Questa sera, rientrato dalla clinica, trovo un messaggio sulla segreteria del telefono fisso in camera mia. Lo ascolto mentre mi tolgo le scarpe e mi siedo alla scrivania. Mi dice che ha la febbre, che certamente se l’è presa da Mamá, poi chiede di me, di come va il lavoro a Kabul. Alla fine, un attimo prima di chiudere la comunicazione, dice: Odie non fa che ripetere che tu non la chiami mai. Naturalmente con te starà zitta, perciò te lo dico io. Per amor di Dio, chiama tua madre. Idiota.

Sorrido.

Thalia.

Tengo una sua foto sulla scrivania, quella che ho scattato molti anni fa, sulla spiaggia di Tinos, Thalia è seduta su uno scoglio, volta le spalle alla macchina fotografica. Ho incorniciato la foto, ma, se si guarda con attenzione, si vede ancora una macchia marrone scuro nell’angolo in basso a sinistra, regalo di un’italiana pazza che ha cercato di bruciarla molti anni fa.

Accendo il portatile e inserisco gli appunti sugli interventi chirurgici del giorno prima. La mia stanza è al primo piano, una delle tre camere da letto di questa casa dove vivo dal mio arrivo a Kabul nel 2002, e la scrivania è di fronte alla finestra che si affaccia sul giardino. Vedo i nespoli che ho piantato alcuni anni fa con il mio padrone di casa, Nabi. Vedo anche la casupola dove alloggiava, vicino al muro di recinzione, ora ridipinto. Dopo la sua morte, l’ho offerta a un giovane olandese che collabora con le scuole superiori locali come tecnico informatico. E un po’ più in là, sulla destra, c’è la Chevrolet degli anni Quaranta di Suleiman Wahdati, ferma da decenni, rivestita di ruggine come un masso è rivestito di muschio. Al momento è coperta da una sottile pellicola di neve caduta ieri, la prima quest’anno, stranamente precoce. Quando Nabi è morto, per un attimo ho pensato di far trasportare la macchina in una delle discariche di Kabul, ma non ne ho avuto il cuore. Mi sembrava un elemento essenziale, legato al passato della casa, alla sua storia.

Finisco gli appunti e guardo l’ora. Sono già le 9.30. Le sette di sera in Grecia.

Chiama tua madre. Idiota.

Se voglio chiamare Mamá questa sera, non ho un minuto da perdere. Ricordo che in una delle sue mail Thalia ha scritto che Mamá va a letto sempre più presto. Faccio un profondo respiro e mi armo di coraggio. Alzo il ricevitore e compongo il numero.

Conobbi Thalia nell’estate del 1967, quando avevo dodici anni. Venne a Tinos con sua madre Madaline per fare visita a Mamá e a me. Mia madre, che si chiama Odelia, mi disse che erano anni, quindici per l’esattezza, che lei e la sua amica Madaline non si vedevano. Madaline aveva lasciato l’isola quando aveva diciassette anni e se n’era andata ad Atene, dove, almeno per un breve periodo, aveva avuto un modesto successo come attrice.

«Non mi meravigliai» disse Mamá «quando sentii dire che faceva l’attrice. Era bella. Tutti rimanevano sempre affascinati da Madaline. Lo vedrai da te quando la conoscerai.»

Chiesi a Mamá perché non me ne aveva mai parlato.

«Davvero? Sei sicuro che non l’abbia fatto?»

«Certo.»

«Avrei giurato il contrario.» Poi aggiunse: «Sua figlia. Thalia. Vacci piano con lei, perché ha avuto un incidente. È stata morsicata da un cane. Ha una cicatrice».

Mamá non disse altro, ma sapevo benissimo di non dover far conto su di lei per saperne di più. Tuttavia questa rivelazione mi intrigava, molto più del passato di Madaline come attrice di cinema e di teatro, e la mia curiosità era alimentata dal sospetto che la cicatrice dovesse essere vistosa, perché Thalia meritasse un trattamento di riguardo. Con un interesse un po’ morboso, non vedevo l’ora di mettere gli occhi su quella cicatrice.

«Madaline e io ci siamo conosciute a messa quando eravamo piccole» mi raccontò Mamá. Immediatamente erano diventate inseparabili. Si tenevano per mano sotto il banco, durante l’intervallo, in chiesa, o mentre passeggiavano nei campi d’orzo. Avevano giurato di rimanere sorelle per tutta la vita. Si erano ripromesse di abitare a un passo l’una dall’altra. Anche se si fossero sposate, sarebbero rimaste vicine di casa e se uno dei mariti avesse voluto trasferirsi, allora avrebbero chiesto il divorzio. Ricordo che Mamá sorrideva con ironia mentre mi raccontava tutto questo, come per prendere le distanze da quella stupida esaltazione giovanile, da tutti quei giuramenti appassionati quanto assurdi. Ma vedevo sul suo viso anche una vena di muto risentimento, un’ombra di delusione che era troppo orgogliosa per ammettere.

Madaline allora era sposata con un riccone, molto più anziano di lei, un certo signor Andreas Gianakos, il quale anni prima era stato il produttore del suo secondo e anche ultimo film, a quanto risultò. Ora si occupava di edilizia e aveva una grossa impresa ad Atene. Recentemente avevano avuto un dissapore, un litigio, Madaline e il signor Gianakos. Mamá non mi disse niente di tutto questo; l’avevo saputo dalla lettura clandestina, affrettata e parziale, di una lettera che Madaline aveva inviato a Mamá, in cui la informava della sua intenzione di farci visita.

Sta diventando faticoso, ti assicuro, stare con Andreas, i suoi amici di destra e la loro musica marziale. Me ne sto a bocca chiusa tutto il tempo. Non dico niente quando li sento esaltare i militari criminali che hanno fatto scempio della nostra democrazia. Dovessi profferire anche una sola parola di dissenso, sono certa che mi etichetterebbero come una comunista anarchica e a quel punto neppure l’influenza di Andreas mi salverebbe dalla galera. Forse non si darebbe neanche la pena di esercitarla, la sua influenza, voglio dire. A volte penso che il suo intento sia appunto quello di provocarmi in modo che mi condanni da sola. Oh, quanto mi manchi, mia cara Odie. Quanto mi manca la tua compagnia...

Il giorno dell’arrivo delle nostre ospiti, Mamá si svegliò presto per mettere ordine. Vivevamo in una casetta sul fianco di una collina. Come molte case di Tinos era costruita in pietra imbiancata a calce e il tetto piatto era in tegole rosse a forma di rombo. La piccola camera che Mamá e io condividevamo al primo piano non aveva porta: la stretta tromba delle scale dava direttamente sulla cameretta, ma aveva una finestrella a ventaglio e un balconcino con una ringhiera in ferro battuto che arrivava alla vita, dal quale lo sguardo spaziava sui tetti delle altre case, sugli ulivi, le capre, i tortuosi vicoli di pietra e gli archi, e naturalmente sull’Egeo, azzurro e calmo nelle mattine d’estate, ma con le ochette bianche il pomeriggio, quando il meltemi soffiava da nord.

Quando ebbe finito di fare le pulizie, Mamá si mise quello che passava per il suo unico abito buono, quello che indossava ogni 15 agosto per la festa della dormitio nella chiesa della Panagia Evangelistria, quando i pellegrini da ogni parte del Mediterraneo giungevano a Tinos per pregare davanti all’icona incorniciata della chiesa. C’è una fotografia di mia madre così abbigliata, il lungo abito dimesso, color oro bruciato, con la scollatura tonda, il golf bianco striminzito, le calze lunghe, le scarpe nere. Mamá sembra il ritratto della vedova austera, il viso severo, le sopracciglia folte, il naso all’insù, in piedi e tutta d’un pezzo, l’espressione cupamente pia, come se fosse lei stessa una pellegrina. Anch’io sono presente nella foto, a fianco di mia madre, in piedi, rigido. Porto calzoni corti bianchi, camicia bianca e calze bianche arrotolate al ginocchio. Dal mio sguardo accigliato si capisce che ho avuto l’ordine di stare dritto, di non sorridere, e che la mia faccia è stata strigliata a dovere, i capelli pettinati con l’acqua, contro la mia volontà, ignorando le mie rimostranze. Si sente tra noi una corrente di reciproca insofferenza. Lo si vede dalla posa rigida, dal fatto che i nostri corpi quasi non si toccano.

O forse sono solo io che lo noto ogni volta che guardo quella foto, e l’ultima volta è stata due anni fa. Non posso fare a meno di osservare la diffidenza, lo sforzo, l’impazienza. Non posso fare a meno di vedere due persone che stanno assieme per un senso di dovere genetico, già condannate a stupirsi e deludersi reciprocamente, quasi costrette a sfidarsi di continuo.

Dalla finestra della camera di sopra, seguii con lo sguardo Mamá che si dirigeva verso il porto dove attraccava il traghetto, nella città di Tinos. Il foulard annodato sotto il mento, affrontava di petto l’azzurra giornata di sole. Era una donna sottile dalle ossa minute, con il corpo di una ragazzina, ma quando la vedevi arrivare facevi bene a cederle il passo. Ricordo che mi accompagnava a scuola ogni mattina; ora mia madre è in pensione, ma allora insegnava. Per strada non mi teneva mai per mano. Le altre madri tenevano per mano i loro figli, Mamá no. Sosteneva di dovermi trattare come tutti gli altri scolari. Camminava a passo di carica davanti a me, tenendo chiuso con la mano il collo del golf e io cercavo di non rimanere indietro, arrancando sui suoi passi, il cestino del pranzo in mano. In classe mi sedevo sempre in fondo. Ricordo mia madre alla lavagna, il modo in cui inchiodava un alunno indisciplinato con una sola occhiata micidiale, simile a una pietra lanciata con la fionda, che centrava l’obiettivo con precisione chirurgica. Sapeva spaccarti in due con un solo sguardo torvo, oppure con un improvviso silenzio.

Mamá credeva nella fedeltà sopra ogni altra cosa, anche a costo del sacrificio. Soprattutto a costo del sacrificio. Credeva anche che fosse sempre meglio dire la verità, nuda e cruda, senza enfasi, e quanto più la verità era sgradevole, tanto prima andava detta. Non tollerava le persone senza spina dorsale. Era, anzi è, una donna con una volontà di ferro, una donna che non chiede scusa, con cui è meglio non dover discutere, anche se io non ho mai capito veramente, neppure adesso, se il suo carattere sia un dono di Dio o se l’abbia adottato per necessità, visto che suo marito era morto nemmeno un anno dopo il matrimonio, lasciandola del tutto sola a crescermi.

Mi addormentai di sopra poco dopo che Mamá era uscita, ma mi svegliai di soprassalto sentendo risuonare una voce femminile squillante. Mi misi a sedere ed eccola, tutta rossetto e cipria, profumo e curve morbide, la pubblicità di una compagnia aerea che mi sorrideva attraverso la veletta del suo cappellino. In piedi nel mezzo della stanza, con un miniabito verde elettrico, valigia di pelle ai piedi, i capelli castani e le lunghe braccia, che mi sorrideva con il viso raggiante e parlava con la voce scoppiettante di allegria, padrona di sé.

«Dunque tu sei il piccolo Markos di Odie! Non mi aveva detto che eri così bello! Oh, le assomigli moltissimo, gli occhi, sì, hai gli stessi occhi, sono sicura che te l’hanno già detto. Avevo una tale voglia di vederti. Tua madre e io, noi, be’, Odie te l’avrà detto, puoi immaginare che gioia è per me vedere voi due, conoscere te, Markos, Markos Varvaris! Bene. Io sono Madaline Gianakos e sono felice di conoscerti.»

Si tolse un guanto di raso color crema che le arrivava al gomito, un genere che avevo visto solo sulle riviste, indossato per una soirée da eleganti signore che fumavano sulla scalinata di un teatro dell’opera, o che scendevano da una macchina nera scintillante, il viso illuminato dai flash. Dovette tirare più volte la punta di ciascun dito prima che il guanto si sfilasse, poi inchinandosi leggermente mi diede la mano.

«Piacere» disse. La sua mano era morbida e fresca, nonostante il guanto. «E questa è mia figlia Thalia. Tesoro, saluta Markos Varvaris.»

Era sulla soglia della stanza accanto a sua madre, che mi guardava con uno sguardo inespressivo, una ragazzina smilza, con la carnagione pallida e i capelli lisci. Oltre a questo non saprei che altro dire. Non ricordo il colore del vestito che indossava quel giorno, ammesso che portasse un vestito, o quali scarpe avesse, e se si era messa i calzini, o l’orologio, una collana, un anello o un paio di orecchini. Non saprei dire, perché se tu fossi al ristorante e qualcuno improvvisamente si spogliasse, saltasse su un tavolo e incominciasse a fare il giocoliere con i cucchiai da dessert, non solo lo guarderesti, ma sarebbe la sola cosa che potresti guardare. La maschera che copriva la parte inferiore del viso della ragazza ebbe su di me questo effetto. Cancellò la possibilità di osservare altro.

«Thalia, saluta, tesoro. Non essere maleducata.»

Mi parve di scorgere un debole cenno della testa.

«Ciao» risposi, la lingua come carta vetrata. C’era un tremito nell’aria. Una corrente. Mi sentivo carico di qualcosa che era un misto di eccitazione e di paura, qualcosa che esplodeva dentro di me avvitandosi a spirale. La guardavo con gli occhi sbarrati e me ne rendevo conto, ma non potevo smettere, non potevo strappare il mio sguardo da quella maschera di stoffa azzurra, i quattro lacci che la legavano alla nuca, la stretta fessura orizzontale sulla bocca. Capii immediatamente che non avrei sopportato di vedere quello che si nascondeva dietro. E che allo stesso tempo non aspettavo altro. La mia vita non avrebbe potuto riprendere il suo corso naturale, il suo ritmo, il suo ordine, finché non avessi visto di persona cosa si celava di così terribile, di così spaventoso che io e gli altri dovessimo esserne protetti.

La possibilità che la maschera avesse forse il compito di tutelare Thalia da noi, mi sfuggiva. Almeno nello stato di panico e di eccitazione causato da quel primo incontro.

Madaline e Thalia salirono al primo piano per disfare i bagagli, mentre Mamá in cucina impanava le fette di sogliola per la cena. Mi ordinò di preparare una tazza di ellenikós kafés per Madaline, cosa che feci e poi mi chiese di portarglielo di sopra, cosa che feci, su un vassoio con un piattino di pasteli.

A distanza di tanti decenni, sento la vergogna che mi inonda come un liquido caldo, appiccicoso, al ricordo di cosa accadde dopo. Ancor oggi rivedo la scena cristallizzata come una fotografia. Madaline fuma in piedi davanti alla finestra della camera da letto e guarda il mare attraverso un paio di occhiali scuri, una mano sul fianco, le gambe incrociate alle caviglie. Il suo cappellino è posato sulla toilette. Sopra la toilette c’è uno specchio e nello specchio c’è Thalia, seduta sul bordo del letto, che mi volge la schiena. È piegata in avanti, sta facendo qualcosa, forse si sta slacciando le stringhe delle scarpe e vedo che si è tolta la maschera. È posata accanto a lei sul letto. Cerco invano di fermare i brividi freddi che mi percorrono la schiena; ma il tremito delle mie mani fa tintinnare la tazza di porcellana sul piattino, il rumore fa sì che la testa di Madaline si volti verso di me, e Thalia alzi lo sguardo. Colgo il suo riflesso nello specchio.

Il vassoio mi sfuggì di mano. Schianto di porcellana in frantumi, liquido bollente che si rovescia e il frastuono del vassoio che rotola giù per le scale. Seguì subito il caos, io a quattro zampe che vomitavo sui cocci di porcellana, Madaline che esclamava: «Santo cielo. Santo cielo» e Mamá che correva di sopra urlando: «Cosa è successo? Cosa hai fatto, Markos?».

Un cane l’ha morsicata, mi aveva informato Mamá, avvertendomi dell’incidente. Ha una cicatrice. Il cane non aveva morsicato la faccia di Thalia, l’aveva mangiata. E forse c’erano parole adatte a descrivere quello che vidi nello specchio quel giorno, ma “cicatrice” certamente non era la parola giusta.

Ricordo le mani di Mamá che mi afferrarono per le spalle, mi tirarono su, rigirandomi: «Cos’hai? Cosa diavolo ti prende?». E ricordo il suo sguardo che si levò sopra la mia testa. E rimase pietrificato. Le parole le morirono in bocca. Impallidì. Le mani le caddero dalle mie spalle. E poi fui testimone della cosa più straordinaria che avessi mai visto, assolutamente impensabile, più ancora che se avessi visto re Costantino presentarsi alla nostra porta vestito da clown: una sola lacrima, gonfia, sul ciglio dell’occhio destro di Mamá.

«Allora, com’era?» chiede Mamá.

«Chi?»

«Chi? La francese. La nipote del tuo padrone di casa, la professoressa di Parigi.»

Sposto il ricevitore sull’altro orecchio. Mi stupisce che si ricordi. Da sempre ho l’impressione che le parole che dico a Mamá svaniscano nell’aria inascoltate, come se tra noi ci fossero dei disturbi elettrostatici, una cattiva ricezione. Talvolta, quando la chiamo da Kabul come in questo momento, ho la sensazione che lei, zitta zitta, abbia posato la cornetta e se ne sia andata via, che io stia parlando al nulla attraverso i continenti, anche se percepisco la presenza di mia madre in linea, e il suo respiro mi arriva all’orecchio. Altre volte, le parlo di quello che ho visto alla clinica. Per esempio, le racconto di un padre che ha portato un ragazzo coperto di sangue, con schegge conficcate nelle guance, un orecchio staccato di netto, un’altra vittima dei giochi nella strada sbagliata, nel momento sbagliato del giorno sbagliato. Poi, senza preavviso, un ploc sonoro, e la voce di Mamá improvvisamente distante e attutita, l’eco di passi e di qualcosa che viene trascinato sul pavimento e io mi blocco, aspetto che torni, cosa che alla fine avviene. Sempre con il respiro un po’ affannato mi spiega, Le ho detto che stavo benissimo in piedi, gliel’ho detto chiaramente, ho detto: «Thalia vorrei restare in piedi alla finestra e guardare l’acqua giù in basso mentre parlo con Markos». Ma lei dice: «Ti stancherai, Odie, devi sederti». Poi la vedo che trascina la poltrona, questa grossa cosa di pelle che mi ha comprato l’anno scorso, fino alla finestra. Mio Dio, com’è forte. Tu la poltrona non l’hai vista, naturalmente. Be’, è ovvio. Poi esala un sospiro di finta esasperazione e mi chiede di continuare il mio racconto, ma a quel punto io sono troppo disorientato per farlo. Il risultato è che mi sento come se mi avesse vagamente rimproverato e ciò che è peggio, mi sento di meritarlo, colpevole come sono di torti passati sotto silenzio, di offese che non mi sono mai state ufficialmente imputate. Anche se riprendo a parlare, la mia storia sembra meno interessante alle mie stesse orecchie. Non è paragonabile al dramma della poltrona di Thalia.

«Come hai detto che si chiama?» chiede Mamá. «Pari qualcosa, no?»

Ho raccontato a Mamá di Nabi, che era un mio caro amico. Ne conosce la vita solo a grandi linee. Sa che nel testamento ha lasciato la casa di Kabul a sua nipote, Pari, che è cresciuta in Francia. Ma non ho parlato a Mamá di Nila Wahdati, della sua fuga a Parigi dopo l’ictus che aveva colpito suo marito, dei decenni che Nabi ha vissuto prendendosi cura di Suleiman. Quella parte della storia conteneva troppi parallelismi che avrebbero potuto ritorcersi contro di me come boomerang. Come leggere ad alta voce il proprio atto d’accusa.

«Pari. Sì. È stata simpatica. E affettuosa. Tenuto conto che è un accademico.»

«Cosa hai detto che è, un chimico?»

«Matematico» dico, chiudendo il coperchio del portatile. Ha ricominciato a nevicare leggermente, minuti fiocchi che volteggiano nel buio, battendo contro la finestra.

Racconto a Mamá della visita di Pari Wahdati la fine della scorsa estate. È stata veramente deliziosa. Delicata, snella, capelli grigi, con una grossa vena blu su ciascun lato del lungo collo, sorriso cordiale e incisivi con la finestrella. Sembrava un po’ fragile, più vecchia della sua età. Affetta da una brutta artrite reumatoide. Le mani nodose, in particolare, per il momento ancora funzionanti, ma un giorno non più, e lei lo sa. Mi ha fatto pensare a Mamá e al suo giorno che verrà.

Pari Wahdati era rimasta una settimana con me nella casa di Kabul. Appena arrivata da Parigi le avevo fatto fare un giro della villa. L’aveva vista per l’ultima volta nel lontano 1955 e sembrava stupita di ricordare con precisione il luogo, la disposizione generale dei locali, i due gradini tra il soggiorno e la sala da pranzo dove, a metà mattina, si sedeva a leggere i suoi libri in una striscia di sole. Si era stupita che nella realtà la casa fosse più piccola di come se la ricordava. Quando l’avevo accompagnata di sopra, sapeva quale fosse stata la sua camera da letto, anche se al momento è occupata da un mio collega tedesco che lavora per il Programma Alimentare Mondiale. Ricordo che le era mancato il respiro quando aveva scorto il piccolo armadio nell’angolo della stanza, uno dei pochi cimeli della sua fanciullezza, come scriveva Nabi nella lettera che mi aveva lasciato prima di morire. Si era accovacciata, facendo scorrere le dita sulla pittura gialla, ormai squamata, sulle giraffe e sulle scimmie dalla lunga coda dipinte sulle porte, quasi svanite. Quando aveva alzato gli occhi su di me, avevo notato che erano umidi. Mi aveva chiesto, molto timidamente e con mille scuse, se fosse possibile spedirlo a Parigi. Si era offerta di pagare per il trasporto. Era la sola cosa di tutta la casa che desiderasse avere. L’avevo rassicurata che per me sarebbe stato un piacere accontentarla.

Alla fine, oltre all’armadio che io avevo spedito alcuni giorni dopo la sua partenza, Pari Wahdati era tornata in Francia solo con gli album dei disegni di Suleiman Wahdati, la lettera di Nabi e alcune poesie di sua madre Nila, che Nabi aveva conservato. Durante il suo soggiorno la sola richiesta che mi aveva fatto era stata di accompagnarla a Shadbagh, perché voleva vedere il villaggio dove era nata e dove sperava di trovare il fratellastro Iqbal.

«Immagino che venderà la casa, ora che è sua.»

«In realtà mi ha detto che posso rimanere finché voglio. Gratis.»

Posso quasi vedere Mamá che stringe le labbra con scetticismo. È un’isolana. Diffida delle motivazioni degli abitanti della terraferma, guarda con sospetto le loro azioni apparentemente dettate da benevolenza. Questa è stata una delle ragioni per cui da ragazzo decisi che avrei lasciato Tinos alla prima occasione che mi si fosse presentata. Ogni volta che sentivo quel genere di discorsi, venivo preso da una sorta di scoramento.

«Come procede la piccionaia?» chiedo per cambiare discorso.

«Ho dovuto interrompermi. Mi distruggeva.»

Mamá, su mia insistenza, era stata visitata da un neurologo di Atene sei mesi prima, dopo che Thalia mi aveva detto che rovesciava gli oggetti e li lasciava cadere di continuo. L’aveva accompagnata Thalia. Dopo la visita del neurologo Mamá era stata presa da un attivismo maniacale. È stata Thalia a informarmi. Ha fatto imbiancare la casa, aggiustare le perdite d’acqua, ha convinto Thalia ad aiutarla a costruire un nuovo ripostiglio al piano di sopra, persino a sostituire le tegole incrinate del tetto, ma, grazie al cielo, Thalia è riuscita a farla smettere. Ora la piccionaia. Mi figuro Mamá con le maniche arrotolate, martello in mano, il sudore che le cola lungo la schiena, che batte chiodi e sabbia tavole di legno, in una sfida continua nei confronti dei propri neuroni alla deriva. Per strizzarne fuori quanto c’è di buono, finché è ancora in tempo.

«Quando torni a casa?»

«Presto.» Presto era stata la mia risposta anche l’anno precedente, quando mi aveva posto la medesima domanda. Sono passati due anni dalla mia ultima visita a Tinos.

Una breve pausa. «Non aspettare troppo. Vorrei vederti prima che mi attacchino al polmone d’acciaio.» Ride. È una vecchia abitudine, questo scherzare e fare dello spirito alla faccia della sfortuna, questo suo spregio del minimo accenno di autocommiserazione. Ha l’effetto paradossale, e calcolato, lo so, di ridimensionare e nello stesso tempo di aggravare la disgrazia.

«Vieni per Natale, se puoi. Prima del quattro di gennaio, a ogni buon conto. Thalia dice che quel giorno ci sarà un’eclissi di sole sulla Grecia. L’ha letto in internet. Potremmo guardarla assieme.»

«Ci proverò, Mamá.»

Fu come svegliarsi un mattino e scoprire che in casa era entrata una belva feroce. Non mi sentivo sicuro da nessuna parte. La incontravo in ogni angolo, che si aggirava furtiva, che mi seguiva, senza smettere di tamponarsi la guancia con il fazzoletto per asciugare il rivolo di saliva che le usciva ininterrottamente dalla bocca. Le piccole dimensioni della nostra casa rendevano impossibile sfuggirle. Mi spaventava soprattutto l’ora dei pasti, quando dovevo sopportare lo spettacolo di Thalia che alzava il bordo della maschera per portare il cibo alla bocca con il cucchiaio. A quella vista, al rumore che produceva mangiando, mi si rivoltava lo stomaco. Frammenti di cibo masticato a metà le cadevano di continuo con un ciac infradiciato nel piatto, sulla tavola, e persino sul pavimento. Era costretta ad assumere i liquidi, persino la minestra, con una cannuccia, e sua madre ne teneva una scorta nella borsa. Quando succhiava il brodo faceva strani gorgoglii, il liquido le macchiava sempre la maschera, per gocciolarle sulla mascella e lungo il collo. La prima volta chiesi di alzarmi da tavola e Mamá mi lanciò uno sguardo feroce. E così mi esercitai a non guardare e a non sentire, ma non era facile. Entravo in cucina e la trovavo seduta immobile mentre Madaline le stendeva la pomata sulla guancia per prevenire l’irritazione. Incominciai a seguire un calendario mentale, un conto alla rovescia delle quattro settimane che Madaline e Thalia avrebbero trascorso con noi, come mi aveva detto Mamá.

Avrei voluto che Madaline fosse venuta da sola. Lei mi piaceva proprio. Ci sedevamo, noi quattro, nel cortiletto quadrato davanti alla porta della casa e Madaline sorseggiava caffè fumando una sigaretta dopo l’altra, i tratti del viso ombreggiati dal nostro ulivo e da una cloche di paglia dorata che avrebbe dovuto sembrare assurda e tale sarebbe sembrata su chiunque altro, su Mamá, per esempio. Ma Madaline era una di quelle persone dall’eleganza innata, una specie di dote genetica come quella di muovere le orecchie. Madaline era una fonte inesauribile di aneddoti, con lei la conversazione non languiva mai. Una mattina ci raccontò dei suoi viaggi, ad Ankara, per esempio, dove aveva passeggiato lungo le rive dell’Enguri Su e aveva sorseggiato tè verde spruzzato di raki, poi la volta in cui lei e il signor Gianakos erano andati in Kenia dove, a dorso di elefante, avevano passeggiato tra le acacie spinose e si erano persino seduti con i locali a mangiare una farinata di granoturco e riso al cocco.

Le storie di Madaline risvegliavano in me un’antica irrequietezza, l’impulso che avevo sempre sentito di gettarmi a capofitto nel mondo, di essere audace. Al confronto la mia vita a Tinos sembrava di una banalità mortificante. Vedevo il mio futuro come un’interminabile distesa priva di avvenimenti, e questo bastò perché trascorressi la maggior parte della mia fanciullezza ad agitarmi, sentendomi una controfigura, un delegato di me stesso, come se il mio vero io risiedesse altrove, in attesa di riunirsi un giorno con quest’altro io più oscuro, vuoto. Mi sentivo come un naufrago. Un esiliato in patria.

Madaline raccontò che ad Ankara aveva visitato un luogo detto Kugˇulu Park e aveva ammirato i cigni che scivolavano sull’acqua. Diceva che l’acqua era abbagliante.

«Sto farneticando» osservò ridendo.

«Non è vero» la rassicurò Mamá.

«È una vecchia abitudine. Parlo troppo. Da sempre. Ricordi quanto ci costavano le mie chiacchiere in classe? Non era mai colpa tua, Odie. Tu eri così responsabile e studiosa.»

«Sono interessanti le tue storie, come è interessante la tua vita.»

Madaline alzò gli occhi al cielo. «Lascia perdere. Secondo i cinesi un commento del genere porta sfortuna.»

«Ti è piaciuta l’Africa?» chiese Mamá a Thalia.

Thalia premette il fazzoletto sulla guancia e non rispose. Ne fui contento. Parlava in modo stranissimo. C’era qualcosa di biascicato nelle sue parole, uno strano miscuglio di pronuncia blesa e gargarismi.

«A Thalia non piace viaggiare» disse Madaline spegnendo la sigaretta. Lo disse come fosse una verità incontestabile. Non era il caso di guardare Thalia per avere una conferma o una smentita. «Viaggiare non le dice niente.»

«Neanche a me» disse Mamá rivolgendosi a Thalia. «Mi piace stare a casa. Forse non ho mai avuto una ragione sufficiente per lasciare Tinos.»

«Io invece non ho mai trovato una ragione sufficiente per rimanere qui» disse Madaline. «Tranne te, naturalmente.» Posò la mano sul polso di Mamá. «Sai qual era la mia paura più terribile quando me ne sono andata? La mia preoccupazione più grande? Come potrò tirare avanti senza Odie? Giuro. Il solo pensiero mi paralizzava.»

«Mi sembra che te la sia cavata benissimo» disse Mamá lentamente, staccando a fatica lo sguardo da Thalia.

«Tu non capisci» disse Madaline e io mi resi conto che chi non capiva ero io, perché lei guardava me negli occhi. «Non ce l’avrei fatta senza tua madre. Lei mi ha salvato.»

«Adesso sì, stai farneticando» disse Mamá.

Thalia alzò la testa. Guardava con gli occhi semichiusi. Un jet, alto e silenzioso nel cielo azzurro, stava segnando la sua traiettoria con una sola, lunga striscia bianca.

«È da mio padre che Odie mi ha salvato» disse Madaline.

Non sapevo se stesse ancora rivolgendosi a me. «Era una di quelle persone malvagie per natura. Aveva gli occhi in fuori, il collo corto, largo, con un porro scuro dietro. E i pugni come mattoni. Quando tornava a casa, mi bastava il rumore dei suoi scarponi in corridoio, il tintinnio delle chiavi, il suo canticchiare. Quando si infuriava, soffiava dal naso e serrava gli occhi, come fosse sprofondato nei pensieri, poi si strofinava la faccia e diceva: Va bene, ragazzina, va bene e sapevi che la tempesta stava per scoppiare, e niente l’avrebbe fermata. Nessuno poteva aiutarti. A volte bastava che si strofinasse la faccia o soffiasse attraverso i baffi e io vedevo nero.

Da allora ne ho incrociati altri di uomini così. Mi piacerebbe poter dire diversamente. Ma purtroppo è la verità. E ho imparato che, se scavi un po’, scopri che sono tutti uguali, chi più chi meno. Alcuni sono più raffinati, lo ammetto. Possono persino avere del fascino e tu ci puoi cascare. Ma in realtà sono tutti ragazzini infelici che sguazzano nella loro stessa rabbia. Si sentono vittime. Non hanno ricevuto quello che si meritavano. Nessuno li ha amati abbastanza. Naturalmente si aspettano che sia tu ad amarli. Vogliono essere coccolati, cullati, rassicurati. Ma è un errore accontentarli. Non sono in grado di accettare ciò che ricevono, ciò di cui hanno più bisogno. La conclusione è che ti odiano. Ma è un tormento senza fine, perché non riescono a odiarti quanto meriti, e l’infelicità, le scuse, le promesse, l’abiura, lo squallore, tutto questo non finisce mai. Il mio primo marito era così.»

Ero sconvolto. Nessuno aveva mai parlato in modo così esplicito in mia presenza, certamente non Mamá. Nessuno che conoscessi aveva mai messo a nudo la propria disgrazia in questo modo. Mi sentivo imbarazzato per Madaline e nello stesso tempo provavo ammirazione per la sua sincerità.

Quando aveva accennato al suo primo marito, avevo notato che sulla sua faccia era calata un’ombra, una passeggera allusione a qualcosa di oscuro, di punitivo, di offensivo, in contrasto con le sue risate vivaci, le prese in giro e il suo ampio vestito arancione a fiori. Ricordo di aver pensato che doveva essere stata una brava attrice per camuffare la delusione e la sofferenza sotto quella vernice di allegria. Come una maschera, pensai, e tra me e me mi congratulai per l’acume del paragone.

Diventato adulto, l’episodio perse un po’ della sua chiarezza. Ripensandoci, c’era qualcosa di affettato nel modo in cui aveva fatto una pausa dopo aver accennato al suo primo marito, lo sguardo basso, il respiro affannoso, il leggero tremito delle labbra, proprio mentre l’atmosfera era carica della sua grande energia, degli scherzi, del fascino vivace e temerario, del modo in cui persino le sue insolenze andavano a segno con dolcezza, paracadutate con una risata o una rassicurante strizzatina d’occhio. Forse entrambi gli atteggiamenti erano studiati oppure non lo era né l’uno né l’altro. Mi divenne indistinguibile ciò che era recitazione da ciò che era realtà, e questo mi faceva ritenere Madaline un’attrice infinitamente più interessante.

«Quante volte sono venuta qui di corsa, Odie?» chiese Madaline di nuovo allegra, con una risata. «I tuoi poveri genitori. Ma questa casa era il mio porto. Il mio rifugio. Una piccola isola all’interno dell’isola più grande.»

Mamá disse: «Eri sempre la benvenuta».

«È stata tua madre a porre fine ai pestaggi, Markos. Non te l’ha mai raccontato?»

Dissi di no.

«Non mi meraviglio. Odelia Varvaris è così.»

Mamá stava srotolando il bordo del grembiule sulle ginocchia, lisciandolo, con un’espressione persa in un sogno a occhi aperti.

«Una sera sono venuta qui. La lingua sanguinante, la tempia dove mancava una ciocca di capelli, l’orecchio che ancora risuonava per i colpi ricevuti. Quella volta mi aveva veramente conciata. Ero ridotta in uno stato pietoso!» Da come Madaline raccontava l’episodio, avresti potuto pensare che stesse descrivendo un pranzo luculliano o un bel romanzo. «Tua madre non chiede niente perché sa. È naturale che sappia. Si limita a guardarmi a lungo, mentre me ne sto in piedi tremebonda. E dice, lo ricordo ancora: Adesso basta. Dice: Adesso andiamo a fare una visitina a tuo padre, Maddie. E io la supplico di lasciar perdere. Avevo paura che ci avrebbe ammazzate tutte e due. Ma sai com’è tua madre quando si mette in testa qualcosa.»

Dissi che lo sapevo e Mamá mi guardò con la coda dell’occhio.

«Non mi diede retta. E il suo sguardo! Sono sicura che conosci quello sguardo. Esce, ma non prima di aver preso il fucile da caccia di suo padre. Per tutta la strada io continuo a pregarla di tornare indietro, le dico che in fondo non mi ha fatto tanto male. Ma lei non ascolta. Arriviamo alla porta ed ecco mio padre, sulla soglia, e Odie alza la canna e spingendola contro il suo mento dice: Fallo ancora e ti sparo in faccia con questo fucile.

Mio padre è allibito e per un attimo non riesce a spiccicare parola. E vuoi sapere la cosa più divertente, Markos? Guardo per terra e vedo una piccola pozza, una pozza di, be’, non è difficile da indovinare, una piccola pozza che si sta allargando lentamente sul pavimento, in mezzo ai suoi piedi nudi.»

Madaline tirò indietro i capelli e, facendo scattare l’accendino per l’ennesima volta, disse: «E questo, caro mio, è esattamente come sono andate le cose».

Non era il caso che aggiungesse altro. Sapevo che era la verità. In quella storia riconoscevo la lealtà semplice e assoluta di Mamá, la sua determinazione indefettibile. La sua generosità, il suo bisogno di riparare le ingiustizie, di essere il guardiano del gregge oppresso. E sapevo che era vero dal gemito che uscì dalla bocca chiusa di Mamá, quando Madaline accennò all’ultimo dettaglio. Disapprovava. Probabilmente lo trovava di cattivo gusto e non solo per ovvie ragioni. Dal suo punto di vista, le persone, anche se si erano comportate in modo deplorevole in vita, meritavano un minimo di dignità nella morte. Soprattutto se erano membri della famiglia.

Mamá cambiando posizione ripeté: «Allora, se non ti piace viaggiare, Thalia, cosa ti piace?».

Tutti gli occhi si rivolsero a Thalia. Madaline aveva parlato per un certo tempo e ricordo di aver pensato, mentre eravamo lì seduti nel cortile punteggiato di chiazze di sole, che, se Thalia era stata dimenticata, era stato perché sua madre aveva la straordinaria capacità di attirare l’attenzione, risucchiando ogni cosa nel suo vortice. Presi in considerazione anche la possibilità che si fossero adattate a queste dinamiche per necessità, la figlia taciturna eclissata dalla madre egocentrica, una sorta di routine in cui gli altri si concentravano unicamente su di lei, come se il narcisismo di Madaline potesse essere un atto di bontà, di protezione materna.

Thalia borbottò qualcosa.

«Un po’ più forte, tesoro» suggerì Madaline.

Thalia si schiarì la voce con un brontolio catarroso: «La scienza».

Notai per la prima volta il colore dei suoi occhi, verde come un pascolo inviolato, la sfumatura scura e profonda dei suoi capelli e notai che aveva una carnagione perfetta, come sua madre. Mi chiesi se era stata graziosa un tempo, forse bella come Madaline.

«Racconta della meridiana, tesoro.»

Thalia scrollò le spalle.

«L’estate scorsa ha costruito una meridiana» spiegò Madaline. «Nel cortile sul retro. Senza che nessuno l’aiutasse. Non Andreas, e certamente nemmeno io.» Ridacchiò.

«Equatoriale o orizzontale?» chiese Mamá.

Un lampo di sorpresa accese gli occhi di Thalia. Una sorta di reazione a scoppio ritardato. Come uno che in una città straniera camminasse in una strada affollata e gli giungesse all’orecchio un frammento di conversazione nella sua lingua. «Orizzontale» disse con quel suo strano biascichio.

«Cosa hai usato come gnomone?»

Gli occhi di Thalia si fermarono su Mamá. «Ho tagliato una cartolina.»

Fu la prima volta che mi accorsi di come avrebbe potuto essere il rapporto tra quelle due.

«Quando era piccola faceva a pezzi i suoi giocattoli» disse Madaline. «Le piacevano i giocattoli meccanici, quelli con dentro dei congegni strani. Non che ci giocasse, vero, tesoro? No, li rompeva, tutti quei giocattoli costosi, li squarciava appena glieli regalavamo. Mi arrabbiavo da impazzire. Ma Andreas, devo dargliene atto, Andreas diceva di lasciarla fare, perché era segno di una mente curiosa.»

«Se ti fa piacere, possiamo costruirne una insieme» disse Mamá. «Una meridiana, voglio dire.»

«So già come si fa.»

«Sii educata, tesoro» disse Madaline allungando una gamba e poi piegandola di nuovo, come se stesse stirandosi prima di eseguire una danza. «Zia Odie vuole solo esserti di aiuto.»

«Forse potremmo costruire qualcos’altro» suggerì Mamá.

«Oh! Oh!» disse Madaline in tono concitato, espirando in fretta volute di fumo. «Non posso credere di non avertelo ancora detto, Odie. Ci sono notizie. Indovina.»

Mamá alzò le spalle.

«Riprendo a fare l’attrice! Nel cinema. Mi è stato offerto un ruolo da protagonista in una importante produzione. Ci crederesti?»

«Congratulazioni» disse Mamá senza entusiasmo.

«Ho con me il copione. Te lo farei leggere, Odie, ma temo che non ti piaccia. Se me lo stroncassi ne sarei distrutta, te lo dico sinceramente. Non lo sopporterei. Incominciamo le riprese in autunno.»

La mattina dopo, fatta colazione, Mamá mi prese in disparte. «Allora, cosa c’è, cos’hai?»

Le dissi che non capivo cosa volesse da me.

«Faresti meglio a smetterla. È un comportamento da stupido. Non è degno di te.» Aveva un modo speciale di guardarmi, con gli occhi socchiusi e la testa piegata di lato, giusto un po’. Ancora oggi funziona.

«Non ce la faccio, Mamá. Non obbligarmi.»

«Posso sapere perché, esattamente?»

Mi uscì prima che potessi frenarmi: «È un mostro».

Mamá strinse le labbra. Non mi guardò con rabbia, ma con uno sguardo sconfortato, come se l’avessi prosciugata di ogni linfa. Era uno sguardo di rassegnazione assoluta. Come uno scultore che alla fine getta mazzuolo e scalpello di fronte a un blocco recalcitrante che non prenderà mai la forma da lui immaginata.

«È una persona cui è capitata una disgrazia terribile. Chiamala ancora così e vedrai. Dillo un’altra volta e vedrai cosa ti succede.»

Un po’ più tardi, eccoci, Thalia e io, che camminavamo lungo il sentiero acciottolato, fiancheggiato sui due lati da muri di pietra. Feci di tutto per restare qualche passo davanti a lei, in modo che i passanti o peggio ancora un mio compagno di scuola non pensassero che eravamo assieme, cosa che ovviamente era palese. Speravo almeno che la distanza tra di noi mettesse in evidenza il mio fastidio e la mia contrarietà. Mi era di sollievo il fatto che lei non facesse sforzi per stare al passo con me. Incrociavamo contadini bruciati dal sole, con l’aria stanca, che rincasavano dal mercato. I loro asini faticavano sotto il peso delle ceste di vimini con i prodotti invenduti, gli zoccoli che battevano sul sentiero. Li conoscevo quasi tutti, ma, a testa bassa, non li guardavo.

Andammo alla spiaggia. Ne scelsi una che conoscevo, con scogli scoscesi, sapendo che non sarebbe stata affollata come le altre, come Agios Romanos, per esempio. Arrotolai i pantaloni e saltai da uno scoglio all’altro, scegliendone uno vicino al punto dove le onde si infrangevano per poi ritrarsi. Tolsi le scarpe e immersi i piedi in una piccola pozza di acqua bassa che si era formata dentro un cerchio di pietre. Un gambero solitario mi sgusciò tra le dita. Scorsi Thalia alla mia destra che si sistemava su uno scoglio non lontano da me.

Rimanemmo seduti senza parlare per molto tempo, osservando il mare che rumoreggiava contro gli scogli. Una folata di vento pungente mi sferzò le orecchie, spruzzandomi in faccia il profumo del sale. Un pellicano si librava ad ali spiegate sull’acqua verde-azzurra. Due donne se ne stavano fianco a fianco, con l’acqua alle ginocchia, tenendo sollevata la gonna. A occidente potevo godere della vista dell’isola, la dominante bianca delle case e dei mulini a vento, il verde dei campi di orzo, il marrone opaco dei monti frastagliati dai quali scaturivano le sorgenti. Mio padre era morto su uno di quei monti. Lavorava in una cava di marmo verde e un giorno, quando mia madre era incinta di sei mesi, era scivolato da una scogliera facendo un salto di cinquanta metri. Mamá diceva che si era dimenticato di fissare l’imbragatura.

«Dovresti smetterla.»

Stavo tirando sassi a una lattina e la sua voce mi fece sussultare. Sbagliai mira. «E a te che ti frega?»

«Dovresti piantarla di darti tutte queste arie. Non credere che io mi diverta.»

Il vento le scompigliava i capelli e lei si tratteneva la maschera con una mano. Chissà se ogni giorno viveva con la paura che una folata di vento gliela strappasse e lei dovesse rincorrerla a viso scoperto. Rimasi in silenzio. Tirai un altro sasso e sbagliai mira di nuovo.

«Sei un idiota» disse.

Dopo un po’ si alzò e io rimasi dov’ero. Poi vidi che lasciava la spiaggia e ritornava sulla strada, così mi misi le scarpe e la seguii.

Quando rientrammo, Mamá era in cucina a tritare okra e Madaline, seduta vicino a lei, si dipingeva le unghie, fumando una sigaretta e gettando la cenere in un piattino. Provai un moto di orrore quando mi resi conto che il piattino apparteneva al servizio di porcellana che Mamá aveva ereditato da sua nonna. Era l’unica cosa di valore che possedesse, il servizio di porcellana, e non lo tirava quasi mai giù dallo scaffale, il più alto, vicino al soffitto, dove lo custodiva.

Tra un tiro e l’altro Madaline si soffiava sulle unghie e parlava di Pattakos, Papadopoulos e Makarezos, i tre colonnelli che avevano organizzato il colpo di stato militare, quello stesso anno ad Atene. Diceva di conoscere un drammaturgo, «un uomo molto, molto caro», come l’aveva definito, che era stato imprigionato con l’accusa di essere un sovversivo comunista.

«Il che è assurdo, semplicemente assurdo. Sai cosa fanno ai prigionieri per farli parlate, quelli dell’ESA?» Aveva preso a mormorare, come se in casa si nascondesse la polizia militare. «Ti mettono una canna nel didietro e aprono l’acqua al massimo. È vero, Odie. Te lo giuro. Immergono degli stracci nelle cose più schifose, negli escrementi umani, e li ficcano in bocca alla gente.»

«È orribile» disse Mamá senza scomporsi.

Mi chiedevo se si stesse già annoiando di Madaline. Il torrente di chiacchiere politiche, il racconto delle feste cui aveva partecipato con il marito, i poeti, gli intellettuali e i musicisti con cui aveva brindato a champagne, l’elenco dei viaggi che aveva fatto all’estero, inutili e insensati. Mentre pontificava sul pericolo nucleare, la sovrappopolazione, l’inquinamento, Mamá le dava corda, sorridendo ai suoi racconti con un’espressione ironicamente divertita, ma io sapevo che non le andava giù tutta quell’enfasi. Probabilmente pensava che a Madaline interessasse solo mettersi in mostra. Forse provava imbarazzo per lei.

È questo che guasta, che inquina la bontà di Mamá, i suoi salvataggi e i suoi atti di coraggio. Il fatto di farti sentire sempre in debito. Le richieste, gli obblighi che lei ti addossa. Il modo in cui usa le sue azioni come moneta di scambio, con le quali baratta la fedeltà e l’ubbidienza. Ora capisco perché Madaline se n’è andata tanti anni fa. La corda che ti salva dall’inondazione può diventare un cappio attorno al collo. Tutti finiscono per deludere Mamá, a partire da me. Il debito non può mai essere risarcito, non nel modo che Mamá si aspetta. Il suo premio di consolazione è l’amara soddisfazione di tenere il coltello per il manico, di sentirsi libera di emettere verdetti dall’alto della sua posizione strategica, perché è sempre lei cui è stato fatto il torto.

Mi rattrista, in quanto mi rivela la sua condizione di bisogno, la sua angoscia, la paura della solitudine, il terrore di essere lasciata sola, di essere abbandonata. E cosa dice di me il fatto che, pur sapendo tutto questo di mia madre, pur essendo a conoscenza di cosa ha bisogno, tuttavia l’abbia rinnegata, deliberatamente e ostinatamente, avendo cura, per la maggior parte di questi trent’anni, di frapporre tra noi un oceano, un continente, o possibilmente entrambi?

«Non hanno il senso dell’ironia, quelli della Giunta» stava dicendo Madaline «a calpestare la gente come fanno. E proprio in Grecia! La culla della democrazia. Ah, eccovi! Com’è andata? Cosa avete combinato voi due?»

«Abbiamo giocato sulla spiaggia» disse Thalia.

«Era bello? Vi siete divertiti?»

«Ce la siamo spassata un sacco» rispose Thalia.

Gli occhi di Mamá passarono scettici da me a Thalia, poi di nuovo a me, ma Madaline era raggiante e applaudiva in silenzio. «Bene! Ora che non devo preoccuparmi che voi due andiate d’accordo, Odie e io possiamo stare un po’ per conto nostro. Che ne dici, Odie? Abbiamo ancora tante cose da raccontarci!»

Mamá sorrise eroicamente e prese un cavolo dallo scaffale.

Da quel momento Thalia e io fummo lasciati liberi di fare quello che volevamo. Avremmo dovuto esplorare l’isola, giocare sulla spiaggia, divertirci come ci si aspetta che si divertano i bambini. Mamá ci preparava un panino ciascuno e dopo colazione uscivamo insieme.

Quando non eravamo più in vista, spesso ci separavamo. In spiaggia io facevo una nuotata o toglievo la camicia e mi sdraiavo su uno scoglio, mentre Thalia raccoglieva conchiglie e cercava di far saltare i ciottoli sull’acqua, cosa che non le riusciva mai per via delle onde troppo grosse. Andavamo a fare passeggiate seguendo i sentieri che si snodavano tra i vigneti e i campi di orzo, con gli occhi fissi sulla nostra ombra, ciascuno immerso nei propri pensieri. In genere gironzolavamo senza una meta. A quel tempo Tinos non aveva ancora sviluppato un’industria turistica. Era un’isola agricola, gli abitanti vivevano delle proprie mucche, delle capre, degli ulivi e del grano. Finivamo per annoiarci, ci fermavamo da qualche parte a mangiare il nostro panino, in silenzio, all’ombra di un albero o di un mulino a vento e, tra un boccone e l’altro, guardavamo i dirupi, le distese di arbusti spinosi, le montagne, il mare.

Un giorno mi incamminai a caso verso la città. Vivevamo sulla costa sud-occidentale dell’isola e la città di Tinos era solo pochi chilometri più a sud. In città c’era un negozietto di rigattiere, gestito da un vedovo dalla faccia larga che si chiamava signor Roussos. In vetrina trovavi sempre di tutto, da una macchina da scrivere degli anni Quaranta a un paio di scarponi da lavoro in pelle, da una banderuola a un vecchio trespolo per piante in vaso, e poi candele gigantesche, una croce o un gorilla d’ottone e, naturalmente, copie dell’icona della Panagia Evangelistria. Si dilettava anche di fotografia e aveva una camera oscura improvvisata nel retro del negozio. Quando ogni agosto i pellegrini arrivavano a Tinos per vedere l’icona, il signor Roussos vendeva loro rullini fotografici e per quattro soldi sviluppava le loro foto nella sua camera oscura.

Un mese prima avevo visto in vetrina una macchina fotografica, dentro la sua custodia consunta di pelle rosso ruggine. Un paio di volte alla settimana nel mio gironzolare finivo al negozio, guardavo sognante la macchina fotografica e mi immaginavo in India, la custodia appesa alla spalla, che scattavo foto alle risaie e ai campi di tè, come quelle che avevo visto sul «National Geographic». Avrei fotografato il cammino degli Incas. A dorso di cammello, su un vecchio camion coperto di polvere, a piedi, avrei sfidato la calura pur di arrivare a vedere la Sfinge e le Piramidi e le avrei fotografate per poi vedere le mie foto pubblicate su riviste dalla carta patinata. Furono queste fantasie a spingermi quella mattina verso la vetrina del signor Roussos, nonostante quel giorno il negozio fosse chiuso, e a rimanere fuori con la fronte appiccicata al vetro, sognando a occhi aperti.

«Che modello è?»

Mi scostai e colsi il riflesso di Thalia nella vetrina. Si tamponò la guancia sinistra con il fazzoletto.

«La macchina fotografica.»

Alzai le spalle.

«Sembra una C3 Argus.»

«Come fai a saperlo?»

«Da trent’anni è la migliore 35 millimetri al mondo» disse con una punta di supponenza. «In realtà non è un granché. È brutta, sembra un mattone. Dunque vuoi fare il fotografo? Da grande, intendo. Così dice tua madre.»

«Te l’ha detto lei?» Mi voltai.

«E con questo?»

Feci spallucce. Mi imbarazzava sapere che Mamá aveva parlato di questo con Thalia. Mi chiedevo come glielo avesse detto. Era capace di sfoderare dal suo arsenale un modo scherzosamente grave per parlare di cose che giudicava frivole o bizzarre. Sapeva mettere a nudo la pochezza delle tue aspirazioni davanti ai tuoi stessi occhi. Markos vuole andare in giro a piedi per il mondo e catturarlo con il suo obiettivo.

Thalia si sedette sul marciapiedi e si coprì le ginocchia con la gonna. Faceva caldo e il sole mordeva la pelle come se avesse i denti. In giro non c’era quasi anima viva, tranne una coppia di anziani che si trascinava rigida su per la strada. Il marito, Demis qualcosa, portava un basco grigio e una giacca di tweed marrone troppo pesante per la stagione. Aveva gli occhi sbarrati con lo sguardo fisso tipico dei vecchi, come se fossero perennemente terrorizzati da quella mostruosa sorpresa che è la vecchiaia; solo molti anni dopo, studiando medicina, mi venne il sospetto che fosse affetto dal morbo di Parkinson. Incrociandoci, salutarono con la mano e io ricambiai il saluto. Vidi che notarono Thalia, fermandosi un attimo prima di riprendere il loro cammino.

«Hai una macchina fotografica?» chiese Thalia.

«No.»

«Hai mai fatto una fotografia?»

«No.»

«E vuoi fare il fotografo?»

«Lo trovi strano?»

«Un po’.»

«Quindi se avessi detto che volevo fare il poliziotto, avresti pensato che anche questo fosse strano perché non ho mai schiaffato le manette ai polsi di nessuno.»

Vidi che il suo sguardo si era addolcito e capii che, se avesse potuto, avrebbe sorriso. «Be’, sei un idiota in gamba» commentò. «Ti avviso. Non parlare della macchina fotografica in presenza di mia madre, altrimenti te la compra. È molto ansiosa di rendersi gradita.» Tamponò nuovamente la guancia con il fazzoletto. «Ma dubito che Odelia approverebbe. Immagino che tu lo sappia.»

Fui impressionato e anche un po’ disorientato da quanto avesse capito in così poco tempo. Forse era la maschera, il vantaggio di stare nascosti, la possibilità di sorvegliare, osservare, scrutare gli altri in tutta libertà.

«Probabilmente ti ordinerebbe di restituirla.»

Sospirai. Era vero. Mamá non avrebbe ammesso un risarcimento così facile, meno che mai se comportava un esborso di denaro.

Thalia si alzò e si spolverò il sedere per togliere la polvere. «Senti un po’, ce l’hai una scatola a casa?»

Madaline stava sorseggiando un bicchiere di vino con Mamá in cucina, mentre Thalia e io, al piano di sopra, dipingevamo una scatola da scarpe con dei pennarelli neri. La scatola apparteneva a Madaline e conteneva un nuovo paio di scarpe di pelle con il tacco alto, ancora avvolte nella carta velina.

«Chissà dove pensava di metterle.»

Sentivo Madaline, dabbasso, che stava parlando di una lezione di recitazione in cui l’insegnante le aveva chiesto di fingere di essere una lucertola immobile su una pietra. Seguì uno scoppio di risa, il suo.

Finimmo la seconda mano e Thalia disse che avremmo dovuto stenderne una terza per essere sicuri di non aver lasciato dei vuoti. Il nero doveva essere uniforme e impeccabile.

«Una macchina fotografica non è altro che questo: una scatola nera con un foro per far entrare la luce, e qualcosa per assorbirla. Dammi l’ago.»

Le passai un ago da cucito di Mamá. Ero scettico, per non dire altro, sull’eventualità che questa macchina fotografica fatta in casa funzionasse. Come era possibile che bastasse così poco, una scatola da scarpe e un ago? Ma Thalia si era buttata in questo progetto con tale entusiasmo e fiducia che dovetti mettere in conto che, magari, avrebbe funzionato. Mi costrinse anche ad ammettere tra me e me che sapeva cose che io ignoravo.

«Ho fatto dei calcoli» disse, forando con precisione la scatola con l’ago. «In mancanza di obiettivo non possiamo praticare il foro stenopeico sul lato corto, la scatola è troppo lunga. Ma la larghezza è appena sufficiente. Il punto è praticare il foro della dimensione giusta; ho calcolato che dovrebbe essere grosso modo di 0,6 millimetri. Ecco fatto. Adesso abbiamo bisogno di un otturatore.»

Al piano di sotto Madaline aveva abbassato il tono di voce, che era diventata un mormorio convulso. Non sentivo quello che diceva, ma capivo che parlava più lentamente di prima, scandendo le parole e la immaginavo piegata in avanti, i gomiti sulle ginocchia, che guardava Mamá dritto negli occhi, senza battere le ciglia. Nel corso degli anni sono arrivato a riconoscere questo tono di voce da vicino. Quando le persone parlano così, probabilmente stanno confessando qualcosa, rivelando una catastrofe, implorando l’ascoltatore. È il pezzo forte dei militari che bussano alla porta annunciando la morte di un soldato, degli avvocati che magnificano i meriti di una causa ai clienti, dei poliziotti che fermano le automobili alle tre del mattino, dei mariti che tradiscono. Quante volte l’ho usato io stesso, qui all’ospedale di Kabul? Quante volte ho condotto intere famiglie in una stanza tranquilla, li ho fatti sedere, ho preso una sedia per me, racimolando la forza necessaria a dare loro la notizia con quello stesso tono, paventando la conversazione che sarebbe seguita?

«Parla di Andreas» disse Thalia con indifferenza. «Ci scommetterei. Hanno litigato di brutto. Passami lo scotch e le forbici.»

«Com’è? Oltre a essere ricco, voglio dire?»

«Chi, Andreas? Normale. Viaggia un sacco. Quando è a casa, invita sempre gente. Persone importanti, ministri, generali, quel tipo di persone. Bevono vicino al caminetto e parlano tutta la sera, soprattutto di affari e di politica. Dalla mia stanza li sento. Quando Andreas ha invitati, devo rimanere al piano di sopra. Non mi è permesso scendere. Ma lui mi fa regali. Paga un insegnante che viene a casa. E mi parla in modo abbastanza gentile.»

Fissò con lo scotch un rettangolo di cartone che avevamo dipinto di nero sopra il foro stenopeico.

Dabbasso la situazione era calma. Mi immaginavo la scena come a teatro. Madaline che piangeva in silenzio, stropicciando distrattamente il fazzoletto come fosse un pezzo di plastilina, Mamá, non di grande aiuto, con lo sguardo severo e un sorrisino tirato, come se avesse qualcosa di acido in bocca. Mamá non sopporta che qualcuno pianga in sua presenza. Non può quasi guardare gli occhi gonfi, i visi spudoratamente imploranti. Considera il pianto un segno di debolezza, una richiesta plateale di attenzione e si rifiuta di accondiscendere. Le riesce impossibile essere di conforto. Crescendo, ho imparato che la consolazione non era nelle sue corde. È convinta che il dolore dovrebbe essere privato, non esibito. Una volta, da piccolo, le avevo chiesto se avesse pianto quando mio padre era caduto ed era morto.

Al funerale? Voglio dire, sulla sua tomba.

No, non ho pianto.

Non eri triste?

Il mio dispiacere non riguardava nessuno tranne me.

Piangeresti se morissi io, Mamá?

Speriamo di non doverlo mai scoprire.

Thalia afferrò la scatola della carta fotografica e disse: «Prendi la torcia».

Entrammo nel ripostiglio di Mamá, chiudemmo accuratamente la porta e ci infilammo sotto alcuni asciugamani per impedire qualunque infiltrazione di luce. Una volta sprofondati nel buio, Thalia mi chiese di accendere la torcia che avevamo coperto con diversi strati di cellophane rosso. Nel lucore rossastro tutto ciò che vedevo di lei erano le dita sottili che tagliavano un foglio di carta fotografica e lo incollavano all’interno della scatola da scarpe di fronte al foro stenopeico. Avevamo comprato la carta nel negozio del signor Roussos il giorno prima. Quando ci eravamo accostati al banco, il signor Roussos aveva sbirciato Thalia da sopra gli occhiali e aveva chiesto: È una rapina? Thalia gli aveva puntato contro l’indice alzando il pollice come il cane di una pistola.

Ora chiuse il coperchio della scatola e coprì il forellino con l’otturatore. Al buio disse: «Domani scatterai la prima fotografia della tua carriera!». Non capii se mi stesse prendendo in giro oppure no.

Scegliemmo la spiaggia. Sistemammo la scatola su uno scoglio piatto e l’assicurammo con una corda; Thalia disse che nell’aprire l’otturatore non avremmo dovuto fare il benché minimo movimento. Venne vicino a me e guardò sopra la scatola, come si guarda in un mirino.

«È uno scatto perfetto» disse.

«Non proprio. Dobbiamo avere un soggetto.»

Mi guardò e capì cosa volevo dire. «Non ci pensare.»

Ci mettemmo a discutere e alla fine acconsentì, ma a condizione che non si vedesse la sua faccia. Si tolse le scarpe, si arrampicò sulle rocce, a qualche passo dalla macchina fotografica, usando le braccia come la corda di un funambulo. Poi si sedette, rivolta a occidente, in direzione di Syros e Kythnos. Sollevò i capelli in modo che coprissero i lacci che tenevano ferma la maschera sulla nuca e si voltò verso di me.

«Ricordati,» gridò «conta sino a ventuno.»

Tornò a guardare il mare.

Mi chinai e sbirciai sopra la scatola, guardando la schiena di Thalia, la costellazione di scogli attorno a lei, frustati dal groviglio di alghe simili a serpenti morti, un piccolo rimorchiatore in lontananza, la risacca che batteva sulla costa scoscesa per poi ritirarsi. Sollevai l’otturatore dal foro stenopeico e incominciai a contare.

Uno... due... tre... quattro... cinque...

Siamo a letto. Sullo schermo della tv un duo di fisarmonicisti, ma Gianna ha spento l’audio. Il sole del mezzogiorno filtra attraverso le imposte, in strisce di luce che cadono sui resti della pizza margherita che avevamo ordinato al servizio in camera. Ci è stata servita da un uomo alto e magro, con i capelli scuri impeccabilmente pettinati all’indietro, in giacca bianca e cravatta nera. Sul suo carrello c’era un calice con dentro una rosa rossa. Aveva sollevato con gesto teatrale il coperchio di metallo a cupola sopra la pizza, facendo con la mano un movimento a semicerchio, come un prestigiatore che si rivolge al pubblico dopo che il coniglio si è materializzato nel cilindro.

Sparpagliate sul letto in mezzo alle lenzuola sgualcite ci sono le fotografie che ho mostrato a Gianna, le foto dei miei viaggi nell’ultimo anno e mezzo. Belfast, Montevideo, Tangeri, Marsiglia, Lima, Teheran. Le porgo le foto della comune di Copenhagen di cui avevo fatto brevemente parte, insieme a beatnik danesi dalle T-shirt strappate e berrettini di lana, i quali si erano creati una comunità autogestita in una ex base militare.

Tu dove sei? Chiede Gianna. Non ci sei mai nelle foto.

Preferisco stare dietro l’obiettivo, dico. È vero. Ho scattato centinaia di foto, ma non compaio mai in nessuna di loro. Ordino sempre una doppia stampa quando lascio il rullino da sviluppare. Una la conservo io, l’altra la spedisco a Thalia.

Gianna mi chiede come mi finanzio i viaggi e le spiego che me li pago con il denaro che ho ereditato. È vero solo in parte, perché l’eredità è di Thalia, non mia. A differenza di Madaline, che per ovvie ragioni nel testamento di Andreas viene ignorata, Thalia no. Mi aveva regalato metà del suo denaro, con il quale avrei dovuto mantenermi durante l’università.

Otto... nove... dieci...

Gianna si solleva sui gomiti e si allunga sul letto sopra di me, i piccoli seni che mi accarezzano la pelle. Prende il pacchetto di sigarette e ne accende una. L’ho conosciuta il giorno prima in piazza di Spagna. Ero seduto sulla scalinata che unisce la piazza alla chiesa in cima al colle. Si era avvicinata dicendomi qualcosa in italiano. Non era diversa dalle tante ragazze carine, apparentemente sfaccendate che avevo visto bighellonare nelle chiese e nelle piazze di Roma. Fumavano, parlavano a voce alta e ridevano un sacco. Scossi la testa, Sorry? Sorrise con un Ah! e poi con un inglese dal forte accento italiano chiese: Lighter? Cigarette. Scossi la testa e a mia volta con il mio inglese dal forte accento greco le dissi che non fumavo. Lei sorrise. Aveva occhi luminosi e irrequieti. Il sole della tarda mattina creava un’aureola attorno all’ovale del suo viso.

Mi appisolo per un momento, ma sono svegliato da lei che mi dà dei colpetti nelle costole.

La tua ragazza? chiede. Ha trovato la foto di Thalia sulla spiaggia, quella che avevo scattato anni prima con la nostra macchina fotografica rudimentale. Your girlfriend?

No.

Tua sorella?

No.

Tua cugina? Your cousin, sì?

Scuoto la testa.

Studia ancora un po’ la foto, facendo rapidi tiri della sigaretta. No, dice con asprezza e, con mia sorpresa, addirittura con rabbia. Questa è la tua ragazza! Your girlfriend. Penso di sì, sei un bugiardo! E poi, cosa da non credere, prende l’accendino e dà fuoco alla fotografia.

Quattordici... quindici... sedici... diciassette...

Più o meno a metà della strada che porta alla fermata, mi rendo conto di aver perso la fotografia. Dico loro che devo tornare indietro. Non ho scelta, devo proprio tornare. Alfonso, un huaso segaligno e taciturno che ci accompagna come guida nel nostro giro in Cile, guarda in modo interrogativo Gary. Gary è americano. È il leader del nostro trio. Ha i capelli biondicci e le guance butterate di segni lasciati dall’acne. La sua è una faccia che parla di una vita dura. È di umore schifoso, reso ancora peggiore dalla fame, dalla mancanza di alcol e da una brutta irritazione cutanea al polpaccio sinistro che si è procurato il giorno prima strisciando contro un cespuglio di litre. Li avevo incontrati entrambi in un affollato bar di Santiago, dove, dopo una mezza dozzina di giri di piscolas, Alfonso aveva proposto di fare un’escursione a piedi alla cascata di Saltos de Apoquindo, dove suo padre lo accompagnava da ragazzo. Eravamo partiti il giorno dopo e ci eravamo accampati per la notte ai margini della cascata. Avevamo fumato erba, lo scroscio dell’acqua nelle orecchie, e sopra di noi un cielo immenso, fitto di stelle. Ora stavamo tornando faticosamente verso San Carlos de Apoquindo per prendere la corriera.

Gary spinge indietro la larga tesa del suo cappello di cordobán e si asciuga la fronte con il fazzoletto. Sono tre ore di cammino, Markos, dice.

¿Tres horas, hágale comprender?, gli fa eco Alfonso.

Lo so.

E hai intenzione di tornare comunque?

Sì.

Per una foto?, chiede Alfonso.

Faccio cenno di sì con la testa. Non dico altro, perché non capirebbero. Non sono certo di capire nemmeno io.

Lo sai che ti perderai, dice Gary.

È probabile.

Allora, buona fortuna, amigo, mi augura Gary, dandomi la mano.

Es un gringo loco, conclude Alfonso.

Rido. Non è la prima volta che mi danno del greco picchiatello. Ci stringiamo la mano. Gary sistema le cinghie del suo zaino e tutti e due s’incamminano per il sentiero lungo le pieghe della montagna e Gary, senza voltarsi, mi saluta ancora una volta con la mano, prima di sparire dietro una curva a gomito. Io percorro la strada in senso inverso. Mi ci vogliono quattro ore, perché, come aveva previsto Gary, mi perdo davvero. Quando arrivo dove ci eravamo accampati sono ormai sfinito. Cerco dappertutto, tiro calci agli arbusti, scruto in mezzo alle rocce, e mentre rovisto a vuoto sento che la paura inizia a impossessarsi di me. Poi proprio mentre mi sto rassegnando al peggio, scorgo una macchia bianca in un gruppo di cespugli su un pendio poco ripido. Trovo la fotografia incuneata in un groviglio di rovi. La recupero e cerco di ripulirla, gli occhi gonfi di lacrime di sollievo.

Ventitré... ventiquattro... venticinque...

A Caracas dormo sotto un ponte. A Bruxelles in un ostello della gioventù. A volte, quando sono in vena di scialare, affitto una camera in un albergo decente, faccio lunghe docce calde, mi rado e mangio in accappatoio davanti a un televisore a colori. Le città, le strade, i paesaggi, le persone che incontro incominciano a confondersi nella mente. Mi dico che la mia è una ricerca. Ma sempre più spesso mi sembra di aggirarmi senza meta, in attesa che qualcosa mi accada, qualcosa che cambierà tutto e verso cui tende tutta la mia vita.

Trentaquattro... trentacinque... trentasei...

Il mio quarto giorno in India. Scendo barcollando per una strada sterrata, in mezzo a mucche vagabonde, con il mondo che mi traballa sotto i piedi. È tutto il giorno che vomito. Ho la pelle gialla come lo zafferano e ho l’impressione che mani invisibili mi stiano scuoiando. Quando non ce la faccio più a camminare, mi sdraio a lato della strada. Un vecchio sull’altro lato sta rimestando qualcosa in un calderone d’acciaio. Accanto a lui c’è una gabbia e dentro la gabbia c’è un pappagallo rosso e azzurro. Un ambulante dalla carnagione scura mi passa davanti spingendo un carretto pieno di bottiglie verdi, vuote. Questa è l’ultima cosa che ricordo.

Quarantuno... quarantadue...

Mi sveglio in una grande camerata. L’aria, resa irrespirabile dal calore, puzza di melone marcio. Sono sdraiato su un letto di metallo a una piazza, con un fondo duro, una sorta di piattaforma senza molle coperta da un materasso non più spesso di un libro in edizione tascabile. La stanza è piena di letti come il mio. Vedo braccia emaciate che penzolano dalle sponde, gambe scheletriche, scure, che sbucano da lenzuola luride, bocche aperte, sdentate. Sul soffitto ventilatori inoperosi. Pareti coperte di macchie di muffa. La finestra accanto a me lascia entrare l’aria calda, appiccicosa e il sole mi ferisce gli occhi. L’infermiere, un musulmano corpulento, mi guarda in cagnesco, annunciandomi che potrei morire d’epatite.

Cinquantacinque... cinquantasei... cinquantasette...

Chiedo di poter avere il mio zaino. Quale zaino? dice Gul con indifferenza. Ho perso tutto: gli abiti, il denaro, i libri, la macchina fotografica. Questo è quanto ti ha lasciato il ladro, dice Gul nel suo inglese cantilenante, indicando la finestra accanto a me. È la fotografia. La prendo. Thalia, i capelli che fluttuano nella brezza, l’acqua che ribolle di schiuma, i piedi nudi sullo scoglio, la distesa ondosa dell’Egeo davanti a lei. Infilo la foto tra il vetro e il telaio della finestra.

Sessantasei... sessantasette... sessantotto...

Il ragazzo nel letto accanto al mio ha la faccia di un vecchio, macilenta, scavata, scarnita. Ha il basso ventre gonfio per un tumore grosso come una palla da bowling. Ogni volta che un infermiere lo tocca in quel punto strizza gli occhi e spalanca la bocca in un lamento muto, angoscioso. Ora un infermiere sta cercando di fargli ingoiare le pillole, ma il ragazzo sbatte la testa da una parte all’altra, emettendo un rumore di gola simile al legno quando viene raschiato. Alla fine l’infermiere gli apre a forza la bocca e gli ficca dentro le pillole. Quando esce, il ragazzo si gira lentamente verso di me. Ci guardiamo attraverso lo spazio che divide i nostri letti. Una piccola lacrima spunta dal ciglio e scivola sulla sua guancia.

Settantacinque... settantasei... settantasette...

La sofferenza, la disperazione in questo luogo è come un’onda. Nasce da ogni letto, si infrange contro le pareti ammuffite e ti ripiomba addosso. Ti ci puoi annegare. Dormo un sacco. Quando non dormo mi gratto. Prendo le pillole che mi danno e che mi fanno dormire di nuovo. Altrimenti guardo la strada trafficata, la luce che scivola sulle tende dei bazar, sulle botteghe del tè nei vicoli laterali. Osservo i ragazzini che giocano a biglie sui marciapiedi, fiancheggiati da rigagnoli fangosi, le vecchie sedute sulla soglia, gli ambulanti con il tradizionale dhoti, accoccolati sulle stuoie, che grattano noci di cocco e vendono ghirlande di calendule. Qualcuno dall’altra parte della stanza lancia un urlo lacerante. Mi appisolo.

Ottantatré... ottantaquattro... ottantacinque...

Vengo a sapere che il ragazzo si chiama Manar. Il nome significa “luce che guida”. Sua madre era una prostituta e suo padre un ladro. Viveva con i suoi zii che lo picchiavano. Nessuno sa esattamente cosa lo stia ammazzando, solo che lui sta morendo. Nessuno viene a trovarlo e quando morirà, tra una settimana, un mese, due al massimo, nessuno verrà a reclamarne il cadavere. Nessuno lo piangerà. Nessuno lo ricorderà. Morirà dove è vissuto, negli interstizi. Quando dorme mi ritrovo a osservarlo: le tempie scavate, la testa troppo grossa per le sue spalle, la cicatrice scura sul labbro inferiore dove, come mi ha riferito Gul, il magnaccia di sua madre aveva l’abitudine di spegnere la sigaretta. Cerco di parlargli in inglese, poi utilizzando le poche parole di urdu che conosco, ma lui si limita a sbattere stancamente le palpebre. A volte, intrecciando le mani, proietto sulla parete ombre di animali nella speranza di suscitare un suo sorriso.

Ottantasette... ottantotto... ottantanove...

Un giorno Manar mi indica qualcosa in direzione della finestra. Seguo il suo dito e alzo la testa, ma non vedo altro che un lembo di cielo azzurro in mezzo alle nuvole, i bambini che giocano per strada con l’acqua che sgorga da una pompa, un autobus che sputa gas di scarico. Poi mi rendo conto che sta indicando la foto di Thalia. La sfilo e gliela passo. La porta vicino alla faccia, tenendola per l’angolo bruciacchiato e la fissa a lungo. Mi chiedo se sia il mare ad attirarlo. Mi chiedo se abbia mai assaggiato l’acqua salata, o se abbia mai provato un senso di vertigine guardando la risacca che si ritira dai suoi piedi. O forse, pur non vedendo il viso di Thalia, la sente in qualche modo simile a sé, una persona che sa cos’è il dolore. Mi restituisce la foto. Scuoto la testa. Tienila, dico. Un’ombra di diffidenza gli attraversa la faccia. Sorrido e, non ne sono sicuro, ma mi sembra che mi restituisca il sorriso.

Novantadue... novantatré... novantaquattro...

Riesco a sconfiggere l’epatite. Strano, ma non capisco se Gul sia contento oppure deluso dal fatto che io gli abbia dimostrato di essersi sbagliato. Ma quando gli dico se posso rimanere come volontario, lo prendo decisamente in contropiede. Drizza la testa, aggrottando le sopracciglia. Alla fine mi fa parlare con un capoinfermiere.

Novantasette... novantotto... novantanove...

Il locale delle docce puzza di urina e di zolfo. Ogni mattina vi porto Manar, tenendo tra le braccia il suo corpo nudo, attento a non fargli male; una volta ho visto un volontario che lo portava sulla spalla come fosse un sacco di riso. Lo metto a sedere delicatamente sulla panca e aspetto che riprenda fiato. Lavo il suo corpo fragile con l’acqua calda. Manar sta sempre seduto tranquillo, paziente, le mani sulle ginocchia, la testa china. È come un vecchio spaventato. Gli passo la spugna insaponata sul torso, sulle vertebre, sulle scapole che spuntano come pinne di pescecane. Lo riporto a letto e gli do le pillole. Il massaggio ai piedi e ai polpacci lo calma, perciò inizio a strofinarli piano, prendendomi tutto il tempo necessario. Si addormenta sempre con la foto di Thalia infilata a metà sotto il cuscino.

Centouno... centodue...

Faccio lunghe passeggiate per la città, senza meta, solo per tenermi lontano dall’ospedale, dal respiro collettivo dei malati e dei moribondi. Al tramonto cammino per le strade polverose, con i muri coperti di graffiti, passo davanti a bancarelle con la tettoia in lamiera, addossate le une alle altre, incrocio ragazzine che portano sulla testa ceste piene di letame, donne coperte di fuliggine, che fanno bollire stracci in immense tinozze di alluminio. Penso molto a Manar mentre gironzolo nel ginepraio di vicoletti, Manar che aspetta di morire in quella stanza piena di vite spezzate, come la sua. Penso molto a Thalia, seduta sullo scoglio, che guarda il mare. Sento qualcosa che dal profondo mi tira in giù, sballottandomi come una corrente sotterranea. Voglio lasciarmi andare, voglio farmi catturare, rinunciare ai miei punti di riferimento, sgusciar fuori dalla persona che sono, abbandonarmi tutto alle spalle, come un serpente che si libera della sua vecchia pelle.

Non dico che Manar mi abbia cambiato la vita. Non è così che è andata. Mi trascino per il mondo per un altro anno in modo inconcludente prima di trovarmi a un tavolo d’angolo in una biblioteca di Atene, intento a compilare la domanda d’iscrizione alla facoltà di medicina. Fra Manar e la domanda ci sono le due settimane passate a Damasco, di cui non ho praticamente nessun ricordo se non quello delle facce sorridenti di due donne con gli occhi pesantemente truccati e con un dente d’oro ciascuna. O i tre mesi al Cairo, nel seminterrato di un caseggiato fatiscente gestito da un padrone di casa fumatore d’hashish. Spendo i soldi di Thalia scorrazzando per l’Islanda in corriera, aggregandomi a un gruppo di punk a Monaco. Nel 1977 mi rompo un gomito durante una manifestazione antinucleare a Bilbao.

Ma nei momenti di tranquillità, nei lunghi viaggi sul retro di un pullman o sul pianale di un camion, la mia mente torna sempre a Manar. Pensare a lui, all’angoscia dei suoi ultimi giorni, alla mia impotenza di fronte alla sua fine, rende tutto ciò che ho fatto, tutto ciò che voglio fare, inconsistente come le piccole promesse in cui ci impegniamo prima di addormentarci, e che, quando ci svegliamo, sono già dimenticate.

Centodiciannove... Centoventi.

Abbasso l’otturatore.

Una sera alla fine di quell’estate, vengo a sapere che Madaline sarebbe partita per Atene lasciando Thalia con noi, almeno per qualche tempo.

«Solo per qualche settimana» ci assicurò.

Stavamo cenando, noi quattro, con un piatto di minestra di fagioli bianchi che Mamá e Madaline avevano preparato assieme. Lanciai un’occhiata a Thalia per capire se ero il solo cui Madaline annunciava la notizia. A quanto pareva era così. Thalia con tutta calma si stava infilando cucchiaiate di minestra in bocca, alzando un po’ la maschera a ogni viaggio del cucchiaio. A quel punto il suo modo di parlare e di mangiare non mi infastidiva più, almeno non più di quanto mi infastidisse vedere un vecchio che mangiava con una dentiera malferma, come avrebbe fatto Mamá a distanza di anni.

Madaline promise che avrebbe mandato a prendere Thalia una volta finito di girare il film che avrebbe dovuto essere pronto molto prima di Natale.

«Vi porterò tutti ad Atene» disse con il viso atteggiato alla sua abituale allegria. «E andremo all’inaugurazione insieme! Non sarà magnifico, Markos? Ve lo immaginate, noi quattro, tutti in ghingheri, che percorriamo il tappeto rosso per entrare al cinema?»

Dissi di sì, anche se non riuscivo a immaginarmi Mamá vestita con un abito elegante che entrava disinvolta in un locale, tanto meno in un cinema.

Madaline ci spiegò che tutto avrebbe funzionato alla perfezione, che Thalia avrebbe ripreso gli studi alla riapertura della scuola tra un paio di settimane, a casa nostra, naturalmente, con Mamá. Disse che ci avrebbe inviato cartoline, lettere e foto del set. Continuò a parlare, ma io non ascoltavo più. Quello che provavo era un immenso sollievo, vertigini vere e proprie. La mia paura della fine dell’estate, così vicina, era come un groppo allo stomaco che si stringeva ogni giorno di più, mentre cercavo di corazzarmi per affrontare l’imminente addio. Ogni mattina mi svegliavo con l’ansia di incontrare Thalia a colazione, di sentire il suono bizzarro della sua voce. Quasi rinunciavamo a mangiare per correre ad arrampicarci sugli alberi, inseguirci nei campi di orzo, penetrare tra gli steli lanciando grida di guerra, facendo scappare le lucertole ai nostri piedi. Ammassavamo immaginari tesori nelle grotte, scoprivamo i posti dell’isola dove si sentiva l’eco migliore, la più sonora. Con la nostra macchina facevamo foto ai mulini a vento, alle piccionaie e le portavamo a sviluppare al signor Roussos che ci permise persino di entrare nella sua camera oscura e ci spiegò l’uso dei diversi rivelatori, dei fissatori e dei lavaggi.

La sera dell’annuncio, Madaline e Mamá bevvero una bottiglia di vino in cucina, mentre Thalia e io eravamo di sopra a giocare una partita di tavli. Thalia era nella posizione mana e aveva già mosso metà delle sue pedine nella casa base.

«Ha un amante» disse Thalia scuotendo i dadi.

Feci un salto. «Chi?»

«Chi, mi chiedi. E chi, secondo te?»

Nel corso dell’estate avevo imparato a leggere le espressioni degli occhi di Thalia, che ora mi guardava come se fossimo sulla spiaggia e io chiedessi dov’era il mare. Cercai di recuperare rapidamente. «So di chi parli» dissi con le guance in fiamme. «Voglio dire chi è il suo... be’. Quello che hai detto tu...» Avevo dodici anni. Il mio vocabolario non comprendeva parole come “amante”.

«Non indovini? Il regista.»

«Stavo giusto per dirlo.»

«Elias. È un tipo assurdo. Ha i capelli impomatati come negli anni Venti. Ha anche un paio di baffi sottili. Immagino che creda di essere irresistibile, invece è ridicolo. Naturalmente pensa di essere un grande artista. Anche la mamma ne è convinta. Dovresti vederla quando è con lui, tutta timida e sottomessa, che gli si inchina davanti e lo vizia come se fosse un genio. Non capisco come faccia a non rendersene conto.»

«Zia Madaline lo sposerà?»

Thalia fece spallucce. «Quanto a uomini ha un gusto pessimo. Pessimo.» Scosse i dadi con aria pensierosa. «Tranne che per Andreas, penso. Lui è simpatico. Abbastanza, almeno. Ma naturalmente lo sta piantando. Perde la testa solo per dei bastardi.»

«Vuoi dire uomini come tuo padre?»

Aggrottò le sopracciglia. «Mio padre era uno straniero che ha incontrato mentre era in viaggio per Amsterdam. In una stazione ferroviaria, durante un temporale. Sono stati assieme un solo pomeriggio. Non ho idea di chi sia, e neanche lei del resto.»

«Oh. Ricordo una cosa che ha detto a proposito del suo primo marito. Ha raccontato che beveva. Ho pensato che si trattasse di tuo padre.»

«Be’, quello era Dorian» disse Thalia. «Anche lui era un bel tipo.» Spostò un’altra pedina nella sua casa base. «La picchiava. In un batter d’occhio passava dalla cortesia alla collera. Come il tempo, quando cambia all’improvviso. Era così. Passava la giornata a bere e non faceva altro che bighellonare per casa. Quando era ubriaco non ricordava più niente. Per esempio lasciava aperto il rubinetto dell’acqua e allagava la casa. Ricordo che una volta ha dimenticato di spegnere la stufa e per poco non ha mandato tutto a fuoco.»

Ammonticchiò le pedine una sopra l’altra con grande cura perché non cadessero.

«La sola cosa che Dorian amava veramente era Apollo. Tutti i ragazzi del quartiere erano terrorizzati da Apollo. L’avevano visto in pochi, ma tutti l’avevano sentito abbaiare, e tanto bastava. Dorian lo teneva legato a una catena in fondo al cortile. Gli dava da mangiare grandi pezzi di agnello.»

Thalia non mi disse altro. Ma io mi immaginai il resto senza difficoltà. Dorian che era morto e il cane, dimenticato da tutti, che vagava libero per il cortile. Una porta rimasta aperta.

«Quanti anni avevi?» chiesi piano.

«Cinque.»

Poi le feci la domanda a cui avevo pensato dall’inizio dell’estate. «Non c’è qualcosa che... Voglio dire, non possono fare...»

Thalia distolse di colpo lo sguardo. «Per favore, non farmi questa domanda» disse con tristezza e nella sua voce sentii un dolore profondo. «Parlarne mi sfinisce.»

«Scusami.»

«Un giorno te lo racconterò.»

In seguito, infatti, me lo raccontò. L’intervento chirurgico andato male, la catastrofica infezione della ferita, subentrata dopo l’operazione, che le aveva provocato un’insufficienza renale ed epatica, le aveva corroso la pelle nuova che era servita al trapianto, obbligando i chirurghi a rimuovere non solo quel lembo, ma anche quanto rimaneva della guancia e di parte della mandibola. Le complicazioni l’avevano tenuta in ospedale per quasi tre mesi. Era stata in punto di morte, in teoria avrebbe dovuto morire. Dopo di che si era rifiutata di rimettersi nelle mani dei medici.

«Thalia, mi spiace anche per quello che è successo il primo giorno che ci siamo visti.»

Alzò su di me gli occhi, che erano tornati a brillare del solito luccichio divertito. «È giusto che ti spiaccia. Ma lo sapevo già, prima che riempissi di vomito il pavimento.»

«Sapevi cosa?»

«Che sei un idiota.»

Madaline partì due giorni prima dell’inizio della scuola. Indossava un abito aderente senza maniche color crema, che fasciava la sua figura snella, occhiali da sole con la montatura di corno, e un foulard di seta bianco annodato stretto per trattenere i capelli. Era vestita come se temesse che qualche parte di sé potesse staccarsi, come se cercasse di tenersi assieme. Al porto di Tinos, dove avrebbe preso il traghetto, ci abbracciò tutti. Tenne Thalia stretta a lungo, posando le labbra sulla testa della figlia in un bacio prolungato, ininterrotto. Non si tolse gli occhiali da sole.

Sentii che le sussurrava: «Abbracciami anche tu».

Thalia rimase rigida, ma ubbidì.

Quando il traghetto si allontanò rollando e lasciando una scia d’acqua mulinante, pensavo che Madaline si sarebbe affacciata per salutarci con la mano e mandarci baci. Invece si affrettò a raggiungere la prua e a prendere posto, senza più voltarsi.

Quando arrivammo a casa, Mamá ci ordinò di sederci. In piedi davanti a noi disse: «Thalia, voglio che tu sappia che in questa casa non devi più portare quella maschera. Non per me e nemmeno per lui. Mettila solo se vuoi. Non ho nient’altro da dire su questa faccenda».

Fu allora che capii, con improvvisa lucidità, ciò che Mamá aveva già compreso. Che la maschera era servita a Madaline. Per risparmiare a lei imbarazzo e vergogna.

Per molto tempo Thalia non si mosse e non parlò. Poi lentamente alzò le mani, slegò i lacci dietro la testa e si tolse la maschera. La guardai dritto in faccia. Provai l’impulso involontario di ritrarmi, come capita quando si sente un rumore improvviso, ma rimasi immobile. Non abbassai gli occhi. Mi feci un dovere di non battere le palpebre.

Mamá disse che non sarei andato a scuola sino al ritorno di Madaline, in modo che Thalia non rimanesse da sola. Ci impartiva le sue lezioni la sera dopo cena e ci assegnava i compiti da eseguire il mattino mentre lei era a scuola. Sembrava fattibile, almeno in teoria.

Ma studiare, soprattutto in assenza di Mamá, si dimostrò quasi impossibile. La notizia della deturpazione di Thalia si diffuse in tutta l’isola, e la gente continuava a bussare alla porta, mossa dalla curiosità. Avresti pensato che improvvisamente dall’isola fossero scomparsi la farina, l’aglio, persino il sale, e la nostra casa fosse l’unico posto dove era ancora possibile trovarli. Non si sforzavano nemmeno di mascherare il loro scopo. Sin dalla porta, frugavano con lo sguardo lo spazio dietro le mie spalle. Poi allungavano il collo, si alzavano in punta di piedi. La maggior parte dei curiosi non erano neppure vicini di casa. Percorrevano a piedi chilometri per una tazza di zucchero. Naturalmente non li facevo mai entrare. Mi dava una certa soddisfazione chiuder loro la porta in faccia. Ma mi sentivo triste, abbattuto, consapevole del fatto che, se fossi rimasto a Tinos, la mia vita sarebbe stata profondamente influenzata da queste persone. Alla fine sarei diventato come loro.

I ragazzi erano anche peggio e molto più temerari. Ogni giorno ne sorprendevo uno che armeggiava fuori o si arrampicava sul muro di cinta. Mentre lavoravamo Thalia mi batteva la matita sulla spalla, oppure faceva un cenno con il mento, io mi giravo e vedevo una faccia, talvolta più di una, contro il vetro della finestra. La situazione divenne così insopportabile che fummo costretti a trasferirci al piano di sopra e a chiudere tutte le tende. Un giorno aprii la porta a un ragazzo che avevo conosciuto a scuola, Petros, e a tre suoi amici. Mi offrì una manciata di monete per poter dare una sbirciatina. Dissi di no, dove credeva di essere, al circo?

Alle fine dovetti dirlo a Mamá. Un’ondata di rossore le salì al viso. Strinse i denti.

Il mattino dopo trovammo pronti sul tavolo i nostri libri e due panini. Thalia capì prima di me e si accartocciò come una foglia. Arrivata l’ora di uscire, diede corso alle sue proteste.

«Zia Odie, no.»

«Dammi la mano.»

«No, ti prego.»

«Coraggio, dammela.»

«Non voglio andare.»

«Faremo tardi.»

«Non costringermi, zia Odie.»

Mamá la prese per le mani e la tirò su dalla sedia, si chinò su di lei e la fissò con quello sguardo che conoscevo così bene. «Thalia» disse, cercando di essere dolce, ma risoluta: «Io non mi vergogno di te».

Partimmo, tutti e tre, Mamá in testa. Con le labbra contratte procedeva come stesse avanzando contro un vento impetuoso, a passetti veloci. La immaginai avviarsi con la stessa determinazione, molti anni prima, verso la casa del padre di Madaline, fucile in mano.

La gente ci guardava allibita a bocca aperta mentre passavamo per i viottoli tortuosi. Alcuni si fermavano per fissarci e ci indicavano a dito. Io cercavo di distogliere lo sguardo. Erano una macchia confusa di facce pallide e bocche aperte ai margini del mio campo visivo.

Nel cortile della scuola, i ragazzi ci fecero ala lasciandoci passare. Sentii una ragazza che strillava. Mamá procedeva in mezzo a loro come una palla da bowling tra i birilli, quasi trascinando Thalia. La spinse energicamente verso un angolo del cortile dove c’era una panca. Salì sulla panca, aiutò Thalia a salire a sua volta e poi suonò tre volte il fischietto. Il cortile sprofondò nel silenzio.

«Questa è Thalia Gianakos» disse Mamá con voce stentorea. «Da oggi...» Si fermò. «Chiunque pianga, la smetta prima che gli dia una buona ragione per farlo. Dunque, da oggi Thalia frequenterà questa scuola. Mi aspetto che tutti voi la trattiate con gentilezza come detta la buona educazione. Se mi giunge alle orecchie che qualcuno la deride, troverò il colpevole e avrà motivo di dispiacersene. Sapete che lo farò. Non ho altro da aggiungere a questo proposito.»

Scese dalla panca tenendo per mano Thalia e si diresse verso l’aula.

Da quel giorno Thalia non portò più la maschera, né in pubblico né a casa.

Quell’anno, un paio di settimane prima di Natale ricevemmo una lettera da Madaline. Le riprese avevano subìto ritardi inaspettati. Dapprima il direttore della fotografia – Madaline scrisse DDF e Thalia dovette spiegare l’acronimo a me e a Mamá – era caduto da un’impalcatura e si era rotto un braccio in tre punti. Poi il cattivo tempo aveva complicato tutte le riprese esterne.

Così ci ritroviamo un po’ in stallo, come si dice. Non sarebbe una cosa del tutto negativa, perché ci darebbe il tempo di limare il copione, se non volesse anche dire che non riusciremo a vederci come avevo sperato. Sono addoloratissima, miei cari. Mi mancate tanto, ma soprattutto tu, Thalia, amore mio. Non posso che contare i giorni che ci separano dalla primavera, quando le riprese saranno terminate e potremo stare di nuovo assieme. Vi porto tutti e tre nel cuore ogni minuto di ogni giorno.

«Non tornerà» disse Thalia tranquilla, restituendo la lettera a Mamá.

«Certo che tornerà!» ribattei costernato. Mi voltai verso Mamá aspettando che dicesse qualcosa, almeno una parola d’incoraggiamento. Ma Mamá ripiegò la lettera, la posò sul tavolo e con calma mise a bollire l’acqua per il caffè; ricordo di aver pensato che era stata scortese a non consolare Thalia, pur essendo convinta che Madaline non sarebbe tornata. Ma non sapevo, non ancora almeno, che loro due si erano già capite, forse meglio di quanto io avessi mai capito entrambe. Mamá rispettava troppo Thalia per offrirle conforto. Non l’avrebbe insultata con false rassicurazioni.

Arrivò la primavera con tutto il suo rigoglio, la sua vegetazione lussureggiante, e se ne andò. Ricevemmo una sola cartolina da Madaline e una lettera che sembrava scribacchiata in fretta, nella quale ci informava di ulteriori difficoltà sul set, questa volta dovute ai produttori che minacciavano di tirarsi indietro a causa di tutti i ritardi. In questa lettera, a differenza della precedente, non ci diceva quando sarebbe tornata.

In un caldo pomeriggio d’inizio estate, era il 1968, Thalia e io andammo alla spiaggia con una ragazza di nome Dori. Thalia viveva con noi da un anno ormai e la sua faccia non attirava più mormorii e sguardi inquisitori. Era ancora attorniata, e lo sarebbe sempre stata, da un’aura di curiosità, ma anche questa andava dissipandosi. Ora aveva amici suoi, Dori tra gli altri, che non erano turbati dal suo aspetto, amici con cui pranzava, spettegolava, giocava dopo la scuola, faceva i compiti. Contro ogni previsione non era più un caso speciale e devo ammettere con una certa ammirazione che gli isolani l’avevano accettata come una di loro.

Quel pomeriggio avevamo deciso di fare il bagno, ma l’acqua era ancora troppo fredda e avevamo finito per sdraiarci sugli scogli e appisolarci. Quando Thalia e io tornammo a casa, trovammo Mamá in cucina a pelar carote. Sul tavolo c’era un’altra lettera che non era stata aperta.

«È del tuo patrigno» disse Mamá.

Thalia prese la lettera e andò di sopra. Passò del tempo prima che scendesse. Lasciò cadere il foglio sul tavolo, si sedette, prese un coltello e una carota.

«Vuole che torni a casa.»

«Capisco» disse Mamá. Mi parve di aver colto nella sua voce un leggerissimo tremito.

«Non a casa, per l’esattezza. Dice di aver contattato una scuola privata in Inghilterra. Potrei iscrivermi lì il prossimo autunno. Pagherebbe lui, ha detto.»

«E zia Madaline?» chiesi.

«Se n’è andata. Con Elias. Se la sono svignata.»

«E il film?»

Mamá e Thalia si scambiarono uno sguardo poi alzarono simultaneamente gli occhi su di me, allora capii ciò che loro sapevano da sempre.

Una mattina del 2002, più di trent’anni dopo, mentre mi preparo per trasferirmi da Atene a Kabul, mi capita di leggere il necrologio di Madaline sul giornale. Il suo cognome ora è Kouris, ma riconosco sul viso dell’anziana donna il familiare sorriso dagli occhi brillanti e più di una traccia della sua bellezza giovanile. Il trafiletto sotto la foto dice che in gioventù era stata per qualche tempo un’attrice, prima di fondare una propria compagnia teatrale all’inizio degli anni Ottanta. Aveva ottenuto gli elogi della critica per diverse produzioni, in particolare per Lungo viaggio verso la notte di Eugene O’Neill, Il gabbiano di Cˇechov e Fidanzamenti di Dimitrios Mpogris che erano rimasti a lungo in cartellone. Il necrologio aggiunge che era diventata famosa tra gli artisti per l’impegno in istituzioni benefiche, il suo spirito, lo stile, le feste lussuose e la sua determinazione a scommettere su drammaturghi esordienti. È morta dopo aver lottato a lungo contro un enfisema, ma non parla né di marito né di figli. Sono sbalordito anche dal fatto di venire a sapere che era vissuta ad Atene per oltre vent’anni, in una casa a non più di sei isolati da dove abitavo io a Kolonaki.

Poso il giornale. Mi stupisco di provare un pizzico di acredine verso questa donna che non vedo da oltre trent’anni. Sento un moto di rifiuto per come se l’è cavata. Mi ero sempre immaginato una vita tumultuosa, sconsiderata, duri anni di sfortuna, alti e bassi, cadute, rimpianti e storie sentimentali incaute e disperate. L’avevo vista come una persona capace di autodistruggersi, probabilmente dandosi all’alcol e morendo di una morte precoce, di quelle che la gente definisce sempre tragiche. Parte di me aveva persino pensato alla possibilità che, conscia di questo, Madaline avesse portato Thalia a Tinos per risparmiarla, per salvarla dai disastri che sapeva non sarebbe stata in grado di evitare a sua figlia. Ma ora mi figuro Madaline come Mamá l’ha sempre vista: Madaline, la cartografa, che si mette a tavolino e con calma traccia la mappa del proprio futuro, dai cui confini esclude con determinazione la figlia impegnativa. E ci era riuscita, in modo spettacolare, almeno secondo questo necrologio e il suo circostanziato resoconto di una vita raffinata, colma di successi, di decoro, di rispetto.

Sento di non poterlo accettare. Il successo, l’averla fatta franca. È troppo. Dov’è lo scotto, la punizione meritata?

Tuttavia, mentre ripiego il giornale un dubbio fastidioso si insinua nella mia mente. Una vaga sensazione di aver giudicato Madaline con asprezza. In fondo non eravamo neppure tanto diversi, lei e io. Non avevamo tutti e due sognato la fuga, un nuovo mondo, una nuova identità? Ciascuno di noi due alla fine non aveva forse tolto gli ormeggi, tagliando le ancore che ci vincolavano? Ci rido sopra, mi dico che non siamo affatto simili, anche se ho la percezione che la rabbia che nutro verso di lei possa mascherare la mia invidia, perché Madaline è riuscita a realizzare il suo progetto molto meglio di me.

Butto via il giornale. Se Thalia verrà a saperlo, non sarà certo da me.

Mamá raccolse dal tavolo le bucce delle carote, spingendole con un coltello in una ciotola. Trovava odioso sprecare il cibo. Con quelle bucce avrebbe fatto della marmellata.

«Ti aspetta una decisione importante, Thalia» annunciò Mamá.

Thalia mi sorprese, rivolgendosi a me: «Cosa faresti tu, Markos?».

«Oh, so benissimo cosa farebbe lui» disse subito Mamá.

«Io andrei» risposi a Thalia, guardando in faccia Mamá e prendendomi la soddisfazione di recitare il ruolo del ribelle, quale lei pensava io fossi. Naturalmente avevo detto quello che pensavo. Non potevo credere che Thalia avesse la minima esitazione. Io avrei colto l’occasione al volo. Una scuola privata. A Londra.

«Dovresti rifletterci» disse Mamá.

«Già fatto» disse Thalia esitante. Poi, incontrando gli occhi di Mamá aggiunse, ancora più titubante: «Ma non voglio darlo per scontato».

Mamá posò il coltello. Sentii un debole sospiro. L’aveva trattenuto? Comunque il suo viso dall’espressione stoica non tradì nessun segno di sollievo. «La risposta è sì, naturalmente. Sì.»

Thalia posò la mano sul polso di Mamá, seduta dall’altra parte del tavolo. «Grazie, zia Odie.»

«Lo dirò una volta sola» commentai. «È un errore. Entrambe state facendo un errore.»

Si voltarono verso di me.

«Tu vorresti che andassi a Londra, Markos?» mi chiese Thalia.

«Sì. Mi mancherai terribilmente, e lo sai. Ma non puoi rinunciare a una scuola privata. Dopo andresti all’università. Potresti diventare un ricercatore, uno scienziato, un professore, un inventore. Non è questo che vuoi? Sei la persona più intelligente che conosca. Potresti fare tutto quello che vuoi.»

Mi fermai.

«No, Markos» disse Thalia con amarezza. «Non è vero.»

Lo disse con tale assoluta convinzione da zittire ogni possibilità di replica.

Molti anni dopo, quando iniziai la mia formazione di chirurgo plastico, compresi una cosa che quel giorno in cucina non avevo capito, mentre incoraggiavo Thalia a lasciare Tinos per il pensionato in Inghilterra. Imparai che il mondo non vede la tua anima, che non gliene importa un accidente delle speranze, dei sogni e dei dolori che si nascondono oltre la pelle e le ossa. Era così: semplice, assurdo e crudele. I miei pazienti lo sapevano. Capivano che gran parte di ciò che erano dipendeva, o poteva dipendere, dalla simmetria della loro struttura ossea, dallo spazio tra gli occhi, dalla lunghezza del mento, dalla punta del naso, se il naso si univa alla fronte con un angolo ideale o meno.

La bellezza è un dono gigantesco, immeritato, dato a caso, stupidamente.

Scelsi così la mia specializzazione per riparare alle disuguaglianze di persone come Thalia, per rettificare, con ogni intervento del mio bisturi, un’ingiustizia arbitraria, per opporre una piccola resistenza a un mondo vergognoso e crudele, un mondo in cui il morso di un cane poteva derubare una bambina del suo futuro, renderla un paria, un oggetto di scherno.

Almeno questo è quello che mi racconto. Suppongo che ci fossero altre ragioni per cui scelsi di specializzarmi in chirurgia plastica. Il denaro, per esempio, il prestigio, la posizione sociale. Dire che la mia scelta fu determinata solo da Thalia sarebbe troppo semplicistico, per quanto l’idea possa piacere, un po’ troppo superficiale e ragionevole. Se ho imparato qualcosa a Kabul, è che il comportamento umano è incoerente, imprevedibile e non si preoccupa di comode simmetrie. Ma trovo conforto nell’idea che ci sia una trama, che il racconto della mia vita abbia preso forma, come una fotografia nella camera oscura, una forma che lentamente emerge e ribadisce il bene che ho sempre voluto vedere in me stesso. Questa storia mi dà forza.

Ho passato metà della mia formazione ad Atene, cancellando rughe, correggendo palpebre, raddrizzando mascelle, rimodellando nasi malfatti. E ho trascorso l’altra metà facendo ciò che veramente volevo fare, vale a dire viaggiare per il mondo, in Centro America, nell’Africa sub-sahariana, in Asia meridionale e in Estremo Oriente, intervenendo sui bambini, aggiustando labbri leporini e gole lupine, asportando tumori facciali, correggendo le lesioni che sfigurano un viso. La mia attività ad Atene non era altrettanto gratificante, ma era ben pagata e mi consentiva il lusso di prendere permessi per settimane e per mesi da dedicare al mio lavoro di volontario.

Poi, all’inizio del 2002, ricevetti nel mio studio una telefonata di una donna che conoscevo. Si chiamava Amra Ademovic. Era un’infermiera bosniaca. Ci eravamo conosciuti alcuni anni prima a un convegno a Londra, avevamo avuto una piacevole storia durata un fine settimana, che entrambi avevamo considerato senza prospettive, ma eravamo rimasti in contatto e ci era capitato di rivederci in qualche incontro mondano. Mi disse che lavorava per una organizzazione non-profit a Kabul, che cercava un chirurgo plastico infantile che potesse intervenire su labbri leporini, lesioni facciali dovute a schegge, a proiettili, insomma, cose del genere. Acconsentii su due piedi. Intendevo rimanere a Kabul per tre mesi. Arrivai nella tarda primavera del 2002. Non me ne sono più andato.

Thalia viene a prendermi al traghetto. Porta un foulard verde di lana e un cappotto pesante, rosa spento, sopra un golf e i jeans. Ha i capelli lunghi, sciolti sulle spalle, con la scriminatura nel mezzo. Sono bianchi, ed è questo particolare, non la faccia mutilata, che mi impressiona quando la vedo, cogliendomi quasi impreparato. Non che mi sorprenda, Thalia ha cominciato ad avere i capelli bianchi quando era poco più che trentenne e alla fine del decennio successivo i suoi capelli erano bianchi come la neve. So che anch’io sono cambiato, la pancia che s’ingrossa ostinatamente, la stempiatura altrettanto inarrestabile, ma il declino del nostro corpo avviene per gradi, in modo impercettibile quanto insidioso. Vedere Thalia con i capelli bianchi è una sconcertante prova del suo progressivo, inevitabile avvicinarsi alla vecchiaia, e, per associazione, del mio.

«Avrai freddo» dice, stringendosi il foulard alla gola. È una tarda mattina di gennaio, il cielo è coperto e grigio. Le foglie avvizzite degli alberi frusciano nella brezza fresca.

«Non sai cosa sia il freddo finché non vieni a Kabul» dico, prendendo la valigia.

«Cosa preferisci, dottore, prendere l’autobus o fare una passeggiata? Scegli tu.»

«Andiamo a piedi.»

Ci dirigiamo verso nord. Attraversiamo la città di Tinos. Le barche a vela e gli yacht all’ancora nel porto interno. I chioschi che vendono cartoline e T-shirt. Ai tavolini rotondi davanti ai bar la gente beve il caffè, legge il giornale, gioca a scacchi. I camerieri stanno apparecchiando per il pranzo. Ancora un paio d’ore e dalle cucine si diffonderà l’odore di pesce.

Thalia si butta a raccontare la storia del nuovo villaggio di bungalow imbiancati a calce che gli operatori immobiliari stanno costruendo a sud della città, con vista su Mykonos e l’Egeo. Saranno occupati da turisti o da ricchi residenti estivi che vengono a Tinos dagli anni Novanta. Dice che i bungalow avranno una piscina esterna e un centro benessere.

Da anni, nelle mail che mi manda, mi fa la cronaca dei cambiamenti che stanno trasformando Tinos. Gli alberghi sulla costa con le antenne satellitari e l’accesso dial-up, i night-club, i bar, le taverne, i ristoranti, i negozi che cucinano per i turisti, i taxi, gli autobus, le folle, le donne straniere in topless sulle spiagge. I contadini ora usano i pick-up al posto degli asini, almeno quelli che sono rimasti. La maggior parte ha lasciato Tinos molto tempo fa, benché alcuni adesso tornino per vivere sull’isola la loro vita da pensionati.

«Odie non è per niente contenta» dice Thalia riferendosi alle trasformazioni in corso. Mi ha scritto anche di questo: della diffidenza degli isolani nei confronti dei nuovi venuti e dei cambiamenti che questi stanno importando.

«Non mi sembra che a te il cambiamento dispiaccia.»

«Non ha senso brontolare per ciò che è inevitabile» poi aggiunge: «Odie dice: “Be’, capisco che tu dica questo, Thalia. Mica sei nata qui, tu”». Ride di cuore. «Dopo quarantaquattro anni a Tinos, pensavo di aver conquistato il diritto di cittadinanza. Ma eccoti servito.»

Anche Thalia è cambiata. Ha addosso il cappotto, ma indovino che si è irrobustita sui fianchi, è diventata grassottella, non in modo flaccido, ma vigoroso. Esibisce un’aria di sfida cordiale, ha un modo malizioso, provocatorio di commentare le cose che faccio e che, sospetto, lei ritiene un po’ sciocche. Il luccichio negli occhi, questa nuova risata cordiale, il perpetuo rossore sulle guance, nel complesso fanno pensare alla moglie di un contadino. Una donna assolutamente genuina, la cui sana cordialità rimanda a un’autorevolezza e a una durezza corroboranti, che sarebbe da stolti mettere in discussione.

«Come vanno gli affari? Lavori ancora?»

«Saltuariamente. Conosci la situazione.» Tutti e due scuotiamo la testa. A Kabul avevo seguito le notizie sulle misure di austerità. Avevo visto sulla CNN gruppi di giovani greci mascherati che tiravano sassi alla polizia fuori dal parlamento, poliziotti in tenuta antisommossa che sparavano gas lacrimogeni, facendo roteare i manganelli.

Thalia non ha una vera e propria attività. Prima dell’era digitale era essenzialmente una donna tuttofare. Andava a casa della gente e saldava i transistor nei televisori, sostituiva i condensatori di segnale nelle vecchie radio a valvole. Veniva chiamata per riparare il termostato difettoso del frigorifero, per sigillare tubi che perdevano. I clienti la pagavano come potevano. E se non potevano permettersi di pagarla, lei il lavoro lo faceva lo stesso. In realtà non ho bisogno di soldi, mi aveva detto. Lo faccio perché mi diverte. Mi entusiasma ancora smontare le cose e vedere il loro funzionamento interno. Attualmente manda avanti un’agenzia freelance di tecnologia informatica, costituita solo da lei. È un’autodidatta in tutto quello che fa. Chiede tariffe economiche per aggiustare i PC, modifica i parametri IP, corregge i programmi che non rispondono, i rallentamenti, gli avvii e gli aggiornamenti non riusciti. Più di una volta l’ho chiamata disperato da Kabul perché mi desse una mano a sbloccare il mio IBM.

Arrivati a casa di mia madre, per un momento ci fermiamo in cortile vicino al vecchio ulivo. Vedo segni tangibili della recente frenesia di Mamá, i muri ridipinti, la colombaia mezza finita, un martello e una scatola di chiodi aperta appoggiata su una tavola di legno.

«Come sta?»

«Oh, scorbutica come sempre. È per questo che ho fatto installare questa.» Indica l’antenna satellitare appollaiata sul tetto. «Guardiamo le soap opera straniere. Quelle arabe sono le migliori, o le peggiori, il che è praticamente la stessa cosa. Cerchiamo di indovinare la trama. Così non mi sta troppo addosso.» Entra in casa come un bolide. «Bentornato. Ti preparo qualcosa da mangiare.»

È strano ritrovarmi di nuovo qui. Vedo alcuni oggetti che non conosco, come la poltrona di pelle grigia in soggiorno e il tavolino di vimini bianco accanto al televisore. Ma tutto il resto è più o meno dove è sempre stato. Il tavolo di cucina, ora coperto da una tovaglia di plastica con un disegno di melanzane e pere; le sedie di bambù con lo schienale dritto; la vecchia lampada a olio con il paralume di vetro e il camino con la mensola sagomata, nero di fumo; la fotografia di me e Mamá, io con la camicia bianca, Mamá con il suo abito buono, ancora appesa su una parete del soggiorno; il servizio di porcellana sullo scaffale in alto.

Tuttavia, mentre poso la valigia, mi sembra che tra me e tutto ciò che vedo si sia spalancato un vuoto. I decenni di vita trascorsi da mia madre qui con Thalia, per me sono grandi spazi oscuri. Io ero assente. Assente durante tutti i pasti che Mamá e Thalia hanno condiviso a questo tavolo, estraneo alle risate, ai momenti di noia, ai litigi, alle malattie, alla lunga sequela di rituali di cui si compone la vita. Entrare nella casa della mia infanzia mi disorienta un po’, è come leggere la fine di un romanzo iniziato tanto tempo fa e poi abbandonato.

«Ti vanno delle uova?» chiede Thalia che si sta già infilando il grembiule con la pettorina e versa l’olio in una casseruola. In cucina si muove con sicurezza, da padrona.

«Certo. Dov’è Mamá?»

«Dorme. Ha avuto una notte tormentata.»

«Le do una rapida occhiata.»

Pesca una frusta dal cassetto. «Se la svegli, farai i conti con me, dottore.»

Salgo i gradini in punta di piedi. La camera è buia. Un’unica striscia di luce, lunga e sottile, penetra dalle tende accostate, tagliando in due il letto di Mamá. L’aria è carica di malattia. Non è precisamente un odore, è piuttosto una presenza fisica. Ogni medico la conosce. La malattia permea la camera come un vapore. Mi fermo per un attimo sulla soglia, lasciando che i miei occhi si abituino all’oscurità, rotta solo da un rettangolo di luce colorata che muta di continuo sulla toilette, vicino a quello che immagino essere il lato del letto occupato da Thalia, un tempo il mio. È uno di quei display digitali per proiettare le fotografie. A una risaia e a un gruppo di case di legno con il tetto coperto di tegole grigie si sostituisce un bazar affollato con delle capre scuoiate appese ai ganci, poi un uomo dalla carnagione scura accovacciato vicino a un fiume fangoso, colto mentre si lava i denti con l’indice.

Accosto una sedia e mi siedo al capezzale di Mamá. Osservandola ora che i miei occhi si sono assuefatti sento qualcosa che affonda dentro di me. Sono impressionato da quanto mia madre si sia rimpicciolita. Il pigiama a fiori sembra troppo largo per le sue spalle esili, per il suo petto appiattito. Non mi interessa il modo in cui dorme, con la bocca aperta e con gli angoli piegati in giù come se stesse facendo un brutto sogno. Non mi piace vedere che la dentiera le si è spostata nel sonno. Le palpebre tremano leggermente. Rimango lì per un po’. Cosa ti aspettavi, mi chiedo e ascolto il ticchettio dell’orologio sulla parete, e il rumore metallico della spatola di Thalia contro la casseruola che proviene dalla cucina. Faccio l’inventario dei piccoli dettagli della vita di Mamá presenti nella camera. Lo schermo piatto della tv fissato alla parete, il PC in un angolo; sul comodino lo schema di un Sudoku interrotto, sulla pagina gli occhiali a mo’ di segnalibro; il telecomando tv; una fiala di gocce per gli occhi; un tubetto di crema agli steroidi e un altro contenente l’adesivo per la dentiera, una boccetta di pillole, e sul pavimento un paio di pantofole civettuole color ostrica. Un tempo non le avrebbe mai portate. Accanto, un sacchetto aperto di pannoloni. Non riesco a mettere assieme questi oggetti con mia madre. Li rifiuto. Mi guardano come cose che appartengono a un estraneo. A una persona indolente, innocua. Qualcuno con cui non potresti mai arrabbiarti.

Al di là del letto le immagini sul display digitale continuano a cambiare. Ne osservo qualcuna e all’improvviso un lampo mi squarcia la memoria. Queste foto le conosco, le ho scattate io tempo fa, quando... Cosa facevo allora? Me ne andavo in giro per il mondo, suppongo. Ricordo che le facevo sempre stampare in doppia copia e una la inviavo a Thalia. E lei le ha conservate per tutti questi anni. Thalia. Mi sento invadere da un sentimento di affetto, dolce come il miele. Lei è stata la mia vera sorella, la mia vera Manar da sempre.

Sento che mi chiama.

Mi alzo senza far rumore. Mentre sto per uscire qualcosa attira la mia attenzione. Uno scritto incorniciato, appeso alla parete sotto l’orologio. Non riesco a distinguere con chiarezza nel buio. Apro il cellulare e approfitto della sua luce per dare un’occhiata. È un articolo della Associated Press sull’agenzia non-profit per cui lavoro a Kabul. Ricordo l’intervista. Il giornalista era un tizio gradevole, un americano di origini coreane con una leggera balbuzie. Avevamo condiviso un piatto di kabuli, il pilaf afghano di riso integrale, uva sultanina e agnello. C’è anche una foto di gruppo. Io con alcuni ragazzini, Nabi in ultima fila, impalato con le mani dietro la schiena e quell’atteggiamento severo e al tempo stesso timido e dignitoso che spesso gli afghani assumono in fotografia, poi Amra con Roshi, la sua figlia adottiva. Tutti i bambini sorridono.

«Markos.»

Chiudo il cellulare e scendo.

Thalia mi mette davanti un bicchiere di latte e un piatto fumante di uova su un letto di pomodori. «Non preoccuparti. Il latte è già zuccherato.»

«Te lo sei ricordato.»

Si siede senza darsi la pena di togliere il grembiule. Appoggia i gomiti sul tavolo e mi osserva mentre mangio, tamponando di tanto in tanto la guancia sinistra con il fazzoletto.

Ricordo tutte le volte che ho cercato di convincerla a lasciarmi intervenire sulla sua faccia. Le spiego che le tecniche chirurgiche hanno fatto grandi passi avanti dagli anni Sessanta e che avrei potuto, non dico sistemare al cento per cento la sua faccia, ma almeno migliorarla in modo significativo. Thalia ha sempre rifiutato, con mio immenso stupore. Questa sono io, mi ha detto. Una risposta insipida, insoddisfacente, avevo pensato allora. Che cosa significava veramente? Non riuscivo a capire. Avevo pensieri ingenerosi di prigionieri, ergastolani che avevano paura di lasciare la prigione, terrorizzati all’idea di ottenere la libertà condizionale, impauriti dal cambiamento, dall’eventualità di affrontare una nuova vita fuori dal filo spinato e dalle garitte delle guardie.

La mia offerta a Thalia è valida ancora oggi. So che non l’accetterà. Ma ora la capisco. Aveva ragione: lei è così, è questa persona. Non posso fingere di sapere cosa dov’essere stato guardarsi ogni giorno allo specchio, vedere quella faccia, provare orrore per la sua spaventosa devastazione e trovare la forza di accettarla. L’immensa tensione, lo sforzo, la pazienza. L’accettazione che ha preso forma lentamente, nel corso di anni, come le rocce di una scogliera, scolpite dal maglio delle maree. Erano bastati pochi minuti perché il cane riducesse la faccia di Thalia in quello stato, mentre a lei era stata necessaria una vita intera per accettarla come parte della propria identità. Non mi avrebbe permesso di alterarla con il bisturi. Sarebbe stato come sovrapporre una nuova ferita a quella antica.

Affondo la forchetta nelle uova, sapendo che ne sarà contenta, anche se non ho una gran fame. «Che bontà, Thalia.»

«Allora, sei eccitato?»

«Scusa?»

Si volta e apre un cassetto del bancone di cucina. Recupera un paio di occhiali scuri con le lenti rettangolari. Basta un attimo, poi mi torna in mente. L’eclissi.

«Ah, naturalmente.»

«In un primo momento pensavo che avremmo guardato l’eclissi attraverso il foro stenopeico. Ma poi ho saputo da Odie che saresti venuto e allora mi sono detta: “Be’, facciamo le cose come si deve”.»

Parliamo un po’ dell’eclissi prevista per il giorno dopo. Thalia dice che inizierà il mattino e sarà totale verso mezzogiorno. Ha verificato più volte le previsioni del tempo ed è stata felice di scoprire che il cielo sarà sereno, senza nuvole.

Mi chiede se voglio altre uova. Le rispondo di sì e lei mi racconta del nuovo internet café che è stato aperto dove un tempo c’era il negozio del signor Roussos.

«Di sopra ho visto le fotografie. Anche l’articolo.»

Raccoglie con la mano le briciole che ho lasciato sul tavolo e le getta alle sue spalle, nel lavandino di cucina. «Ah. È stato facile scannerizzarle e caricarle. Il difficile è stato dividerle per paese. Ho dovuto impegnarmi un bel po’, perché tu non hai mandato una riga di spiegazione, solo le fotografie. Lei ha voluto che fossero raggruppate per paese, su questo è stata perentoria. Impossibile discutere.»

«Ma di chi stai parlando?»

Sospira. «Di Odie, naturalmente. E di chi altro?»

«È stata sua l’idea?»

«Già, anche dell’articolo. È stata lei a trovarlo in rete.»

«Mamá mi ha cercato sulla rete?»

«Mi pento di averglielo insegnato. Adesso non la smette più.» Ridacchia. «Ti controlla ogni giorno. Stai attento, hai uno stalker cibernauta, Markos Varvaris.»

Mamá scende nel primo pomeriggio. Indossa un accappatoio blu e le pantofole che ormai detesto. Ha i capelli in ordine. Sono contento di vedere che sembra muoversi normalmente mentre scende le scale e spalanca le braccia per abbracciarmi con un sorriso assonnato.

Ci sediamo al tavolo per prendere il caffè.

«Dov’è Thalia?» chiede, soffiando per raffreddarlo.

«È uscita a comprare dei dolci per domani. È tuo, Mamá?» chiedo indicando il bastone contro la parete, dietro la poltrona nuova. Non l’avevo notato quando ero entrato il mattino.

«Oh, lo uso pochissimo. Solo nei giorni peggiori. E per fare lunghe passeggiate. E anche in questo caso lo porto con me per scrupolo» dice in tono troppo sbrigativo, per cui capisco che si affida al bastone molto più di quanto mi vuole lasciar credere. «Sei tu che mi preoccupi. Con tutte le notizie che arrivano da quel terribile paese. Thalia non vuole che le ascolti. Dice che mi agitano.»

«Ci sono molti brutti momenti, ma in genere la gente vive la propria vita. E io sto molto attento, Mamá.» Naturalmente evito di raccontarle della sparatoria avvenuta nella guesthouse dall’altra parte della strada, o della recente ondata di attacchi agli operatori umanitari stranieri, e non le dico che quando dichiaro che sto attento, mi riferisco alla 9 mm che ho preso la precauzione di portare con me quando sono in giro in macchina per la città, cosa che probabilmente non dovrei affatto permettermi.

Mamá beve un sorso di caffè. Non insiste. Non sono sicuro che sia un buon segno. Non so se si sia distratta, se si sia chiusa in se stessa come fanno i vecchi, o se per tatto non voglia mettermi alle strette costringendomi a mentire o a rivelare cose che non farebbero che allarmarla.

«Ci sei mancato a Natale.»

«Non potevo allontanarmi, Mamá.»

Fa cenno di sì con la testa. «Ma adesso sei qui ed è quello che conta.»

Bevo un sorso di caffè. Quando ero piccolo, io e Mamá facevamo colazione a questo tavolo ogni mattina, in silenzio, quasi con solennità, prima di incamminarci insieme verso la scuola, scambiandoci solo poche parole.

«Sai, Mamá, mi preoccupo anche per te.»

«Non ce n’è bisogno. So benissimo badare a me stessa.» Un guizzo dell’antico orgoglio, della perenne sfida, come un debole barlume nella nebbia.

«Ma per quanto tempo ancora?»

«Finché posso.»

«E quando non potrai più, cosa succederà allora?» Non voglio sfidarla. È una domanda sincera, perché non so quale sarà il mio ruolo e neppure se ne avrò uno.

Mi guarda serena. Poi aggiunge un cucchiaino di zucchero al suo caffè, mescolando lentamente. «È buffo, Markos, ma alla maggior parte della gente capita il contrario. Credono di vivere in nome di ciò che vogliono. Ma in realtà si fanno guidare da ciò di cui hanno paura, da quello che non vorrebbero assolutamente.»

«Non ti seguo, Mamá.»

«Be’, prendi te, per esempio. La tua partenza, la vita che ti sei costruito. Avevi paura di rimanere confinato qui. Temevi che non ti avrei lasciato andare. Oppure prendi Thalia. È rimasta qui perché non voleva più che la guardassero a quel modo.»

La osservo gustare il suo caffè, in cui versa un altro cucchiaino di zucchero. Ricordo ancora come mi sentivo da ragazzo quando cercavo di discutere con lei. Parlava in modo da non lasciare adito a replica, buttandomi addosso la verità senza preamboli, spiattellandomela in faccia. Avevo sempre la peggio, prima ancora di aver aperto bocca, e questo mi era sempre sembrato ingiusto.

«E tu, Mamá? Di cosa hai paura? Che cosa non vuoi?»

«Essere di peso.»

«Non capiterà, vedrai.»

«Oh, in questo hai ragione, Markos.»

Questo commento criptico mi riempie di inquietudine. La mia mente corre alla lettera che Nabi mi ha dato a Kabul, la sua confessione postuma. Al patto che Suleiman Wahdati aveva stretto con lui. Non posso fare a meno di chiedermi se Mamá non abbia stretto un patto analogo con Thalia, se abbia scelto Thalia perché la liberi quando arriverà il momento. So che Thalia potrebbe farlo. Ora è forte e sarebbe pronta a salvare Mamá.

Mamá studia il mio viso. «Tu hai la tua vita e il tuo lavoro, Markos» dice in tono più dolce, aggiustando il corso della conversazione, come se avesse spiato nella mia mente e vi avesse scorto la mia preoccupazione. La dentiera, i pannoloni, le pantofole mi hanno indotto a sottovalutarla. Con me tiene ancora il coltello dalla parte del manico, e sarà così per sempre. «Non voglio esserti di peso.»

Una bugia, questa sua ultima affermazione, ma è una bugia benintenzionata. Non peserebbe certo su di me. Lo sa benissimo, come lo so io. Io non vivo qui, sono lontano migliaia di chilometri. Il lavoro, con tutti i suoi aspetti sgradevoli e faticosi, ricadrebbe su Thalia. Ma Mamá mi include, riconoscendomi un merito che non mi sono guadagnato, anzi che non ho neppure cercato di guadagnarmi.

«Non saresti di peso» dico senza convinzione.

Mamá sorride. «Parlando del tuo lavoro, immagino che tu sappia che non ero per niente d’accordo quando hai deciso di recarti in quel paese.»

«Lo sospettavo, sì.»

«Non capivo perché volessi andarci. Perché volessi rinunciare a tutto, alla carriera, al denaro, alla casa ad Atene, a tutto ciò per cui avevi lavorato per ficcarti in quel luogo violento.»

«Avevo i miei motivi.»

«Lo so.» Porta la tazza alle labbra e la posa senza bere. «I complimenti non sono la cosa che mi riesce meglio» dice lentamente, quasi con timidezza, «ma quello che sto cercando di dirti è che alla fine hai fatto la cosa più giusta. Sono orgogliosa di te, Markos.»

Mi fisso le mani, sconcertato. Sento che le sue parole penetrano nel profondo. Mi ha colto impreparato. Non ero pronto a sentire quelle parole, né alla luce tenera dei suoi occhi mentre le pronunciava. Annaspo alla ricerca di una possibile risposta.

«Grazie, Mamá» riesco a balbettare.

Non so dire altro. Restiamo per qualche minuto in silenzio, l’atmosfera è densa di imbarazzo, ma anche della consapevolezza di tutto il tempo perduto, delle occasioni sciupate.

«Volevo chiederti una cosa» dice Mamá.

«Cosa?»

«James Parkinson. George Huntington. Robert Graves. John Down. E Lou Gehrig, quello a cui viene associata la mia patologia. Come è possibile che gli uomini abbiano colonizzato anche il nome delle malattie?»

Ci guardiamo perplessi, poi lei ride e rido anch’io. Anche se dentro sto andando in pezzi.

La mattina dopo siamo seduti all’aperto sulle sedie a sdraio. Mamá indossa un parka grigio e una sciarpa pesante. Le gambe sono avvolte in una coperta di lana per ripararle dal freddo intenso. Sorseggiamo un caffè sbocconcellando le cotogne al forno aromatizzate alla cannella che Thalia ha comprato per festeggiare. Guardiamo il cielo con gli occhiali scuri per ammirare l’eclissi. Il sole mostra una piccola morsicatura nel bordo superiore, un po’ simile al logo del portatile Apple che Thalia apre costantemente per spedire le sue osservazioni a un forum sul web. Lungo tutta la strada la gente si è sistemata sui marciapiedi e sui tetti per osservare lo spettacolo. Alcuni hanno portato la famiglia all’altra estremità dell’isola dove la Società Astronomica Ellenica ha installato dei telescopi.

«A che ora raggiunge il picco?»

«Verso le dieci e mezza» risponde Thalia. Solleva gli occhiali e verifica l’ora. «Ancora un’oretta.» Si sfrega le mani per l’eccitazione e scrive qualcosa sulla tastiera.

Le osservo, Mamá con gli occhiali scuri, le mani dalle vene azzurre allacciate sul petto, Thalia, che batte sui tasti, i capelli bianchi che sfuggono dal berretto.

Hai fatto la cosa più giusta.

La sera prima, a letto, avevo pensato a quello che mi aveva detto Mamá e i miei pensieri avevano finito per fermarsi su Madaline. Ricordavo come, da ragazzo, mi macerassi sulle cose che Mamá non faceva e che invece vedevo fare dalle altre mamme, come tenermi per mano per la strada, prendermi sulle ginocchia, leggermi una storia per farmi addormentare, darmi il bacio della buona notte. Era la verità, ma per tanti anni non avevo visto una verità più grande, che era rimasta sepolta sotto le mie rimostranze, ignorata e non apprezzata. La consapevolezza che mia madre non mi avrebbe mai abbandonato. Questo era il suo dono, la certezza assoluta che mai e poi mai mi avrebbe fatto ciò che Madaline aveva fatto a Thalia. Era mia madre e non mi avrebbe mai abbandonato. Questo fatto l’avevo semplicemente accettato, dandolo per scontato. Né l’avevo mai ringraziata, come non ringraziavo il sole di brillare nel cielo.

«Guarda!» esclama Thalia.

Attorno a noi, per terra, sulle pareti, sui nostri abiti, si sono materializzate piccole falci di luce. Il sole a forma di falce brilla attraverso le foglie del nostro ulivo. Ne scopro una che brilla nella mia tazza di caffè, un’altra danza sulle stringhe delle mie scarpe.

«Fammi vedere le mani, Odie. Svelta!» dice Thalia.

Mamá apre le mani con i palmi rivolti verso l’altro. Thalia prende dalla tasca un ritaglio di vetro quadrato. Lo tiene sopra le mani di Mamá. Improvvisamente, minuscoli arcobaleni a forma di falce tremolano sulla pelle aggrinzita delle sue mani. Mia madre rimane a bocca aperta.

«Guarda, Markos!» esclama Mamá sorridendo senza ombra d’imbarazzo, gioiosa come una scolaretta. Non l’ho mai vista sorridere in modo così spontaneo, così candido.

Rimaniamo seduti tutti e tre, a guardare i piccoli arcobaleni che tremolano sulle mani di Mamá e io mi sento invadere dalla tristezza e da un antico dolore; sono due artigli che mi afferrano alla gola.

Alla fine hai fatto la cosa più giusta.

Sono orgogliosa di te, Markos.

Ho cinquantacinque anni. È tutta la vita che aspetto di sentire queste parole. È troppo tardi per noi? Abbiamo dilapidato troppe cose per troppo tempo, Mamá e io? Una parte di me pensa che sia meglio continuare come abbiamo sempre fatto, comportandoci come se non sapessimo di essere incompatibili. Sarebbe una soluzione meno dolorosa, forse migliore di questa offerta tardiva. Intravedo in modo oscuro e incerto come avrebbe potuto essere tra noi. Ma questo non produrrà altro che rimpianto, mi dico, e a che serve il rimpianto? Non ci restituisce niente del passato. Quello che è andato perduto è irrecuperabile.

Tuttavia, quando mi dice: «Non è meraviglioso, Markos?» le rispondo: «Sì, Mamá. È meraviglioso» e mentre sento qualcosa che si spalanca dentro di me, stringo la mano di mia madre nella mia.