noi non era possibile. E comunque, ammesso che avesse anche il più vago sentore della mia esistenza, non l’aveva mai dato a vedere. Il che andava bene lo stesso. Così potevo fingere che la sola ragione per cui non potevamo fidanzarci era che io non gli piacevo.
Durante l’estate lavoravo nel ristorante dei miei genitori. Da ragazzina mi piaceva pulire i tavoli, aiutare ad apparecchiare, piegare i tovaglioli, infilare una gerbera rossa nel vasetto rotondo al centro di ciascun tavolo. Mi illudevo di essere indispensabile all’impresa familiare, che senza di me a garantire saliere e pepaiole piene, il ristorante sarebbe andato a catafascio.
Quando frequentavo la scuola superiore mi sembrava ormai che le mie giornate alla Abe’s Kabob House si trascinassero lunghe e calde. Gran parte dello splendore che gli oggetti del ristorante avevano avuto nella mia infanzia era sfumato. Il vecchio distributore di acqua tonica che ronzava in un angolo, le tovaglie sintetiche, le tazze di plastica macchiate, i nomi ridicolmente ingenui dei piatti del menu plastificato – Kebab della Carovana, Pilaf del Passo Khyber, Pollo della Via della Seta –, il manifesto in una brutta cornice della ragazza afghana del «National Geographic», quella con i famosi occhi verdi. Come se fosse stato prescritto che tutti i ristoranti afghani dovessero avere quegli occhi che ti scandagliavano dalla parete. Accanto al manifesto Baba aveva appeso un mio quadro a olio dei minareti di Herat che avevo dipinto quando frequentavo il settimo anno. Ricordo quanto mi fossi sentita fiera e importante quando vedevo i clienti che mangiavano il loro kebab di agnello sotto la mia opera d’arte.
A mezzogiorno, mentre la mamma e io facevamo la spola tra il fumo speziato della cucina e i tavoli dove servivamo impiegati, addetti ai servizi pubblici e poliziotti, Baba stava alla cassa. Baba, con la sua camicia bianca macchiata d’unto, il ciuffo di peli grigi che spuntava dal primo bottone aperto, gli avambracci robusti e pelosi. Baba che salutava gioviale e raggiante ogni cliente che entrava. Salve, signore! Salve signora! Benvenuti alla Abe’s Kabob House. Io sono Abe. Come posso servirvi? Io mi vergognavo e non capivo come non si rendesse conto che sembrava fare il verso al personaggio dell’amicone mediorientale mezzo scemo di una brutta sit-com. E poi a ogni pasto che servivo c’era lo spettacolino di Baba che suonava la vecchia campanella d’ottone. Era cominciato per gioco, suppongo, suonare la campanella che Baba teneva appesa sulla parete dietro la cassa. Ogni tavolo che veniva servito era salutato da un caloroso scampanellio. I clienti abituali vi erano abituati, quasi non lo sentivano più, i clienti nuovi invece pensavano facesse parte del fascino eccentrico del luogo, anche se ogni tanto qualcuno si lamentava.
Ho capito che sei stufa di suonare la campanella, aveva detto Baba una sera. Era il terzo trimestre del mio ultimo anno di scuola superiore. Eravamo in macchina fuori dal ristorante, dopo l’orario di chiusura, e aspettavamo la mamma che aveva dimenticato le sue pillole contro l’acidità ed era corsa indietro per prenderle. Baba aveva un’espressione lugubre. Era stato di pessimo umore tutto il giorno. Sull’aiuola spartitraffico cadeva una leggera pioggerella. Era tardi e il parcheggio era deserto, tranne un paio di macchine nel parcheggio del Kentucky Fried Chicken, e un pick-up fermo fuori dalla tintoria, con dentro due tizi, le spirali di fumo delle loro sigarette che uscivano dai finestrini.
Era più divertente quando non dovevo farlo per forza.
È sempre così, aveva replicato con un sospiro.
Ricordavo come mi piaceva quando, da piccola, Baba mi sollevava in alto tenendomi sotto le ascelle e mi lasciava suonare la campanella. Quando mi rimetteva a terra ero felice e orgogliosa.
Baba aveva acceso il riscaldamento e aveva incrociato le braccia.
Ce n’è di strada per arrivare a Baltimora.
Puoi prendere l’aereo e venirmi a trovare quando vuoi, avevo detto tutta allegra.
Prendere l’aereo quando voglio, aveva ripetuto con una punta di derisione. Pari, io per vivere cucino kebab.
Allora verrò io a trovare te.
Baba mi aveva guardato con occhi avviliti. La sua tristezza era come l’oscurità che si stava addensando fuori dai finestrini.
Ogni giorno per un mese avevo verificato la cassetta delle lettere con il cuore che si gonfiava di speranza ogni volta che il furgone della posta si fermava davanti a casa. Prendevo la corrispondenza, chiudevo gli occhi e pensavo: Questa potrebbe essere la volta buona. Aprivo gli occhi e frugavo tra tagliandi, fatture e volantini vari. Poi, il martedì della settimana prima, strappata la busta, avevo letto le parole che tanto aspettavo. Abbiamo il piacere di informarla...
Ero saltata in piedi gridando. Un urlo vero, che quasi mi lacerava la gola e mi aveva fatto venire le lacrime agli occhi. Quasi nello stesso tempo mi era passata per la mente un’immagine: è la sera dell’inaugurazione di una mia mostra, io con un abito semplice, nero ed elegante, circondata da collezionisti e critici severi, che sorrido e rispondo alle loro domande, mentre capannelli di ammiratori si fermano davanti alle mie tele e i camerieri in guanti bianchi si muovono silenziosi per la galleria, versando vino, offrendo piccole tartine di salmone con erba cipollina e spiedini di asparagi avvolti in pasta sfoglia. Avevo provato uno di quegli improvvisi accessi di euforia che ti fanno venir voglia di abbracciare gli sconosciuti e ballare con loro, abbandonandoti a irresistibili volteggi.
Sono preoccupato per tua madre, aveva detto Baba.
Vi telefonerò tutte le sere, prometto. Lo sai che lo farò.
Baba aveva annuito. Le foglie degli aceri all’ingresso del parcheggio frusciavano a ogni improvvisa folata di vento.
Hai ripensato a quello di cui abbiamo discusso?
Parli del college?
Solo per un anno, forse due. Giusto per darle il tempo di abituarsi all’idea. Poi potresti sempre ripresentare domanda.
Un improvviso accesso di rabbia mi aveva scosso con un lungo brivido. Baba, hanno valutato i voti dei miei test e il mio libretto scolastico, hanno esaminato il mio portfolio e il loro giudizio delle mie opere è tale che non solo hanno accolto la mia domanda, ma mi hanno anche offerto una borsa di studio. Questo è uno dei migliori istituti d’arte degli Stati Uniti. Non è una scuola che si possa rifiutare. Non ci sarà un’altra occasione come questa.
È vero, aveva detto, raddrizzandosi sul sedile. Aveva soffiato sulle mani a coppa per scaldarle. Capisco. E naturalmente sono felice per te. Leggevo sulla sua faccia la lotta che stava sostenendo. E anche la sua paura. Non solo la paura per me e per cosa avrebbe potuto capitarmi a cinquemila chilometri da casa. Ma paura di me, di perdermi. Del potere che avevo di renderlo infelice con la mia assenza, di spezzare, se volevo, il suo cuore vulnerabile, come un doberman che si fionda su un gattino.
Mi era tornata in mente sua sorella. Ma a quel punto, il mio legame con Pari, la cui presenza un tempo era stata come un palpito profondo dentro di me, si era allentato da un pezzo. Pensavo a lei raramente. Con il passare degli anni l’avevo messa da parte, così come ero diventata troppo grande per il mio pigiama preferito o gli animali di peluche da cui una volta non mi sarei separata. Ma ora il mio pensiero tornava a lei e ai legami che ci univano. Se ciò che aveva subìto era come un’onda che si era infranta lontano da riva, allora era la risacca di quell’onda che ora lambiva le mie caviglie, ritraendosi dai miei piedi.
Baba si era schiarito la gola guardando, fuori dal finestrino, il cielo buio e la luna coperta dalle nubi, gli occhi umidi dall’emozione.
Tutto mi parlerà di te.
Dal tono tenero, leggermente angosciato con cui aveva pronunciato queste parole avevo capito che mio padre era una persona ferita, che il suo amore per me era sincero, immenso ed eterno come il cielo, e che avrebbe gravato su di me per sempre. Era quel tipo di amore che prima o poi ti avrebbe inchiodato a una scelta: o ti liberavi con una lacerazione o rimanevi e sopportavi la sua intransigenza, anche se ti torchiava sino a farti rimpicciolire.
Dal sedile posteriore ormai immerso nel buio avevo allungato la mano per dargli una carezza. Baba vi aveva appoggiato la guancia.
Perché ci impiega tanto? aveva mormorato.
Sta chiudendo a chiave. Mi sentivo esausta. Avevo visto la mamma che correva verso la macchina. La pioggerella era diventata un acquazzone.
Un mese dopo, un paio di settimane prima del volo che mi avrebbe portato a est, in visita al campus, la mamma era andata dal dottor Bashiri per dirgli che le pillole antiacido non erano servite a ridurre il dolore allo stomaco. Le aveva prescritto un’ecografia, a seguito della quale le avevano trovato un tumore grosso come una noce nell’ovaio sinistro.
«Baba?»
È accasciato sulla poltrona a sdraio, immobile, piegato in avanti. Porta i pantaloni della tuta, gli stinchi coperti da uno scialle di lana a quadri. Sopra la camicia di flanella abbottonata sino al collo indossa il golf che gli ho comprato un anno fa. È così che si ostina a portare la camicia, con il colletto abbottonato, il che gli dà un aspetto fragile, da adolescente, rassegnato alla vecchiaia. Oggi ha la faccia leggermente gonfia e sulla fronte gli spiovono ciocche spettinate di capelli bianchi. Sta guardando Chi vuol essere milionario? con un’espressione malinconica, perplessa. Quando lo chiamo, i suoi occhi indugiano sullo schermo, come se non mi avesse sentito, poi li distoglie a fatica e mi guarda contrariato. Ha un piccolo orzaiolo sulla palpebra inferiore dell’occhio sinistro. Avrebbe bisogno di radersi.
«Baba, posso togliere l’audio per un secondo?»
«Sto guardando.»
«Lo so. Ma è venuto qualcuno a trovarti.» Gli avevo già parlato della visita di Pari Wahdati il giorno prima e ancora questa mattina. Ma non gli chiedo se si ricorda. Ho imparato da tempo a non metterlo alle strette, so che questo lo imbarazza e lo costringe a mettersi sulla difensiva, rendendolo talvolta aggressivo.
Prendo il telecomando sul bracciolo della poltrona e spengo l’audio, pronta ad affrontare le sue rimostranze. La prima volta che si era impuntato, ero convinta che fosse una finta, una sorta di messinscena. Questa volta mi consola che Baba si limiti a protestare soffiando dal naso.
Faccio cenno a Pari di entrare: sta aspettando in corridoio sulla soglia del soggiorno. Lentamente viene verso di noi e io avvicino una sedia alla poltrona di Baba. È agitata, un fascio di nervi, lo vedo. Siede ritta sull’orlo della sedia, pallida, piegata in avanti, con le ginocchia unite, le mani allacciate e un sorriso così tirato da sbiancarle le labbra. Tiene gli occhi incollati su Baba, come se avesse i momenti contati e volesse memorizzare il suo viso.
«Baba, questa è l’amica di cui ti ho parlato.»
Guarda la donna dai capelli grigi che gli sta di fronte. Recentemente ha un modo di osservare le persone che dà sui nervi e che non tradisce nessuna emozione, anche quando le fissa negli occhi. Sembra assente, chiuso in se stesso, come se desiderasse guardare altrove e il suo sguardo si fosse posato su di loro per caso.
Pari si schiarisce la gola. Ma anche così, quando parla la sua voce trema. «Salve, Abdullah. Mi chiamo Pari. Sono molto felice di vederti.»
Baba annuisce lentamente. Mi sembra di vedere l’incertezza e la confusione che gli scorrono sul viso, come ondate di spasmi muscolari. I suoi occhi vagano da me a Pari. Apre la bocca in un mezzo sorriso forzato, come fa quando pensa che gli si stia giocando un tiro.
«Che strano accento» dice infine.
«Vive in Francia. Baba, devi parlare in inglese. Non capisce il farsi.»
Baba fa cenno di sì con la testa. «Dunque vivi a Londra?» chiede a Pari.
«Baba.»
«Cosa?» si volta di scatto verso di me. Poi capisce e fa una risatina imbarazzata prima di passare all’inglese. «Vivi a Londra?»
«A Parigi. Vivo in un piccolo appartamento a Parigi.» Pari non stacca gli occhi da lui.
«Mi sarebbe sempre piaciuto portare mia moglie a Parigi. Sultana, così si chiamava. Che riposi in pace. Diceva sempre: Abdullah, portami a Parigi. Quando mi porti a Parigi?
In realtà, alla mamma non piaceva viaggiare. Non vedeva perché avrebbe dovuto abbandonare le comodità e l’intimità della sua casa per affrontare i disagi di un viaggio aereo e trascinarsi le valigie. Non aveva nessun senso dell’avventura gastronomica: la sua idea di cibo esotico era il pollo all’arancia del take-away cinese in Taylor Street. È incredibile come a volte Baba la evochi con fantastica precisione, ricordando, per esempio, che salava il cibo facendo saltare i grani di sale dal palmo della mano, oppure la sua abitudine di interrompere l’interlocutore quando parlava al telefono, cosa che non succedeva mai di persona, mentre altre volte è incredibilmente impreciso. Immagino che la mamma stia svanendo dalla sua mente, il suo viso si stia ritirando tra le ombre, il ricordo di lei si riduca ogni giorno che passa, scorrendo via come sabbia da un pugno. La mamma si sta trasformando in un fantasma, una conchiglia vuota che Baba si sente costretto a riempire di dettagli fittizi, di tratti del carattere inventati, come se un ricordo falso fosse comunque meglio di niente.
«È una bella città» dice Pari.
«Forse ce l’accompagnerò. Ma al momento ha il cancro. Quello che viene alle donne, come si dice, il cancro...»
«Alle ovaie» concludo.
Lo sguardo di Pari passa veloce da me a Baba.
«Più di ogni altra cosa le piacerebbe salire sulla torre Eiffel. L’hai vista?»
«La torre Eiffel?» Pari Wahdati ride. «Oh, sì. Tutti i giorni. Non posso proprio evitare di vederla.»
«Sei salita? Fino in alto?»
«Sì. Lassù è meraviglioso. Ma soffro di vertigini, perciò per me non è sempre facile. Ma sulla sommità in una bella giornata di sole si può scorgere a oltre sessanta chilometri di distanza. Naturalmente a Parigi il tempo spesso non è bello e non c’è il sole.»
Baba fa un brontolio. Pari, incoraggiata, continua a parlare della torre, quanti anni ci sono voluti per costruirla, spiega che non sarebbe dovuta rimanere a Parigi dopo l’Esposizione Universale del 1889, ma non sa leggere gli occhi di Baba, come me. Il suo sguardo non esprime altro che indifferenza. Pari non si rende conto di averlo perso, che i suoi pensieri hanno già cambiato direzione, come foglie trasportate dal vento. Si accosta a lui. «Sapevi, Abdullah, che la torre deve essere ridipinta ogni sette anni?»
«Come hai detto che ti chiami?» chiede Baba.
«Pari.»
«Questo è il nome di mia figlia.»
«Sì, lo so.»
«Avete lo stesso nome. Voi due avete lo stesso nome. Capita.» Tossisce e distrattamente gratta un piccolo strappo sul bracciolo della poltrona di pelle.
«Abdullah, posso farti una domanda?»
Baba alza le spalle.
Pari mi guarda, come per chiedermi il permesso. Con la testa le faccio cenno di continuare. Si china in avanti. «Perché hai scelto questo nome per tua figlia?»
Baba sposta lo sguardo verso la finestra, mentre con l’unghia continua a graffiare lo strappo sul bracciolo della poltrona.
«Ti ricordi, Abdullah, perché le hai dato questo nome?»
Baba scuote la testa. Si stringe il golf alla gola. Le labbra sono quasi immobili mentre sottovoce incomincia a canticchiare, un balbettio ritmico cui ricorre sempre quando è in preda all’angoscia, alla ricerca disperata di una risposta, quando tutto si confonde nell’indeterminatezza ed è travolto da una folata di pensieri sconnessi, nell’attesa spasmodica che l’oscurità si diradi.
«Abdullah? Che cos’è questo motivo?» chiede Pari.
«Niente» borbotta.
«No, la canzoncina che stai cantando... cos’è?»
Mi guarda spaesato. Non lo sa.
«È come una ninnananna» intervengo. «Ricordi, Baba? dicevi d’averla imparata da bambino. Dicevi d’averla imparata da tua madre.»
«Va bene.»
«Vuoi cantarmela?» chiede Pari con un nodo alla gola. «Per favore, Abdullah, me la canti?»
Abbassa la testa scuotendola lentamente.
«Coraggio, Baba» lo sollecito dolcemente. Poso la mano sulla sua spalla ossuta. «Prova.»
In modo esitante, con lo sguardo abbassato e un tono di voce alto e tremebondo, Baba canta gli stessi due versi diverse volte:
Ho incontrato una fatina triste
Seduta all’ombra di una betulla.
«Sostiene che ci fosse un altro verso» dico a Pari, «ma che se l’è dimenticato.»
Pari Wahdati, coprendosi la bocca, scoppia in un’improvvisa risata che ha il suono di un grido gutturale, profondo. «Ah, mon Dieu» sussurra. Alza la mano e canta in farsi:
Conosco una fatina triste
Che una notte il vento ha portato via con sé.
La fronte di Baba si copre di rughe. Per un breve attimo ho l’impressione di scoprire un barlume di luce nei suoi occhi. Ma poi il suo sguardo torna a spegnersi e il suo viso ancora una volta ritorna tranquillo. Scuote la testa. «No, no. Non mi sembra proprio che le parole siano queste.»
«Oh, Abdullah!» esclama Pari.
Sorridendo con gli occhi pieni di lacrime, Pari prende le mani di Baba tra le sue. Bacia il dorso di ciascuna mano e le porta alle guance. Lui sorride, ora anche i suoi occhi sono umidi. Pari mi guarda battendo le palpebre per respingere lacrime di felicità e capisco che pensa di essersi aperta un varco, di aver evocato il suo fratello perduto, grazie a quella magica canzoncina, come il genio di un racconto di fate. Pensa che lui la riconosca chiaramente adesso. Capirà ben presto che Baba sta solo reagendo al suo tocco caldo e alla sua dimostrazione d’affetto. È puro istinto animale, nient’altro. Lo so con dolorosa chiarezza.
Alcuni mesi prima che il dottor Bashiri mi passasse il numero di telefono di un ricovero, la mamma e io avevamo fatto una gita sulle montagne di Santa Cruz, trascorrendo il fine settimana in un albergo. Alla mamma non piacevano i viaggi lunghi, ma di tanto in tanto facevamo una breve spedizione, io e lei, prima che si ammalasse seriamente. Baba si occupava del ristorante e io e la mamma andavamo a Bodega Bay, a Sausalito o a San Francisco, dove ci fermavamo sempre in un albergo vicino a Union Square. Ci sistemavamo in stanza, chiedevamo che i pasti ci fossero serviti in camera e guardavamo i film sui canali a pagamento. Poi scendevamo al porto, la mamma abboccava a tutte le trappole per turisti, compravamo il gelato, guardavamo i leoni marini che saltavano dentro e fuori dall’acqua, non lontano dal molo. Per la strada lanciavamo monete nelle custodie aperte dei chitarristi e negli zaini dei mimi e delle figure immobili dipinte con lo spray. Visitavamo sempre il Museo d’Arte Moderna dove, tenendole un braccio attorno alla vita, le mostravo le opere di Rivera, Kahlo, Matisse, Pollock. Oppure andavamo al cinema nel primo pomeriggio, cosa che la mamma adorava, e vedevamo due o tre film; quando uscivamo era ormai buio e avevamo gli occhi stanchi, le orecchie rintronate e le dita che puzzavano di popcorn.
Con la mamma la vita era più facile, lo era sempre stata. Meno complicata, meno pericolosa. Non dovevo stare in guardia di continuo. Non dovevo badare a quello che dicevo per timore di infliggere una ferita. Svignarmela da sola con lei in quei fine settimana era come accoccolarmi in una morbida nube, e per un paio di giorni tutto ciò che mi aveva sempre preoccupato recedeva fin quasi a sparire, diventando comunque irrilevante.
Festeggiavamo la fine di un altro ciclo di chemio, che sarebbe stato anche l’ultimo. L’hotel era magnifico e isolato. C’era una spa, un centro benessere, una sala giochi con un grande schermo tv e un tavolo da bigliardo. La nostra camera era una capannuccia con un portico in legno da cui si vedeva la piscina, il ristorante e un intero bosco di sequoie che si ergevano dritte verso le nubi. Alcuni alberi erano così vicini che avresti potuto distinguere le diverse sfumature del pelo dello scoiattolo che sfrecciava sul tronco. Il mattino dopo il nostro arrivo la mamma mi svegliò dicendo: Svelta, Pari, vieni a vedere. C’era un daino che mangiucchiava i cespugli fuori dalla finestra.
Avevo spinto la sua sedia a rotelle lungo i sentieri del giardino. Devo essere uno spettacolo, aveva detto la mamma. Parcheggiata la sedia vicino alla fontana, mi ero seduta su una panchina accanto a lei con il sole che ci scaldava il viso e insieme eravamo rimaste a osservare i colibrì che saettavano tra i fiori finché la mamma si era addormentata e allora l’avevo riportata nella nostra capanna.
La domenica pomeriggio avevamo preso il tè con i croissant sulla terrazza del ristorante, che era una grande sala dal soffitto a volta, arredata con scaffali di libri, un acchiappasogni su una parete e un vero camino in pietra. A un livello inferiore un uomo con la faccia da derviscio e una ragazza dai capelli biondi e lisci giocavano una letargica partita di ping pong.
Dobbiamo fare qualcosa per queste sopracciglia, aveva detto la mamma. Indossava il cappotto invernale sopra il maglione e il berretto di lana viola che aveva lavorato a maglia un anno e mezzo prima, quando, come diceva lei, si era dato inizio alle danze.
Posso disegnarle con la matita, le avevo detto.
Allora voglio che siano melodrammatiche.
Come quelle di Elizabeth Taylor in Cleopatra?
Aveva sorriso debolmente e aveva bevuto un piccolo sorso di tè. Perché no? Il sorriso approfondiva le rughe apparse di recente sul suo viso. Quando ho conosciuto Abdullah, vendevo abiti sul marciapiedi di una strada di Peshawar. Mi disse che avevo delle sopracciglia meravigliose.
La coppia del ping pong aveva posato le racchette. Ora erano appoggiati al parapetto di legno e si passavano la sigaretta guardando il cielo, che era limpido e luminoso, non fosse che per qualche nuvola sfrangiata. La ragazza aveva lunghe braccia ossute.
Ho letto sul giornale che oggi c’è una fiera di oggetti d’arte e di artigianato a Capitola. Se te la senti, possiamo dare un’occhiata. Potremmo anche fermarci per cena, se vuoi.
Pari?
Sì.
Voglio dirti una cosa.
Ti ascolto.
Abdullah ha un fratello in Pakistan. Un fratellastro.
Mi ero voltata di scatto verso di lei.
Si chiama Iqbal. Ha dei figli. Vive in un campo profughi vicino a Peshawar.
Avevo posato la tazza iniziando a parlare, ma la mamma mi aveva interrotto.
Te lo sto dicendo, no? È questo che conta. Tuo padre ha le sue ragioni. Sono certa che potrai capirle, con il tempo. La cosa importante è che ha un fratellastro e che gli invia del denaro per dargli una mano.
Mi aveva detto che da anni ormai Baba inviava a questo Iqbal – in qualche modo mio zio, avevo pensato con una stretta allo stomaco – mille dollari ogni tre mesi; scendeva alla Western Union e spediva il denaro a una banca di Peshawar.
Perché me lo dici proprio adesso?
Perché penso che devi saperlo, anche se lui non è d’accordo. Inoltre presto dovrai occuparti tu della situazione economica della famiglia e quindi l’avresti comunque scoperto.
Voltando la testa avevo visto un gatto che, con la coda ritta, si accostava guardingo alla coppia del ping pong. La ragazza lo aveva accarezzato e il gatto in un primo momento si era irrigito, ma poi si era accovacciato sulla ringhiera, lasciando che la ragazza gli passasse le mani sulle orecchie e sul dorso. La mia mente annaspava. Avevo dei parenti che non vivevano negli Stati Uniti.
Sarai tu a tenere la contabilità ancora per molto tempo, mamma. Avevo fatto del mio meglio per mascherare il tremito della voce.
Era seguito un silenzio pesante. Poi aveva ripreso a parlare più lentamente e a voce più bassa, come quando ero piccola e dovevamo andare alla moschea per un funerale e lei si accoccolava accanto a me e pazientemente mi spiegava che dovevo togliermi le scarpe all’ingresso, che dovevo stare zitta durante le preghiere, senza muovermi, senza lamentarmi e che dovevo andare in bagno adesso per evitare di doverci andare dopo.
No, non sarò io a occuparmene. Inutile illudersi. Quando arriverà il momento, dovrai essere pronta.
Tirai un respiro profondo, con un nodo che mi stringeva la gola. Da qualche parte aveva preso a funzionare una sega elettrica, il crescendo del suo lamento in violento contrasto con il silenzio del bosco.
Tuo padre è come un bambino. Sgomento all’idea di essere abbandonato. Senza di te, Pari, perderebbe la strada e non saprebbe più tornare indietro.
Mi ero costretta a guardare gli alberi, un fiotto di luce solare cadeva sulle foglie piumose, sulla corteccia ruvida dei tronchi. Avevo messo la lingua tra gli incisivi morsicandola con forza. Gli occhi mi si erano inondati di lacrime, mentre la bocca si riempiva del sapore metallico del sangue.
Un fratello.
Sì.
Ho molte domande da farti.
Fammele stasera. Quando non sarò così stanca. Ti dirò tutto quello che so.
Avevo fatto segno di sì con la testa e avevo ingollato il resto del tè ormai freddo. A un tavolo vicino una coppia di mezza età si scambiava le pagine di un giornale. La donna, capelli rossi e viso aperto, ci stava osservando in silenzio al di sopra della pagina, i suoi occhi passavano da me alla faccia grigia di mia madre e al suo berretto, alle mani cosparse di lividi, agli occhi infossati e al sorriso da teschio. Quando avevo incrociato il suo sguardo aveva sorriso, giusto un attimo, come se condividessimo un intimo segreto e io avevo capito che anche a lei era toccata la stessa esperienza.
Allora, mamma, cosa pensi della fiera? Te la senti di andare?
Lo sguardo della mamma si era fermato su di me. I suoi occhi sembravano troppo grandi per la sua testa e la sua testa troppo grande per le sue spalle.
Potrei comprarmi un cappello nuovo, aveva detto.
Gettato il tovagliolo, avevo scostato la mia sedia e ero girata intorno al tavolo. Poi avevo tolto il freno della sedia a rotelle, iniziando a spingerla.
Pari.
Sì?
La mamma aveva rovesciato la testa all’indietro per guardarmi. Il sole filtrava tra le foglie degli alberi e le illuminava il viso con scaglie puntiformi di luce. Lo sai che Dio ti ha dato una grande forza, vero? Sai che ti ha creata forte e buona?
Non c’è modo di comprendere come funzioni la mente umana. Di tutte le migliaia e migliaia di momenti che ho condiviso con la mamma, questo è quello che brilla nel modo più luminoso, quello che vibra con la risonanza più intensa in fondo al mio cuore: lei che mi guarda, il viso alzato, e tutti quegli accecanti puntini di luce che scintillano sulla sua pelle. Lei che mi chiede se so che Dio mi ha creata forte e buona.
Dopo che Baba si è addormentato sulla poltrona a sdraio, Pari gli chiude delicatamente la cerniera del golf e tira su lo scialle per coprirgli il petto. Gli infila dietro l’orecchio una ciocca ribelle di capelli, e rimane a osservarlo per un po’ mentre dorme. Anche a me piace guardarlo quando dorme, perché in quei momenti non si vede che è malato. Con gli occhi chiusi, sparisce l’espressione vacua, lo sguardo assente, spento, e Baba sembra simile all’uomo che è sempre stato. Da addormentato sembra più vigile, più presente, come se qualcosa del suo antico io si fosse di nuovo intrufolato dentro di lui. Mi chiedo se Pari, guardandolo ora mentre riposa, possa immaginarsi com’era, come rideva.
Passiamo dal soggiorno in cucina. Prendo il bollitore dall’armadietto e lo riempio d’acqua.
«Voglio mostrarti alcune foto» dice Pari con entusiasmo. È seduta al tavolo, intenta a sfogliare un album di fotografie che ha pescato dalla valigia.
«Temo che il caffè non sia all’altezza dello standard parigino» dico versando l’acqua nella caffettiera.
«Ti assicuro che non sono una fanatica del caffè.» Si è tolta la sciarpa gialla, si è infilata gli occhiali e ora è tutta concentrata sulle immagini.
Quando la caffettiera comincia a gorgogliare, mi siedo al tavolo accanto a lei. «Ah oui. Voilà. Ecco» dice. Gira l’album spingendolo verso di me. Indica con dei colpetti una foto. «Ecco il posto. Dove tuo padre e io siamo nati. E anche nostro fratello Iqbal.»
Quando Pari mi aveva chiamata per la prima volta da Parigi, aveva accennato al nome di Iqbal, portandolo forse come prova, per convincermi che non aveva mentito sulla propria identità. Ma già sapevo che era tutto vero. Lo sapevo dal primo momento che avevo alzato il ricevitore, quando aveva pronunciato il nome di mio padre e aveva chiesto se era la sua famiglia quella con cui si era messa in contatto. Le avevo detto: Sì, chi parla? E lei aveva risposto: Sono sua sorella. Il cuore aveva preso a battermi con violenza. Avevo cercato una sedia su cui abbandonarmi, mentre il mondo attorno a me sprofondava in un silenzio assoluto. Era stato uno shock, sì, una sorta di scena madre, un evento drammatico, di quelli che si verificano raramente nella vita reale. Ma su un altro piano, un piano più fragile, che sfidava la razionalità, e la cui essenza si sarebbe disintegrata, se solo avessi provato a dargli voce, non mi sorprendeva che mi avesse chiamato. Come se mi fossi aspettata per tutta la vita che, attraverso un qualche disegno misterioso, una coincidenza, o forse semplicemente per opera del caso, del destino, o comunque si voglia chiamarlo, ci saremmo trovate, lei e io. Ero uscita con il telefono portatile nel cortile sul retro e mi ero seduta su una sedia vicino all’orto dove avevo continuato a coltivare i peperoni e le zucche giganti che aveva piantato mia madre. Sentivo il calore del sole sulla nuca mentre con mani tremanti accendevo una sigaretta.
So chi sei, avevo detto. Lo so da sempre.
C’era stato silenzio all’altro capo della linea, ma avevo avuto l’impressione che avesse allontanato la bocca dal microfono e stesse piangendo lacrime silenziose.
Avevamo parlato per quasi un’ora. Le avevo detto che sapevo cosa le era successo, le avevo raccontato di come avevo obbligato mio padre a raccontarmi la sua storia per farmi addormentare. Pari aveva detto che lei stessa ignorava quello che le era successo e che sarebbe probabilmente morta senza conoscerlo se non fosse stato per una lettera che il fratello della sua matrigna, Nabi, aveva lasciato a Kabul prima di morire, nella quale, tra l’altro, aveva narrato nel dettaglio gli avvenimenti della fanciullezza di Pari. La lettera era stata affidata a un uomo di nome Markos Varvaris, un chirurgo che lavorava a Kabul, che l’aveva cercata e l’aveva trovata a Parigi. Durante l’estate Pari era andata a Kabul e aveva incontrato Markos Varvaris che le aveva organizzato una visita a Shadbagh.
Verso la fine della conversazione avevo avuto l’impressione che si stesse facendo forza prima di dire: Bene, penso di essere pronta. Posso parlare con lui adesso?
A quel punto avevo dovuto dirglielo.
Avvicino l’album delle fotografie e scruto la foto che Pari mi sta indicando. Vedo un maniero protetto da alte mura di un bianco abbagliante, sormontate da filo spinato. O piuttosto l’idea tragicamente distorta di cosa sia una residenza signorile, un edificio alto tre piani, rosa, verde, giallo, bianco, con parapetti, torrette, cornicioni a mo’ di pagoda, mosaici e vetri a specchio da grattacielo. Uno spaventoso monumento al kitsch, che sconfina nel grottesco.
«Mio Dio» esclamo.
«C’est affreux, non?» dice Pari. «È orribile. Gli afghani chiamano queste residenze narco-palazzi. Questa appartiene a un noto criminale di guerra.»
«Ed è tutto quanto rimane di Shadbagh?»
«Del vecchio villaggio, sì. Questo edificio e molti ettari di alberi da frutto, come si dice... Des vergers.»
«Dei frutteti.»
«Sì.» Fa scorrere le dita sulla foto del grande palazzo. «Mi piacerebbe sapere dove si trovava esattamente la nostra vecchia casa, in rapporto a questo narco-palazzo. Sarei felice di conoscere il luogo esatto.»
Mi racconta della nuova Shadbagh, una vera e propria città con scuole, una clinica, un quartiere commerciale, persino un piccolo hotel, che è stata costruita a tre chilometri dal vecchio villaggio. La città sorgeva là dove Pari, con l’aiuto di un traduttore, aveva cercato il suo fratellastro. L’avevo saputo nel corso della nostra prima, interminabile, conversazione telefonica: nessuno in città sembrava conoscere Iqbal, finché Pari si era imbattuta in un suo vecchio amico d’infanzia, il quale aveva scoperto che si era accampato con la famiglia su un terreno incolto vicino al vecchio mulino a vento. Iqbal gli aveva raccontato che quando era in Pakistan riceveva del denaro dal fratello maggiore che viveva nel nord della California. Allora gli chiesi, aveva soggiunto Pari al telefono, se Iqbal gli avesse detto il nome di quel fratello e il vecchio aveva risposto che si chiamava Abdullah. E allora il resto non è stato così difficile. Voglio dire, trovare te e tuo padre.
Chiesi anche al vecchio dove fosse Iqbal ora e il vecchio mi disse che non lo sapeva. Però sembrava molto agitato e, mentre mi dava questa risposta, aveva distolto lo sguardo. E così temo che a Iqbal sia successo qualcosa di brutto.
Sfoglia altre pagine e mi mostra le fotografie dei suoi figli, Alain, Isabelle e Thierry, e altre istantanee dei suoi nipotini alle feste di compleanno, mentre posano in costume da bagno sul bordo di una piscina. Poi quelle del suo appartamento a Parigi, con le pareti azzurro pastello e le tapparelle bianche abbassate, gli scaffali di libri. Il suo caotico ufficio all’università dove aveva insegnato matematica, prima che l’artrite reumatoide la costringesse al pensionamento.
Continuo a sfogliare le pagine dell’album, mentre Pari completa le foto con delle didascalie verbali: la sua vecchia amica Colette, Albert, il marito di Isabelle, suo marito Eric, che era un drammaturgo ed era morto d’infarto nel 1997. Mi soffermo su una foto che li raffigura, incredibilmente giovani, seduti su dei cuscini color arancio in una specie di ristorante, lei con una camicetta bianca, lui con una T-shirt e i capelli lunghi e lisci, raccolti a coda di cavallo.
«La sera che ci siamo conosciuti» dice Pari. «È stato un incontro combinato.»
«Aveva una faccia simpatica.»
«Sì. Quando ci siamo sposati ho pensato che avremmo avuto tanto tempo per stare insieme. Dentro di me pensavo: Trent’anni, forse quaranta. Cinquanta, se siamo fortunati. Perché no?» Fissa la foto, perduta nei suoi pensieri, poi con un pallido sorriso continua: «Ma il tempo è come il fascino. Non ne hai mai quanto vorresti». Spinge l’album verso di me e beve un sorso di caffè. «E tu? Non ti sposi?»
Faccio spallucce e volto un’altra pagina. «C’è stata una prova generale.»
«Che cosa intendi con prova generale?»
«Che sono stata lì lì per farlo. Ma non siamo mai arrivati alla fase dell’anello.»
Non è vero. È stata una storia penosa e ingarbugliata. Persino ora, il solo ricordo mi procura una leggera fitta di dolore.
Pari abbassa la testa. «Scusami. Sono stata molto indiscreta.»
«No. Non preoccuparti. Lui ha trovato una donna più bella e... con meno obblighi di me, penso. A proposito di bellezza, chi è questa?»
Indico una donna straordinariamente bella, con lunghi capelli scuri e grandi occhi. Nella foto tiene in mano una sigaretta con aria annoiata, il gomito appoggiato al fianco, la testa sollevata in modo noncurante, ma il suo è uno sguardo di sfida, penetrante.
«Questa è Maman. Mia madre, Nila Wahdati. O meglio, quella che pensavo fosse mia madre.»
«È splendida.»
«Lo era. Si è suicidata. Nel 1974.»
«Mi spiace.»
«Non, non. Non è il caso.» Passa distrattamente il pollice sulla foto. «Maman era elegante e piena di talento. Era colta e molto convinta delle proprie opinioni, che non si peritava di elargire sempre a chiunque. Ma era anche profondamente triste. Mi ha messo in mano una pala e per tutta la vita mi ha detto: Riempi i buchi della mia anima, Pari.»
Credo di capire, in parte.
«Ma non ne ero capace. E poi mi sono rifiutata. Mi sono comportata in modo sconsiderato, incosciente.» Torna a sedersi tenendo le spalle curve, con le mani bianche in grembo. Riflette un attimo prima di dire: «J’aurais dû être plus gentille. Avrei dovuto essere più considerata. Non ci si pente mai dell’attenzione che diamo agli altri. Se uno si comporta così, da vecchio non dovrà rimproverarsi di non essere stato sufficientemente buono con qualcuno». Per un attimo ha un’espressione afflitta. È come una scolaretta inerme. «Non sarebbe stato così difficile essere più gentile» dice con stanchezza. «Più simile a te.»
Con un sospiro triste chiude l’album delle fotografie. Dopo un attimo di silenzio dice quasi con allegria: «Ah bon. Vorrei farti una domanda».
«Prego.»
«Mi puoi far vedere qualcuno dei tuoi quadri?»
Ci scambiamo un sorriso.
Pari rimane con noi un mese. Il mattino facciamo colazione insieme in cucina. Caffè e pane tostato per lei, yogurt per me e uova fritte sul pane per Baba, il suo cibo preferito da un po’ di tempo. Ero preoccupata che mangiare tutte quelle uova gli avrebbe alzato il livello di colesterolo, e ne avevo parlato al dottor Bashiri durante una delle sue visite, ma lui, con uno di quei suoi sorrisi a labbra strette, mi aveva detto: Oh di questo non mi preoccuperei. E le sue parole mi avevano sollevato, almeno sino a quando, qualche minuto dopo, nell’aiutare Baba ad allacciare la cintura di sicurezza, avevo pensato che forse quello che in realtà il dottor Bashiri aveva voluto dire era che ormai quello non era certo il problema più rilevante.
Dopo colazione mi ritiro nel mio ufficio, che coincide con la mia camera da letto, e Pari tiene compagnia a Baba mentre lavoro. Su sua richiesta le ho scritto l’orario dei programmi tv che gli piacciono, a che ora deve dargli le pillole di metà mattina, quali sono gli spuntini che preferisce e quando è probabile che ne faccia richiesta. È stata un’idea di Pari che io mettessi tutto questo per iscritto.
Potresti fare un salto in camera mia a chiedermelo.
Non voglio disturbarti. E poi voglio sapere tutto di lui.
Non le dico che non riuscirà mai a conoscerlo come lei desidera. Tuttavia le insegno alcuni trucchi. Per esempio, se Baba incomincia ad agitarsi, di solito, ma non sempre, riesco a calmarlo, per ragioni che ancora mi sfuggono, mettendogli subito davanti un catalogo dei prodotti ordinabili per posta oppure un opuscolo pubblicitario di mobili in saldo. Ne tengo una nutrita scorta sia degli uni che degli altri.
Se vuoi che faccia un pisolino, sintonizzati sul canale delle previsioni del tempo o su un qualsiasi programma di golf. E non fargli mai vedere dei programmi di cucina.
Perché no?
Non so perché, ma lo agitano.
Dopo pranzo usciamo tutti e tre per una passeggiata. Stiamo fuori poco, sia perché Baba si stanca presto, sia per via dell’artrite di Pari. Baba ha uno sguardo circospetto, cammina sul marciapiedi tra me e Pari, ansimante, barcollando, con il suo vecchio berretto dalla tesa corta, il golf di lana e i mocassini foderati di lana. C’è una scuola media dietro l’angolo, con un campo di calcio mal tenuto e in fondo un piccolo campo giochi dove porto spesso Baba. Incontriamo sempre un paio di giovani madri, con le carrozzine parcheggiate accanto, un bambino che gattona nel recinto della sabbia, e di tanto in tanto una coppia di adolescenti che hanno marinato la scuola e ora gironzolano pigramente e fumano. Guardano raramente Baba, gli adolescenti, e quando i loro occhi lo intercettano hanno un’espressione di fredda indifferenza o persino di sottile fastidio, come se mio padre fosse responsabile di aver permesso alla vecchiaia e al decadimento di aggredirlo.
Un giorno, interrompo il lavoro e, nell’andare in cucina a farmi un altro caffè, trovo i due che stanno guardando un film. Baba sulla poltrona a sdraio, i mocassini che spuntano da sotto lo scialle, la testa china in avanti, la bocca leggermente aperta, le sopracciglia aggrottate per la concentrazione o per lo smarrimento. E Pari, seduta accanto a lui, le mani intrecciate in grembo, le gambe incrociate alle caviglie.
«Chi è questa?» chiede Baba.
«È Latika.»
«Chi?»
«Latika, la bambina degli slum. Quella che non è riuscita a saltare sul treno.»
«Non sembra una bambina.»
«È vero, ma sono passati tanti anni» spiega Pari. «Ora è più grande, capisci?»
Un giorno, la settimana prima, al campo giochi, eravamo seduti su una panchina del parco, tutti e tre, e Pari aveva chiesto: Abdullah, ti ricordi che da ragazzo avevi una sorellina?
Non aveva terminato la frase che Baba aveva cominciato a piangere. Pari gli aveva preso la testa fra le mani e l’aveva stretta a sé, ripetendo più e più volte: Mi spiace, mi spiace tanto. Poi, presa dal panico, gli aveva asciugato le guance con le mani, ma Baba continuava a singhiozzare in modo così violento da rischiare di soffocare.
«E sai chi è questo, Abdullah?»
Baba borbotta qualcosa.
«È Jamal. Il ragazzo del quiz televisivo.»
«Non è vero» dice Baba in modo sgarbato.
«Perché?»
«Sta servendo il tè!»
«Sì, ma questo è accaduto prima. È un episodio del passato. Un...»
Flashback, mormoro dentro la mia tazza di caffè.
«Il quiz si svolge adesso, Abdullah. Il tè, Jamal lo serviva prima.»
Baba batte le palpebre con aria vacua. Sullo schermo, Jamal e Salim sono seduti su un grattacielo di Mumbai, i piedi che dondolano nel vuoto.
Pari lo osserva, come se aspettasse il momento in cui un lampo di comprensione sarebbe balenato nei suoi occhi. «Senti, Abdullah. Se un giorno dovessi vincere un milione di dollari, cosa faresti?» gli chiede.
Baba fa delle smorfie, movendosi inquieto, poi si allunga ancora di più sulla poltrona a sdraio.
«Io so cosa farei» dice Pari.
Baba la guarda con indifferenza.
«Se vincessi un milione di dollari, comprerei una casa in questa strada. Così saremmo vicini, tu e io, e ogni giorno verrei qui e guarderemmo insieme la tv.»
Baba sorride.
Ma solo qualche minuto dopo, io sono già tornata nella mia stanza, ho messo gli auricolari e sto battendo sulla tastiera, sento un forte rumore di vetri rotti e Baba che grida qualcosa in farsi. Mi strappo gli auricolari e mi precipito in cucina. Vedo Pari contro la parete dove è installato il microonde, che si protegge il mento con le mani e Baba, con gli occhi spiritati, che la picchia sulla spalla con il bastone. Un mucchietto di frammenti di vetro, avanzi di bicchieri rotti, brilla ai loro piedi.
«Mandala via di qui!» grida Baba, quando mi vede. «Voglio che questa donna se ne vada da casa mia!»
«Baba!»
Pari è impallidita. I suoi occhi sono pieni di lacrime.
«Metti giù quel bastone, per amor del cielo. E non muoverti. Ti taglierai i piedi.»
Riesco a strappargli il bastone di mano, ma solo dopo una dura lotta.
«Voglio che questa donna se ne vada! È una ladra!»
«Cosa dice?» mi chiede Pari con aria infelice.
«Mi ha rubato le pillole!»
«Sono sue, Baba.» Gli poso una mano sulla spalla e lo accompagno fuori dalla cucina. Sento che trema. Quando passiamo davanti a Pari, per poco non l’aggredisce di nuovo e io devo trattenerlo. «Adesso basta, Baba. Quelle pillole sono sue, non tue. Le prende per le mani.» Mentre lo accompagno verso la sua poltrona afferro al volo dal tavolino uno dei suoi cataloghi.
«Non mi fido di quella donna» dice Baba, lasciandosi cadere sulla poltrona. «Tu non capisci, ma io sì. Io so riconoscere i ladri!» Ansima mentre mi strappa di mano il catalogo e prende a sfogliarlo come un matto. Poi lo sbatte sulle ginocchia e mi guarda inarcando le sopracciglia. «E per di più è una maledetta bugiarda. Sai cosa mi ha detto quella donna? Sai cosa mi ha detto? Che è mia sorella! Mia sorella! Aspetta che Sultana senta questa storia.»
«Va bene, Baba. Glielo diremo insieme.»
«È una pazza.»
«Lo diremo alla mamma, ci rideremo sopra e poi butteremo questa pazza fuori casa. Ora rilassati, Baba. Va tutto bene. Ecco.»
Accendo il canale delle previsioni del tempo e mi siedo accanto a lui, gli accarezzo la spalla finché smette di tremare e il suo respiro torna calmo. In meno di cinque minuti si appisola.
Tornata in cucina trovo Pari sul pavimento con la schiena appoggiata alla lavastoviglie. È scossa e si asciuga gli occhi con un fazzoletto di carta.
«Mi spiace immensamente. È stata un’imprudenza da parte mia.»
«Non preoccuparti» la tranquillizzo cercando sotto il lavandino la paletta e lo scopino. Sparse sul pavimento, in mezzo ai cocci di vetro, trovo delle piccole pillole rosa e arancio. Le raccolgo una per una e spazzo via i vetri dal linoleum.
«Je suis une imbecille. Volevo dirgli tante cose. Ho pensato che forse se gli avessi detto la verità... non so cosa avessi in mente.»
Getto i vetri rotti nel bidone della spazzatura. Mi inginocchio, scosto il collo della camicia di Pari e controllo la spalla su cui Baba l’ha picchiata. «Ti verranno dei lividi. E parlo per esperienza, te l’assicuro.» Mi siedo sul pavimento accanto a lei.
Apre la mano e io ci verso dentro le pillole. «Gli capita spesso di essere così?»
«Ci sono giornate in cui è arrabbiato come un cane.»
«Non hai mai pensato di cercare un aiuto professionale?»
Sospiro. Negli ultimi tempi ho pensato molto all’inevitabile mattino quando mi sveglierò in una casa vuota, mentre Baba, rannicchiato in un letto sconosciuto, fisserà il vassoio della colazione che gli verrà offerto da un estraneo. Baba che, accasciato dietro il tavolo di una sala comune, si addormenta di botto.
«Lo so. Ma non è ancora il momento. Voglio prendermi cura di lui il più a lungo possibile.»
Pari sorride e si soffia il naso. «Lo capisco.»
Non ne sono sicura. Non le dico tutta la verità. La racconto a malapena a me stessa. Cioè che ho paura di essere libera, nonostante lo desideri spesso. Paura di ciò che mi succederà, di quello che farò di me stessa quando Baba non ci sarà più. Per tutta la vita sono vissuta come un pesce in un acquario, dentro la frontiera rassicurante di una vasca di vetro, dietro una barriera tanto impenetrabile quanto trasparente. Sono libera di osservare il mondo che balugina all’esterno e di immaginare di farne parte, se mi fa piacere. Ma da sempre vivo come una reclusa, accerchiata dai rigidi, inflessibili confini dell’esistenza che mio padre ha costruito per me, dapprima coscientemente, quando ero una ragazza, e poi involontariamente ora che si va spegnendo di giorno in giorno. Penso di essermi abituata alla vasca di vetro e sono terrorizzata all’idea che, quando si romperà, quando sarò sola, precipiterò nell’ignoto che mi si spalancherà davanti, impotente, sperduta, annaspando nel tentativo di respirare.
La verità che raramente ammetto è che da sempre ho bisogno del peso di Baba sulle spalle.
Perché avrei così prontamente rinunciato al mio sogno di frequentare una scuola d’arte, quasi senza opporre resistenza quando Baba mi aveva chiesto di non andare a Baltimora? Perché ho lasciato Neal, l’uomo con cui ero fidanzata qualche anno fa? Era proprietario di una piccola azienda per l’installazione di pannelli solari. Aveva un viso quadrato, segnato, che mi era piaciuto dal primo momento che l’avevo visto alla Abe’s Kabob House, quando gli avevo chiesto cosa voleva ordinare e lui aveva alzato gli occhi dal menu e mi aveva sorriso. Era paziente, cordiale, di buon carattere. Non è vero quello che ho detto a Pari. Neal non mi ha lasciata per una donna più bella. Sono io che ho sabotato il nostro rapporto. Persino quando mi promise di convertirsi all’Islam, di prendere lezioni di farsi, io trovai altri impedimenti, altri pretesti. Finii per essere terrorizzata e tornai di corsa negli anfratti familiari, nelle nicchie e negli interstizi della mia vita domestica.
Accanto a me, Pari lentamente si alza. La osservo lisciarsi il vestito stropicciato e di nuovo mi chiedo stupita per quale miracolo sia qui, a qualche centimetro da me. «Voglio farti vedere una cosa» dico.
Mi alzo e vado nella mia camera. Una delle conseguenze di non aver mai lasciato la casa dei genitori è che nessuno ha mai fatto un radicale repulisti nella tua vecchia stanza, ha portato i giocattoli a una vendita di beneficenza o ha regalato gli abiti che sono diventati piccoli. So che per essere una donna vicina ai trent’anni, conservo troppe reliquie di quando ero bambina, la maggior parte stipate in una grande cassa ai piedi del letto. Alzo il coperchio. Dentro ci sono vecchie bambole, il pony rosa con la criniera che potevo pettinare, i libri illustrati, tutti i biglietti d’auguri di compleanno e di San Valentino che avevo preparato per i miei genitori alle elementari con sopra fagioli bianchi, lustrini e stelline luccicanti. L’ultima volta che abbiamo parlato, Neal e io, prima di rompere, lui mi ha detto: Non posso aspettarti, Pari. Non starò ad aspettare che tu cresca.
Chiudo il coperchio e torno in soggiorno dove Pari si è sistemata sul divano di fronte a Baba. Mi siedo accanto a lei.
«Ecco» dico, passandole una pila di cartoline.
Prende gli occhiali dal tavolino e toglie l’elastico che raccoglie le cartoline. Guardando la prima aggrotta la fronte. È una foto di Las Vegas, del Caesars Palace di notte, tutto uno scintillio di luci. Gira la cartolina e legge ad alta voce lo scritto.
21 luglio 1992
Cara Pari,
non puoi immaginarti il caldo che fa qui. Oggi Baba si è scottato quando ha posato la mano sul cofano della macchina che abbiamo noleggiato! La mamma ha dovuto mettergli del dentifricio sulla vescica. Nel Caesars Palace ci sono soldati romani con spade, elmi e cappe rosse. Baba voleva che la mamma si lasciasse fotografare con loro, ma lei si è rifiutata. Io invece l’ho fatto e ti mostrerò la foto quando torno a casa. Questo è tutto per il momento. Mi manchi. Vorrei che tu fossi qui.
Pari.
P.S. Mentre ti scrivo sto mangiando uno stupendo gelato ricoperto di panna montata.
Passa alla cartolina successiva. Il castello Hearst. Legge sottovoce. Questo tipo aveva uno zoo privato! Bello, no? Canguri, zebre, antilopi, cammelli battriani (quelli con due gobbe!). Poi a una di Disneyland, Topolino con il cappello da mago che agita la bacchetta magica. La mamma ha fatto un urlo quando l’impiccato è caduto dal soffitto! Avresti dovuto sentirla! E il lago Tahoe. La Jolla Cove, Big Sur. 17-Mile Drive. Muir Woods. Mi manchi. Ti saresti divertita. Vorrei che fossi qui.
Vorrei che fossi qui.
Pari si toglie gli occhiali. «Scrivevi cartoline a te stessa?»
Scuoto la testa. «A te.» Rido. «Non è imbarazzante?»
Pari posa le cartoline sul tavolino e si stringe a me. «Raccontami.»
Mi guardo le mani e faccio girare l’orologio attorno al polso. «Fingevo che fossimo sorelle gemelle, tu e io. Nessuno ti vedeva tranne me. Ti dicevo tutto, tutti i miei segreti. Per me tu eri reale, e sempre vicina. Mi sentivo meno sola perché c’eri tu. Come se fossi il mio doppio. Capisci cosa intendo?»
Un sorriso si accende nei suoi occhi. «Sì.»
Mi immaginavo che fossimo due foglie, portate dal vento a distanza di chilometri, e tuttavia legate dal profondo groviglio delle radici dell’albero dal quale eravamo cadute.
«Per me era il contrario» dice Pari. «Tu dici che sentivi una presenza, io invece intuivo soltanto un’assenza. Un dolore vago, senza una fonte. Ero come il paziente che non sa spiegare al medico dove gli fa male, sa solo dire che gli fa male.» Posa la sua mano sulla mia e per un minuto restiamo entrambe in silenzio.
Dalla sua poltrona Baba si lamenta e si agita.
«Mi spiace davvero» dico.
«Di cosa?»
«Che ci siamo trovate troppo tardi.»
«Ma ci siamo trovate, no?» dice con la voce rotta dall’emozione. «E lui è così adesso. Pazienza. Sono felice lo stesso. Ho trovato una parte di me che avevo perduto.» Mi stringe la mano. «E ho trovato te, Pari.»
Le sue parole fanno riaffiorare i miei desideri infantili. Ricordo che quando mi sentivo sola sussurravo il suo nome, il nostro nome, e, trattenendo il respiro aspettavo un’eco, certa che un giorno avrebbe risposto. Sentendo Pari che pronuncia il mio nome ora, in questo soggiorno, è come se tutti gli anni che ci hanno diviso si sovrapponessero l’uno sull’altro, più e più volte, come se il tempo si ripiegasse su se stesso, riducendosi a una fotografia, o una cartolina, e riportando la reliquia più luminosa della mia fanciullezza a sedere accanto a me, a tenermi la mano e a pronunciare il mio nome. Il nostro nome. Sento che qualcosa si muove per ritrovare il proprio posto. Qualcosa che si è spezzato tanto tempo fa e che ora si sta ricomponendo. E sento un dolce rollio in petto, il palpito attutito di un altro cuore che ricomincia a battere accanto al mio.
Sulla poltrona Baba si mette seduto sostenendosi sui gomiti. Si strofina gli occhi, ci guarda. «Che cosa state complottando, ragazze?»
Sorride.
Un’altra ninnananna. Questa parla del ponte di Avignone. Pari canticchia a bocca chiusa il motivo, poi mi recita i versi:
Sur le pont d’Avignon,
L’on y danse, l’on y danse,
Sur le pont d’Avignon
L’on y danse tout en rond.
«Maman me l’ha insegnata quando ero piccola» dice stringendo il nodo della sciarpa al sopraggiungere di una violenta folata di vento. È una giornata gelida, ma il cielo è turchino e il sole forte. Colpisce gli argini grigio metallo del Rodano e si frange sulla sua superficie in piccole scaglie lucenti. «Tutti i bambini francesi conoscono questa canzoncina.»
Siamo sedute su una panchina di fronte all’acqua. Mentre Pari traduce le parole, io guardo ammirata la città al di là del fiume. Avendo scoperto da poco la mia storia, sono intimorita nel trovarmi in un luogo così impregnato di storia, tutta documentata, conservata. È un miracolo. Tutto ciò che riguarda questa città è miracoloso. Mi meravigliano la limpidezza dell’aria, il vento che si abbatte sul fiume, scaraventando l’acqua contro i ciglioni di pietra, la pienezza opulenta della luce il cui brillio sembra provenire da ogni direzione. Dalla panchina del parco vedo i vecchi contrafforti che circondano il centro dell’antica città e l’intrico delle sue strade strette e tortuose, la torre occidentale della cattedrale, la statua dorata della Vergine Maria che scintilla sulla sommità.
Pari mi racconta la storia del ponte. Nel XII secolo, un giovane pastore che sosteneva di aver ricevuto dagli angeli l’ordine di costruire un ponte sul fiume, aveva dimostrato la verità della sua affermazione sollevando un masso enorme e scagliandolo nell’acqua. Mi racconta dei barcaioli del Rodano che erano saliti sul ponte per onorare il loro patrono, san Nicola. E di tutte le piene che nel corso dei secoli hanno corroso gli archi facendoli crollare. Dice queste cose in fretta, con la medesima energia nervosa che aveva dimostrato il mattino quando mi aveva accompagnato in visita al palazzo gotico dei papi. Si era tolta le cuffie dell’audioguida per indicarmi un affresco, toccandomi il gomito per attirare la mia attenzione su un interessante intaglio, una vetrata colorata, o sui costoloni che si intersecavano sopra la nostra testa.
All’esterno del Palazzo dei Papi, Pari aveva parlato quasi senza prendere fiato, snocciolando i nomi di tutti i santi, i papi e i cardinali, mentre passeggiavamo nella piazza della cattedrale fra nugoli di colombi, turisti, ambulanti africani con le loro tuniche variopinte che vendevano braccialetti e orologi taroccati, il musicista occhialuto seduto sulla cassetta di mele, che suonava Bohemian Rhapsody sulla sua chitarra elettrica. Non era stata così loquace quando era venuta in visita negli Stati Uniti e mi sembra una tattica dilatoria, come se stesse girando attorno alla cosa che le preme di fare, che faremo assieme, e tutte queste parole fungessero da ponte.
«Ma tra poco vedrai un vero ponte. Quando saranno arrivati tutti, andremo insieme al Pont du Gard. Lo conosci? No? Oh là là. C’est vraiment merveilleux. L’hanno costruito i romani nel I secolo per portare l’acqua dalle fontane di Eure a Nîmes. Cinquanta chilometri! È un capolavoro d’ingegneria, Pari.»
Sono in Francia da quattro giorni, da due ad Avignone. Pari e io abbiamo preso il TGV in una Parigi gelida, nuvolosa, e siamo scese dal treno sotto un cielo limpido, un vento tiepido e un coro di cicale che frinivano su ogni albero. Alla stazione, in una confusione pazzesca ero riuscita a stento a tirar giù il mio bagaglio e saltare dal treno un attimo prima che le porte si chiudessero con un sibilo alle mie spalle. Prendo un appunto mentale: racconterò a Baba che, altri tre secondi, e sarei finita a Marsiglia.
Come sta? aveva chiesto Pari a Parigi durante la corsa in taxi dall’aeroporto Charles De Gaulle al suo appartamento.
Sempre più vicino alla meta, dico.
Baba vive in una casa di riposo, adesso. Quando ero andata per la prima volta a vedere com’era il posto e la direttrice, Penny, una donna alta, fragile con i capelli ricci biondo-rossi, mi aveva fatto fare un giro, avevo pensato, non è così male.
Poi l’avevo ripetuto ad alta voce. Non è così male.
Il posto era pulito, con le finestre che si affacciavano su un giardino dove, mi aveva detto Penny, prendevano il tè ogni mercoledì alle 16.30. L’atrio profumava leggermente di cannella e di pino. Il personale, che ora conosco per nome, sembrava cortese, paziente, competente. Mi ero immaginata delle vecchie con la faccia devastata e i peli sul mento, che sbavavano e parlavano da sole, incollate allo schermo della televisione. Ma la maggior parte dei residenti non erano tanto vecchi. Molti non erano neppure in sedia a rotelle.
Pensavo peggio.
Davvero? Aveva detto Penny con una gradevole risata professionale.
Scusi, non intendevo offenderla.
Non c’è di che. Siamo consapevoli dell’idea che la maggior parte delle persone ha di questi luoghi. Naturalmente, aveva aggiunto con una punta di sobria prudenza, questa è la zona residenziale assistita. Giudicando da quanto mi ha detto di suo padre, non sono sicura che si troverebbe bene qui. Immagino che il reparto che si prende cura di chi ha perso la memoria sarebbe più adatto a lui. Eccoci.
Aveva aperto la porta usando un badge. La sezione chiusa a chiave non profumava di cannella o di pino. Mi si era rivoltato lo stomaco e il primo istinto era stato quello di girare i tacchi e andarmene. Penny mi aveva messo una mano sul braccio, stringendolo e guardandomi con grande tenerezza. Era stata una lotta continuare la visita, distrutta com’ero da un immenso senso di colpa.
La mattina prima di partire per l’Europa ero andata a trovare Baba. Avevo attraversato l’atrio dell’area residenziale assistita e avevo salutato Carmen, che viene dal Guatemala e lavora al centralino. Poi ero passata dalla sala comune dove un pubblico di residenti stava ascoltando un quartetto d’archi di studenti di scuola superiore in abito nero, dalla sala polifunzionale con i suoi computer, scaffali di libri e giochi di domino e avevo superato il giornale murale con il suo dispiegamento di informazioni e annunci. Sapevi che la soia può ridurre il tasso di colesterolo? Non dimenticare i Puzzle e l’Ora di meditazione questo martedì mattina alle 11!
Ero entrata nel reparto chiuso a chiave. Da questa parte della porta non si prende il tè in giardino e non si gioca a bingo. Nessuno qui inizia la sua giornata con il tai chi. Ero entrata nella stanza di Baba, ma lui non c’era. Il letto era stato rifatto, la tv spenta e sul comodino c’era un mezzo bicchiere d’acqua. Mi ero sentita un po’ sollevata. Detesto trovare Baba sdraiato sul fianco nel letto d’ospedale, la mano infilata sotto il guanciale, gli occhi infossati che mi guardano vacui.
Lo avevo trovato nella sala di ricreazione, sprofondato nella sedia a rotelle, vicino alla finestra che si apre sul giardino. Indossava il pigiama di flanella e il suo solito berretto. Il grembo era coperto da quello che Penny chiama il “grembiule dinamico”, un arnese dotato di fettucce che Baba può intrecciare e di bottoni che gli piace allacciare e slacciare. Penny dice che questa attività gli mantiene le dita agili.
Gli avevo dato un bacio sulla guancia e avevo avvicinato una sedia. Era stato rasato e pettinato con cura. La sua faccia profumava di saponetta.
Domani è il grande giorno. Andrò a Parigi a trovare Pari. Ti ricordi che te l’avevo detto?
Baba aveva battuto le palpebre. Ancora prima del colpo apoplettico aveva iniziato a chiudersi, a cadere in lunghi silenzi, ad assumere un’aria sconsolata. Dopo l’ictus la sua faccia è diventata una maschera, la bocca perpetuamente bloccata in un sorrisino storto, garbato, che non sale mai agli occhi. Da allora non ha detto una sola parola. A volte le sue labbra si schiudono e ne esce un suono rauco, l’esalazione di un respiro, una sorta di Aaaah, con un risvolto interrogativo alla fine che sembra denotare sorpresa, come se le mie parole avessero avuto l’impatto di una piccola rivelazione.
Ci incontriamo a Parigi e poi prenderemo il treno per Avignone. È una città nel sud della Francia. È là che sono vissuti i papi nel xiv secolo. Così faremo del turismo. Ma la cosa straordinaria è che Pari ha parlato ai suoi figli della mia visita e loro verranno a trovarci.
Baba non aveva smesso di sorridere, come sorrideva quando Héctor era venuto a trovarlo la settimana prima, o come quando gli ho mostrato la mia domanda d’iscrizione al College of Arts and Humanities dello stato di California.
Tua nipote Isabelle e suo marito Albert hanno una casa di campagna in Provenza, vicino a Les Baux. L’ho cercata online, Baba. È una città incredibile. È costruita sui picchi di calcare della catena delle Alpilles. Lassù si possono visitare le rovine di un antico castello medievale e si può ammirare la pianura piena di frutteti. Farò un sacco di fotografie e te le mostrerò al mio ritorno.
Vicino a noi una vecchia in accappatoio spostava soddisfatta i pezzi di un puzzle da una parte all’altra. Al tavolo accanto un’altra donna con vaporosi capelli bianchi stava cercando di sistemare forchette, cucchiai e coltelli del burro nel cassetto delle posate. Sul grande schermo tv appeso in un angolo, due tipi stavano litigando, i loro polsi bloccati insieme da un paio di manette.
Baba aveva detto Aaaah.
Alain, uno dei tuoi nipoti, e sua moglie Ana verranno dalla Spagna con i loro cinque figli. Non conosco tutti i loro nomi, ma sono sicura che li imparerò. E poi, e questa è la cosa che rende Pari veramente felice, verrà anche un altro tuo nipote, Thierry, il suo figlio minore. Non lo vede da anni. Non si parlano. Lavora in Africa, ma prenderà un permesso e ci raggiungerà. Sarà dunque una grande riunione di famiglia.
Prima di lasciarlo l’avevo baciato ancora sulla guancia. Ero rimasta qualche istante con la faccia contro la sua, ricordando quando Baba veniva a prelevarmi al giardino d’infanzia e andavamo insieme da Denny a prendere la mamma alla fine della sua giornata di lavoro. Ci sedevamo in un chiosco aspettando che lei timbrasse il cartellino e io mangiavo la pallina di gelato che il padrone non mancava di offrirmi e mostravo a Baba i disegni che avevo fatto a scuola quel giorno. Lui li osservava pazientemente, facendo segno di sì con la testa, assorto in un’analisi attenta.
Baba aveva reagito con quel suo sorrisetto.
Ah, per poco dimenticavo.
Mi ero chinata recitando il nostro consueto rituale di saluto, facendo scivolare la punta delle dita dalle guance, alla fronte rugosa, fino alle tempie, sopra i capelli grigi che andavano diradandosi e le piccole spelature dietro le orecchie, strappando dalla sua testa man mano tutti i brutti sogni. Poi avevo aperto il sacco immaginario, lasciandovi cadere gli incubi e avevo stretto la funicella.
Ecco fatto.
Baba aveva emesso un suono gutturale.
Sogni d’oro, Baba. Ci vediamo tra due settimane. Avevo pensato che non eravamo mai stati lontani così a lungo.
Mentre mi allontanavo avevo avuto la chiara impressione che Baba mi stesse osservando, ma quando mi ero voltata per accertarmene, teneva la testa china e stava giocherellando con i bottoni del suo grembiule dinamico.
Pari sta ora parlando della casa di Isabelle e di Albert. Mi ha mostrato le foto. È un bella fattoria provenzale in pietra che hanno restaurato, sulle colline del Luberon, all’esterno, con alberi da frutto e un pergolato sulla porta d’ingresso e, all’interno, mattonelle di cotto e travi a vista.
«Nella foto non si vede, ma c’è un panorama fantastico sui monti di Vaucluse.»
«Ci staremo tutti? Siamo in tanti per una fattoria.»
«Plus on est de fous, plus on rit» dice. «Come si dice, tanti è bello!»
«Più si è più si sta allegri.»
«Ah voilà. C’est ça.»
«E i bambini, dove saranno...?»
«Pari?»
«Sì?»
Fa un lunghissimo sospiro. «Adesso me lo puoi dare.»
Apro la borsa che ho posato ai miei piedi.
Immagino che avrei dovuto trovarlo mesi fa quando ho portato Baba alla casa di riposo. Ma quando stavo preparando i suoi bagagli, avevo preso la valigia che stava sopra le altre due nello sgabuzzino in corridoio ed ero riuscita a ficcarci dentro tutti i suoi vestiti. Alla fine mi ero fatta forza e avevo sgomberato la stanza da letto dei miei genitori. Avevo stappato la vecchia carta da parati e ridipinto le pareti. Avevo portato fuori il loro grande letto matrimoniale, la toilette di mia madre con lo specchio ovale, svuotato l’armadio con gli abiti di mio padre, le camicette e i vestiti della mamma, ancora nelle custodie di plastica. Avevo impilato tutto in garage, pronto per essere portato con un paio di viaggi a una vendita di beneficenza. Avevo trasportato la mia scrivania nella loro camera che ora uso come ufficio e come studio, quando in autunno cominceranno le lezioni. Avevo svuotato anche la cassa ai piedi del mio letto, buttando in un sacco dell’immondizia tutti i miei giocattoli, gli abiti di quando ero bambina, i sandali e le scarpe da tennis logore. Non sopportavo più di vedere i biglietti d’auguri per le varie occasioni, compleanni, giornate della mamma e del papà, che avevo preparato per i miei genitori. Non potevo dormire la notte, sapendo che erano là, ai miei piedi. Era troppo doloroso.
Mentre svuotavo lo sgabuzzino in corridoio, mentre tiravo fuori le altre due valigie per sistemarle in garage, avevo sentito un tonfo. Aperta la cerniera della valigia da cui era venuto il rumore vi avevo trovato un pacchetto, avvolto in carta da pacchi. Sopra era stata fissata con del nastro adesivo una busta, sulla quale erano scritte in inglese le parole: Per mia sorella Pari. Avevo subito riconosciuto la scrittura di Baba che mi era familiare da quando lavoravo alla Abe’s Kabob House e raccoglievo le ordinazioni che lui scribacchiava accanto alla cassa.
Ora passo il pacchetto a Pari. Non l’ho aperto.
Lo posa sulle ginocchia, lo fissa facendo scorrere le mani sulle parole scarabocchiate sulla busta. Dall’altra parte del fiume incominciano a suonare le campane delle chiese. Su uno scoglio che spunta dall’acqua un uccello sta beccando le interiora di un pesce morto.
Pari fruga nella borsa, rovistando nel suo contenuto. «J’ai oublié mes lunettes. Ho dimenticato gli occhiali.»
«Vuoi che te lo legga io?»
Cerca di strappare la busta dal pacchetto, ma oggi non è una buona giornata per le sue mani e dopo qualche tentativo finisce per passarmelo. Stacco la busta e la apro. Spiego il foglio infilato dentro.
«È scritto in farsi.»
«Ma tu lo sai leggere, no?» dice Pari con le sopracciglia aggrottate per la tensione. «Puoi tradurmelo.»
«Sì» rispondo, sentendo nascere dentro di me un piccolo sorriso di gratitudine, anche se tardiva, per tutti i martedì pomeriggio che Baba mi aveva accompagnato a Campbell per la lezione di farsi. Penso a lui, consunto e smarrito, che procede in un deserto, lasciando dietro di sé il sentiero su cui si sono depositati i minuti frammenti scintillanti che la vita gli ha strappato.
Tengo stretto il biglietto. Tra violente folate di vento leggo a Pari le tre frasi scarabocchiate.
Mi dicono che devo guadare acque dove presto annegherò. Prima di immergermi, lascio questo sulla spiaggia per te. Prego che tu lo possa trovare, sorella, perché tu sappia cosa c’era nel mio cuore quando sono finito sott’acqua.
C’è anche una data. Agosto 2007. «Nell’agosto del 2007 gli è stata diagnosticata la sua malattia.» Tre anni prima che Pari mi contattasse.
Pari si asciuga gli occhi con la mano. Una giovane coppia passa su un tandem, davanti la ragazza, bionda, colorito roseo, magra, dietro il ragazzo con la carnagione color caffè e i capelli da rasta. Sull’erba, a pochi passi da noi, un’adolescente con una corta gonna di pelle nera parla al cellulare, tenendo al guinzaglio un minuscolo terrier nero come il carbone.
Pari mi passa il pacchetto. Glielo apro. Dentro c’è una vecchia scatola da tè, sul coperchio l’immagine sbiadita di un indiano barbuto che indossa una lunga tunica rossa. Tiene con entrambe le mani una tazza di tè fumante, come fosse un’offerta. Il vapore del tè è quasi svanito e il rosso della tunica si è schiarito sino a diventare rosa. Apro la chiusura e alzo il coperchio. Dentro, la scatola è zeppa di piume di tutti i colori, di tutte le forme. Penne corte, verde intenso; penne lunghe color zenzero con il calamo nero; una piuma color pesca, probabilmente appartenente a un’anatra selvatica, con una spruzzatina di viola; piume brune punteggiate di macchie scure lungo le lamine interne, una piuma di pavone verde con un grande occhio sulla punta.
Mi volto verso Pari. «Hai idea di cosa significhi?»
Con un tremito del mento Pari scuote lentamente la testa. Prende la scatola e scruta il contenuto. «No» dice. «Solo che quando ci siamo persi, Abdullah e io, lui ha sofferto molto più di me. Io sono stata quella fortunata, perché ero protetta dalla mia tenera età. Je pouvais oublier. Ancora potevo permettermi il lusso di dimenticare. Lui no.» Prende una piuma e se la passa sul polso, osservandola, forse nella speranza che possa prendere vita e volar via. «Non so cosa significhi questa piuma, non ne conosco la storia. Ma so che significa che Abdullah ha continuato a pensarmi in tutti questi anni, a ricordarsi di me.»
Le passo un braccio attorno alla spalla e lei piange in silenzio. Osservo gli alberi inondati di sole, il fiume che scorre davanti a noi, sotto il ponte, il Pont Saint-Bénezet, quello di cui parla la canzoncina. È un ponte a metà, poiché rimangono solo quattro delle arcate originali. Si interrompe in mezzo al fiume, come se tentasse di riunirsi all’altra riva, ma non ne avesse la forza.
Quella notte, in albergo, sono a letto, sveglia, e guardo le nubi che si addossano alla grande luna che vedo dalla nostra finestra. In strada un ticchettio di tacchi sull’acciottolato. Risate e chiacchiericcio. Alcuni motorini passano rombando. Dal ristorante sull’altro lato della strada proviene il tintinnio dei bicchieri sui vassoi. Le note di un pianoforte arrivano vagando nell’aria.
Mi volto e osservo Pari che dorme accanto a me in perfetto silenzio. Alla luce il suo viso appare pallido. Vedo Baba nei suoi lineamenti, giovane, pieno di speranza, felice, com’era nella sua natura, e so che lo ritroverò ogniqualvolta guarderò lei. È carne della mia carne. E presto conoscerò i suoi figli e i figli dei suoi figli; il mio sangue scorre anche nelle loro vene. Non sono sola. Un’improvvisa felicità mi prende alla sprovvista. La sento serpeggiare dentro di me e i miei occhi si inumidiscono di gratitudine e di speranza.
Mentre guardo Pari dormire, penso al gioco che Baba e io facevamo la sera, a letto. La cattura dei brutti sogni e il dono di quelli belli. Ricordo il sogno che gli donavo. Attenta a non svegliare Pari, allungo la mano e la poso delicatamente sulla sua fronte. Anch’io chiudo gli occhi.
È un pomeriggio assolato. Pari e Baba sono tornati bambini, fratello e sorella, piccoli, forti, con gli occhi limpidi. Sono sdraiati in un prato di erba alta, all’ombra di un melo sfolgorante di fiori. L’erba è tiepida sotto la loro schiena e il sole, guizzando attraverso il tripudio di fiori, scende caldo sul loro viso. Riposano assonnati, appagati, fianco a fianco, la testa di lui appoggiata su una spessa radice, quella di lei sul cuscino che lui le ha preparato ripiegando la giacca. Con gli occhi semichiusi lei osserva un merlo appollaiato su un ramo. Folate di aria fresca filtrano attraverso le foglie.
Si volge per osservarlo, il suo fratellone, il suo fedele alleato, ma il viso di lui è troppo vicino e non riesce a vederlo per intero. Vede solo la curva della fronte dove prende forma il naso e si incurvano le ciglia. Ma non le importa. Le basta essergli vicino, stare con lui, suo fratello, e mentre il sonno lentamente la trascina lontano, si sente immersa in un’onda di calma assoluta. Chiude gli occhi e si assopisce, serena, lì, dove tutto è limpido, radioso, racchiuso in un unico istante.