Sette
ESTATE 2009
«Tuo padre è un grand’uomo.»
Adel alzò gli occhi. Era l’insegnante, Malalai, che si era chinata per sussurrargli queste parole all’orecchio. Una donna grassoccia, di mezza età, con attorno alle spalle uno scialle viola ornato di perline, che gli sorrideva tenendo gli occhi chiusi.
«E tu sei un ragazzo fortunato.»
«Lo so» le rispose in un bisbiglio.
Bene, disse Malalai, muovendo solo le labbra.
Si trovavano sui gradini d’ingresso della nuova scuola femminile della città, un edificio rettangolare, verde chiaro, con il tetto a terrazza e ampie finestre, mentre il padre di Adel, il suo Baba jan, recitava una breve preghiera seguita da un discorso accalorato. Nel caldo torrido del mezzogiorno si era raccolta una folla di ragazzi, genitori e anziani, che tenevano gli occhi semichiusi per il sole, un centinaio di persone della cittadina di Shadbagh-e-Nau, la Nuova Shadbagh.
«L’Afghanistan è la madre di tutti noi» disse il padre di Adel, puntando il grosso indice verso il cielo. Il sole colpì il cerchio dorato del suo anello ornato da un’agata. «Ma è una madre dolente che soffre da tanto tempo. Ora, è vero che una madre ha bisogno dei suoi figli maschi per riprendersi. Sì, ma ha bisogno anche delle sue figlie. Altrettanto, se non di più!»
Queste parole suscitarono un fragoroso applauso e parecchi fischi e grida di approvazione. Adel scrutò i volti dei presenti. Guardavano rapiti suo padre, Baba jan, con le nere sopracciglia cespugliose e la barba folta, alto, forte e imponente, in piedi di fronte a loro, le spalle tanto larghe da riempire quasi completamente l’ingresso della scuola.
Suo padre continuò. Gli occhi di Adel incontrarono quelli di Kabir, una delle due guardie del corpo di Baba jan, impassibile al suo fianco, kalashnikov in mano. Adel vedeva la folla riflessa nelle lenti scure degli occhiali da aviatore di Kabir. Era basso, magro, quasi gracile e indossava abiti di colori sgargianti, lavanda, turchese, arancio, ma Baba jan diceva che era un falco e che sottovalutarlo era un errore che la gente commetteva a suo rischio e pericolo.
«Perciò vi dico, giovani figlie dell’Afghanistan» concluse Baba jan spalancando le lunghe braccia robuste in un gesto d’accoglienza. «Ora avete un dovere solenne. Apprendere, applicarvi, eccellere negli studi, per rendere orgogliosi non solo vostro padre e vostra madre, ma la madre comune a tutti noi. Il suo futuro è nelle vostre mani, non nelle mie. Vi chiedo di considerare questa scuola non come un mio dono. È semplicemente un edificio, ma il vero dono è custodito al suo interno, e siete voi. Voi siete il dono, giovani sorelle, non solo per me, per la comunità di Shadbagh-e-Nau, ma, e questa è la cosa più importante, per tutto il nostro paese! Che Dio vi benedica.»
Scoppiò un nuovo applauso. Parecchi gridarono: «Dio benedica te, Comandante Sahib!». Baba jan con un largo sorriso alzò il pugno chiuso. Gli occhi di Adel si riempirono di lacrime d’orgoglio.
Malalai, l’insegnante, passò a Baba jan un paio di forbici. Un nastro rosso era stato teso davanti all’ingresso dell’aula. La folla mosse qualche passo avanti per vedere meglio, e Kabir fece cenno ad alcune persone di indietreggiare e ne allontanò un paio spingendole sul petto. Dalla folla si alzarono mani munite di cellulare per filmare il taglio del nastro. Baba jan prese le forbici, si fermò e rivolgendosi a Adel disse: «Ecco, figliolo, a te l’onore». E gli passò le forbici.
Il ragazzo lo guardò incredulo. «Io?»
«Avanti» disse Baba jan, strizzandogli l’occhio.
Adel tagliò il nastro, accompagnato da un grande applauso. Sentì il clic di qualche macchina fotografica, voci che gridavano: «Allah-u-akbar!».
Baba jan rimase sulla soglia mentre le studentesse in fila indiana entravano in classe. Erano ragazze tra gli otto e i quindici anni, indossavano il foulard bianco e l’uniforme nera a righine grigie, regalo di Baba jan. Adel le osservava mentre timidamente si presentavano una per una al Comandante, il quale, sorridendo affabilmente, dava loro colpetti sulla testa con qualche parola d’incoraggiamento. «Ti auguro successo, Bibi Mariam. Studia sodo, Bibi Homaira. Rendici orgogliosi di te, Bibi Ilham.»
Più tardi, accanto al Land Cruiser nero, Adel, sudando nella calura a fianco del padre, rimase a osservarlo mentre stringeva la mano ai locali. Con il rosario nella mano libera, Baba jan li ascoltava paziente, inchinandosi leggermente verso di loro, le sopracciglia aggrottate. Annuiva, attento a ciascuna persona, uomo o donna che fosse, che veniva a ringraziarlo, a offrire preghiere, a salutare. Molti approfittavano dell’occasione per chiedergli un favore: una madre con un figlio malato che aveva bisogno di essere visitato da un chirurgo di Kabul, un uomo cui serviva un prestito per aprire un negozio di ciabattino, un meccanico che chiedeva una nuova serie di attrezzi.
Comandante Sahib, se potesse trovare nel suo cuore...
Non ho nessun altro cui rivolgermi, Comandante Sahib.
Tranne i componenti della famiglia, Adel non aveva mai sentito nessuno rivolgersi a Baba jan se non con il titolo di “Comandante Sahib”, anche se i russi se ne erano ormai andati da un pezzo e Baba jan non sparava un colpo da dieci anni e più. A casa, il soggiorno era disseminato di foto incorniciate dei suoi giorni da jihadista, foto che Adel si era impresso nella memoria: suo padre appoggiato al paraurti di una vecchia jeep impolverata, rannicchiato sulla torretta di un carro armato carbonizzato, orgogliosamente in posa con i suoi uomini, con la cartucciera a tracolla, accanto a un elicottero abbattuto. In un’altra foto pregava con la fronte sul suolo del deserto, con indosso un giubbotto e la bandoliera. Era molto più magro allora, il padre di Adel, e in tutte le foto sullo sfondo montagne e sabbia.
Baba jan era stato ferito due volte in battaglia dai russi. Aveva mostrato a Adel le cicatrici, una a sinistra, appena sotto la cassa toracica, segno di una ferita che gli era costata la cistifellea, e una a pochi centimetri dall’ombelico. Diceva di essere stato fortunato, tutto sommato. Aveva amici che avevano perso braccia, gambe, occhi, amici con la faccia ustionata. L’avevano fatto per il loro paese, diceva Baba jan, e l’avevano fatto per Dio. Questo era il senso del jihad, diceva. Il sacrificio. Sacrificavi gli arti, la vista, persino la vita, e lo facevi con piacere. Il jihad ti assicurava diritti e privilegi, diceva, perché Dio provvede a fare in modo che chi sacrifica di più, giustamente ne raccolga anche la ricompensa.
Sia in questa vita che nella prossima, ripeteva Baba jan, indicando con il suo grosso indice prima la terra e poi il cielo.
Guardando le fotografie, Adel avrebbe voluto poter partecipare al jihad a fianco di suo padre in quei giorni avventurosi. Gli piaceva immaginarsi insieme a Baba jan mentre sparava agli elicotteri russi, faceva esplodere i carri armati, schivava le pallottole, viveva in montagna e dormiva nelle caverne. Padre e figlio, eroi di guerra.
C’era anche una grande fotografia incorniciata di Baba jan sorridente, accanto al presidente Karzai all’Arg, il palazzo presidenziale di Kabul. Questa foto era più recente, scattata nel corso di una piccola cerimonia durante la quale Baba jan aveva ricevuto un premio per la sua opera umanitaria a Shadbagh-e-Nau. Era un riconoscimento che Baba jan si era veramente meritato. La nuova scuola femminile era solo il suo ultimo progetto. Adel sapeva che un tempo in città le donne morivano regolarmente di parto. Ma ora non più, perché suo padre aveva aperto una grande clinica, gestita da due medici e tre ostetriche, il cui stipendio pagava di tasca propria. Tutti gli abitanti ricevevano cure mediche gratuite; tutti i bambini di Shadbagh-e-Nau erano vaccinati. Baba jan aveva inviato in tutta la città squadre di operai per localizzare le sorgenti dove scavare pozzi. Era stato Baba jan a portare finalmente in città l’elettricità a tempo pieno. Almeno una dozzina di aziende avevano aperto grazie ai suoi prestiti, che, come Adel aveva saputo da Kabir, raramente venivano restituiti.
Era convinto di quanto aveva detto all’insegnante. Sapeva di essere fortunato ad avere per padre un tale uomo.
Proprio mentre Baba jan stava finendo di stringere le mani, Adel scorse un uomo esile avvicinarsi a suo padre. Portava occhiali tondi con una montatura sottile, aveva una corta barba grigia e piccoli denti simili alla punta di un fiammifero bruciato. Dietro di lui c’era un ragazzo, suppergiù dell’età di Adel. I suoi grossi alluci sbucavano da due buchi simmetrici delle scarpe da ginnastica. Sulla testa i capelli arruffati formavano un groviglio compatto. I suoi jeans erano rigidi di polvere e per di più troppo corti. In compenso la T-shirt gli arrivava quasi alle ginocchia.
Kabir si piazzò tra il vecchio e Baba jan. «Ti ho già detto che questo non è il momento buono» disse.
«Voglio solo dire due parole al Comandante» replicò l’uomo.
Baba jan prese Adel per il braccio e lo fece salire con garbo sul retro del Land Cruiser. «Andiamo, figliolo. Tua madre ti aspetta.» Salì accanto a Adel e chiuse la portiera.
In macchina, mentre venivano chiusi i finestrini oscurati, Adel vide che Kabir diceva qualcosa al vecchio, ma non riuscì a sentire. Poi la guardia passò davanti al SUV e si sedette al volante, posando il suo kalashnikov sul sedile del passeggero, prima di avviare il motore.
«Cosa voleva?» chiese Adel.
«Niente d’importante» rispose Kabir.
Imboccarono la strada principale. Alcuni ragazzi che si trovavano tra la folla inseguirono il Land Cruiser per un breve tratto, prima che prendesse velocità. Kabir percorse la strada gremita di passanti, che divideva in due la città di Shadbagh-e-Nau, suonando spesso il clacson mentre s’infilava nel traffico. Tutti gli davano la precedenza. Alcuni salutavano con la mano. Adel osservava i marciapiedi affollati sui due lati, sfiorando con lo sguardo lo spettacolo familiare: le carcasse che pendevano dai ganci nelle macellerie; i fabbri che fissavano cerchioni di ferro alle ruote di legno, azionando a mano il mantice; i fruttivendoli che scacciavano le mosche da uva e ciliegie; il barbiere che, seduto sulla poltroncina di vimini sul marciapiedi, affilava il rasoio. Passarono davanti a botteghe del tè, negozi di kebab, un meccanico, una moschea, prima che Kabir girasse attorno alla grande piazza, al centro della quale c’era una fontana azzurra e un mujahid di pietra alto tre metri, lo sguardo rivolto a est, il turbante elegantemente avvolto sulla testa, un lanciarazzi sulla spalla. Baba jan aveva di persona commissionato la statua a uno scultore di Kabul.
A nord della strada principale sorgevano alcuni quartieri residenziali, per lo più con strade strette in terra battuta e piccole case con il tetto a terrazza, intonacate di bianco, giallo o azzurro. Su qualche tetto era installata una parabola satellitare. A molte finestre sventolava la bandiera afghana. Baba jan aveva detto a Adel che la maggior parte delle case e dei negozi era stata costruita negli ultimi quindici anni e anche grazie al suo intervento. Molti degli abitanti lo consideravano il fondatore di Shadbagh-e-Nau e Adel sapeva che gli anziani avevano proposto di dare alla città il suo nome, ma lui aveva declinato l’onore.
Da qui la strada principale correva verso nord per tre chilometri prima di arrivare a Shadbagh-e-Kohna, la Vecchia Shadbagh. Adel non aveva idea di come fosse il villaggio decenni prima. Quando Baba jan vi si era trasferito da Kabul con lui e sua madre, il vecchio villaggio era ormai sparito. Tutte le case erano state demolite e l’unico cimelio sopravvissuto era il mulino a vento in rovina. A Shadbagh-e-Kohna, Kabir lasciò la strada principale svoltando a sinistra in un’ampia carrozzabile sterrata, lunga meno di mezzo chilometro, che univa la strada principale al complesso residenziale circondato da mura alte una trentina di metri dove Adel viveva con i suoi genitori, l’unica costruzione di Shadbagh-e-Kohna, a parte il vecchio mulino. Adel vedeva ora le mura bianche, mentre il SUV avanzava sobbalzando sul viale. Sulla sommità delle mura correvano spirali di filo spinato.
La guardia in uniforme che sorvegliava l’ingresso principale del complesso fece il saluto militare e aprì il portone. Kabir entrò con il SUV all’interno delle mura, seguendo il sentiero di ghiaia che portava alla casa.
La villa era alta tre piani ed era dipinta di rosa squillante e verde turchese. Aveva altissime colonne, cornicioni a pagoda e vetri a specchio che scintillavano al sole. C’erano parapetti, una veranda con mosaici scintillanti e ampi balconi con balaustre tonde in ferro battuto. Dentro c’erano nove camere da letto e sette sale da bagno; talvolta, quando Adel e Baba jan giocavano a nascondino, il ragazzo girovagava per un’ora o più prima di trovare il padre. Tutti i piani d’appoggio dei bagni e della cucina erano in granito o marmo. Recentemente, con grande gioia di Adel, Baba jan aveva parlato di costruire una piscina nel seminterrato.
Kabir si fermò nel viale circolare fuori dal grande portone della casa. Spense il motore.
«Ci lasci soli un minuto?» disse Baba jan.
Kabir annuì e scese dalla macchina. Adel lo seguì con lo sguardo mentre saliva i gradini di marmo che conducevano al portone e suonava. Fu Azmaray, l’altra guardia del corpo – un individuo basso, tarchiato, dai modi spicci – ad aprirgli. I due uomini si scambiarono qualche parola, poi si fermarono sui gradini accendendo una sigaretta.
«Devi davvero partire?» chiese Adel. Suo padre sarebbe partito per il sud il mattino dopo, per ispezionare i suoi campi di cotone nella provincia di Helmand e incontrare gli operai della fabbrica che vi aveva costruito. Sarebbe rimasto lontano un paio di settimane, un lasso di tempo che a Adel sembrava interminabile.
Baba jan si voltò verso di lui. Con la sua mole, che occupava più di metà del sedile posteriore, faceva quasi scomparire Adel. «Vorrei non dover partire, figliolo.»
Adel fece cenno di sì con la testa. «Oggi sono stato orgoglioso. Sono stato orgoglioso di te.»
Baba jan appoggiò la sua pesante manona sul ginocchio di Adel. «Grazie, Adel. Lo apprezzo. Ma ti porto a queste cerimonie perché tu possa imparare, perché tu capisca che è importante per chi è fortunato, per le persone come noi, vivere all’altezza delle proprie responsabilità.»
«Vorrei soltanto che non dovessi sempre partire.»
«Anch’io, figliolo. Anch’io. Ma partirò soltanto domani mattina. Questa sera resterò a casa.»
Adel si guardò le mani.
«Ascolta,» disse suo padre a bassa voce «la gente di questa città ha bisogno di me, Adel. Ha bisogno del mio aiuto per avere una casa, per trovare un lavoro e guadagnarsi da vivere. Kabul ha i suoi problemi. Non può aiutarli. Dunque, se non li aiuto io, nessuno li aiuterà. E allora questa gente soffrirà.»
«Lo so» balbettò Adel.
Baba jan gli strinse affettuosamente il ginocchio. «Senti la mancanza di Kabul e dei tuoi amici, lo so. È stato duro adattarsi a questo posto, sia per te che per tua madre. Mi rendo conto che sono sempre in viaggio, ma non posso mancare ai miei appuntamenti e un sacco di gente avanza pretese sul mio tempo. Ma... guardami, figliolo.»
Adel guardò Baba jan negli occhi. Da sotto le sopracciglia cespugliose brillavano di una luce tenera.
«Per me nessuno è più importante di te, Adel. Tu sei mio figlio. Rinuncerei volentieri a tutto questo per te. Rinuncerei alla mia vita per te, figliolo.»
Adel aveva gli occhi umidi. Talvolta, quando Baba jan gli parlava in questo modo, Adel sentiva il cuore gonfiarsi, al punto che gli era difficile respirare. «Mi capisci?»
«Sì, Baba jan.»
«Mi credi?»
«Sì.»
«Bene. Allora da’ un bacio a tuo padre.»
Adel gettò le braccia attorno al collo di Baba jan e suo padre lo tenne stretto a lungo. Adel ricordava che da piccolo, quando dava un colpetto sulla spalla del padre nel cuore della notte, ancora turbato da un brutto sogno, Baba jan spingeva indietro la coperta e lasciava che il bambino s’infilasse nel letto accanto a lui, lo abbracciava e lo baciava sulla testa finché Adel smetteva di tremare, scivolando nuovamente nel sonno.
«Forse ti porterò un regalino dall’Helmand.»
«Non è necessario» disse Adel con voce appena udibile. Aveva già più giocattoli di quanti ne potesse usare. E non c’era nessun giocattolo sulla terra che potesse compensare l’assenza di suo padre.
Quel giorno stesso, Adel stava appollaiato a metà della scala e spiava la scena che si svolgeva sotto di lui. Kabir aveva risposto a una scampanellata. Ora era appoggiato allo stipite con le braccia incrociate e bloccava l’ingresso mentre parlava con la persona fuori dalla porta. Adel vide che era il vecchio che si era presentato all’inaugurazione della scuola, la mattina, l’uomo occhialuto con i denti simili a fiammiferi bruciati. Alle sue spalle c’era ancora il ragazzo con i buchi nelle scarpe.
Il vecchio chiese: «Dov’è andato?».
Kabir rispose: «Al sud, per affari».
«Ho sentito dire che sarebbe partito domani.»
Kabir fece spallucce.
«Quanto tempo starà via?»
«Due, forse tre mesi. Chi lo sa?»
«Non è questo che ho sentito dire.»
«Stai mettendo a dura prova la mia pazienza, vecchio» lo avvertì Kabir stendendo le braccia lungo i fianchi.
«Lo aspetterò.»
«Non qui.»
«In strada, intendevo.»
Kabir si muoveva con impazienza. «Fa’ come credi, ma il Comandante è un uomo molto occupato. Non so quando tornerà.»
Il vecchio si allontanò seguito dal ragazzo.
Kabir chiuse la porta.
Adel scostò la tenda del soggiorno e dalla finestra osservò il vecchio e il ragazzo che camminavano sul viale sterrato che collegava la residenza alla strada principale.
«Gli hai mentito» disse Adel.
«Fa parte del lavoro per cui sono pagato: proteggere tuo padre dalle sanguisughe.»
«Cosa vuole, dunque, dei soldi?»
«Qualcosa del genere.»
Kabir si sedette sul divano e si tolse le scarpe. Lo guardò e gli fece l’occhiolino. A Adel Kabir era simpatico, molto più di Azmaray, che era sgradevole e raramente gli rivolgeva la parola. Kabir giocava a carte con lui e lo invitava a guardare insieme i DVD. Era un appassionato di cinema. Possedeva una collezione di film che aveva comprato al mercato nero e ne guardava una dozzina alla settimana: iraniani, francesi, americani, e naturalmente Bollywood, per lui erano tutti la stessa cosa. E a volte, se la madre era in un’altra stanza e Adel prometteva di non dirlo a suo padre, Kabir toglieva il caricatore del suo kalashnikov e gli permetteva d’imbracciarlo, come un mujahid. Ora il kalashnikov era appoggiato alla parete accanto alla porta d’ingresso.
Kabir si sdraiò sul divano, appoggiando i piedi sul bracciolo, e incominciò a sfogliare un giornale.
«Avevano un’aria del tutto innocua» osservò Adel, lasciando andare la tenda e girandosi verso Kabir. Vedeva la fronte della guardia del corpo al di sopra del giornale.
«Allora avrei dovuto invitarli per il tè» bofonchiò Kabir. «Offrirgli anche il dolce.»
«Non scherzare.»
«Tutti hanno un’aria innocua.»
«Baba jan ha intenzione di aiutarli?»
«Probabile» sospirò Kabir. «Tuo padre è come un fiume per la sua gente.» Abbassò il giornale e sorrise. «Chi ha detto questa frase? Su, Adel. L’abbiamo visto il mese scorso.» Il ragazzo alzò le spalle e si avviò su per le scale.
«Lawrence» gridò Kabir dal divano. «Lawrence d’Arabia. E a dirle era Anthony Quinn.» E poi, nel momento in cui Adel raggiunse l’ultimo gradino: «Sono sanguisughe, Adel. Non abboccare. Spennerebbero tuo padre, se potessero».
Una mattina, un paio di giorni dopo che suo padre era partito per l’ Helmand, Adel salì in camera dei suoi genitori. Dall’interno arrivava musica a tutto volume, martellante. Entrò e trovò sua madre in calzoncini corti e T-shirt, davanti al gigantesco schermo di una tv al plasma, che imitava i movimenti di un trio di bionde sudate, una serie di salti, flessioni, affondi e esercizi per gli addominali. La madre lo scorse nel grande specchio della toilette.
«Vuoi fare ginnastica con me?» gridò, ansimando per farsi sentire sopra la musica assordante.
«Mi metto a sedere qui» disse lui. Si lasciò scivolare sul pavimento coperto di moquette e osservò sua madre, che si chiamava Aria, attraversare la stanza e tornare indietro con una serie di balzi. La madre di Adel aveva mani e piedi delicati, il nasino all’insù, e un viso grazioso come le attrici dei film di Bollywood tanto amati da Kabir. Era sottile, agile e giovane: aveva solo quattordici anni quando era andata in sposa a Baba jan. Adel aveva anche un’altra madre più anziana e tre fratellastri maggiori, ma Baba jan li aveva sistemati a Jalalabad, nell’est del paese e Adel li vedeva più o meno una volta al mese quando il padre lo portava in visita. A differenza di sua madre e della matrigna, che non si amavano affatto, Adel e i suoi fratellastri andavano molto d’accordo. Quando si recava a Jalalabad lo accompagnavano nei parchi, nei bazar, al cinema, e ai tornei di buzkashi. Giocavano con lui a Resident Evil e sparavano agli zombi di Call of Duty, e lo facevano sempre giocare nella loro squadra di calcio nelle partite di quartiere. Gli sarebbe immensamente piaciuto che abitassero lì, vicino a lui.
Adel guardò sua madre stesa sulla schiena che alzava le gambe tenendole tese per poi abbassarle di nuovo, con una palla di plastica azzurra tra le caviglie nude.
La verità era che a Shadbagh Adel moriva di noia. Non si era fatto un solo amico nei due anni da che era arrivato. Non poteva andare in città in bicicletta, certamente non da solo, non con la sfilza di sequestri che si erano verificati dovunque nella regione, anche se di tanto in tanto se la svignava, per breve tempo, sempre rimanendo all’interno del perimetro del complesso. Non aveva compagni di scuola, perché Baba jan non gli permetteva di frequentare la scuola del quartiere. Per ragioni di sicurezza, diceva. Così, ogni mattina, l’insegnante si presentava a casa per le lezioni. Adel passava la maggior parte del tempo leggendo oppure tirando calci al pallone, da solo, o guardando film con Kabir, spesso gli stessi, più e più volte. Vagabondava ozioso per gli ampi corridoi dall’alto soffitto della loro immensa casa, per le grandi stanze vuote, oppure si sedeva alla finestra della sua stanza da letto al piano di sopra. Viveva in una casa favolosa, ma in un mondo chiuso. C’erano giorni in cui si sarebbe sparato dalla noia.
Sapeva che anche sua madre si sentiva terribilmente sola. Cercava di riempire le giornate con la routine, il mattino un po’ di ginnastica, la doccia, la colazione, poi la lettura e il giardinaggio, e nel pomeriggio una soap opera indiana. Quando Baba jan era in viaggio, il che accadeva spesso, la mamma portava sempre una felpa grigia e scarpe da ginnastica, non si truccava e teneva i capelli raccolti in uno chignon sulla nuca. Apriva raramente lo scrigno dei gioielli dove custodiva tutti gli anelli, le collane e gli orecchini che Baba jan le portava da Dubai. A volte passava ore al telefono con la sua famiglia a Kabul. Solo quando sua sorella o i suoi genitori venivano in visita per qualche giorno, ogni due o tre mesi, Adel vedeva sua madre tornare in vita. Indossava un lungo abito con un disegno fantasia e scarpe con i tacchi alti e si truccava. Le brillavano gli occhi e la casa risuonava delle sue risate. Ed era in queste occasioni che Adel intravvedeva la persona che sua madre era stata un tempo.
Quando Baba jan era lontano, Adel e sua madre cercavano di confortarsi reciprocamente. Componevano puzzle e giocavano a golf o a tennis sulla Wii di Adel. Ma il passatempo preferito del ragazzo quando si trovava solo con la madre erano le costruzioni con gli stuzzicadenti. Su un foglio di carta lei faceva un disegno dell’edificio in tre dimensioni, completo di portico, tetto a doppio spiovente, con scale all’interno e pareti che separavano le diverse stanze. Costruivano come prima cosa le fondamenta, poi le pareti interne e le scale; ammazzavano ore applicando con cura la colla agli stuzzicadenti e mettendo ad asciugare le singole parti. La madre gli aveva detto che quando era giovane, prima di sposare Baba jan, aveva sognato di diventare architetto.
Era stato mentre erano impegnati nella costruzione di un grattacielo che gli aveva raccontato come lei e Baba jan si erano sposati.
Di fatto doveva sposare la mia sorella maggiore.
Zia Nargis?
Sì. Eravamo a Kabul. Un giorno lui la vide per strada e questo gli bastò. Doveva sposarla. Il giorno successivo si presentò a casa nostra, lui e cinque dei suoi uomini. In pratica si autoinvitarono. Portavano tutti gli scarponi. Scosse la testa e rise, come se fosse una cosa comica quella che Baba jan aveva fatto, ma non rise nel modo in cui rideva di solito quando trovava una cosa divertente. Avresti dovuto vedere l’espressione dei tuoi nonni.
Baba jan, i suoi uomini e i genitori della mamma si erano seduti in soggiorno. Lei era in cucina a preparare il tè mentre loro parlavano. C’era un problema, disse la mamma, perché sua sorella Nargis era già fidanzata, promessa a un cugino che viveva ad Amsterdam dove studiava ingegneria. Come avrebbero potuto rompere il fidanzamento? chiesero i suoi genitori.
E poi entro io portando un vassoio con il tè e i dolci. Riempio le tazze e poso i dolci sul tavolo, tuo padre mi vede e mentre mi volto per uscire, dice: «Forse avete ragione. Non è giusto rompere un fidanzamento, ma se lei mi dice che anche questa è impegnata, allora dovrò pensare che non tenete minimamente a me». Poi scoppiò in una risata. Ed è stato così che ci siamo fidanzati.
Prese un tubetto di colla.
Ti piaceva?
Fece una scrollatina di spalle. A dire il vero più che altro mi faceva paura.
Ma adesso ti piace, giusto? Gli vuoi bene.
Naturalmente. Che domanda!
Non rimpiangi di averlo sposato.
Posò la colla e aspettò qualche secondo prima di rispondere. Guarda la nostra vita, Adel, disse con calma. Guardati attorno. Cosa dovrei rimpiangere? Sorrise e gli tirò affettuosamente il lobo dell’orecchio. E poi non avrei avuto te.
La madre di Adel spense la tv e si sedette sul pavimento ansimando, asciugandosi con un telo il sudore che le colava dal collo.
«Perché non fai qualcosa per conto tuo questa mattina?» chiese distendendo la schiena. «Dopo la doccia farò colazione. E voglio chiamare i tuoi nonni. Non li sento da un paio di giorni.»
Adel si alzò con un sospiro.
Nella sua camera, in una diversa ala della casa, prese il pallone e si mise la maglia di Zidane che Baba jan gli aveva regalato per il suo ultimo compleanno, il dodicesimo. Quando scese a pianterreno trovò Kabir che sonnecchiava con un giornale steso sul petto a mo’ di coperta. Prese una lattina di succo di mela dal frigorifero e uscì.
Percorse il sentiero di ciottoli che conduceva all’entrata principale del complesso. La garitta dove la sentinella armata faceva la guardia era vuota. Adel conosceva gli orari dei turni di guardia. Aprì con aria circospetta il cancello e uscì, chiudendolo alle spalle. Dopo un attimo ebbe l’impressione di respirare meglio da questo lato delle mura. Certi giorni la sua casa assomigliava troppo a una prigione.
S’incamminò all’ombra dell’alto muro, lontano dalla strada principale, verso la parte terminale del complesso, dove c’era il frutteto di cui Baba jan andava molto fiero. Filari paralleli di peri, meli, albicocchi, ciliegi, fichi e anche nespoli si stendevano per diversi ettari. Spesso, quando andavano a camminare nel frutteto, Baba jan se lo caricava sulle spalle e lui coglieva un paio di mele mature che addentavano sul posto. Fra la residenza e il frutteto c’era un terreno incolto quasi completamente vuoto, non fosse stato per una baracca dove i giardinieri tenevano gli attrezzi. C’era però anche un’altra cosa, il ceppo piatto di quello che, a quanto sembrava, doveva essere stato un vecchio albero gigante. Un giorno Baba jan aveva contato i suoi anelli e aveva concluso che l’albero probabilmente aveva visto passare l’esercito di Gengis Khan. Scuotendo tristemente la testa disse che chiunque avesse abbattuto quell’albero era stato un pazzo.
Era una giornata calda, il sole splendeva nel cielo di un turchino perfetto, come quello dei disegni che Adel colorava con i pastelli quando era piccolo. Posò la lattina di succo di mela sul ceppo e si esercitò a lanciare e riprendere la palla come un giocoliere. Il suo record personale era di sessantotto lanci senza lasciarla cadere a terra. L’aveva stabilito la primavera precedente e ora, a metà dell’estate, stava ancora cercando di migliorarlo. Adel aveva fatto ventotto lanci quando si rese conto che qualcuno lo stava osservando. Era il ragazzo che accompagnava il vecchio il quale, il mattino della cerimonia d’inaugurazione della scuola, aveva cercato di avvicinare Baba jan. Ora se ne stava accucciato all’ombra della baracca di mattoni.
«Cosa ci fai qui?» chiese Adel, cercando di imitare il tono arrogante di Kabir quando parlava con gli estranei.
«Mi riposo» rispose il ragazzo. «Non dirlo a nessuno.»
«Non dovresti essere qui.»
«Neanche tu.»
«Cosa?»
Il ragazzo ridacchiò. «Lascia perdere.» Stirò le braccia e si alzò. Adel cercò di sbirciare se aveva le tasche piene. Forse era venuto qui per rubare la frutta. Il ragazzo si avvicinò a Adel e con un piede sollevò il pallone, fece un paio di rapidi lanci in alto, poi con il tallone lo rispedì a Adel, che lo afferrò mettendolo sotto il braccio.
«Là sulla strada, dove il tuo gorilla ci ha detto di aspettare, non c’è un filo d’ombra. E in cielo neanche una nuvola a pagarla.»
Adel sentì il bisogno di difendere Kabir. «Non è un gorilla.»
«Be’, si è premurato di mostrarci il suo kalashnikov, questo te lo posso assicurare.» Guardò senza scomporsi Adel, con un sorrisetto divertito sulle labbra. Poi sputò per terra. «Vedo che sei un fan del bufalo.»
Ci volle un attimo prima che Adel capisse a chi si riferiva. «Non puoi giudicarlo per l’unico errore che ha commesso. Era il migliore. Era il mago della metà campo.»
«Ho visto di meglio.»
«Davvero? Chi, per esempio?»
«Per esempio, Maradona.»
«Maradona?» disse Adel offeso. Aveva già avuto la medesima discussione con un suo fratellastro a Jalalabad. «Maradona imbrogliava. “Mano di Dio”, ricordi?»
«Tutti imbrogliano e tutti mentono.»
Il ragazzo s’incamminò sbadigliando. Era alto più o meno come Adel, forse qualcosa in più e probabilmente aveva anche la sua stessa età, pensò Adel. Ma camminava come se fosse più vecchio, senza fretta e con l’aria di chi aveva già visto quanto c’era da vedere e non si faceva più sorprendere da niente.
«Mi chiamo Adel.»
«Gholam.» Si strinsero la mano. La stretta di Gholam era forte, il palmo secco e calloso.
«Quanti anni hai?»
Gholam alzò le spalle. «Tredici, credo, forse quattordici ormai.»
«Non sai quando è il tuo compleanno?»
Gholam sorrise. «Scommetto che tu il tuo lo sai. Scommetto che conti i giorni che mancano.»
«Non è vero» si difese Adel. «Cioè, non conto i giorni che mancano al mio compleanno.»
«Devo andare. Mio padre è da solo che aspetta.»
«Pensavo fosse tuo nonno.»
«Ti sbagliavi.»
«Facciamo una sfida. Un tiro a ciascuno» propose Adel.
«Vuoi dire come ai calci di rigore?»
«Cinque ciascuno... Vince chi ne segna di più.»
Gholam sputò di nuovo, guardò verso la strada e poi di nuovo Adel. Adel aveva notato che il mento del ragazzo era un po’ troppo piccolo per la sua faccia e che davanti aveva due canini supplementari sovrapposti agli altri. Uno in particolare era malamente scheggiato e guasto. Il sopracciglio sinistro era diviso a metà da una breve cicatrice filiforme. Inoltre, puzzava. Ma Adel non parlava, né tanto meno giocava con un suo coetaneo da quasi due anni, se si escludevano le visite mensili a Jalalabad. Si preparò a una delusione, ma Gholam fece spallucce e disse: «Cazzo, perché no? Ma tiro prima io».
Come porta usarono due pietre poste a otto passi di distanza l’una dall’altra. Gholam fece i suoi cinque tiri. Segnò un punto, fece due tiri fuori porta, e Adel facilmente ne parò due. Come portiere Gholam era peggio che come calciatore. Adel riuscì a segnare quattro punti, ogni volta con una finta che induceva Gholam a lanciarsi nella direzione opposta a quella del tiro.
«Fanculo» disse Gholam, piegato in due con le mani sulle ginocchia.
«Rivincita?» Adel cercava di non gongolare, ma gli era difficile. Dentro di sé esultava.
Gholam acconsentì e il risultato fu ancora più clamorosamente impari. Riuscì a segnare un goal, ma Adel mise a segno tutti e cinque i suoi tiri.
«Basta, sono spompato» disse Gholam, alzando le braccia. Si trascinò verso il ceppo e vi si accasciò con un gemito. Adel, stringendo a sé il pallone, si sedette accanto a lui.
«Queste non mi aiutano di certo» disse Gholam pescando un pacchetto di sigarette dalla tasca dei jeans. Ne era rimasta una. L’accese sfregando il fiammifero una sola volta, aspirò soddisfatto e l’offrì a Adel, che era tentato di accettarla, non fosse stato che per impressionarlo, ma poi rifiutò, preoccupato che Kabir o sua madre gli sentissero addosso odore di fumo.
«Saggio» disse Gholam piegando indietro la testa.
Per un po’ chiacchierarono pigramente di calcio e, con grande sorpresa di Adel, Gholam si rivelò un intenditore. Parlarono della loro partita preferita e si scambiarono racconti sui goal che li avevano colpiti di più. Ciascuno fece la lista di quelli che considerava i cinque calciatori migliori; era praticamente la stessa, solo che Gholam incluse Ronaldo il brasiliano, mentre Adel scelse Ronaldo il portoghese. Inevitabilmente finirono per parlare della finale del 2006 e del ricordo, doloroso per Adel, dell’incidente della testata. Gholam disse di aver guardato tutta la partita in mezzo alla folla che si era radunata davanti alla vetrina di un negozio di tv non lontano dal campo.
«Quale campo?»
«Quello in cui sono cresciuto in Pakistan.»
Disse a Adel che questa era la prima volta che veniva in Afghanistan. Aveva trascorso tutta la sua vita in Pakistan, nel campo profughi di Jalozai, dove era nato. Disse che Jalozai era come una città, un immenso dedalo di tende, di casupole di fango, di baracche con le pareti di plastica e di alluminio, in un labirinto di stretti viottoli cosparsi di spazzatura e di merda. Era una città nel ventre di una città ancora più grande. Gholam e i suoi fratelli, lui era il maggiore, erano cresciuti lì, in una casupola d’argilla con la madre, il padre, che si chiamava Iqbal, e la nonna paterna, Parwana. In questi viottoli avevano imparato a camminare e a parlare. Là erano andati a scuola. E lui aveva giocato a inseguire con un bastone cerchioni arrugginiti di vecchie biciclette, correndo per il campo con gli altri ragazzi rifugiati, finché il sole tramontava e la nonna lo richiamava in casa.
«Mi piaceva stare al campo. Avevo un sacco di amici e conoscevo tutti. E poi ce la cavavamo bene. Ho uno zio in America, il fratellastro di mio padre, lo zio Abdullah. Non l’ho mai conosciuto. Ma ci spediva soldi ogni tanto. Per noi erano una manna. Una vera manna.»
«Perché siete andati via?»
«Non potevamo far altro. I pakistani hanno chiuso il campo. Dicevano che gli afghani dovevano tornare in Afghanistan. E poi un giorno i soldi dello zio smisero di arrivare. Allora mio padre disse che tanto valeva che tornassimo a casa e ricominciassimo da capo, ora che i talebani si erano riversati sul lato pakistano del confine. Disse che in Pakistan eravamo ospiti indesiderati. Ero veramente depresso.» Poi, indicando attorno a sé con un gesto della mano, aggiunse: «Questo per me è un paese straniero. E i ragazzi del campo, quelli che venivano dall’Afghanistan? Nessuno parlava bene di questo paese».
Adel avrebbe voluto dire che capiva come si sentiva Gholam. Avrebbe voluto dirgli quanto gli mancavano Kabul, i suoi amici e i suoi fratellastri di Jalalabad. Ma temeva che Gholam potesse ridere di lui. Quindi si limitò a osservare: «Be’ qui c’è da annoiarsi mica male».
Gholam rise. «Non credo che intendessero questo.»
Adel ebbe l’impressione di essere stato redarguito.
Gholam fece un tiro ed espirò una serie di anelli. Insieme li osservarono alzarsi lentamente e fluttuare, per poi svanire.
«Mio padre ci diceva: “Aspettate, aspettate di respirare l’aria di Shadbagh, ragazzi, e di gustare la sua acqua”. È nato qui, mio padre, e qui è cresciuto. Diceva: “Voi non avete mai bevuto un’acqua così fresca, così dolce, figlioli”. Non faceva altro che parlarci di Shadbagh, che immagino non fosse altro che un piccolo villaggio quando lui viveva qui. Diceva che c’era un tipo d’uva che si coltivava solo a Shadbagh, in nessun’altra parte del mondo. Avresti pensato che stesse descrivendo il Paradiso.»
Adel gli chiese dove abitava adesso. Gholam gettò via il mozzicone della sigaretta, guardò il cielo, socchiudendo gli occhi per l’intensità della luce. «Conosci il campo vicino al mulino a vento?»
«Sì.»
Adel aspettò che continuasse, ma Gholam non continuò.
«Abiti in un campo?»
«Per il momento» borbottò Gholam. «Abbiamo una tenda.»
«Non hai una famiglia qui?»
«No. Sono morti o se ne sono andati. Be’, mio padre ha uno zio a Kabul. O forse l’aveva. Chissà se è ancora vivo. Era il fratello della nonna, e lavorava per una ricca famiglia di Kabul. Ma penso che Nabi e mia nonna non si parlino da decenni, da cinquant’anni e più, credo. Sono praticamente degli estranei. Penso che, se mio padre si trovasse in cattive acque, si rivolgerebbe a lui. Ma vuole cavarsela da solo, qui. Questo è il suo paese.»
Passarono qualche minuto in silenzio, seduti sul ceppo, osservando le foglie del frutteto tremolare alle folate di vento caldo. Adel pensava a Gholam e alla sua famiglia che trascorrevano le notti in una tenda, con scorpioni e bisce che strisciavano tutt’attorno.
Non sapeva esattamente perché avesse finito per raccontare a Gholam il motivo per cui i suoi genitori avevano lasciato Kabul. C’erano molte ragioni e forse non sapeva quale scegliere. Forse l’aveva fatto perché Gholam non pensasse che conduceva un’esistenza spensierata solo perché viveva in una grande casa. Oppure si era trattato di una specie di bullismo da cortile scolastico. O ancora di una richiesta di solidarietà. O forse per ridurre la distanza tra loro. Non lo sapeva. Forse per tutte queste ragioni insieme. Né avrebbe saputo dire perché gli sembrava importante risultare simpatico a Gholam; capiva soltanto, anche se in modo confuso, che la ragione era più complessa del semplice fatto di essere spesso solo e di desiderare di avere un amico.
«Ci trasferimmo a Shahbagh perché qualcuno aveva cercato di ucciderci a Kabul» disse. «Un giorno una motocicletta si fermò davanti a casa nostra e chi guidava crivellò la facciata di proiettili. Non è stato catturato. Ma grazie a Dio nessuno di noi fu colpito.»
Qualunque reazione si fosse aspettato, rimase deluso, perché Gholam non ne mostrò alcuna. Continuando a guardare il sole con gli occhi semichiusi disse: «Già, lo so».
«Lo sai?»
«Se tuo padre si gratta il naso, tutti lo vengono a sapere.»
Adel lo guardò appallottolare il pacchetto di sigarette vuoto e infilarlo nella tasca dei jeans.
«Non gli mancano davvero i nemici, a tuo padre» sospirò Gholam.
Adel lo sapeva. Baba jan gli aveva spiegato che alcuni dei mujahidin che avevano combattuto con lui contro i sovietici negli anni Ottanta erano diventati potenti e corrotti. Avevano tralignato, diceva. E, poiché lui non voleva partecipare alle loro imprese criminali, cercavano di scalzarlo, di infangare il suo nome, diffondendo voci false e offensive su di lui. Ecco perché Baba jan cercava sempre di tutelare il figlio: non permetteva che in casa entrassero i giornali, per esempio, e non voleva che Adel guardasse il telegiornale o navigasse in internet.
Gholam si piegò verso Adel e disse: «Si dice anche che coltiva mica male».
Adel fece spallucce. «Lo vedi da te. Qualche ettaro di frutteto. Be’ anche i campi di cotone nell’Helmand, immagino, per la fabbrica.»
Gholam scrutò gli occhi di Adel, mentre un sorriso lento gli si apriva sulla faccia, mettendo in mostra il suo canino guasto. «Cotone. Sei un fenomeno. Non so cosa dire.»
Adel non capiva. Si alzò e fece qualche palleggio. «Vuoi la rivincita?»
«Ok. Vada per la rivincita.»
«Andiamo.»
«Solo che questa volta scommetto che non segni neanche un goal.»
Ora fu Adel a ridacchiare. «Quanto scommetti?»
«Semplice. La maglia di Zidane.»
«E se vinco io? Anzi quando vincerò io?»
«Se fossi in te non mi preoccuperei di questa eventualità.»
Fu una sfida veloce e brillante. Gholam, tuffandosi a destra e a sinistra, parò tutti i tiri di Adel. Togliendosi la maglia, Adel si sentì uno stupido a essersi lasciato portar via ciò che era legittimamente suo, forse il suo bene più prezioso. Gliela consegnò. Sentì le lacrime che gli pungevano pericolosamente gli occhi, ma a fatica le respinse.
Gholam ebbe almeno il tatto di non infilarsela in sua presenza. Mentre se ne andava si voltò con un sorriso. «Tuo padre non starà via per tre mesi, vero?»
«Domani ti sfiderò per riaverla» disse Adel. «La maglia.»
«Ci devo pensare.»
Gholam si diresse verso la strada principale. Giunto a metà, si fermò, ripescò dalla tasca il pacchetto di sigarette che aveva accartocciato e lo tirò oltre il muro della casa di Adel.
Ogni giorno per una settimana, dopo le lezioni del mattino, Adel prese il pallone e uscì dal complesso. Per due volte riuscì a sincronizzare le sue fughe con gli orari di ronda della guardia armata. Ma la terza volta fu intercettato dall’uomo, che non lo lasciò uscire. Adel rientrò in casa e tornò con un iPod e un orologio. Da quel momento la guardia lo lasciò uscire ed entrare di nascosto, purché non superasse il limite del frutteto. Quanto a Kabir e a sua madre, quasi non si accorgevano se Adel mancava per un’ora o due. Era uno dei vantaggi di vivere in una casa così grande.
Adel giocava da solo dietro la residenza, non lontano dal ceppo del campo incolto, nella speranza che Gholam prima o poi si facesse vivo. Non perdeva di vista il viale in terra battuta che portava alla strada principale, mentre lanciava e riprendeva il pallone senza lasciarlo cadere, oppure, seduto sul ceppo, osservava un caccia che attraversava il cielo lasciando la sua scia bianca, o ancora, annoiato, tirava sassi a caso. Dopo un po’ raccoglieva il pallone e rientrava lentamente a casa.
Poi un giorno ricomparve Gholam con un sacchetto di carta.
«Dove ti eri cacciato?»
«Lavoro» disse Gholam.
Gli raccontò che lui e suo padre erano stati assoldati per qualche giorno per fabbricare mattoni. Gholam doveva mischiare la malta. Disse che aveva trasportato secchi d’acqua avanti e indietro, e trascinato sacchi di cemento e di sabbia che pesavano più di lui. Spiegò a Adel come mescolava la malta nella carriola, rimestando l’impasto con una zappa, più e più volte, aggiungendo acqua e poi sabbia finché la mistura acquisiva una consistenza omogenea che non si sgretolava. A quel punto spingeva la carriola dove lavoravano i muratori e ritornava in fretta a iniziare un nuovo impasto. Mostrò a Adel le vesciche sul palmo delle mani.
«Wow» esclamò Adel stupidamente, ma non era riuscito a escogitare una risposta diversa. L’unica esperienza di una forma di lavoro manuale l’aveva compiuta un pomeriggio di tre anni prima, quando aveva aiutato il giardiniere a piantare dei giovani meli nel cortile sul retro della casa di Kabul.
«Ho una sorpresa per te» annunciò Gholam. Infilò la mano nel sacchetto e gettò a Adel la maglia di Zidane.
«Non capisco» disse Adel, sorpreso, con cauto entusiasmo.
«L’altro giorno ho visto in città un ragazzo che portava la stessa maglia» disse Gholam, facendogli segno di lanciargli il pallone. Adel glielo tirò con un calcio e Gholam si mise a fare il giocoliere mentre gli raccontava la storia. «Ci crederesti? Mi avvicino e gli dico: “Ehi, questa è la maglia del mio amico”. Mi guarda. Per farla breve, sistemiamo la questione in un vicolo. Alla fine è lui che prega me di prendere la maglia!» Afferrò il pallone al volo sorridendo a Adel. «Forse gliel’avevo venduta io un paio di giorni prima.»
«Ma non è giusto. Se gliel’avevi venduta era sua.»
«Cosa? Adesso non la vuoi? Dopo tutto quello che ho fatto per restituirtela? Non credere che sia stato solo io a menarlo. Anche lui mi ha piazzato qualche pugno di tutto rispetto.»
«Comunque...» borbottò Adel.
«E poi, ti avevo buggerato all’inizio e questo mi faceva stare male. Ora ti riprendi la tua maglia. E quanto a me...» Indicò i suoi piedi e Adel vide un nuovo paio di scarpe da tennis bianche e blu.
«E l’altro tizio, sta bene?»
«Sopravviverà. Adesso giochiamo o andiamo avanti a discutere?»
«Sei qui con tuo padre?»
«Oggi no. È in tribunale a Kabul. Dai, diamoci una mossa.»
Giocarono per un po’, calciando il pallone avanti e indietro e rincorrendolo in tondo. Poi andarono a fare una passeggiata ed entrarono nel frutteto. Così Adel venne meno alla promessa fatta alla guardia. Mangiarono le nespole che coglievano dagli alberi e bevvero le lattine di Fanta fresca che Adel aveva preso di nascosto in cucina.
Ben presto iniziarono a vedersi quasi tutti i giorni. Giocavano al pallone, si rincorrevano tra i filari paralleli degli alberi da frutto. Chiacchieravano di sport, di cinema, e quando non avevano niente da dirsi, lasciavano che i loro occhi spaziassero sulla città di Shadbagh-e-Nau, sulle morbide colline lontane e, ancora più lontano, sulla catena montuosa avvolta nella foschia e anche questo a loro stava bene.
Ogni giorno Adel si svegliava con il desiderio di vedere Gholam sbucare di soppiatto sul viale terroso, di sentirlo parlare con la sua voce forte, sicura di sé. Spesso si distraeva durante le lezioni del mattino, la sua attenzione scemava quando pensava ai giochi che avrebbero fatto più tardi, ai racconti che si sarebbero scambiati. Temeva di perdere Gholam. Temeva che suo padre, Iqbal, non trovasse un lavoro continuativo a Shadbagh-e-Nau, o un posto dove abitare, e che Gholam dovesse trasferirsi in un’altra città, in un’altra parte del paese. Adel aveva cercato di prepararsi a questa eventualità, di corazzarsi contro l’addio che sarebbe seguito.
Un giorno, seduti sul ceppo, Gholam chiese: «Sei mai stato con una ragazza, Adel?».
«Vuoi dire...»
«Appunto, voglio dire quello.»
Adel sentì una vampata di calore alle orecchie. Per un attimo pensò di mentire, ma sapeva di essere trasparente per Gholam. Balbettò: «E tu?».
Gholam accese una sigaretta e ne offrì una a Adel. Questa volta Adel l’accettò, guardandosi alle spalle per essere sicuro che la guardia non stesse sbirciando da dietro l’angolo, o che Kabir non avesse deciso di uscire di casa. Fece un tiro e fu immediatamente scosso da un prolungato attacco di tosse che fece ridacchiare Gholam, costringendolo a battergli sulla schiena.
«Allora, sì o no?» chiese Adel, ansimando con gli occhi lacrimosi.
«Un mio amico, quando eravamo al campo» disse Gholam in tono da cospiratore «era più grande di me e mi portò in un bordello di Peshawar.»
Gli raccontò la storia. La stanza piccola, lercia. Le tende arancioni, le pareti piene di crepe, una sola lampadina che pendeva dal soffitto, il topo che aveva visto sfrecciare sul pavimento. Fuori il rumore dei risciò che scoppiettavano su e giù per la strada, il frastuono delle auto. La ragazza sul materasso, che finiva un piatto di biryani, masticava e lo guardava senza espressione. Anche in quella luce debole aveva notato che il suo viso era grazioso e che lei forse non era neppure più vecchia di lui. Dopo aver raccolto con un pezzo di nan piegato in due gli ultimi granelli di riso, respinse il piatto, si sdraiò e si pulì le dita nei pantaloni prima di tirarli giù.
Adel ascoltava affascinato, rapito. Non aveva mai avuto un amico così. Gholam conosceva il mondo persino più dei suoi fratellastri che erano di diversi anni più vecchi di lui. E gli amici di Adel, a Kabul? Erano tutti figli di tecnocrati e di funzionari ministeriali, e vivevano in modo molto simile al suo. Gholam gli aveva permesso di gettare l’occhio nella sua vita, un’esistenza piena di difficoltà, di situazioni imprevedibili, di stenti, ma anche d’avventura, una vita che non aveva niente a che vedere con la sua, anche se in pratica si svolgeva a un tiro di sputo da lui. Ascoltando le storie di Gholam, Adel a volte era colpito dalla disperante piattezza delle sue giornate.
«Allora, l’hai fatto o no?» chiese Adel. «Gliel’hai messo dentro?»
«No. Abbiamo bevuto una tazza di chai e abbiamo parlato di Rumi. Cosa credi?»
Adel arrossì. «Ti è piaciuto?»
Ma Gholam era già passato ad altro. Era spesso questo lo schema delle loro chiacchierate, Gholam sceglieva l’argomento di cui parlare, si gettava appassionatamente in un racconto che catturava Adel, ma poi perdeva interesse e lasciava in sospeso sia lui sia la storia.
Ora, invece di terminare il racconto che aveva iniziato, Gholam disse: «Mia nonna dice che una volta suo marito, mio nonno Sabur, le ha raccontato la storia di questo albero. Be’, questo è successo molto tempo prima che fosse abbattuto, naturalmente. Mio nonno gliel’aveva raccontata quando erano tutti e due bambini. La storia diceva che, se avevi un desiderio, dovevi inginocchiarti davanti all’albero e sussurrarlo. E se l’albero era disposto a soddisfarlo, ti avrebbe lasciato cadere sulla testa esattamente dieci foglie».
«Non ho mai sentito questo storia.»
«Ovvio, come avresti potuto?»
Fu allora che Adel colse veramente il senso del racconto di Gholam. «Aspetta. È stato tuo nonno ad abbattere il nostro albero?»
Gholam lo guardò dritto negli occhi. «Il vostro albero? Non è vostro quest’albero.»
Adel batté le palpebre. «Cosa vuoi dire?»
Gholam ficcò lo sguardo ancora più profondamente negli occhi di Adel che, per la prima volta, non vide traccia dell’abituale buon umore del suo amico, del suo caratteristico sorrisetto o della sua allegria maliziosa. La sua faccia si era trasformata, la sua espressione si era fatta seria, sorprendentemente adulta.
«Quest’albero apparteneva alla mia famiglia, così come questa era la terra della mia famiglia. È nostra da generazioni. Tuo padre ha costruito il suo palazzo sulla nostra terra. Mentre eravamo in Pakistan durante la guerra.» Indicò il frutteto. «Qui c’erano le case della gente. Ma tuo padre le ha demolite con i bulldozer. Così come ha distrutto la casa dove era nato e cresciuto mio padre.»
Adel lo guardava allibito.
«Si è impossessato della nostra terra e ci ha costruito sopra quella...» a questo punto sogghignò indicando con il pollice il complesso, «...quella roba al posto della nostra casa.»
Con un senso di nausea e il cuore che batteva all’impazzata, Adel disse: «Pensavo fossimo amici. Perché mi racconti tutte queste bugie?».
«Ricordi quando ti ho imbrogliato e ti ho preso la maglia?» chiese Gholam arrossendo. «Tu eri sul punto di piangere. Non dire di no. Ti ho visto. Per una maglia. Una maglia. Immaginati come deve essersi sentita la mia famiglia, tornando dal Pakistan, quando siamo scesi dall’autobus e abbiamo trovato questa cosa. E il tuo gorilla con il vestito viola, che ci ordinava di non mettere piede sulla nostra terra.»
«Mio padre non è un ladro!» ribatté Adel. «Chiedi a chi vuoi a Shadbagh-e-Nau, chiedi cosa ha fatto per questa città.» Pensò a come Baba jan riceveva le persone nella moschea, seduto sul pavimento, la tazza di tè davanti a lui, il rosario in mano. Una coda solenne di persone si snodava dal suo cuscino all’ingresso, uomini con le mani infangate, vecchie sdentate, giovani vedove con bambini, tutti bisognosi, in attesa del proprio turno per chiedere un favore, un lavoro, un piccolo prestito per riparare il tetto o un canale d’irrigazione o per comprare il latte in polvere. Suo padre che ascoltava con infinita pazienza, come se ciascuna delle persone in fila fosse per lui quasi un membro di famiglia.
«Davvero? Allora come mi spieghi che mio padre sia in possesso dei documenti di proprietà» chiese Gholam. «Quelli che ha consegnato al giudice in tribunale.»
«Sono sicuro che se tuo padre parlasse a Baba...»
«Il tuo Baba non ha nessuna intenzione di parlare con lui. Non riconoscerà mai quello che ha fatto. Ci passa davanti in macchina come fossimo cani randagi.»
«Non siete cani» si difese Adel. Lottava per mantenere la voce calma. «Siete delle sanguisughe. Proprio come ha detto Kabir. Avrei dovuto saperlo.»
Gholam si alzò, fece un paio di passi, poi si fermò. «Adesso lo sai. Non ho niente contro di te. Tu sei solo un ragazzino ignorante. Ma la prossima volta che Baba va nell’Helmand chiedigli di portarti a vedere quella sua fabbrica. Vedi cosa si coltiva laggiù. Ti metto una pulce nell’orecchio. Non è cotone.»
Quella sera, prima di cena, Adel se ne stava nella vasca da bagno piena di acqua calda, saponosa. Dal pianterreno proveniva il suono della televisione; Kabir stava guardando un vecchio film di pirati. La rabbia che l’aveva dominato tutto il pomeriggio gli era passata, e ora pensava di essere stato troppo duro con Gholam. Una volta Baba jan gli aveva detto che, per quanto ci si desse da fare per i poveri, questi spesso parlavano male dei ricchi. Lo facevano soprattutto perché erano delusi dalla propria vita. Non c’era niente da fare. Era persino naturale. E noi non dobbiamo fargliene una colpa, Adel, aveva detto.
Adel non era così ingenuo da non sapere che il mondo era fondamentalmente ingiusto; gli bastava guardare dalla finestra della sua camera. Ma immaginava che per uno come Gholam, riconoscere questa verità non fosse di alcuna soddisfazione. Forse le persone come lui avevano bisogno di qualcuno su cui riversare la colpa, un obiettivo in carne e ossa, qualcuno che potessero facilmente indicare come responsabile delle loro sofferenze, qualcuno con cui prendersela. E forse Baba jan aveva ragione, quando diceva che la reazione giusta era cercare di capire, sospendere il giudizio. Addirittura rispondere con comprensione. Osservando le bollicine di sapone che salivano scoppiando in superficie, Adel pensava a suo padre, che costruiva scuole e cliniche pur sapendo che in città c’era gente che diffondeva pettegolezzi ingiuriosi nei suoi confronti.
Mentre si asciugava, sua madre fece capolino alla porta del bagno. «Scendi per cena?»
«Non ho fame.»
«Oh.» Entrò nel bagno e prese un telo di spugna dal portasciugamani. «Vieni, siediti. Lascia che ti asciughi i capelli.»
«Lo faccio da solo.»
Alle sue spalle, la madre lo studiava nello specchio. «Ti senti bene, Adel?»
Adel fece spallucce. La madre gli posò una mano sulla spalla e lo guardò aspettandosi che il figlio strofinasse la guancia contro la sua mano. Ma lui non lo fece.
«Mamma, hai mai visto la fabbrica di Baba jan?»
Notò un attimo di esitazione nei movimenti della madre. «Naturalmente. Anche tu l’hai vista.»
«Non sto parlando delle fotografie. L’hai vista dal vero? Ci sei stata?»
«Certo che no» disse sua madre, piegando di lato la testa riflessa nello specchio. «L’Helmand non è un posto sicuro. Tuo padre non rischierebbe mai di metterci in pericolo.»
Dabbasso i cannoni bombardavano e i pirati lanciavano i loro gridi di guerra.
Tre giorni dopo, Gholam si ripresentò. Si avvicinò con passo rapido fermandosi davanti a Adel.
«Sono contento che tu sia venuto» disse Adel. «Ho qualcosa per te.» Dall’alto del ceppo prese il giaccone che portava con sé ogni giorno da quando avevano litigato. Era di pelle color cioccolata, foderato di montone con un cappuccio munito di una cerniera lampo che permetteva di attaccarlo o staccarlo. Lo diede a Gholam. «L’ho portato solo qualche volta. È un po’ grande per me. A te dovrebbe andar bene.»
Gholam non si mosse. «Ieri abbiamo preso l’autobus per Kabul e siamo andati in tribunale» disse in tono piatto. «Indovina cosa ci ha detto il giudice? Ha detto che c’era stato un incidente. Un piccolo incendio. I documenti che dimostravano la proprietà di mio padre erano bruciati. Spariti. Distrutti.»
Adel lasciò cadere lentamente la mano che teneva il giaccone.
«E mentre ci diceva che ora non può farci più niente, senza quei documenti, sai cosa aveva al polso? Un orologio d’oro nuovo di zecca che non portava l’ultima volta che mio padre l’aveva incontrato.»
Adel lo guardò sconcertato.
Gholam lanciò uno sguardo al giaccone. Era uno sguardo tagliente, punitivo, studiato per infliggere vergogna. Fu efficace: Adel si fece piccolo, sentì che il giaccone che teneva in mano stava cambiando di significato, trasformandosi da offerta di pace in strumento di corruzione.
Gholam si voltò di scatto incamminandosi in fretta, a passi decisi, verso la strada lastricata.
La sera del giorno in cui tornò a casa, Baba jan diede una festa. Adel sedeva a fianco di suo padre in capo alla grande tovaglia stesa sul pavimento. Baba jan talvolta preferiva sedersi per terra e mangiare con le mani, soprattutto se gli ospiti erano suoi compagni degli anni del jihad. Mi ricorda il tempo delle caverne, scherzava. Le donne mangiavano al tavolo della sala da pranzo, con cucchiai e forchette, con la madre di Adel a capotavola. Adel sentiva il loro chiacchiericcio, che echeggiava sulle pareti di marmo. Una delle ospiti, una donna dai fianchi pesanti con i capelli tinti di rosso, era fidanzata con un amico di Baba jan. Quella sera aveva mostrato alla madre di Adel sul display della macchina fotografica digitale le foto del negozio di abiti da sposa che aveva visto a Dubai.
Durante il tè del dopo cena, Baba jan raccontò la storia della volta in cui la sua unità aveva teso un’imboscata a una colonna sovietica per impedire che entrasse in una valle, su nel nord. Tutti ascoltavano attentamente.
«Quando furono sotto tiro» disse Baba jan accarezzando distrattamente i capelli di Adel «aprimmo il fuoco. Colpimmo il veicolo in testa alla colonna, poi alcune jeep. Pensavo che si ritirassero o che cercassero di sfondare. Ma quei figli di puttana si fermarono, smontarono e aprirono il fuoco. Ci credereste?»
Un mormorio corse per la sala. Gli uomini scuotevano la testa increduli. Adel sapeva che almeno metà dei presenti erano ex mujahidin.
«Noi eravamo superiori per numero, forse tre a uno, ma loro avevano armi pesanti e in men che non si dica furono loro ad attaccare noi! Ad attaccare la nostra postazione nel frutteto. Ci sparpagliammo, dandocela a gambe. Io e questo Muhammad qualcosa, ci mettemmo a scappare insieme. Correvamo fianco a fianco in un campo di viti, non quelle sospese ai pali con il filo di ferro, ma quelle che la gente lascia crescere sul terreno. I proiettili volavano dappertutto e noi cercavamo di metterci in salvo, e improvvisamente inciampammo, finendo per terra. Mi rialzai in un secondo e ripresi a correre, ma non c’era segno di quel Muhammad qualcosa. Allora mi girai e mi misi a urlare: “Accidenti, alzati, stronzo che non sei altro!”.»
Baba jan fece una pausa a effetto. Portò una mano alle labbra per impedirsi di scoppiare a ridere. «Ed ecco che quello salta in piedi e prende a correre e ci credereste? Quel pazzo figlio di puttana ha le braccia cariche d’uva! Una catasta di grappoli in ciascun braccio!»
Ci fu uno scoppio di risa. Anche Adel rise. Suo padre gli accarezzò la schiena e lo attirò a sé. Qualcuno iniziò a raccontare un’altra storia e Baba jan prese una sigaretta dal pacchetto accanto al suo piatto. Ma non fece in tempo ad accenderla che improvvisamente i vetri di una finestra della casa andarono in frantumi.
In sala da pranzo le donne si misero a strillare. Qualcosa di metallico, una forchetta, forse un coltello da burro, cadde rumorosamente sul pavimento di marmo. Gli uomini scattarono in piedi. Azmaray e Kabir si precipitarono nella sala con le pistole in pugno.
«È venuto dall’ingresso» disse Kabir. E proprio mentre pronunciava queste parole un altro vetro andò in pezzi.
«Aspetti qui, Comandante Sahib, diamo un’occhiata» disse Azmaray.
«Mai e poi mai» ringhiò Baba jan già sul piede di guerra. «Mica mi dovrò nascondere in casa mia.»
Si diresse verso l’atrio, seguito da Adel, Azmaray, Kabir e tutti gli ospiti maschi. Adel vide Kabir che raccoglieva un’asta di metallo che usavano in inverno per attizzare il fuoco nella stufa. Si accorse che sua madre correva per unirsi agli uomini, la faccia pallida e tirata. Arrivati nell’atrio, una pietra volò attraverso la finestra, e cocci di vetro si infransero sul pavimento. La donna con i capelli rossi, la promessa sposa, si mise a strillare. Fuori qualcuno urlava.
«Come diavolo hanno fatto a superare la guardia?» chiese qualcuno dietro a Adel.
«Comandante Sahib, no!» abbaiò Kabir. Ma il padre di Adel aveva già aperto la porta d’ingresso.
La luce stava scemando, ma era estate e il cielo era ancora inondato di un giallo paglierino. In lontananza, Adel vide piccoli nuclei di luci, gli abitanti di Shadbagh-e-Nau si mettevano a tavola con la famiglia. Le colline che correvano all’orizzonte erano quasi nere e ben presto l’oscurità avrebbe riempito tutti gli anfratti. Ma non era ancora buio per avvolgere completamente nelle tenebre il vecchio che Adel vide, ai piedi della scalinata d’ingresso, con una pietra in ciascuna mano.
«Portalo di sopra» ordinò Baba jan, indicando Adel e rivolgendosi a sua madre che gli stava alle spalle. «Subito!»
Lei lo condusse di sopra spingendolo da dietro lungo il corridoio fin nella camera che condivideva con Baba jan. Accostò la porta, la chiuse a chiave, tirò le tende e accese la tv. Condusse Adel verso il letto e insieme si misero a sedere. Sullo schermo due arabi, vestiti con lunghe kurta e berretti di lana, stavano riparando un enorme camion.
«Cosa farà a quel vecchio?» chiese Adel. Non riusciva a smettere di tremare. «Mamma, cosa gli farà?»
Guardò sua madre e vide un’ombra passare sul suo viso e subito capì che qualunque cosa fosse uscita dalla bocca di sua madre, non sarebbe stata la verità.
«Gli parlerà» rispose lei con un tremito. «Chiunque sia la persona là fuori, cercherà di farla ragionare. È così che fa tuo padre. Ragiona con la gente.»
Adel scossa la testa. Piangeva, singhiozzava. «Cosa gli farà, mamma? Cosa farà a quel vecchio?»
Sua madre continuava a ripetere la stessa cosa, che tutto si sarebbe aggiustato, che tutto sarebbe finito nel modo migliore, che a nessuno sarebbe stato fatto del male. Ma più lo rassicurava, più Adel singhiozzava, finché, esausto, le cadde addormentato in grembo.
Ex Comandante sfugge a un attentato.
Adel lesse l’articolo nello studio di suo padre, sul computer. L’articolo definiva l’attentato “vigliacco” e l’attentatore come un ex profugo con «sospetti legami con i talebani». Nel corso della cronaca si diceva che il padre di Adel aveva dichiarato di aver temuto per la sicurezza della sua famiglia. Soprattutto per mio figlio, un ragazzino innocente, aveva detto. L’articolo non forniva il nome dell’attentatore, né dava notizie di che cosa gli fosse successo.
Adel spense il computer. Non gli era permesso usarlo ed entrare nello studio del padre era stato un atto di disubbidienza. Solo un mese prima non avrebbe osato. Tornò lentamente nella sua camera, si sdraiò sul letto e si mise a tirare una vecchia palla da tennis contro la parete. Tum! Tum! Tum! Dopo qualche minuto sua madre si affacciò alla porta e gli ordinò di smetterla, ma lui continuò. Lei indugiò per un attimo sulla soglia, prima di andarsene in silenzio.
Tum! Tum! Tum!
In superficie niente era cambiato. Un resoconto delle attività giornaliere di Adel avrebbe rivelato un ritorno al ritmo abituale. Si alzava ancora alla stessa ora, si lavava, faceva colazione con i suoi genitori, e studiava con il suo insegnante. Più tardi, pranzava e poi passava il pomeriggio bighellonando per casa, guardando film con Kabir, oppure giocando con i videogame.
Ma niente era più come prima. Era possibile che Gholam avesse aperto uno spiraglio, ma era stato Baba jan a spingere Adel a superare quella porta. Nel suo cervello avevano cominciato a muoversi degli ingranaggi dormienti. Si sentiva come se, da un giorno con l’altro avesse acquisito un sesto senso, del tutto nuovo, che gli permetteva di percepire cose che non aveva mai notato, cose che erano lì da anni, a fissarlo negli occhi. Vedeva, per esempio, che sua madre nascondeva dei segreti. Quando la guardava, li vedeva strisciare sulla sua faccia. Notava i suoi sforzi per nascondergli tutte le cose che sapeva, ma che teneva chiuse a chiave, sigillate, accuratamente sorvegliate, come lo erano loro due nell’enorme dimora. Per la prima volta la casa di suo padre gli appariva come la mostruosità, il sopruso, il monumento all’ingiustizia che rappresentava per chiunque altro, anche se era un giudizio che nessuno osava esprimere. Intuiva nell’ansia che la gente aveva di compiacere suo padre, il timore e la paura che erano all’origine del rispetto e della deferenza. Pensava che Gholam sarebbe stato fiero di lui per questa sua nuova consapevolezza. Per la prima volta Adel intuiva i meccanismi più generali che da sempre governavano la sua vita.
E delle verità terribilmente conflittuali che convivevano dentro un individuo. Non solo dentro suo padre, sua madre o Kabir.
Ma dentro se stesso.
Quest’ultima scoperta fu, in un certo senso, la più sorprendente. Le rivelazioni di quanto suo padre aveva fatto, prima in nome del jihad, poi di quello che aveva definito la giusta ricompensa del sacrificio, avevano lasciato Adel stordito. Almeno per qualche tempo. Dopo la sera in cui le pietre avevano fracassato le finestre, Adel aveva provato a lungo un dolore allo stomaco tutte le volte che suo padre metteva piede nella stanza dove lui si trovava. Quando lo sorprendeva che abbaiava al cellulare, o persino quando lo sentiva canticchiare in bagno, era come se la sua spina dorsale si accartocciasse e la gola si seccasse sino a fargli male. Quando suo padre gli dava il bacio della buonanotte, istintivamente avrebbe voluto respingerlo. Di notte era assalito dagli incubi. Sognava di trovarsi al margine del frutteto e di vedere un tramestio tra gli alberi, il bagliore di un’asta metallica che si alzava e si abbassava, il rumore del metallo che colpiva carne e ossa. Si svegliava da questi sogni con un urlo imprigionato in petto. Era squassato da scoppi di pianto nei momenti più impensati.
E tuttavia.
Si stava verificando anche qualcos’altro. La nuova consapevolezza non si era sbiadita con il passare dei giorni, ma lentamente aveva trovato compagnia. Ora era investito anche da una corrente interiore di segno opposto, che non si sostituiva alla prima, ma che rivendicava un proprio spazio accanto all’altra. Adel sentiva che una nuova, più inquietante parte di sé si stava risvegliando. Quella parte che nel corso del tempo avrebbe gradualmente, quasi impercettibilmente, accolto la sua nuova identità, al momento fastidiosa come un maglione di lana bagnata. Capiva che alla fine probabilmente avrebbe accettato lo stato delle cose, come aveva fatto sua madre. In un primo momento si era arrabbiato con lei: ma ora era più propenso al perdono. Forse aveva accettato la sua situazione per paura del marito. Oppure in cambio della vita di lusso che conduceva. Soprattutto, Adel sospettava, aveva accettato per la stessa ragione per cui l’avrebbe fatto lui: perché vi era stata costretta. Che scelta aveva? Adel non poteva sfuggire alla propria vita, così come Gholam non poteva sfuggire alla sua. La gente imparava a convivere con le cose più impensabili. E così avrebbe fatto lui. Questa era la sua vita. Questa era sua madre. Questo era suo padre. E questo era lui, anche se non ne era stato sempre consapevole.
Sapeva che non avrebbe più amato suo padre come in passato, quando dormiva felice, rannicchiato nel porto sicuro delle sue forti braccia. Questo sarebbe stato inconcepibile ora. Ma avrebbe imparato nuovamente ad amarlo, anche se in modo diverso, più complicato, più contorto. Adel sentiva che stava oltrepassando con un balzo la propria infanzia. Ben presto si sarebbe ritrovato adulto. E allora non ci sarebbe stato modo di tornare indietro, perché l’essere adulto era qualcosa di simile a ciò che suo padre una volta aveva detto a proposito dell’essere un eroe di guerra. Quando si diventa eroe, si muore eroe.
A letto, quella sera, Adel pensò che un giorno, forse quello successivo, o un altro ancora, o più avanti, nelle settimane che dovevano ancora arrivare, sarebbe uscito e avrebbe raggiunto il campo vicino al mulino a vento, dove Gholam gli aveva detto di essersi accampato con la sua famiglia. Pensava che l’avrebbe trovato vuoto. Si sarebbe fermato sul bordo della strada, immaginandosi Gholam, sua madre, i suoi fratelli, la nonna, tutta la famiglia, carica di bagagli legati con la corda, che camminavano in una fila disordinata lungo il bordo polveroso di una strada di campagna, in cerca di un posto dove fermarsi. Gholam ora era il capofamiglia. Avrebbe dovuto lavorare. Avrebbe passato la sua giovinezza a ripulire canali, scavare fossati, a fare mattoni e a mietere raccolti. Si sarebbe trasformato a poco a poco in uno di quegli uomini dalla faccia coriacea che Adel vedeva dietro l’aratro.
Adel pensò che, lì nel campo, sarebbe rimasto qualche minuto a osservare le colline e le montagne che sovrastavano la Nuova Shadbagh. E poi avrebbe preso dalla tasca l’oggetto che aveva trovato un giorno camminando nel frutteto, la parte sinistra di un paio di occhiali, spezzati al ponticello, la lente una ragnatela di incrinature, la stanghetta incrostata di sangue rappreso. Avrebbe gettato gli occhiali rotti in un fosso. Sospettava che, ritornando a casa, il sentimento prevalente sarebbe stato il sollievo.