Papà non aveva mai picchiato Abdullah. Così, quando gli diede un ceffone, forte, improvviso, a mano aperta, giusto sopra l’orecchio, negli occhi del ragazzo spuntarono lacrime di sorpresa. Batté rapido le palpebre per inghiottirle.

«Torna a casa» disse papà a denti stretti.

Poco lontano Abdullah sentì Pari che scoppiava in singhiozzi.

Poi papà lo colpì ancora, più forte, questa volta sulla guancia sinistra, facendogli scattare di lato la testa. Nuove lacrime scorsero sul viso in fiamme di Abdullah. Sentiva un fischio nell’orecchio sinistro.

Papà si chinò, avvicinando la faccia scura, rugosa, tanto da eclissare completamente il deserto, le montagne e il cielo.

«Ti ho detto di tornare a casa, ragazzo» gli ordinò con uno sguardo triste.

Abdullah rimase muto. Inghiottì amaro e sbirciò suo padre da sotto la mano che gli proteggeva gli occhi dal sole.

Dal carretto rosso a qualche passo di distanza, Pari gridò forte il suo nome, con voce rotta dall’apprensione. «Abollah!»

Papà inchiodò il figlio con uno sguardo tagliente, poi, trascinando i piedi, tornò al carretto, dove Pari tendeva le mani verso Abdullah. Il ragazzo aspettò che si avviassero. Poi si asciugò gli occhi con il dorso della mano e si accodò.

Qualche minuto dopo, suo padre gli gettò un sasso, come facevano i bambini di Shadbagh con il cane di Pari, Shuja. Solo che loro volevano colpire Shuja, fargli del male mentre il sasso cadde innocuo a un passo da Abdullah. Questi si fermò, in attesa che suo padre e Pari riprendessero il loro cammino, e ancora una volta li seguì da presso.

Infine, quando il sole aveva appena superato il mezzogiorno, papà si fermò di nuovo. Si voltò nella direzione di Abdullah, sembrò riflettere, poi gli fece un cenno con la mano.

«So che non ti darai per vinto.»

Sul fondo del carretto Pari fece rapidamente scivolare la mano in quella del fratello. Gli occhi lucidi, lo guardava con quel suo sorriso dagli incisivi separati, come se niente di male potesse accaderle fintanto che lui era al suo fianco. Abdullah teneva nella sua la manina di Pari come faceva ogni sera quando dormivano sul loro materasso, teste incollate, gambe intrecciate.

«Tu dovevi rimanere a casa» disse papà. «Con tua madre e Iqbal. Come ti avevo ordinato.»

Abdullah pensò: È tua moglie. Mia madre l’abbiamo sepolta. Ma sapeva di dover soffocare quelle parole prima che prendessero forma e uscissero dalla sua bocca.

«D’accordo. Vieni allora. Ma niente piagnistei. Hai capito?»

«Sì.»

«Ti avverto. Non voglio pianti.»

Pari sorrise ad Abdullah e lui chinò lo sguardo su di lei, sui suoi occhi chiari, le guance rosee e paffute, e ricambiò il sorriso.

Da quel momento camminò a lato del carretto che traballava sul suolo accidentato del deserto, tenendo la mano di Pari nella sua. Si scambiavano sguardi furtivi e felici, fratello e sorella, ma parlavano poco, per timore di inasprire l’umore di papà e rovinare la loro buona sorte. Per lunghi tratti viaggiarono da soli, loro tre, senza nulla e nessuno in vista, se non le gole di un color rame intenso e le grandi pareti di arenaria. Davanti a loro si estendeva il deserto, immenso e vuoto, come se fosse stato creato per loro e per loro soltanto, l’aria immota, incandescente, il cielo profondo e azzurro. Sul suolo sconnesso le pietre mandavano il loro incerto luccichio. I soli rumori che Abdullah sentiva erano il suo stesso respiro e il ritmico cigolio delle ruote del carretto che papà trascinava dirigendosi verso nord.

Dopo qualche tempo si fermarono per riposare all’ombra di un masso. Con un gemito papà lasciò cadere a terra la barra del carretto. Inarcò la schiena e, socchiudendo le palpebre, alzò il viso al sole.

«Quanto manca a Kabul?» chiese Abdullah.

Suo padre abbassò gli occhi su di loro. Si chiamava Sabur. Aveva la pelle scura e una faccia dura, spigolosa e ossuta, il naso adunco come il becco di un falco, occhi molto infossati. Era magro come un chiodo, una vita di lavoro gli aveva dato muscoli potenti, tesi come le strisce di canna d’India attorno al bracciolo di una poltrona di vimini. «Domani pomeriggio» disse portando alle labbra l’otre di pelle di mucca. «Se ci sbrighiamo.» Bevve un lungo sorso, il pomo d’Adamo che gli andava su e giù.

«Perché non ci ha accompagnato zio Nabi?» chiese Abdullah. «Lui ha la macchina. Così non avremmo dovuto fare a piedi tutta questa strada.»

Papà si volse verso di lui, ma non rispose. Si tolse lo zucchetto sporco di fuliggine e si asciugò il sudore dalla fronte con la manica della camicia.

Dal carretto spuntò il dito di Pari. «Guarda Abollah!» gridò tutta eccitata. «Un’altra.»

Abdullah seguì il dito della sorellina che indicava il punto in cui, all’ombra del masso, s’era posata una piuma, lunga, grigia come carbonella spenta. Abdullah la raccolse prendendola per il calamo. Soffiò via i granelli di polvere. Un falco, pensò, rigirandola. Forse un colombo o un’allodola del deserto. Ne aveva già viste molte quel giorno. No, di un falco. Vi soffiò sopra ancora e la passò a Pari, che l’afferrò felice.

A casa, a Shadbagh, Pari teneva sotto il guanciale una vecchia scatola da tè di latta con la chiusura arrugginita. Gliel’aveva regalata Abdullah. Sul coperchio c’era un indiano barbuto con un turbante e una lunga tunica rossa, che teneva con entrambe le mani una tazza di tè fumante. Dentro la scatola c’erano tutte le piume che Pari collezionava. Erano il suo bene più prezioso. Penne di gallo verdi e rosso scuro; una penna bianca della coda di un colombo; piume di passero, brune, punteggiate di macchie scure; e quella di cui Pari andava più orgogliosa, una piuma verde iridescente di pavone con un grande occhio meraviglioso sulla punta.

Quest’ultima era un regalo che le aveva fatto Abdullah due mesi prima. Aveva sentito parlare di un ragazzo di un altro villaggio la cui famiglia possedeva un pavone. Un giorno, mentre papà era in una città a sud di Shadbagh a scavare fossati, Abdullah era andato in quel villaggio, aveva trovato il ragazzo e gli aveva chiesto una piuma del suo pavone. Era seguita una trattativa, alla fine della quale Abdullah aveva accettato di scambiare le sue scarpe con la piuma. Quando era tornato a Shadbagh, la piuma infilata in vita sotto la camicia, i suoi talloni erano pieni di tagli e lasciavano per terra macchie di sangue. Nella pianta dei piedi erano infilzate spine e schegge. A ogni passo il suo corpo era percorso da una fitta. Arrivato a casa, aveva trovato la sua matrigna, Parwana, fuori dalla casupola, accucciata davanti al tandur che cuoceva il nan quotidiano. Si era nascosto veloce dietro la gigantesca quercia vicino alla loro casa e aveva aspettato che finisse. Sbirciando da dietro il tronco, la osservava lavorare: una donna dalle grosse spalle, con braccia lunghe, mani dalla pelle ruvida e dita tozze, una donna dalla faccia tonda, paffuta, che non aveva niente della grazia di farfalla di cui portava il nome.

Abdullah avrebbe voluto amarla, come aveva amato sua madre. La mamma che era morta dissanguata partorendo Pari tre anni e mezzo prima, quando lui aveva sette anni. La mamma il cui viso ormai era quasi svanito dalla memoria, la mamma che gli prendeva la testa tra le mani e se la stringeva al petto e gli accarezzava le guance ogni sera prima di dormire e gli cantava una ninnananna.

 

Ho incontrato una fatina triste

Seduta all’ombra di una betulla.

Conosco una fatina triste

Che una notte il vento ha portato via con sé.

Avrebbe desiderato amare la sua nuova mamma nello stesso modo. E forse, pensava, anche Parwana in fondo al cuore desiderava la stessa cosa, poter amare lui. Come amava Iqbal, il suo bambino di un anno, che copriva sempre di baci e per il quale si angustiava a ogni colpo di tosse o a ogni starnuto. O come aveva amato il suo primo bambino, Omar. Lo adorava. Ma era morto di freddo l’inverno di due anni prima, a sole due settimane. Parwana e papà avevano avuto appena il tempo di dargli un nome. Era stato uno dei tre neonati di Shadbagh che quell’inverno brutale si era portato via. Abdullah ricordava Parwana che teneva stretto il piccolo cadavere di Omar avvolto nelle fasce, i suoi accessi di dolore. Ricordava il giorno in cui l’avevano sepolto sulla collina, un minuscolo tumulo sulla terra ghiacciata, sotto un cielo di peltro, il Mullah Shekib che recitava le preghiere, il vento che gettava il pulviscolo di neve ghiacciata negli occhi di tutti.

Abdullah pensava che Parwana si sarebbe infuriata quando avesse saputo che aveva scambiato il suo unico paio di scarpe con una piuma di pavone. Papà si era sfiancato sotto il sole per comprarle. Se l’avesse scoperto, la matrigna gliel’avrebbe fatta pagare. Poteva arrivare a picchiarlo, aveva pensato Abdullah. L’aveva già fatto qualche volta: aveva mani forti, pesanti, dopo tutti quegli anni passati a sollevare la sorella invalida, immaginava Abdullah, mani che sapevano come usare il manico della scopa e come fare arrivare a destinazione uno schiaffo ben piazzato.

Ma, va detto a suo merito, Parwana non sembrava trarre alcuna soddisfazione dal picchiarlo. Né era incapace di tenerezza nei confronti dei suoi figliastri. Una volta aveva confezionato per Pari un vestito verde con fili d’argento usando una stoffa che papà aveva portato da Kabul. Un’altra volta, con incredibile pazienza, gli aveva insegnato a rompere due uova contemporaneamente senza intaccare il tuorlo. E una volta aveva mostrato loro come trasformare pannocchie di granoturco in bamboline, come aveva fatto con sua sorella quando erano piccole. Aveva insegnato loro come confezionare abiti per le bambole con brandelli di stoffa.

Ma questi gesti, Abdullah lo sapeva, erano dettati dal dovere, attinti a un pozzo molto meno profondo di quello cui attingeva il suo amore per Iqbal. Se una notte fosse scoppiato un incendio nella loro casa, Abdullah sapeva senza ombra di dubbio quale dei bambini Parwana avrebbe messo in salvo. Non ci avrebbe pensato due volte. Alla fine, tutto si riduceva a una cosa molto semplice: loro non erano figli suoi, lui e Pari. La maggior parte delle persone ama i propri figli. Non c’era niente da fare: lui e sua sorella non le appartenevano. Erano gli avanzi di un’altra donna.

Aveva aspettato che Parwana portasse in casa il pane, poi l’aveva osservata riemergere dalla casupola, trasportando Iqbal con un braccio e un carico di biancheria con l’altro. L’aveva osservata mentre si dirigeva a passo lento verso il ruscello e aveva atteso che non fosse più in vista per sgattaiolare in casa, con i piedi che dolevano ogni volta che li posava per terra. In casa si era seduto infilandosi i vecchi sandali di plastica, le sole scarpe che gli rimanevano. Sapeva di non aver fatto una cosa sensata. Ma quando si era messo in ginocchio accanto a Pari, scuotendola dolcemente per svegliarla, e tirando fuori la piuma da dietro la schiena, come un prestigiatore, aveva pensato che ne era valsa la pena – prima perché Pari era rimasta a bocca aperta per la sorpresa, poi perché dalla gioia gli aveva stampato in faccia mille baci e infine per come aveva ridacchiato quando le aveva fatto il solletico sotto il mento con la punta morbida della piuma – e improvvisamente il dolore ai piedi era scomparso del tutto.

Papà si pulì di nuovo la faccia con la manica. A turno bevvero dall’otre. Poi papà disse: «Sei stanco, figliolo».

«No» rispose Abdullah, anche se era davvero stanco. Sfinito. E i piedi gli facevano male. Non era facile attraversare il deserto con i sandali.

Suo padre gli ordinò: «Monta su».

Sul carretto, Abdullah si sedette dietro Pari con la schiena appoggiata alle assicelle della sponda, le piccole bozze della spina dorsale della sorella che gli premevano sul ventre e sullo sterno. Mentre papà trascinava il carretto, Abdullah teneva gli occhi fissi al cielo, alle montagne, alle file di colline tondeggianti che si susseguivano, una a ridosso dell’altra, rese uniformi dalla distanza. Osservava la schiena di suo padre che li tirava, la testa china, i piedi che alzavano nugoli di sabbia rossastra. Accanto a loro passò una carovana di nomadi Kuchi, una processione polverosa di campanelle che tintinnavano e di cammelli che sbuffavano, e una donna con gli occhi orlati di kohl e i capelli color del grano gli sorrise.

I capelli della donna gli ricordarono quelli di sua madre, rinnovando il dolore per la sua morte, per la sua dolcezza, la sua allegria innata, il suo sbalordimento di fronte alla crudeltà degli uomini. Ricordò la sua risata a singhiozzo e il gesto timido con cui talvolta inclinava di lato la testa. Sua madre era stata una persona delicata, sia per carattere sia per costituzione, una donna minuta, dalla vita sottile, con una ciocca di capelli che sfuggiva sempre dal velo. Si chiedeva come un corpicino così fragile potesse contenere tanta gioia, tanta bontà. Infatti era incontenibile. Trasudava da tutto il suo essere, le sgorgava dagli occhi. Papà era diverso. C’era durezza in lui. I suoi occhi si aprivano sul medesimo mondo della mamma, ma vedevano solo indifferenza. Fatica infinita. Il suo mondo era spietato. Il bene non era gratuito. Neppure l’amore. Dovevi pagare per ogni cosa e, se eri povero, la tua moneta era la sofferenza. Abdullah posò lo sguardo sulla scriminatura coperta di croste della sorellina, sul suo polso sottile che pendeva dalla sponda del carretto, e capì che, alla morte della madre, qualcosa di lei era passato a Pari. Un po’ della sua dedizione allegra, del suo candore, della sua indefettibile speranza. Pari era la sola persona al mondo che non gli avrebbe mai fatto del male. Non avrebbe potuto. A volte sentiva che la sorellina era la sola vera famiglia che avesse.

I colori del giorno lentamente si sciolsero nel grigio e le cime delle montagne lontane divennero sagome confuse di giganti accovacciati. Durante il giorno erano passati accanto a diversi villaggi, nella maggior parte isolati e polverosi proprio come Shadbagh.

Alcune delle piccole case quadrate in mattoni crudi erano costruite sui fianchi della montagna, altre no, nastri di fumo si alzavano dai tetti. Corde per il bucato, donne accucciate accanto ai fuochi dove cucinavano. Qualche pioppo, qualche gallina, una manciata di mucche e di capre e sempre una moschea. L’ultimo villaggio da cui erano passati si trovava vicino a un campo di papaveri, dove un vecchio che stava incidendo le capsule li aveva salutati con la mano. Aveva gridato qualcosa, che Abdullah non era riuscito a sentire. Papà aveva risposto al saluto.

Pari disse: «Abollah?».

«Sì.»

«Secondo te, Shuja è triste?»

«Secondo me sta benissimo.»

«Nessuno gli farà del male?»

«È grosso, Pari. Sa difendersi.»

Shuja era davvero un cane grosso. Papà diceva che a un certo punto doveva essere stato un cane da combattimento, perché qualcuno gli aveva tagliato orecchie e coda. Se potesse o volesse difendersi era un’altra questione. Quando il cane randagio aveva fatto la sua comparsa a Shadbagh, i ragazzini gli avevano tirato sassi, l’avevano colpito con rami o con raggi di bicicletta arrugginiti. Shuja non aveva mai risposto alle aggressioni. Con il tempo i ragazzi del villaggio si erano stancati di tormentarlo e l’avevano lasciato in pace, anche se Shuja aveva continuato a comportarsi in modo cauto, sospettoso, perché non aveva dimenticato quanto in passato fossero stati cattivi con lui.

Evitava tutti a Shadbagh, tranne Pari. Era per lei che Shuja perdeva ogni controllo. Il suo amore per la bambina era immenso e limpido. Lei era il suo universo. Il mattino, quando Shuja vedeva Pari uscire di casa, schizzava sulle zampe tremando in tutto il corpo. Dimenava furiosamente il moncherino della sua coda mutilata e si muoveva come ballasse il tip tap sui carboni ardenti. Le saltellava attorno felice. Per tutto il giorno la seguiva come un’ombra, senza allontanarsi dai suoi piedi, e la sera, quando le loro strade si dividevano, Shuja si sdraiava fuori dalla porta, avvilito, in attesa del mattino.

«Abollah?»

«Sì.»

«Quando sarò grande starò con te?»

Abdullah guardò il sole arancione che si abbassava premendo sull’orizzonte. «Se vorrai. Ma non lo vorrai.»

«Sì, invece, che lo vorrò.»

«Vorrai avere una casa tua.»

«Ma possiamo essere vicini di casa.»

«Forse.»

«Abiterai vicino.»

«E se ti stufi di me?»

Gli diede una gomitata nel fianco. «Mai!»

Abdullah rise tra sé. «D’accordo.»

«Staremo vicini.»

«Sì.»

«Finché saremo vecchi.»

«Molto vecchi.»

«Per sempre.»

«Sì, per sempre.»

Si voltò per guardarlo negli occhi. «Me lo prometti, Abollah?»

«Per sempre, per sempre.»

Qualche tempo dopo, papà si mise Pari sulla schiena, mentre Abdullah, dietro di lui, tirava il carretto vuoto. Camminando cadde in una sorta di trance, la mente vuota. Era consapevole soltanto dell’alzarsi e abbassarsi delle ginocchia, delle gocce di sudore che colavano dall’orlo dello zucchetto. Dei piedini di Pari che rimbalzavano sui fianchi di papà. Consapevole soltanto dell’ombra del padre e della sorella che andava allungandosi sul suolo grigio del deserto e che si allontanava se solo rallentava il passo.

Era stato zio Nabi a trovare l’ultimo lavoro di papà. Zio Nabi era il fratello maggiore di Parwana e quindi in realtà non era uno zio vero e proprio. Faceva il cuoco e l’autista a Kabul. Una volta al mese, andava a trovarli a Shadbagh in macchina e il suo arrivo era annunciato da uno staccato di colpi di clacson e dall’orda vociante dei ragazzini del villaggio che inseguivano la grossa automobile azzurra con il tettuccio apribile e i profili metallici. Davano manate sul parafango e sui finestrini, fin quando lo zio Nabi non spegneva il motore ed emergeva sorridente dalla macchina, bello, le lunghe basette e i neri capelli ondulati pettinati all’indietro, con il completo verde oliva troppo grande per lui, lo sparato bianco e i mocassini marrone. Tutti uscivano per vederlo: perché guidava una macchina, anche se apparteneva al suo datore di lavoro, e perché indossava pantaloni e giacca e lavorava nella grande città, Kabul.

Era stato durante la sua ultima visita che zio Nabi aveva parlato a papà di quel lavoro. I ricchi per cui lavorava avevano intenzione di costruire – nel cortile dietro la loro casa, ma separata dall’edificio principale – una casetta per gli ospiti con bagno privato, e zio Nabi aveva consigliato loro di rivolgersi a papà, che era un esperto in fatto di cantieri. Gli aveva detto che il lavoro era ben pagato e che poteva finirlo in un mese, giorno più giorno meno.

Papà era davvero un esperto in fatto di cantieri. Erano molti quelli in cui aveva lavorato. A quanto Abdullah ricordava, suo padre era sempre in cerca di un lavoro, bussava alla porta di questo e di quello per assicurarsi la giornata. Un giorno, per caso, lo aveva sentito mentre diceva all’anziano del villaggio, il Mullah Shekib: Se fossi nato animale, Mullah Sahib, giuro che sarei stato un mulo. Talvolta portava con sé Abdullah. Una volta avevano raccolto mele in una città a una giornata intera di cammino da Shadbagh. Ricordava suo padre arrampicato sulla scala sino al tramonto, le spalle ingobbite, la nuca bruciata dal sole, la pelle viva degli avambracci, le grosse dita che rigiravano e staccavano le mele, una alla volta. In un’altra città avevano fabbricato mattoni crudi per una moschea. Papà aveva mostrato ad Abdullah come raccogliere in profondità l’argilla buona, quella di colore chiaro. Insieme avevano setacciato la terra, avevano aggiunto la paglia e papà gli aveva insegnato pazientemente a dosare l’acqua in modo che il miscuglio non diventasse troppo liquido. Nell’ultimo anno, suo padre aveva trasportato pietre. Aveva spalato la terra, aveva provato ad arare i campi. Aveva lavorato con una squadra di stradini che stendevano l’asfalto.

Abdullah sapeva che papà si riteneva responsabile della morte di Omar. Se avesse trovato più lavoro, o un lavoro migliore, avrebbe potuto comprargli indumenti invernali più caldi, coperte più pesanti, forse persino una vera stufa per riscaldare la casa. Era questo che pensava. Non gli aveva detto una sola parola dopo che Omar era stato sepolto, ma Abdullah sapeva.

Ricordava di averlo visto, qualche giorno dopo la morte del fratellino, da solo, in piedi sotto la gigantesca quercia. La quercia svettava sopra tutto il resto, ed era la cosa viva più vecchia del villaggio. Papà diceva che non si sarebbe stupito se fosse stata testimone della marcia dell’esercito dell’imperatore Babur alla conquista di Kabul. Diceva che aveva passato metà dell’infanzia all’ombra della sua immensa chioma o arrampicandosi sui suoi rami frondosi. Suo padre, il nonno di Abdullah, aveva legato lunghe corde a uno dei rami più grossi e vi aveva attaccato un’altalena, un arnese che era sopravvissuto a innumerevoli stagioni inclementi e allo stesso vecchio. Papà raccontava che aveva fatto a turno con Parwana e sua sorella Masuma a salire sull’altalena quando tutti e tre erano bambini.

Ma ora era sempre troppo distrutto dal lavoro quando Pari lo tirava per la manica e gli chiedeva di farla volare sull’altalena.

Forse domani, Pari.

Solo per poco, Baba. Ti prego, alzati.

Non ora. Un’altra volta.

Alla fine Pari rinunciava, lasciava andare la manica del padre e se ne andava rassegnata. Talvolta era come se la faccia affilata di suo padre volesse nascondersi mentre guardava la figlia allontanarsi. Si girava e rigirava nel letto, poi tirava su la trapunta e chiudeva gli occhi stanchi.

Abdullah non riusciva a immaginarsi un tempo in cui suo padre era andato su quell’altalena. Non riusciva a figurarsi che una volta suo padre era stato un ragazzo, come lui. Un ragazzo spensierato, agile sulle gambe. Che correva a briglia sciolta per i campi con i suoi compagni di giochi. Papà con le mani coperte di cicatrici, la faccia solcata da profonde rughe di stanchezza. Suo padre che, per quanto ne sapeva Abdullah, poteva anche esser nato con la vanga in mano e il fango sotto le unghie.

Quella notte dovettero dormire nel deserto. Mangiarono il pane e le ultime patate bollite che Parwana aveva preparato per loro. Papà fece un fuoco e mise sulle fiamme il bollitore del tè.

Abdullah si sistemò accanto al fuoco, rannicchiato sotto la coperta di lana vicino a Pari, che premeva sul fratello la pianta dei suoi piedini freddi.

Papà si chinò sulle fiamme per accendersi una sigaretta.

Abdullah si voltò sulla schiena e Pari cambiò posizione, affondando come sempre la guancia nell’incavo sotto la clavicola del fratello. Abdullah inspirava l’odore di rame della polvere del deserto e fissava il cielo fitto di stelle tremolanti e sfavillanti come cristalli di ghiaccio. Una sottile falce di luna abbracciava il fioco fantasma del suo cerchio completo.

Pensò al penultimo inverno, quando tutto era affondato nell’oscurità, al vento che fischiava dalle fessure attorno alla porta con sibili ora deboli ora prolungati e assordanti e che fischiava da ogni minima crepa del soffitto. Fuori, le forme del villaggio cancellate dalla neve. Le notti lunghe e senza stelle, il giorno breve, tetro, il sole che compariva raramente, e solo per un attimo, prima di sparire. Ricordava i penosi pianti di Omar, poi il suo silenzio, poi papà che con aria lugubre aveva intagliato una falce di luna su una tavola di legno, proprio come quella che stava ora sopra di loro, e aveva infisso la lapide nel terreno duro, bruciato dal gelo, in testa alla piccola tomba.

E ora la fine dell’autunno era di nuovo in vista. L’inverno era già in agguato dietro l’angolo, anche se suo padre e Parwana non ne parlavano, come se il solo nominarlo potesse affrettarne l’arrivo.

«Papà?»

Dall’altro lato del fuoco, papà emise un leggero grugnito.

«Mi permetterai di aiutarti? A costruire la casa degli ospiti, voglio dire.»

Spirali di fumo salivano dalla sigaretta. Lo sguardo di suo padre fisso nel buio.

«Papà?»

L’uomo cambiò posizione sul masso dove sedeva. «Potresti aiutarmi a mescolare la malta» disse.

«Non lo so fare.»

«Te lo insegno io. Imparerai.»

«E io?» chiese Pari.

«Tu?» Senza fretta papà fece un tiro di sigaretta e attizzò il fuoco con un bastone. Si sprigionarono piccole scintille, che salirono danzando nell’oscurità. «Sarai responsabile dell’acqua. Dovrai fare in modo che non abbiamo mai sete: perché un uomo non può lavorare se ha sete.»

Pari rimase in silenzio.

«Papà ha ragione.» Abdullah intuiva che Pari voleva sporcarsi le mani, guazzare nella malta, e che era delusa del compito assegnatole. «Se tu non ci porti l’acqua, non riusciremo mai a costruire la casa degli ospiti.»

Papà infilò il bastone nel manico del bollitore, che tolse dal fuoco. Lo posò per terra a raffreddare.

«Sai cosa?» disse. «Tu mi dimostri che sei capace di occuparti dell’acqua e io ti troverò qualcos’altro da fare.»

Pari sollevò il mento guardando Abdullah, il viso illuminato dal sorriso con la finestrella.

Abdullah ricordava quando era una neonata, quando dormiva sul suo petto. A volte, nel cuore della notte, apriva gli occhi e la trovava a sorridergli in silenzio, con quella medesima espressione.

Era lui che da sempre si prendeva cura di lei. Proprio così. Anche se lui stesso era ancora un bambino. Di dieci anni. Quando Pari era piccolissima, era lui a essere svegliato di notte dai suoi gridolini e borbottii. Lui che al buio la prendeva in braccio facendola saltellare. Lui che le cambiava i pannolini sporchi. Lui che le faceva il bagnetto. Non era un compito da padre, da uomo, un uomo sempre distrutto dal lavoro, oltre tutto. E Parwana, già incinta di Omar, era restia ad alzarsi per Pari. Non ne aveva né la voglia né l’energia. Così, quel compito era toccato ad Abdullah, ma non gli dispiaceva affatto. Lo assolveva con gioia. Era felice di essere stato lui ad aiutarla a muovere i primi passi, lui a rimanere senza fiato quando aveva pronunciato la sua prima parola. Questo era lo scopo della sua esistenza, credeva: Dio l’aveva creato perché fosse pronto a prendersi cura di Pari quando aveva portato via la loro madre.

«Baba» lo supplicò Pari. «Raccontaci una storia.»

«Si fa tardi.»

«Per favore.»

Papà era un introverso. Raramente diceva più di due frasi di seguito. Ma talvolta, per ragioni sconosciute ad Abdullah, qualcosa si schiudeva dentro di lui e allora improvvisamente traboccavano le storie. A volte faceva sedere Abdullah e Pari davanti a sé, mentre Parwana sbatacchiava le pentole in cucina, e raccontava le storie che la nonna gli aveva tramandato quando lui stesso era bambino, trasportando i due figli estasiati in paesi popolati da sultani, da jinn, da perfidi div e da saggi dervisci. Altre volte, se le inventava lui. Se le inventava su due piedi, rivelando nei suoi racconti una fantasia e una capacità immaginativa che sempre stupivano Abdullah. Sentiva che suo padre non era mai così vicino, così vivo, indifeso, vero come quando gli raccontava le storie, come se le favole fossero piccoli pertugi che lasciavano intravedere il suo mondo buio, imperscrutabile.

Ma Abdullah sapeva, dall’espressione del viso di suo padre, che quella sera non avrebbe raccontato nessuna storia.

«È tardi» ripeté. Sollevò il bollitore con il bordo dello scialle che gli avvolgeva le spalle e si versò una tazza di tè. Vi soffiò sopra e poi ne bevve un sorso, il bagliore arancio delle fiamme riflesso sul suo viso.

«È ora di dormire. Ci aspetta una lunga giornata, domani.»

Abdullah si tirò la coperta sopra la testa. Là sotto, con la bocca sulla nuca di Pari, le cantò la ninnananna:

 

Ho incontrato una fatina triste

All’ombra di una betulla.

Pari, già mezza addormentata, cantò strascicando il suo verso:

 

Conosco una fatina triste

Che una notte il vento ha portato via con sé.

Un attimo dopo russava.

Quando, più tardi, Abdullah si svegliò, si accorse che papà se n’era andato. Terrorizzato, si mise a sedere. Il fuoco era quasi morto, non rimaneva che qualche tizzone ardente. Lanciò sguardi allarmati in ogni direzione, ma i suoi occhi non riuscivano a penetrare l’oscurità, divenuta all’improvviso immensa e opprimente. Si sentì sbiancare. Con il cuore in gola, drizzò le orecchie, trattenendo il respiro.

«Papà?» sussurrò.

Silenzio.

Il panico si impadronì di tutto il suo essere. Rimase seduto, perfettamente immobile, il busto eretto e teso, e restò a lungo in ascolto. Non sentì alcun rumore. Erano soli, lui e Pari, avvolti dal buio. Erano stati abbandonati. Papà li aveva abbandonati. Per la prima volta, Abdullah avvertì la reale vastità del deserto e del mondo. Com’era facile perdere la propria strada! Nessuno ad aiutarti, nessuno a indicarti la strada. Poi, come un tarlo, un pensiero s’insinuò nel suo cervello. Suo padre era morto. Qualcuno l’aveva sgozzato. Banditi. Dopo averlo ucciso, si stavano ora avvicinando a lui e a Pari, ma se la prendevano comoda, pregustando il piacere di ammazzarli, come fosse un gioco.

«Papà?» gridò di nuovo, questa volta con voce stridula.

Nessuna risposta.

«Papà?»

Continuò a chiamare suo padre, mentre un artiglio gli serrava la gola. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo né quante volte lo avesse chiamato, ma nessuna risposta gli giunse dal buio. Si figurava facce nascoste tra le montagne che spuntavano dalla terra, osservavano lui e Pari, sghignazzando biecamente. Sentì le viscere contorcersi dal panico. Prese a tremare, piagnucolando sottovoce. Era sul punto di urlare.

Poi, dei passi. Una sagoma si materializzò nell’oscurità.

«Ho pensato che te ne fossi andato» balbettò Abdullah.

Papà si sedette accanto al fuoco che andava spegnendosi.

«Dove sei andato?»

«Torna a dormire, figliolo.»

«Giura che non ci abbandonerai. Non lo faresti mai, vero, papà?»

Suo padre volse lo sguardo su di lui, ma nel buio la sua faccia sfumava in un’espressione che Abdullah non riusciva a decifrare. «Sveglierai tua sorella.»

«Non abbandonarci.»

«Adesso basta.»

Con il cuore in gola, Abdullah si sdraiò, stringendo la sorella tra le braccia.

Abdullah non aveva mai visto Kabul. Della capitale sapeva solo le storie che gli aveva raccontato zio Nabi. Aveva visitato alcune piccole città seguendo papà nel suo lavoro, ma mai una città vera, e certamente nessuno dei racconti di zio Nabi poteva prepararlo al trambusto caotico della città più grande e più movimentata del paese. Vedeva ovunque semafori, sale da tè, ristoranti, negozi con vetrine illuminate e insegne colorate. Le automobili correvano rumorose per le strade affollate, suonando il clacson, sgusciando tra gli autobus, i pedoni e le biciclette. Gari trainati da cavalli scampanellavano su e giù per i viali con le ruote cerchiate di ferro che sobbalzavano sulla strada. I marciapiedi erano affollati di ambulanti che vendevano sigarette e gomme da masticare, bancarelle, fabbri che ferravano i cavalli. Agli incroci, vigili con uniformi sciatte soffiavano nei loro fischietti, e facevano gesti autoritari cui nessuno sembrava badare.

Abdullah, con Pari in grembo, era seduto su una panchina vicino a una macelleria e divideva con lei, in un piatto di stagnola, fagioli al forno e chutney al coriandolo fresco che papà aveva comprato a una bancarella.

«Guarda, Abollah» disse Pari, indicando un negozio sull’altro lato della strada. In vetrina c’era una ragazza con un bellissimo abito verde ornato di specchietti e perline. Indossava una sciarpa in tinta, gioielli d’argento e pantaloni rosso scuro. Era perfettamente immobile e fissava con indifferenza i passanti senza mai battere le palpebre. Non mosse neanche un dito per tutto il tempo che Abdullah e Pari mangiarono e rimase assolutamente ferma anche dopo. Più in su, Abdullah vide un manifesto enorme che copriva la facciata di un grande edificio. Rappresentava una giovane donna indiana, graziosa, in un campo di tulipani, sotto una pioggia torrenziale, che fingeva di nascondersi dietro una specie di bungalow. Sorrideva timidamente, il sari bagnato che le aderiva alle curve. Abdullah si chiedeva se era questo che zio Nabi aveva chiamato cinema, dove la gente andava a vedere i film, e sperava che, il mese successivo, zio Nabi vi avrebbe accompagnato anche lui e Pari. Sorrise al pensiero.

Fu poco dopo il richiamo alla preghiera, salmodiato dalla moschea di piastrelle azzurre poco più in là nella stessa via, che Abdullah vide zio Nabi accostarsi al marciapiede. Scese agilmente dal posto di guida, con addosso il suo completo verde oliva, schivando per un pelo un giovane ciclista avvolto nel suo chapan, che riuscì a deviare giusto in tempo.

Zio Nabi corse davanti alla macchina per abbracciare papà. Quando vide Abdullah e Pari, il suo viso si aprì in un grande sorriso. Si chinò per mettersi alla loro altezza.

«Allora, vi piace Kabul, ragazzi?»

«C’è molto rumore» osservò Pari, e zio Nabi scoppiò a ridere.

«Infatti. Su, saltate dentro. Dalla macchina vedrete molto meglio. Pulitevi i piedi prima di salire. Sabur, tu siediti davanti.»

Il sedile posteriore era fresco, duro, di un azzurro simile a quello della carrozzeria. Abdullah si mise al finestrino dietro l’autista e aiutò Pari a sistemarsi sulle sue ginocchia. Notò gli sguardi invidiosi dei passanti. Pari girò di scatto la testa verso il fratello e si scambiarono un sorriso.

Guardarono pieni di meraviglia la città che scorreva davanti a loro. Zio Nabi disse che avrebbe seguito un percorso più lungo perché potessero vedere qualcosa di Kabul. Indicò una catena montuosa chiamata Tapa Maranjan e, sulla sua sommità, un mausoleo coperto da una cupola che dominava tutta la città. Disse che era la tomba di Nadir Shah, il padre del re Zahir Shah. Mostrò loro la fortezza di Bala Hissar in cima al monte Kuh-e-Sherdawaza, che, a quanto si diceva, gli inglesi avevano occupato durante la seconda guerra contro l’Afghanistan.

«Cos’è, zio Nabi?» Abdullah batté sul finestrino indicando un grande edificio rettangolare dipinto di giallo.

«Quello è Silo. La nuova fabbrica di pane.» Zio Nabi, tenendo il volante con una mano, allungò il collo per fargli l’occhiolino. «Un regalo dei nostri amici russi.»

Una fabbrica per fare il pane! Abdullah era strabiliato: pensò a Parwana, rimasta a Shadbagh, che lanciava le focaccine di pasta contro le pareti d’argilla del tandur.

Alla fine zio Nabi svoltò in una strada ampia, pulita, fiancheggiata da cipressi disposti a distanze regolari. Le case erano molto eleganti, Abdullah non ne aveva mai viste di così grandi. Bianche, gialle, azzurre. La maggior parte aveva due piani, con alte mura intorno e cancelli di ferro a due battenti. Abdullah notò parecchie macchine come quella di zio Nabi parcheggiate lungo la strada.

Lo zio imboccò un vialetto ornato di cespugli ben curati. In fondo apparve una casa di due piani, dai muri bianchi, che sembrava incredibilmente grande.

«Quant’è grande la tua casa!» esclamò Pari, sgranando gli occhi dallo stupore.

Zio Nabi si voltò ridendo. «Magari fosse mia. No, è la casa dei miei padroni. Adesso li conoscerete. Comportatevi come si deve.»

La casa si dimostrò ancor più stupefacente una volta che zio Nabi ebbe accompagnato all’interno Abdullah, Pari e papà. Secondo Abdullah era abbastanza grande da contenere almeno metà delle case di Shadbagh. Gli sembrava di essere entrato nel palazzo del div. Il giardino sul retro era disegnato in modo meraviglioso, con aiuole di fiori di tutti i colori, in perfetto ordine, cespugli che arrivavano al ginocchio e alberi da frutto qua e là: riconobbe ciliegi, meli, albicocchi e melograni. Dalla casa si scendeva nel giardino attraverso un portico – zio Nabi disse che si chiamava veranda, – circondato da una balaustra bassa, coperta da un intrico di rampicanti. Mentre andavano verso la sala dove i signori Wahdati li stavano aspettando, Abdullah intravide un bagno con la tazza in porcellana di cui gli aveva parlato zio Nabi, e un lavabo scintillante con i rubinetti color bronzo. Abdullah, che a Shadbagh ogni settimana passava ore a trasportare secchi d’acqua dal pozzo comune, non poteva credere esistesse un mondo dove l’acqua era raggiungibile con un semplice gesto della mano.

Ora erano seduti su un massiccio divano con nappine dorate, Abdullah, Pari e papà. I soffici cuscini alle loro spalle erano costellati di minuscoli specchietti ottagonali. Di fronte al divano, un solo dipinto occupava gran parte della parete. Rappresentava un vecchio tagliapietre, chino sul suo banco di lavoro, che batteva un blocco di pietra con un mazzuolo. Tendoni color vinaccia rivestivano le ampie finestre, che si aprivano su un terrazzo con una ringhiera di ferro alta sino alla cintola. Tutto nella stanza era lucido, privo di polvere.

Mai in vita sua Abdullah era stato così consapevole della propria sporcizia.

Il padrone di zio Nabi, il signor Wahdati, era seduto su una poltrona di pelle, le braccia incrociate sul petto. Li guardava con un’espressione non proprio ostile, ma distaccata, impenetrabile. Era più alto di papà: Abdullah l’aveva notato non appena si era alzato per salutarli. Aveva spalle strette, labbra sottili e una fronte alta e lucida. Indossava un completo bianco, attillato in vita, con una camicia verde, aperta al collo, i cui polsini erano chiusi da gemelli ovali di lapislazzuli. Per tutto il tempo non aveva pronunciato più di una decina di parole.

Pari adocchiava il vassoio con i biscotti sul tavolino di vetro davanti a loro. Abdullah non aveva mai immaginato che potesse esistere una tale varietà di dolci. Dita di dama al cioccolato, biscotti con riccioli di crema, piccole paste farcite d’arancia, biscotti verdi a forma di foglia e altri ancora.

«Prendete» disse la signora Wahdati. Era lei a tenere viva la conversazione. «Su. Tutti e due. Sono per voi.»

Abdullah si girò verso papà per avere il suo permesso e Pari lo imitò. Questo sembrò conquistare la signora Wahdati, che distese le sopracciglia, inchinando la testa con un sorriso.

Papà annuì con un piccolo cenno. «Uno ciascuno» disse con un fil di voce.

«No, così non va» disse la signora Wahdati. «Ho mandato apposta Nabi a comprarli alla pasticceria dall’altra parte di Kabul.»

Papà arrossì e distolse lo sguardo. Seduto sul bordo del divano, stringeva con tutte e due le mani il suo zucchetto sdrucito. Teneva le ginocchia distanti dalla signora Wahdati e gli occhi fissi su suo marito.

Abdullah prese due biscotti e ne diede uno a Pari.

«Oh, prendetene un altro. Non è bello che Nabi si sia disturbato per niente» disse la signora Wahdati rimproverandoli bonariamente. Poi rivolse un sorriso a zio Nabi.

«Non è stato un disturbo» si schermì lui arrossendo.

Zio Nabi stava in piedi vicino alla porta, accanto a un mobiletto alto con spesse ante di vetro. Su uno dei ripiani Abdullah scorse alcune foto in cornici d’argento. Ecco i signori Wahdati insieme a un’altra coppia, avvolti in cappotti pesanti e sciarpe calde, e alle loro spalle un fiume gonfio e spumeggiante. In un’altra foto la signora Wahdati rideva tenendo in mano un bicchiere, un braccio nudo attorno alla vita di un uomo che, cosa impensabile per Abdullah, non era il marito. C’era anche una foto del loro matrimonio, lui alto ed elegante nel suo abito nero, lei in un lungo vestito bianco, tutti e due con un sorriso a labbra strette.

Abdullah la guardò di sottecchi: la vita sottile, la bocca piccola e graziosa, l’arco perfetto delle sopracciglia, le unghie dei piedi dipinte di smalto rosa e il rossetto in tinta. La ricordava da un paio d’anni prima, quando Pari aveva poco meno di due anni. Zio Nabi l’aveva accompagnata a Shadbagh, perché lei aveva detto di voler conoscere la sua famiglia. Indossava un abito color pesca senza maniche – ricordava lo sguardo allibito di suo padre – e occhiali da sole scuri con una grossa montatura bianca. Aveva sorriso tutto il tempo, facendo domande sul villaggio, la loro vita, il nome e l’età dei bambini. Si era comportata come se fosse una del luogo, nella loro casa d’argilla con il soffitto basso, la schiena appoggiata alla parete nera di fuliggine, seduta accanto alla finestra macchiata dalle mosche e al telo di plastica sudicio che separava l’unica stanza dalla cucina dove dormivano Abdullah e Pari. Era stata una visita teatrale, lei aveva insistito per lasciare alla porta le scarpe con i tacchi alti, aveva voluto sedersi per terra dopo che papà, come dettava il buon senso, le aveva offerto una sedia. Quasi fosse una di loro. Allora Abdullah aveva solo otto anni, ma non si era lasciato ingannare.

Il suo ricordo più vivido di quella visita era il modo in cui Parwana, che allora era incinta di Iqbal, era rimasta appartata, seduta in un angolo, appallottolata in un silenzio ostinato. Sedeva con le spalle incassate, i piedi nascosti sotto il ventre gonfio, come avesse voluto sparire dentro il muro. Il suo viso era protetto da un velo sporco, ne teneva le estremità sotto il mento, chiuse in un groviglio. Ad Abdullah sembrava quasi di vedere la vergogna sprigionarsi da lei come un vapore, il suo imbarazzo, la sensazione di non contare nulla, e si era sorpreso di provare un improvviso sentimento di solidarietà verso la matrigna.

La signora Wahdati prese il pacchetto di sigarette accanto al vassoio dei biscotti e ne accese una.

«Venendo qui abbiamo fatto una lunga deviazione perché volevo mostrare loro un po’ della città» disse zio Nabi.

«Bene, bene. Eri già stato a Kabul, Sabur?»

«Una o due volte, Bibi Sahib.»

«E che impressione ti ha fatto?»

Papà scrollò le spalle. «È piena di gente.»

«Sì.»

Il signor Wahdati tolse un granello di forfora dalla manica della giacca e fissò gli occhi sul tappeto.

«Piena di gente, sì, a volte anche sgradevole» disse sua moglie.

Papà annuì come se capisse.

«In realtà Kabul è un’isola. Alcuni dicono che rappresenta il progresso. Può darsi che sia vero. Anzi, immagino che sia proprio vero, ma è altrettanto vero che non è in sintonia con il resto del paese.»

Papà, imbarazzato, abbassò lo sguardo sullo zucchetto che teneva in mano.

«Non fraintendermi. Sosterrei a spada tratta qualunque iniziativa politica progressista che partisse dalla capitale. Dio sa quanto ne ha bisogno questo paese. Tuttavia, a volte la città è un po’ troppo piena di sé per i miei gusti. Giuro» sospirò «l’ostentazione qui è veramente sgradevole. Personalmente ho sempre ammirato la campagna. Mi piace moltissimo. Le province lontane, i qaria, i piccoli villaggi. Il vero Afghanistan, per così dire.»

Papà annuì, non sapendo che altro fare.

«Non che io condivida tutte, o la maggior parte delle tradizioni tribali, ma mi sembra che laggiù la gente viva una vita più autentica. Ha determinazione. Un’umiltà ammirevole. E poi l’ospitalità. La fermezza. Un senso di fierezza. È la parola giusta, Suleiman? Fierezza

«Smettila, Nila» disse suo marito senza scomporsi.

Seguì un silenzio pesante. Abdullah guardava il signor Wahdati, che tamburellava con le dita sul bracciolo della poltrona, e sua moglie, che sorrideva in modo forzato, la sbavatura rosa di rossetto sul mozzicone della sigaretta, le gambe incrociate alle caviglie, il gomito appoggiato al bracciolo della poltrona.

«Probabilmente non è la parola giusta» disse, rompendo il silenzio. «Dignità, forse.» Sorrise, mettendo in mostra denti bianchi e regolari. Abdullah non aveva mai visto denti simili. «Ecco. Molto meglio. La gente di campagna è portatrice di un senso di dignità. La esibiscono come un distintivo, vero? Sono sincera. La vedo in te, Sabur.»

«Grazie, Bibi Sahib» balbettò papà, muovendosi a disagio sul divano, senza alzare gli occhi dal suo zucchetto.

La signora Wahdati annuì. Volse lo sguardo verso Pari. «E lasciamelo dire, sei così carina.» Pari si fece più vicina ad Abdullah.

Scandendo le parole, la signora Wahdati recitò: «Oggi ho visto il fascino, la bellezza, l’insondabile grazia del viso che cercavo». Sorrise. «Rumi. Hai mai sentito il suo nome? Sembra che abbia composto questo verso proprio per te, tesoro.»

«La signora Wahdati è una poetessa provetta» li informò zio Nabi.

Il signor Wahdati, dall’altro lato del tavolo, prese un biscotto, lo spezzò in due e ne sbocconcellò un piccolo morso.

«Nabi è troppo gentile» disse la signora Wahdati rivolgendogli uno sguardo affettuoso. Per la seconda volta, Abdullah colse il rossore che si diffondeva sulle guance di zio Nabi.

La signora Wahdati spense la sigaretta, battendo il mozzicone nel portacenere con una serie di colpetti decisi. «Potrei accompagnare i bambini da qualche parte, non credi?»

Il signor Wahdati emise un respiro stizzito, batté le mani sui braccioli della poltrona e fece per alzarsi, ma rimase seduto.

«Li porto al bazar» disse la signora Wahdati rivolgendosi a papà. «Se non hai niente in contrario, Sabur. Nabi ci accompagnerà in macchina. Suleiman ti farà vedere dove vogliamo costruire sul retro della casa. Così ti puoi fare un’idea.»

Papà annuì.

Il signor Wahdati chiuse lentamente gli occhi.

Si alzarono per uscire.

Abdullah sentì l’improvviso desiderio che papà ringraziasse gli ospiti per i biscotti e per il tè, prendesse per mano lui e Pari e lasciasse quella casa, i suoi dipinti, le grandi tende, le comodità e il lusso stucchevole. Avrebbero potuto riempire l’otre d’acqua, comprare del pane e qualche uovo sodo e tornare da dove erano venuti. Riattraversare il deserto con i suoi massi e le sue colline, mentre papà avrebbe raccontato le sue storie. Avrebbero potuto tirare a turno il carretto con dentro Pari. E in due, forse tre giorni avrebbero potuto essere di ritorno a Shadbagh, anche se con i polmoni pieni di polvere e le membra rotte dalla stanchezza. Shuja li avrebbe visti arrivare e sarebbe corso loro incontro saltando attorno a Pari. A casa.

Papà disse: «Andate, bambini».

Abdullah fece un passo avanti per dire qualcosa, ma lo zio Nabi gli posò una mano pesante sulla spalla, facendogli fare dietrofront, e lo condusse lungo il corridoio. «Aspettate di vedere i bazar di Kabul. Non avete mai visto niente del genere, voi due.»

La signora Wahdati prese posto sul sedile posteriore insieme ai bambini, l’aria piena della fragranza pesante del suo profumo e di qualcosa che Abdullah non riconobbe, qualcosa di dolciastro, vagamente pungente. Li tempestò di domande. Chi erano i loro amici? Andavano a scuola? Domande sui loro compiti, i loro giochi, i vicini di casa. Il sole le illuminava metà del viso. Abdullah notò la sottile peluria sulla guancia e la leggera linea, sotto la mascella, dove terminava il trucco.

«Io ho un cane» disse Pari.

«Davvero?»

«È unico nel suo genere» aggiunse zio Nabi dal suo posto di guida.

«Si chiama Shuja. Capisce quando sono triste.»

«Tipico dei cani» commentò la signora Wahdati. «Capiscono il tuo umore meglio di molte persone che ti stanno intorno.»

Superarono un gruppo di tre ragazze che saltellavano sul marciapiedi. Indossavano un’uniforme nera con il velo bianco annodato sotto il mento.

«So cosa ho detto prima, ma Kabul non è poi così male.» La signora Wahdati giocherellava distrattamente con la collana. Guardava fuori dal finestrino, i lineamenti del viso segnati dallo scontento. «Il periodo che preferisco è la fine della primavera, dopo le piogge. L’aria è così pulita. Il primo sbocciare dell’estate. Il modo in cui il sole illumina le montagne.» Fece un pallido sorriso. «Sarà bello avere una creatura per casa. Un po’ di rumore, tanto per cambiare. Un po’ di vita.»

Abdullah la guardò, avvertendo in lei qualcosa di pericoloso, come una frattura dentro di lei, sotto il trucco, il profumo e gli appelli alla solidarietà. Si ritrovò a pensare al fumo della cucina di Parwana, alle mensole ingombre dei suoi barattoli, ai piatti scompagnati e alle pentole sporche. Gli mancava il materasso che condivideva con Pari, anche se era sporco e le molle rotte minacciavano sempre di saltar fuori. Gli mancava tutto. Mai aveva sentito una nostalgia così acuta della propria casa.

La signora Wahdati si abbandonò sul sedile con un sospiro, abbracciando la borsa, come una donna incinta potrebbe proteggere il ventre gonfio.

Zio Nabi fermò la macchina vicino a un marciapiedi affollato. Al di là della strada, vicino a una moschea con alti minareti, c’era un bazar, formato da labirinti di vicoli congestionati all’inverosimile, sia coperti sia a cielo aperto. Gironzolarono nei passaggi tra le bancarelle che vendevano giacche di pelle, anelli con pietre colorate, spezie di tutti i tipi, la signora Wahdati con i due bambini in testa, zio Nabi in coda. Adesso che erano fuori casa, la signora portava un paio di occhiali scuri che la facevano assomigliare curiosamente a un gatto.

Dovunque echeggiavano le grida di compratori e venditori che contrattavano sul prezzo. In ogni bancarella suonavano musica a tutto volume. Passarono davanti a negozi senza vetrina e senza porta che vendevano libri, radio, lampade e pentole color argento. Abdullah vide un paio di soldati, con stivali impolverati e lunghi pastrani marrone scuro, che si passavano la sigaretta, adocchiando la gente con annoiata indifferenza.

Si fermarono a una bancarella di scarpe. La signora Wahdati frugò tra le file di calzature in mostra. Zio Nabi, le mani allacciate dietro la schiena, andò a curiosare alla bancarella successiva, dando un’occhiata di sufficienza ad alcune monete antiche.

«Queste ti piacciono?» chiese la signora Wahdati a Pari. Aveva in mano un paio di scarpe nuove, gialle.

«Sono carine» disse Pari, guardando le scarpe con aria incredula.

«Proviamole.»

Aiutò Pari a infilare le scarpe, allacciando lei stessa il cinturino e la fibbia. Guardò Abdullah al di sopra degli occhiali. «Penso che farebbe comodo anche a te un paio di scarpe nuove. Non posso credere che tu sia venuto a piedi dal tuo villaggio con quei sandali.»

Abdullah scosse la testa e guardò altrove. In fondo al vicolo, un vecchio dalla barba irsuta e i piedi equini chiedeva l’elemosina ai passanti.

«Guarda, Abollah!» Pari alzò un piede, poi l’altro. Batté i piedi per terra e prese a saltellare. La signora Wahdati chiamò lo zio Nabi e gli disse di accompagnare Pari sino in fondo alla stradina per vedere se le scarpe le andavano bene. Zio Nabi prese Pari per mano e insieme s’incamminarono lungo il vicolo.

La signora si rivolse ad Abdullah.

«Tu pensi che io non sia una brava persona, per quello che ho detto a casa.»

Abdullah seguì con gli occhi Pari e zio Nabi mentre passavano accanto al vecchio mendicante dai piedi equini. Il vecchio disse qualche parola a Pari, che a sua volta guardò lo zio sussurandogli qualcosa, e lui gettò una moneta al vecchio.

Abdullah incominciò a piangere silenziosamente.

«Oh, che amore di bambino» esclamò la signora Wahdati presa alla sprovvista. «Povero tesoro.» Prese il fazzoletto dalla borsa e glielo offrì.

Abdullah allontanò la sua mano. «La prego, non lo faccia» la supplicò con voce rotta.

Spingendo gli occhiali sopra i capelli, lei gli si accovacciò accanto. Anche i suoi occhi erano umidi e, quando li asciugò con il fazzoletto, lasciarono una chiazza nera. «Non ti faccio una colpa se mi odi. Ne hai il diritto. Non pretendo che tu capisca, non ora almeno, ma è la cosa giusta. Lo è davvero, Abdullah. La cosa giusta. Un giorno capirai.»

Abdullah alzò il viso verso il cielo e pianse, proprio mentre Pari tornava da lui saltellando, gli occhi stillanti gratitudine, il viso raggiante di felicità.

Una mattina di quell’inverno, papà prese l’ascia e abbatté la quercia gigante. Si fece aiutare dal figlio del Mullah Shekib, Baitullah, e da qualche altro uomo. Nessuno tentò di intervenire. Abdullah, insieme ad altri ragazzi, rimase in disparte a osservare gli uomini. La prima cosa che fece suo padre fu di staccare l’altalena. Si arrampicò sull’albero e tagliò le corde con un coltello. Poi, con gli altri uomini, si diede da fare attorno al grosso tronco fino al tardo pomeriggio, quando finalmente il vecchio albero cadde con un boato. Papà disse ad Abdullah che avevano bisogno di legna per l’inverno. Ma aveva alzato l’ascia contro la vecchia quercia con violenza, a denti stretti e con un’ombra sul viso, come se non potesse più guardarla.

Ora, sotto un cielo di piombo, gli uomini tagliavano a pezzi il tronco abbattuto, il naso e le guance arrossati dal gelo, mentre le lame delle loro asce, percuotendo il legno, mandavano un rumore cavo. Tra le fronde dell’albero, Abdullah staccava i rami piccoli separandoli da quelli più grossi. Due giorni prima era caduta la prima neve dell’inverno. Non era stata una nevicata fitta, non ancora, giusto una promessa di quanto c’era da aspettarsi. Ben presto l’inverno sarebbe calato su Shadbagh, con i suoi ghiaccioli, bufere di neve che duravano un’intera settimana e il vento che in meno di un minuto spaccava la pelle sul dorso delle mani. Per il momento, il suolo era coperto di bianco solo qua e là, butterato di chiazze di terra color ocra dal villaggio fino alle falde ripide delle colline.

Abdullah raccolse una bracciata di ramoscelli e li gettò sul mucchio comune che andava ingrossandosi. Portava i suoi nuovi scarponi da neve, i guanti e il giaccone invernale. Era di seconda mano, ma a parte la cerniera rotta, che però papà aveva aggiustato, era come nuovo, blu scuro, imbottito e foderato di pelliccia arancio. Aveva quattro tasche profonde che si aprivano e si chiudevano con un piccolo strappo, e un cappuccio ugualmente imbottito che gli si stringeva intorno alla faccia quando Abdullah tirava il cordoncino. Spinse indietro il cappuccio ed emise un lungo respiro che si trasformò in uno sbuffo di vapore.

Il sole stava calando all’orizzonte. Abdullah riusciva ancora a distinguere la sagoma grigia e nuda del vecchio mulino a vento che sovrastava le mura d’argilla del villaggio. Le sue pale emettevano un cigolio lamentoso quando dalle colline soffiava una raffica di vento gelido. In estate il mulino dava asilo soprattutto agli aironi cinerini, ma ora che si era insediato l’inverno, gli aironi erano partiti e al loro posto erano giunte le cornacchie. Ogni mattina erano i loro striduli gracidii a svegliare Abdullah.

Qualcosa colpì la sua attenzione, poco lontano, per terra. Si avvicinò e si piegò sulle ginocchia.

Una piuma. Piccola. Gialla.

Si tolse il guanto e la raccolse.

La sera sarebbero andati a una festa, lui, suo padre e il piccolo fratellastro Iqbal. Baitullah aveva appena avuto un nuovo figlio maschio. Un moreb avrebbe cantato per gli uomini e qualcuno avrebbe suonato il tamburello. Avrebbero offerto il tè, pane ancora caldo di forno e la shorba, la minestra di patate. Dopo, il Mullah Shekib avrebbe intinto il dito in una tazza di acqua zuccherata e l’avrebbe offerto al bambino da succhiare. Avrebbe estratto la sua pietra nera, lucente, e il rasoio a doppio taglio, poi avrebbe sollevato il telo che copriva le gambe del bimbo. Il solito rituale. La vita continuava a Shadbagh.

Abdullah rigirava la piuma tra le mani.

Niente piagnistei. Aveva detto papà. Ti avverto. Non voglio pianti.

E non c’erano state lacrime. Nessuno al villaggio chiese di Pari. Nessuno pronunciò neppure il suo nome. Abdullah si meravigliava di come fosse completamente sparita dalla loro vita.

Solo in Shuja Abdullah trovava un’eco al proprio dolore. Il cane si presentava ogni giorno davanti alla loro porta. Parwana gli tirava sassi. Papà lo inseguiva con un bastone. Ma lui tornava. Ogni sera lo si sentiva uggiolare disperato e il mattino lo trovavano sdraiato accanto all’uscio con il muso tra le zampe davanti, che guardava i suoi persecutori con un’accusa negli occhi malinconici. Così per settimane, finché, una mattina, Abdullah lo vide trascinarsi zoppicando a testa bassa verso le colline. Da allora nessuno l’aveva più visto a Shadbagh.

Abdullah infilò la piuma in tasca e si diresse verso il mulino.

A volte coglieva un’espressione angosciata sul viso di papà, come se in quei momenti di debolezza fosse dilaniato da emozioni contrastanti. Ora gli sembrava più fragile, quasi fosse stato privato di qualcosa di essenziale. Si aggirava pigramente per casa, oppure sedeva al calore della nuova grande stufa di ghisa, con il piccolo Iqbal sulle ginocchia, fissando le fiamme senza vederle. Strascicava la voce in un modo che Abdullah non ricordava, come se qualcosa pesasse su ogni parola che pronunciava. Si isolava in lunghi silenzi con un’espressione impenetrabile. Non raccontava più storie, non ne aveva raccontata nessuna da quando erano tornati da Kabul senza Pari. Forse, pensava Abdullah, aveva venduto ai Wahdati anche la sua musa.

Partita.

Svanita.

Non era rimasto niente.

Non era stato detto niente.

Se non queste parole di Parwana: Toccava a lei. Mi spiace, Abdullah. Doveva essere lei.

Tagliare il dito per salvare la mano.

Si inginocchiò per terra dietro il mulino, ai piedi della torre cadente. Si tolse i guanti e scavò una buca nel terreno. Pensava alle folte sopracciglia di sua sorella, alla fronte ampia e bombata, al sorriso con la finestrella. Gli parve di sentire il suono della sua risata gorgogliante diffondersi per la casa come un tempo. Pensò alla discussione scoppiata quando erano tornati dal bazar. Pari in preda al panico, che urlava. Lo zio Nabi che subito l’aveva trascinata via. Abdullah scavò finché le dita incontrarono del metallo. Poi infilò le dita sotto la scatola da tè e la tirò fuori dal buco. Pulì il coperchio dalla terra gelata.

Negli ultimi tempi aveva pensato a lungo alla storia che papà gli aveva raccontato la notte prima del viaggio a Kabul, al vecchio contadino e al div. Abdullah si trovava in un luogo dove una volta veniva con Pari: la sua assenza era come una fragranza che emanava dalla terra sotto i suoi piedi, gli tremavano le gambe, sentiva il cuore venirgli meno e avrebbe desiderato bere un sorso della magica pozione che il div aveva dato a Baba Ayub, perché anche lui potesse dimenticare.

Ma non c’era modo di dimenticare. Dovunque andasse, senza evocarla, l’immagine di Pari si librava ai margini di tutto ciò che vedeva. Era come la polvere appiccicata alla sua camicia. Era nei silenzi ormai così frequenti in casa, silenzi che si insinuavano fra le parole, gonfiandosi, a volte freddi e sordi, a volte pregni di cose non dette, come una nube carica di pioggia che non cadeva mai. C’erano notti in cui sognava di essere di nuovo nel deserto, solo, in mezzo alle montagne, e di scorgere in lontananza un solo, piccolo barbaglio di luce, che si accendeva e si spegneva, si accendeva e si spegneva, come un messaggio in codice.

Aprì la scatola. C’erano tutte le piume di Pari, perse da galli, anatre, piccioni, anche quella del pavone. Infilò nella latta la piuma gialla. Un giorno, pensò.

Una speranza.

Il suo tempo a Shadbagh era contato, come quello di Shuja. Ora lo sapeva. Qui non c’era più niente per lui. Non una casa. Avrebbe aspettato che finisse l’inverno e che tornasse il tepore della primavera, e un giorno si sarebbe alzato prima dell’alba e sarebbe uscito di casa. Avrebbe scelto una direzione e si sarebbe messo in marcia. Si sarebbe allontanato dal villaggio quanto glielo avrebbero permesso le gambe. E se un giorno, attraversando una distesa immensa, fosse stato preso dalla disperazione, si sarebbe fermato, avrebbe chiuso gli occhi e avrebbe pensato alla piuma di falco che Pari aveva trovato nel deserto. Avrebbe immaginato il momento in cui la piuma si era staccata dall’uccello, in alto tra le nubi, mezzo miglio al di sopra della terra, piroettando e volteggiando, trascinata da violente correnti, scagliata per miglia e miglia di deserto e di montagne da furiose folate di vento per atterrare infine, a dispetto di tutto, in quell’unico posto, ai piedi di quel masso, perché sua sorella la raccogliesse. Allora si sarebbe meravigliato che cose simili potessero accadere e questo gli avrebbe dato speranza. E, pur non facendosi illusioni, si sarebbe rincuorato, avrebbe aperto gli occhi e avrebbe ripreso il suo cammino.