L’infermiera, che si chiama Amra Ademovic, aveva messo in guardia Idris e Timur. Li aveva presi in disparte e aveva detto: «Se mostrate reazione, anche piccola, lei si agita e io butto fuori voi a calci».

Sono in fondo a un lungo corridoio mal illuminato, nell’ala maschile dell’ospedale Wazir Akbar Khan. Amra aveva detto loro che il solo parente che fosse rimasto alla ragazzina, o il solo che le facesse visita, era lo zio, e che, se fosse stata ricoverata nel reparto femminile, lui non avrebbe avuto il permesso di vederla. Così il personale l’aveva sistemata nell’ala maschile, non in una camera – sarebbe stato indecente che una ragazza condividesse la camera con uomini che non erano suoi parenti – ma qui, in fondo al corridoio, una terra di nessuno, né di uomini, né di donne.

«Ecco, pensavo che i talebani se ne fossero andati dalla città» dice Timur.

«È pazzesco, no?» dice Amra, poi fa un risolino d’indignazione. Idris è tornato a Kabul da una settimana e ha notato che questo tono di divertita esasperazione è diffuso tra gli operatori umanitari stranieri, che devono fare i conti con gli inconvenienti e le idiosincrasie della cultura afghana. Si sente vagamente offeso da questo loro ritenersi in diritto di deridere con leggerezza, da questa licenza di mostrarsi condiscendenti, anche se i locali non sembrano né farci caso, né prendere questo comportamento come uno sgarbo, perciò pensa che forse anche lui non dovrebbe offendersi.

«Però a te permettono di stare qui. Tu vai e vieni a piacimento» osserva Timur.

Amra inarca le sopracciglia. «Io non conto. Non sono afghana. Così non sono vera donna. Non lo sai?»

Timur, imperturbabile, sorride. «Amra. Un nome polacco?»

«Bosniaco. Nessuna reazione. Questo è ospedale, non zoo. Tu fai promessa.»

Timur dice: «Faccio promessa».

Idris guarda l’infermiera, preoccupato che questa canzonatura, un po’ sfacciata e inutile, possa averla offesa, ma sembra che Timur l’abbia fatta franca. Idris invidia al cugino questa sua abilità, ma ne è anche irritato. Da sempre pensa che Timur sia grossolano, che manchi di immaginazione e di finezza. Sa che bara sia con la moglie sia con il fisco. Negli Stati Uniti possiede un’agenzia di investimenti e mutui immobiliari, e Idris è quasi certo che sia dentro sino al collo in qualche forma di frode ipotecaria. Ma Timur sa stare in compagnia come nessun altro, i difetti gli sono sempre perdonati grazie al suo buonumore, alla sua indefettibile cordialità e a un’ingannevole aria d’innocenza che lo rende simpatico a chi incontra. Anche il bell’aspetto non guasta, il corpo muscoloso, gli occhi verdi, il sorriso con le fossette. Timur, pensa Idris, è un adulto che gode dei privilegi di un bambino.

«Allora» dice Amra. «Siamo d’accordo.» Scosta il lenzuolo che è stato inchiodato al soffitto come tenda improvvisata e li fa entrare.

La ragazzina, Roshi, come la chiama Amra, vezzeggiativo di Roshana, sembra avere nove anni, forse dieci. È seduta su un letto d’acciaio, le spalle alla parete, le gambe piegate contro il petto. Idris abbassa immediatamente gli occhi. Soffoca un’esclamazione d’orrore, prima che gli sfugga. Com’era facile prevedere, un simile autocontrollo si dimostra impossibile per Timur. Fa schioccare la lingua e ripete oh, oh, oh, un sussurro addolorato, ben udibile. Idris lo guarda e non si sorprende di vedere i suoi occhi gonfi e lucidi di lacrime teatrali.

La ragazzina ha uno scatto e fa un verso gutturale.

«Ok, finito, adesso andiamo» taglia corto Amra.

Fuori, sui fatiscenti gradini dell’ingresso, l’infermiera tira fuori un pacchetto di Marlboro dal taschino del camice celeste. Timur, le cui lacrime sono svanite con la stessa prontezza con cui si erano materializzate, prende una sigaretta e accende quella di Amra e la propria. Idris, stordito, ha la nausea. La bocca secca. Teme di essere sul punto di vomitare, di fare una pessima figura, confermando l’immagine che Amra ha di lui, di loro, i ricchi, gli esiliati dallo sguardo stupefatto, tornati in patria per guardare increduli la carneficina, ora che i cattivi se ne sono andati.

Idris si aspettava che Amra li rimproverasse, almeno Timur, ma i modi dell’infermiera sono più seduttivi che severi. Questo è l’effetto che fa Timur alle donne.

«Allora, Timur» dice con civetteria. «Cosa mi dici?»

Negli Stati Uniti, Timur si fa chiamare Tim. Ha cambiato il proprio nome dopo l’11 settembre e sostiene che da allora i suoi affari sono quasi raddoppiati. La perdita di quelle due lettere, ha detto a Idris, ha fruttato alla sua carriera più di una laurea, se avesse frequentato l’università, cosa che non ha fatto: è Idris il laureato di famiglia. Ma da quando sono a Kabul, il cugino si presenta solo come Timur. È una doppiezza relativamente innocua, anzi, necessaria. Ma è irritante.

«Mi scuso per quanto è successo prima» dice Timur.

«Forse ti punisco.»

«Senza esagerare, tesoro.»

Amra si rivolge a Idris. «Dunque. Lui è cowboy e tu, tu sei tipo taciturno, sensibile. Sei un, come si dice? introverso.»

«È un dottore» dice Timur.

«Davvero? Deve essere scioccante per te, allora. Questo ospedale.»

«Cosa le è successo?» chiede Idris. «A Roshi. Chi le ha fatto una cosa simile?»

Il viso di Amra si irrigidisce. Quando riprende a parlare, nella sua voce c’è un tono di risolutezza materna. «Lotto per lei. Lotto contro governo, burocrazia ospedaliera, neurochirurgo bastardo. Ogni momento lotto per lei. E non mi fermo. Non ha nessuno.»

Idris dice: «Pensavo avesse uno zio».

«È bastardo anche lui.» Dà un colpetto alla sigaretta per far cadere la cenere. «Dunque, perché venite qui, ragazzi?»

Timur si butta. Lo schema di quello che dice è più o meno vero. Che sono cugini, che le loro famiglie sono fuggite dopo l’invasione sovietica, che sono rimasti un anno in Pakistan prima di stabilirsi in California all’inizio degli anni Ottanta. Che per tutti e due questa è la prima volta che tornano dopo quasi vent’anni. Ma poi aggiunge che sono tornati per «riprendere i contatti» per «informarsi,» per «essere testimoni» della situazione dopo tutti quegli anni di guerra e distruzione. Vogliono tornare negli Stati Uniti, dice, per sensibilizzare, per raccogliere fondi e «restituire».

«Vogliamo restituire» dice, pronunciando questa frase trita con tale serietà da mettere Idris in imbarazzo.

Naturalmente Timur non confessa che in realtà sono venuti per recuperare la proprietà di Shar-e-Nau che era appartenuta ai loro padri e dove loro hanno vissuto per quattordici anni; una proprietà il cui valore è andato alle stelle ora che migliaia di operatori umanitari stranieri hanno invaso Kabul e hanno bisogno di un posto dove vivere. Ci sono stati prima, alla casa, che ora ospita un gruppo di soldatacci dell’Alleanza del Nord dall’aria sfinita. Mentre si allontanavano, hanno incontrato un uomo di mezza età che vive tre fabbricati più in là, lungo la strada, un certo Markos Varvaris, un chirurgo plastico. Era stato lui a invitarli a pranzo e a proporre una visita all’ospedale Wazir Akbar Khan, dove l’ONG per cui lavora ha un ufficio. Li ha anche invitati a una festa, quella sera. Hanno saputo della ragazzina solo quando sono arrivati all’ospedale, sentendone parlare da due assistenti, sugli scalini d’ingresso. Timur ha dato una piccola gomitata a Idris dicendogli: Faremmo meglio a dare un’occhiata, fratello.

Amra sembra annoiata del racconto di Timur. Getta la sigaretta e stringe l’elastico che raccoglie in uno chignon i suoi capelli biondi, ondulati. «Allora, ragazzi. Volete venire a festa stasera?»

È stato il padre di Timur, lo zio di Idris, a spedirli a Kabul. La casa della famiglia Bashiri è passata di mano parecchie volte negli ultimi vent’anni di guerra. Riaffermarne la proprietà avrebbe richiesto tempo e denaro. Ormai i tribunali del paese erano intasati da migliaia di cause relative a proprietà contestate. Il padre di Timur li aveva avvertiti che avrebbero dovuto “manovrare” nell’affrontare l’elefantiaca burocrazia afghana, notoriamente indolente: un eufemismo per dire “trovare i funzionari giusti da ungere”.

«Questo è di mia competenza» aveva detto Timur, come se ce ne fosse stato bisogno.

Il padre di Idris era morto nove anni prima, dopo una lunga lotta contro il cancro. Era morto in casa, con la moglie, due figlie e Idris al suo capezzale. Il giorno in cui era mancato, un’infinità di persone aveva invaso la casa: zii, zie, cugini, amici e conoscenti, seduti sui divani, sulle sedie della sala da pranzo e, quando anche queste erano state tutte occupate, sul pavimento, sulle scale. Le donne si erano raccolte in sala da pranzo e in cucina. Avevano preparato innumerevoli thermos di tè. Idris, come unico figlio maschio, aveva dovuto firmare tutti i documenti, carte per il medico legale che era venuto a certificare la morte di suo padre, documenti per i garbati giovanotti dell’impresa di pompe funebri che erano venuti con la barella a prendere il corpo di suo padre.

Timur non si era staccato mai dal suo fianco. Aveva aiutato Idris a rispondere al telefono. Aveva salutato le persone che in massa venivano a porgere le condoglianze. Aveva ordinato riso e agnello dalla Abe’s Kabob House, un ristorante afghano gestito dal suo amico, Abdullah, che Timur per scherzo chiamava zio Abe. Quando aveva cominciato a piovere, aveva dato una mano a parcheggiare le macchine degli ospiti anziani. Aveva chiamato un suo amico che lavorava per un canale tv locale. A differenza di Idris, Timur aveva molte conoscenze nella comunità afghana: una volta gli aveva detto di avere oltre trecento contatti, con relativi numeri, sul suo cellulare. Aveva preso accordi perché quella sera stessa l’evento venisse annunciato sulla tv afghana.

Nel primo pomeriggio Timur aveva accompagnato Idris all’impresa di pompe funebri di Hayward. Diluviava e il traffico era lento sulle corsie della 680 dirette a nord.

«Tuo padre era un uomo di gran classe, fratello. Apparteneva alla vecchia scuola» aveva dichiarato Timur, lasciando l’autostrada all’uscita di Mission. Con la mano libera continuava ad asciugarsi le lacrime.

Idris annuiva malinconicamente. Per tutta la vita non era mai riuscito a piangere in presenza di altri, nemmeno quando sarebbe stato opportuno, come ai funerali. Lo riteneva un difetto non grave, come essere daltonici. Tuttavia, provava un vago risentimento nei confronti di Timur – irrazionale, lo sapeva – per avergli usurpato la scena a casa, con tutto quel suo correre di qua e di là singhiozzando in modo melodrammatico. Come se il morto fosse stato suo padre.

Erano stati accompagnati in una stanza silenziosa, scarsamente illuminata, con mobili pesanti, scuri. Li aveva accolti un uomo in giacca nera, pettinato con la riga in mezzo. Emanava un odore di caffè costoso. In tono professionale, aveva porto a Idris le condoglianze e gli aveva fatto firmare i moduli per l’autorizzazione alla sepoltura. Aveva chiesto quante copie del certificato di morte desiderava la famiglia. Quando tutte le carte erano state firmate, con tatto aveva posato davanti a Idris un opuscolo dal titolo «Listino prezzi».

Il direttore dell’impresa di pompe funebri si era schiarito la voce. «Naturalmente non sono questi i prezzi se suo padre era membro della moschea afghana di Mission Boulevard. Con loro abbiamo un accordo. Pagheranno tutto loro, quindi lei sarebbe coperto.»

«Non ho idea se fosse o meno membro della moschea» aveva detto Idris, sfogliando l’opuscolo. Suo padre era stato un uomo di fede, lo sapeva, ma in privato. Aveva partecipato raramente alla preghiera del venerdì.

«Non c’è fretta. Può chiamare la moschea.»

«No, amico. Non c’è bisogno» aveva annunciato Timur. «Non era membro della moschea.»

«È sicuro?»

«Sì. Ricordo che me l’ha detto.»

«Capisco» aveva detto il direttore.

Fuori, avevano fumato una sigaretta vicino al SUV. Aveva smesso di piovere.

«Banditi» aveva sbottato Idris.

Timur aveva sputato in una pozzanghera scura di acqua piovana. «Un’impresa sicura, però, la morte. Devi ammetterlo. C’è molta domanda. Merda, meglio che vendere macchine.»

A quel tempo Timur era comproprietario di una concessionaria di macchine usate. Quando era subentrato, con un suo amico, l’azienda stava fallendo in modo disastroso. In meno di due anni, Timur l’aveva trasformata in un’attività lucrosa. Il padre di Idris amava definire il nipote un uomo che si era fatto da sé. Idris, nel frattempo, guadagnava uno stipendio da fame mentre terminava il suo secondo anno di internato alla facoltà di Medicina a Davis, Università della California. Nahil, sua moglie da un anno, lavorava trenta ore alla settimana come segretaria in uno studio legale mentre studiava per gli esami d’ammissione alla facoltà di giurisprudenza.

«È un prestito» aveva detto Idris. «Sia chiaro, Timur. Te lo restituirò.»

«Non preoccuparti, fratello. Non parliamone.»

Non era stata né la prima né l’ultima volta che Timur era intervenuto in favore del cugino. Quando Idris si era sposato, Timur gli aveva offerto come regalo di nozze una Ford Explorer nuova. Aveva controfirmato il mutuo quando Idris e Nahil avevano comprato un piccolo appartamento a Davis. In famiglia era di gran lunga lo zio preferito di tutti i ragazzi. Se a Idris dovesse mai capitare di trovarsi in una situazione in cui gli fosse possibile fare una sola telefonata, quasi certamente chiamerebbe Timur.

Eppure.

Idris aveva scoperto, per esempio, che tutti in famiglia sapevano della controfirma del mutuo. Timur l’aveva detto a tutti. E al matrimonio, Timur aveva chiesto al cantante di interrompere la musica per fare un annuncio e la chiave dell’Explorer era stata offerta a Idris e a Nahil su un vassoio con una grande messinscena di fronte a un pubblico attento, tra i flash delle macchine fotografiche. Era questo che Idris temeva, la fanfara, l’ostentazione, il presenzialismo impenitente, le smargiassate. Gli dispiaceva essersi formato questo giudizio sul cugino, ma gli sembrava che Timur fosse il tipo che si scrive la cartella stampa da sé, e la sua generosità, Idris sospettava, era un aspetto calcolato di una personalità non lineare.

Una sera, mentre Idris e Nahil stavano cambiando le lenzuola del letto, avevano avuto un piccolo battibecco a proposito di Timur.

Tutti vogliono piacere, aveva detto Nahil. Tu no?

Va bene, ma non sono disposto a pagare per il favore.

Nahil gli aveva detto che era ingiusto e per di più ingrato, dopo tutto quello che Timur aveva fatto per loro.

Il punto è un altro, Nahil. Dico solo che è volgare andare in giro a sbandierare le proprie buone azioni. Il bene deve essere fatto in silenzio, con dignità. Per essere buoni non basta firmare assegni davanti a un pubblico.

Be’, aveva concluso Nahil stendendo il lenzuolo, è un modo di fare che porta lontano, tesoro.

«Ricordo questo posto, sai» dice Timur guardando la casa. «Come hai detto che si chiamava il proprietario?»

«Qualcosa Wahdati. Non ricordo il nome» risponde Idris, pensando alle innumerevoli volte che da ragazzi hanno giocato in questa strada, fuori da questo cancello e solo ora, a distanza di decenni, stanno varcando questa soglia per la prima volta.

«Le vie del Signore» commenta Timur.

È una comune casa a due piani che, nel quartiere di San José, dove abita Idris, attirerebbe le ire dei membri dell’Associazione Proprietari Immobiliari. Ma, secondo gli standard di Kabul, è una dimora lussuosa, con porta d’ingresso di ferro, alti muri e ampio viale d’accesso. Mentre sono accompagnati all’interno da una guardia armata, Idris nota che, come per tante cose che ha visto a Kabul, la casa conserva un tocco del suo antico splendore sotto lo sfacelo che l’ha colpita, di cui sono evidenti i segni: fori di proiettili e crepe zigzaganti sulle pareti fuligginose, mattoni messi a nudo dalla caduta di ampie zone di intonaco, cespugli morti lungo il viale, alberi spogli in giardino, prato ingiallito. Manca più della metà della veranda che si affaccia sul cortile dietro la casa. Ma, come per molte cose a Kabul, ci sono anche segni di una lenta, incerta rinascita. Qualcuno ha iniziato a ridipingere la casa, ha piantato cespugli di rose in giardino, un tratto del muro orientale della recinzione è stato ricostruito, anche se in modo un po’ approssimativo. Sul lato verso la strada è appoggiata una scala, il che porta Idris a pensare che stiano riparando il tetto. Sembra che sia iniziata anche la ricostruzione della metà distrutta della veranda.

Incontrano Markos nell’atrio. Ha gli occhi azzurro chiaro e i capelli grigi che si stanno diradando. Indossa l’abito grigio tradizionale afghano e una keffiyah a scacchi bianchi e neri elegantemente avvolta attorno al collo. Li accompagna in una sala rumorosa piena di fumo.

«Posso offrire tè, vino e birra. O forse preferite qualcosa di più forte?»

«Dimmi dove tieni la roba e faccio da me» dice Timur.

«Oh, così mi piace. Laggiù, vicino allo stereo. In ogni caso il ghiaccio è sicuro. Fatto con acqua in bottiglia.»

«Grazie al cielo!»

Timur è nel suo elemento in ritrovi come questo e Idris non può che ammirare i suoi modi disinvolti, le battute spontanee, l’affascinante padronanza di sé. Lo segue al bar, dove Timur versa loro da bere da una bottiglia color rosso rubino.

Gli ospiti, una ventina, sono seduti in cerchio su cuscini. Il pavimento è coperto da un tappeto afghano rosso scuro. L’arredamento è discreto, di buon gusto, uno stile che Idris è arrivato a definire “chic da espatriati”. In sottofondo, un cd di Nina Simone. Tutti bevono, quasi tutti fumano, parlando della nuova guerra in Iraq e di quello che significherà per l’Afghanistan. In un angolo il televisore è sintonizzato sulla CNN International, l’audio spento. Baghdad di notte, negli spasimi della campagna denominata Shock and Awe, continua a illuminarsi di lampi verdi.

Con un bicchiere di vodka ghiacciata in mano, Markos e un paio di giovani tedeschi dall’aria seria, che lavorano per il Programma Alimentare Mondiale, si uniscono a loro. Idris trova che, come molti degli operatori umanitari conosciuti a Kabul, mettano leggermente in soggezione con la loro esperienza del mondo. Impossibile impressionarli.

Dice a Markos: «È una bella casa».

«Devi dirlo al proprietario.» Markos attraversa la sala e torna con un uomo anziano, smilzo. Ha una criniera di capelli sale e pepe pettinati all’indietro in modo da lasciare libera la fronte, una barba molto corta, le guance incavate di chi è quasi del tutto privo di denti. Indossa un abito verde oliva logoro, di taglia troppo grande per lui e che forse andava di moda negli anni Quaranta. Markos sorride al vecchio con palese affetto.

«Questo è Nabi, amico e padrone di casa» dice. Il vecchio ricambia timidamente il sorriso.

«Nabi jan?» esclama Timur e subito anche Idris ricorda.

Il vecchio chiede con un sorriso timido: «Scusate, ci conosciamo?».

«Sono Timur Bashiri» dice Timur in farsi. «La mia famiglia viveva in questa stessa strada a pochi passi da qui.»

«Oh, buon Dio» sospira il vecchio. «Timur jan? E tu devi essere Idris jan.»

Idris accenna di sì con la testa, ricambiando il sorriso.

Nabi li abbraccia entrambi. Li bacia sulle guance, senza smettere di sorridere e li osserva con aria incredula. A Idris torna in mente Nabi che spingeva la sedia a rotelle del suo padrone, il signor Wahdati, su e giù per la strada. A volte parcheggiava la sedia sul marciapiedi e i due uomini rimanevano a guardare lui e Timur che giocavano a calcio con i ragazzini del quartiere. «Nabi abita in questa casa dal 1947» dice Markos con un braccio attorno alle spalle del vecchio.

«Dunque sei tu il padrone di questa casa adesso?» chiede Timur.

Nabi sorride allo sguardo sorpreso di Timur. «Ho servito il signor Wahdati dal 1947 al 2000 quando è mancato. È stato tanto generoso da lasciare in eredità la casa a me, sì.»

«Ti ha lasciato la casa» ripete Timur incredulo.

«Sì.»

«Devi essere stato un cuoco straordinario!»

«E tu, se posso dire, da ragazzo eri un discolo mica male.»

Timur ridacchia. «Non mi è mai piaciuto stare alle regole, Nabi jan. In questo lascio l’iniziativa a mio cugino Idris.»

Markos, facendo roteare il vino nel bicchiere, si rivolge a Idris. «Nila Wahdati, la moglie del precedente proprietario, era una poetessa. Di una certa fama, a quanto sembra. Ne hai mai sentito parlare?»

Idris scuote la testa. «Tutto quello che so è che, quando sono nato, lei aveva già lasciato il paese.»

«Ha vissuto a Parigi con la figlia» interviene Thomas, uno dei tedeschi. «È morta nel 1974. Suicida, credo. Aveva problemi di alcol, o, almeno questo è quanto ho letto. Un paio d’anni fa, qualcuno mi ha regalato la traduzione tedesca di una delle sue prime raccolte: devo dire che non erano niente male, le sue poesie. Incredibilmente erotiche, ricordo.»

Idris annuisce, sentendosi un po’ inadeguato, questa volta perché uno straniero gli ha dato lezione su un’artista afghana. A mezzo metro di distanza sente Timur impegnato in un’animata conversazione con Nabi, sul prezzo degli affitti. In farsi, naturalmente.

«Hai idea di quanto potresti chiedere per un posto così, Nabi jan?» sta chiedendo al vecchio.

«Sì» risponde Nabi ridendo. «Conosco il prezzo degli affitti a Kabul.»

«Potresti spennare questi tizi!»

«Be’...»

«E lasci che abitino in casa tua gratis?»

«Sono venuti a dare una mano al nostro paese, Timur jan. Hanno lasciato la loro casa e sono venuti qui. Non mi sembrerebbe giusto “spennarli”, come dici tu.»

Con un lamento, Timur ingolla quanto rimane nel bicchiere. «Be’, o ti fanno schifo i soldi, vecchio amico, o sei un uomo molto migliore di me.»

Entra Amra. Indossa una tunica afghana color zaffiro su dei jeans sbiaditi. «Nabi jan!» esclama. Lui sembra un po’ spaventato quando lo bacia sulla guancia e lo prende sottobraccio. «Amo quest’uomo» annuncia al gruppo. «E mi piace metterlo in imbarazzo.» Poi lo ripete in farsi a Nabi. Lui scuote la testa e ride, arrossendo un po’.

«Perché non provi a imbarazzare anche me?» interviene Timur.

Amra gli dà dei colpetti sul petto. «Quest’uomo è grosso guaio.» Lei e Markos si baciano alla maniera afghana, tre volte sulle guance, la stessa cosa con i tedeschi.

Markos le passa un braccio attorno alla vita. «Amra Ademovic. La donna che lavora di più in tutta Kabul. Meglio non far arrabbiare questa ragazza. E poi, è capace di farti finire sotto il tavolo in una gara a chi beve di più.»

«Facciamo una prova» propone Timur, cercando un bicchiere nel bar alle sue spalle.

Il vecchio Nabi si ritira.

Per un’ora o giù di lì, Idris partecipa alla festa, o per lo meno ci prova. Man mano che il livello delle bottiglie si abbassa, il volume della conversazione si alza. Sente parlare tedesco, francese e una lingua che deve essere greco. Beve un’altra vodka, cui segue una birra tiepida. In un gruppo si fa coraggio e racconta una barzelletta sul Mullah Omar che ha sentito raccontare in farsi in California. Tradotta in inglese, non funziona e Idris fatica a raccontarla. Non fa ridere. Passa a un altro capannello e ascolta una conversazione su un pub irlandese che stanno per aprire a Kabul. Tutti sono d’accordo che non avrà futuro.

Passeggia per la sala con in mano una lattina di birra calda. Non si è mai sentito a suo agio in questo genere di feste. Cerca di tenersi occupato esaminando l’arredamento. Ci sono poster dei Buddha di Bamiyan, di una partita di buzkashi, ce n’è uno con il porto di un’isola greca che si chiama Tinos. Idris non ne ha mai sentito parlare. Nell’atrio lo sguardo gli cade su una foto incorniciata, in bianco e nero, un po’ sfocata, come se fosse stata scattata con una macchina fotografica fatta in casa. Mostra una ragazzina dai lunghi capelli neri, che volge le spalle alla macchina. È sulla spiaggia, seduta su uno scoglio, e fissa il mare. L’angolo della foto, in basso a sinistra, sembra bruciacchiato.

Per cena c’è stinco d’agnello al rosmarino, steccato di piccoli spicchi d’aglio. C’è un’insalata con formaggio di capra e pasta al pesto. Idris si serve un po’ d’insalata ma si limita a cincischiarla in un angolo della sala. Scorge Timur seduto in compagnia di due belle ragazze olandesi. Tiene banco, pensa Idris. Scoppia una risata e una delle giovani posa una mano sul ginocchio di Timur.

Idris esce sulla veranda con il bicchiere di vino e si siede su una panca di legno. Ora si è fatto buio, e la veranda è illuminata solo da un paio di lampadine che pendono nude dal soffitto. Da qui vede la sagoma indistinta di una specie di alloggio all’estremità del giardino, e lontano, sul lato destro, la silhouette di un’automobile lunga, antiquata, probabilmente americana, dalla carrozzeria tutta curve. Un modello degli anni Quaranta, forse dei primi anni Cinquanta; difficile dirlo e comunque Idris non è mai stato un appassionato di automobili. È sicuro che Timur sarebbe in grado di riconoscerla. Snocciolerebbe il modello, l’anno, la cilindrata, tutti i particolari. Sembra che la macchina abbia tutte e quattro le gomme a terra. Un cane del vicinato si lancia in una serie di latrati. In casa qualcuno ha messo un cd di Leonard Cohen.

«Taciturno e sensibile.»

Amra si siede accanto a lui, il ghiaccio che tintinna nel bicchiere. È scalza.

«Tuo cugino, cowboy, è anima di festa.»

«Non mi stupisce.»

«È molto bello. È sposato?»

«Con tre figli.»

«Peccato. Allora mi do regolata.»

«Sono sicuro che ne sarebbe deluso.»

«Ho princìpi. A te lui non piace molto.»

Idris le dice, in tutta sincerità, che se c’è una persona che considera un fratello, quella è Timur.

«Ma lui imbarazza te.»

È vero. Timur l’ha messo in imbarazzo. Si è comportato come il tipico americano-afghano odioso, pensa Idris. Scorazza per la città devastata dalla guerra come se non se ne fosse mai andato, dà pacche sulle spalle ai locali in modo paternalistico, chiamandoli fratello, sorella, zio, esibisce la sua offerta di denaro ai mendicanti estraendola da quello che lui definisce il gruzzolo del bakshish, scherza con le donne anziane che chiama madre, riuscendo a farsi raccontare la loro storia, mentre le riprende con il suo videoregistratore portatile, ascoltandole con un’espressione desolata come se fosse uno di loro, come se non fosse stato nella palestra di Gold a San José a farsi i pettorali e gli addominali, quando queste donne erano sotto le bombe, venivano ammazzate o stuprate. È un atteggiamento ipocrita e disgustoso. E Idris si stupisce che nessuno sembri cogliere il senso di questo comportamento.

«Non è vero quello che ti ha detto» dice Idris. «Siamo venuti qui per reclamare la casa che apparteneva ai nostri padri. Questo è quanto. Nient’altro.»

Amra sbuffa ridacchiando. «Ovvio che so. Pensi che ho abboccato? Ho avuto a che fare con signori della guerra e talebani in questo paese. Ho visto tutto. Niente può darmi shock. Niente, nessuno può prendermi in giro.»

«Immagino sia vero.»

«Tu sei sincero. Almeno sei sincero.»

«Penso che noi dovremmo portare rispetto a questa gente dopo tutto quello che ha passato. Noi, voglio dire gente come Timur e me. I fortunati, quelli che non erano qui quando questa città era un inferno di bombe. Noi non siamo come questa gente. Non dovremmo fingere di essere come loro. Le storie che questa gente ha da raccontare, noi non abbiamo il diritto di farle nostre. Scusami, sto farneticando.»

«Farneticando?»

«Dico cose insensate.»

«No, io capisco. Tu dici, loro storie, è dono che ti fanno.»

«Un dono, sì.»

Continuano a sorseggiare vino. Chiacchierano per un po’, per Idris è la prima conversazione franca da quando è arrivato a Kabul, senza quella sottile irrisione, quel vago rimprovero che ha sentito da parte dei locali, dei funzionari governativi, degli operatori delle organizzazioni umanitarie. Le chiede del suo lavoro e Amra gli racconta che è stata in Kosovo con le Nazioni Unite, in Ruanda dopo il genocidio, in Colombia, e anche in Burundi. Ha lavorato con le prostitute-bambine in Cambogia. Ora è a Kabul da un anno, il suo terzo incarico, questa volta con una piccola ONG che lavora all’ospedale e che il lunedì gestisce una clinica ambulante. Sposata due volte, divorziata due volte, niente figli. Idris ha difficoltà a indovinare l’età di Amra, anche se probabilmente è più giovane di quanto dimostri. C’è un ultimo barlume di bellezza, una sensualità spudorata, nonostante i denti giallognoli, le occhiaie dovute alla stanchezza sotto gli occhi. Fra quattro o cinque anni, pensa Idris, anche questo non ci sarà più.

Poi Amra dice: «Vuoi sapere cosa successo a Roshi?».

«Non sei tenuta a dirmelo.»

«Pensi che sono ubriaca?»

«Lo sei?»

«Un po’. Ma tu sei tipo sincero.» Gli dà dei leggeri colpetti sulla spalla quasi per gioco. «Tu chiedi di sapere ragioni vere. Per altri afghani come te, afghani che vengono da Occidente, è un po’, come si dice? allungare il naso.»

«Ficcare il naso.»

«Sì.»

«Come guardare una rivista pornografica.»

«Ma forse tu sei uomo buono.»

«Se mi racconti la sua storia, la prenderò come un dono.»

Così gliela racconta.

Roshi viveva con i genitori, due sorelle e un fratellino in un villaggio a un terzo di strada tra Kabul e Bagram. Un venerdì del mese prima, suo zio, il fratello maggiore di suo padre, era andato a trovarli. Da quasi un anno il padre di Roshi e lo zio portavano avanti una faida a proposito della casa dove la bambina viveva con la famiglia, una casa che lo zio riteneva appartenesse di diritto a lui, essendo il fratello maggiore, ma che il padre aveva lasciato al fratello minore, il preferito. Il giorno in cui era andato a far visita, però, tutto si era svolto normalmente.

«Dice che vuole finire litigio.»

La madre di Roshi aveva tirato il collo a un paio di polli, aveva preparato una grande zuppiera di riso con l’uva sultanina, e aveva comprato melagrane fresche al mercato. Quando lo zio era arrivato, i due fratelli si erano scambiati baci e abbracci. Il padre di Roshi aveva abbracciato il fratello così forte da sollevarlo dal tappeto. La madre aveva pianto di sollievo. La famiglia si era seduta a tavola. Tutti si erano serviti una seconda e una terza volta. Avevano mangiato le melagrane, dopo di che era stato servito tè verde con dolcetti. Lo zio aveva chiesto di usare la latrina fuori dalla casa.

Era tornato con un’ascia in mano.

«Quella per abbattere alberi» precisa Amra.

Il primo a essere colpito era stato il padre di Roshi. «Roshi ha detto che suo padre non ha nemmeno capito cosa succedeva. Non ha visto niente.»

Un solo colpo al collo, da dietro. Quasi lo decapita. Poi era toccato alla madre di Roshi. La bambina aveva visto sua madre che tentava di lottare, ma, dopo diversi fendenti alla faccia e al petto, era stata ridotta al silenzio. A quel punto i bambini erano scappati urlando. Lo zio li aveva inseguiti. Roshi aveva visto una delle sorelle correre verso il corridoio, ma lo zio l’aveva afferrata per i capelli buttandola a terra. L’altra sorella era riuscita a infilare il corridoio. Lo zio l’aveva inseguita e Roshi l’aveva sentito sfondare a calci la porta della camera da letto, gli urli, poi il silenzio.

«Così Roshi decide scappare con fratellino piccolo. Corrono fuori dalla casa, corrono verso porta d’ingresso, ma è chiusa a chiave. Lo zio, l’aveva chiusa lui, naturalmente.»

Erano corsi in cortile, presi dal panico e dalla disperazione, forse dimenticando che non c’era una porta, non c’era via d’uscita, i muri troppo alti per essere scavalcati. Quando lo zio si era precipitato fuori dalla casa e li aveva raggiunti, Roshi aveva visto il fratellino, che aveva cinque anni, gettarsi nel tandur, dove solo un’ora prima sua madre aveva cotto il pane. Roshi lo sentiva gridare tra le fiamme quando era inciampata ed era caduta. Si era girata sulla schiena in tempo per vedere il cielo turchino e l’ascia che si abbatteva su di lei. E poi più niente.

Amra si ferma. In casa Leonard Cohen canta una versione live di Who by Fire.

Anche se Idris potesse parlare, cosa che al momento non gli riesce, non saprebbe quali sono le parole giuste da dire. Avrebbe potuto dire qualcosa, offrire la propria impotente indignazione, se questo fosse stato opera di un talebano, o di Al-Qaeda, o di qualche comandante mujaheddin megalomane. Ma questo non può essere imputato a Hekmatyar, o al Mullah Omar, o a Bin Laden, o a Bush e alla sua guerra al terrore. Il motivo ordinario, assolutamente banale dietro al massacro, lo rende in qualche modo ancora più terribile, e molto più deprimente. Gli corre alla mente la parola “insensato”, ma Idris la respinge. È ciò che la gente dice sempre. Un insensato atto di violenza. Un assassinio insensato. Come se fosse possibile compiere un assassinio sensato.

Pensa alla ragazzina, Roshi, che ha visto all’ospedale, rannicchiata contro la parete, un piede sopra l’altro, l’espressione infantile sul viso. La spaccatura in cima al cranio rasato, la massa luccicante di materia cerebrale, grossa come un pugno, che ne fuoriusciva, coronando la testa come il nodo del turbante di un Sikh.

«Ti ha raccontato questa storia lei stessa?» chiede infine.

Amra annuisce con gravità. «Ricorda molto chiaramente. Ogni dettaglio. Sa dire a te ogni dettaglio. Vorrei che può dimenticare, a causa dei brutti sogni.»

«Del fratello, che ne è stato?»

«Troppe ustioni.»

«E lo zio?»

Amra dà un’alzata di spalle.

«Dicono, stai attenta. Nel mio lavoro dicono, stai attenta, sii professionale. Non è buona idea affezionarsi. Ma Roshi e io...»

La musica improvvisamente tace. Un’altra interruzione dell’elettricità. Per qualche minuto è buio totale, non fosse per la luce della luna. Idris sente la gente che brontola dentro casa. Si accendono prontamente delle torce alogene.

«Lotto per lei» dice Amra senza mai alzare lo sguardo. «Non smetto.»

Il giorno dopo, Timur e i tedeschi fanno una gita in macchina alla città di Istalif, famosa per le sue ceramiche. «Dovresti venire anche tu.»

«Rimango qui a leggere» dice Idris.

«Puoi leggere a San José, fratello.»

«Ho bisogno di riprendermi. Forse ho bevuto troppo ieri sera.»

Dopo che i tedeschi sono passati a prendere Timur, Idris si sdraia sul letto e fissa sulla parete un manifesto pubblicitario sbiadito che risale agli anni Sessanta, un quartetto sorridente di turisti biondi che camminano lungo il lago Band-e-Amir, una reminiscenza della sua infanzia qui a Kabul, prima delle guerre, prima della disgregazione.

Nel primo pomeriggio fa una passeggiata. In un piccolo ristorante, mangia kebab per pranzo. È difficile godersi il cibo con tutti quei ragazzini dalle facce sporche che lo osservano mangiare da fuori. È troppo. È pronto ad ammettere a se stesso che Timur in questo se la cava meglio di lui. Ne fa un gioco. Come un sergente alle esercitazioni, fa un fischio e mette in fila i piccoli mendicanti, poi sfila un paio di biglietti dal gruzzolo del bakshish. Mentre distribuisce i biglietti, a uno a uno, batte i tacchi e fa il saluto militare. I bambini si divertono. Ricambiano il saluto. Lo chiamano Kaka. A volte gli si arrampicano sulle gambe.

Dopo pranzo Idris prende un taxi e si fa portare all’ospedale.

«Ma prima fermati al bazar» dice all’autista.

Percorre il corridoio con il pacco in mano, passando davanti a muri coperti di graffiti, camere con un foglio di plastica al posto della porta, un vecchio con una pezza su un occhio che si trascina scalzo, pazienti stesi sul letto in camerate senza lampadine, in un caldo soffocante. Dovunque un odore acre di corpi. In fondo al corridoio si ferma prima di scostare la tenda. Si sente mancare quando vede la ragazzina seduta sul bordo del letto. Amra, in ginocchio davanti a lei, le sta lavando i dentini.

C’è un uomo seduto sull’altro lato del letto, scarno, bruciato dal sole, con una barba cespugliosa e capelli scuri ispidi. Quando Idris entra, l’uomo si alza prontamente, porta la destra al petto e fa un inchino. Dice a Idris di essere lo zio di Roshi da parte della madre.

«Sei tornato» dice Amra intingendo lo spazzolino in una tazza d’acqua.

«Spero che non ci sia niente in contrario.»

«No.»

Idris si schiarisce la voce. «Salam, Roshi.»

La bambina con lo sguardo chiede ad Amra il permesso di rispondere. La sua voce è un sussurro incerto, stridulo. «Salam.»

«Ti ho portato un regalo.» Idris posa la scatola e la apre. Gli occhi di Roshi si animano quando Idris estrae un piccolo televisore e delle videocassette. Le mostra i quattro film che le ha portato. La maggior parte dei nastri disponibili al negozio erano di film indiani, o di pellicole d’azione, di arti marziali con Jet Li, Jean-Claude Van Damme, tutti i film di Steven Seagal. Ma era riuscito a trovare E.T., Babe, il maialino coraggioso, Toy Story e Il gigante di ferro. Li ha visti tutti con i suoi figli, a San José.

In farsi, Amra chiede a Roshi quale film desideri vedere. La bambina sceglie Il gigante di ferro.

«Ti piacerà moltissimo» dice Idris. Ha qualche difficoltà a guardarla in faccia. Il suo sguardo continua a essere attratto dal disastro che ha sulla testa, il grumo lucente di tessuto cerebrale, l’intricato reticolo di vene e di capillari.

Non c’è una presa di corrente in fondo a questo corridoio e ci vuole qualche tempo prima che Amra trovi una prolunga, ma quando Idris infila la spina e appare l’immagine, la bocca di Roshi si apre in un sorriso. Da quel sorriso, Idris capisce quanto poco – nei suoi trentacinque anni di età – abbia visto del mondo, della sua ferocia, crudeltà e sconfinata brutalità.

Quando Amra li lascia perché deve visitare altri pazienti, Idris si siede accanto al letto di Roshi e guarda il film con lei. Lo zio tace, una presenza imperscrutabile. A metà del film salta la corrente. Roshi si mette a piangere, lo zio si china senza alzarsi dalla sedia e le afferra con malagrazia la mano. Le sussurra qualche breve, rapida parola in pashto, che Idris non capisce. Roshi con un sobbalzo cerca di tirarsi indietro. Idris guarda la sua manina persa nel pugno forte, con le nocche bianche dello zio.

Idris si mette la giacca. «Torno domani, Roshi, e se vuoi guarderemo un’altra cassetta. Ti va?»

Roshi si raggomitola sotto le coperte. Idris guarda lo zio, si immagina cosa farebbe Timur con quest’uomo, Timur che, a differenza di lui, non ha alcuna capacità di resistere alle facili emozioni. Lasciami stare dieci minuti da solo con lui, direbbe.

Lo zio lo segue. Sui gradini all’esterno, sbalordisce Idris dicendo: «Qui la vera vittima sono io, Sahib». Deve aver notato l’espressione del viso di Idris, perché si corregge subito: «Naturalmente la vittima è lei. Ma voglio dire che anch’io sono una vittima. Lei lo capisce, lei è afghano. Ma questi stranieri, loro non capiscono».

«Devo andare» dice Idris.

«Sono un mazdur, un semplice manovale. Guadagno un dollaro, forse due se la giornata è buona, Sahib. E ho già cinque figli miei. Uno è cieco. Ora questa.» Sospira. «A volte penso, che Dio mi perdoni, mi dico che Allah avrebbe dovuto lasciare che Roshi... be’, lei capisce. Sarebbe stato meglio. Perché le chiedo, Sahib, quale ragazzo la vorrà sposare adesso? Non troverà mai marito. E allora chi si occuperà di lei? Dovrò farlo io. Lo dovrò fare per sempre.»

Idris sa che è stato messo con le spalle al muro. Prende il portafoglio.

«Mi dia quello che può. Non per me. Per Roshi.»

Idris gli passa un paio di banconote. Lo zio sbarra gli occhi, poi lo guarda. Inizia a dire: «Due...» poi si chiude la bocca con la mano, come se fosse preoccupato di non rivelare a Idris l’errore che ha commesso.

«Comprale delle scarpe decenti» dice Idris scendendo i gradini.

«Che Allah la benedica, Sahib» gli grida lo zio alle spalle. «Lei è un uomo buono. Lei è un uomo gentile e buono.»

Idris fa visita a Roshi il giorno dopo e quello dopo ancora. Ben presto diventa una routine e si ritrova al capezzale di Roshi ogni giorno. Finisce per conoscere gli assistenti per nome, gli infermieri che lavorano al pianterreno, il custode, le guardie denutrite e stanche all’ingresso dell’ospedale. Tiene queste visite il più possibile segrete. Nelle telefonate a casa, non ha parlato di Roshi a Nahil. Non dice neanche a Timur dove va, non gli spiega perché non l’accompagna in gita a Paghman o perché non partecipa all’incontro con il funzionario del ministero degli Interni. Ma Timur lo scopre lo stesso.

«Buon per te» dice. «È una bella cosa quella che stai facendo.» Si interrompe e poi aggiunge: «Vacci con i piedi di piombo, però».

«Vuoi dire che devo smettere di farle visita?»

«Partiamo tra una settimana, fratello. Mica vorrai che ti si affezioni troppo.»

Idris annuisce. Si chiede se Timur non sia un po’ geloso di questo suo rapporto con Roshi, forse persino un po’ risentito che lui, Idris, gli abbia sottratto un’occasione fantastica di recitare la parte dell’eroe. Timur che emerge al rallentatore da un edificio in fiamme con una bambina in braccio. La folla che esplode in un applauso. Idris è determinato a non permettere che Timur si pavoneggi in questo modo con Roshi.

Tuttavia, Timur ha ragione. Tra una settimana torneranno a casa e Roshi ha incominciato a chiamarlo Kaka Idris. Quando arriva in ritardo, la trova agitata. Gli serra le braccia attorno alla vita e un’onda di sollievo le si dipinge in viso. Le sue visite sono la cosa che aspetta con maggiore impazienza, gli ha detto. Talvolta, mentre guardano una cassetta, lei gli afferra la mano e la tiene tra le sue. Quando non è con lei, Idris pensa spesso alla peluria biondo chiaro delle sue braccia, ai suoi occhi nocciola, vicini, ai suoi graziosi piedini, alle guance tonde, al modo in cui appoggia il mento sulla mano quando lui le legge uno dei libri per bambini che ha comprato alla libreria vicino al liceo francese. Qualche volta si è concesso di immaginare per un attimo come sarebbe se la portasse negli Stati Uniti, come si troverebbe con i suoi ragazzi, Zabi e Lemar. Nell’ultimo anno, lui e Nahil hanno parlato della possibilità di avere un terzo figlio.

«E adesso?» chiede Amra il giorno prima della partenza.

Il mattino, Roshi gli ha regalato un disegno a matita, su una pagina della cartella clinica dell’ospedale, con due figurine stilizzate che guardano la televisione. Lui ha indicato quella con i capelli lunghi. Sei tu?

E quello sei tu, Kaka Idris.

Allora avevi i capelli lunghi? Prima?

Mia sorella me li spazzolava ogni sera. Sapeva come fare per non farmi male.

Doveva essere una brava sorella.

Quando cresceranno, potrai farlo tu.

Penso che mi piacerebbe.

Non andare via, Kaka. Non partire.

«È un tesoro di bambina» dice ad Amra. Ed è vero. Beneducata, e anche senza pretese. Con un vago senso di colpa, Idris pensa a Zabi e a Lemar a casa a San José, che da tempo ormai dicono di non amare i loro nomi afghani, che si stanno rapidamente trasformando in piccoli tiranni, in bambini americani prepotenti quali lui e Nahil si erano ripromessi di non volere mai.

«Lei è bambina sopravvissuta» dice Amra.

«Sì.»

Amra si appoggia alla parete. Un paio di assistenti passano di corsa spingendo una barella. Sopra c’è un ragazzo con bende intrise di sangue attorno alla testa e una ferita aperta sulla coscia.

«Altri afghani vengono da America o da Europa,» dice Amra «e fanno foto di lei. Fanno film. Fanno promesse. Poi vanno a casa e mostrano a famiglia. Come se lei animale in zoo. Lo permetto perché penso forse aiuteranno. Ma loro dimenticano. Non li sento più. Allora ti chiedo ancora: e adesso?»

«L’operazione di cui ha bisogno?» chiede Idris. «Voglio che sia operata.»

Lei lo guarda incerta.

«Abbiamo un reparto di neurochirurgia nell’ospedale dove lavoro. Parlerò al mio capo. Prenderemo accordi per portarla in California e sottoporla all’operazione.»

«Sì, ma i soldi?»

«Troverò i fondi. Nel peggiore dei casi, pagherò io.»

«Di portafoglio tuo.»

Lui ride. «Noi diciamo “di tasca tua”, ma sì.»

«Dobbiamo avere il permesso di zio.»

«Se mai si farà vedere.» Lo zio non si è più visto né sentito dal giorno in cui Idris gli ha dato i duecento dollari.

Amra gli sorride. Idris non ha mai fatto niente del genere. C’è qualcosa di esaltante, di inebriante, persino di euforico nel gettarsi a capofitto in questo progetto. Si sente pieno di energia. Quasi gli manca il respiro. Si meraviglia di sentire le lacrime che gli pungono gli occhi.

«Hvala» dice Amra. «Grazie.» Si alza in punta di piedi e gli dà un bacio sulla guancia.

«Mi sono fatto una delle ragazze olandesi» annuncia Timur. «Quelle che erano alla festa.»

Idris alza la testa dal finestrino. Stava guardando affascinato, giù in basso, a grande distanza, la massa compatta delle cime color ocra dell’Hindu Kush. Si volta e fissa Timur seduto nel posto sul corridoio.

«La bruna. Ho preso mezza pillola blu e me la sono scopata tutta la notte fino al richiamo per la preghiera dell’alba.»

«Cristo! Ma quando crescerai?» sbotta Idris, infastidito di essere stato caricato ancora una volta del peso di questa nuova infedeltà del cugino, del suo comportamento riprovevole, di questa grottesca buffonata da adolescente.

Timur ridacchia. «Ricorda, cugino, che quello che è successo a Kabul...»

«Per favore, non finire la frase.»

Timur ride. Nella parte posteriore dell’aereo si sta svolgendo una festicciola. Qualcuno canta in pashto, qualcun altro sta battendo su un piatto di polistirolo come su una tambura.

«Non ci posso credere, che abbiamo incontrato il vecchio Nabi» borbotta Timur. «Cristo.»

Idris pesca la pillola per dormire che aveva messo nel taschino e la ingoia senz’acqua.

«Devo tornare il mese prossimo» dice Timur incrociando le braccia e chiudendo gli occhi. «Probabilmente ci vorranno altri due viaggi, ma dovremmo spuntarla.»

«Ti fidi di questo Faruq?»

«No, cazzo. È per questo che tornerò.»

Faruq è l’avvocato a cui si è rivolto Timur. La sua specialità è aiutare gli afghani in esilio a recuperare le loro proprietà a Kabul. Timur si dilunga sui documenti che Faruq dovrà registrare, sul giudice che si occuperà della causa, un secondo cugino della moglie di Faruq. Idris appoggia di nuovo la testa al finestrino aspettando che la pillola faccia effetto.

«Idris?» lo chiama Timur a voce bassa.

«Sì.»

«Fa tristezza tutta la merda che abbiamo visto laggiù, eh?»

Sei una miniera di straordinario intuito, fratello. «Già» borbotta Idris.

«Mille tragedie per chilometro quadrato, caro mio.»

Ben presto Idris sente la testa che incomincia a ronzare e gli occhi si annebbiano. Mentre scivola nel sonno pensa al suo addio a Roshi, lui che le tiene le mani, dicendole che si rivedranno presto, lei che singhiozza piano, quasi in silenzio, con la testa appoggiata al suo ventre.

Tornando a casa dall’aeroporto internazionale di San Francisco, Idris ricorda con tenerezza il caos pazzesco del traffico di Kabul. È strano guidare la Lexus lungo le corsie della 101 dirette a sud, ordinate, prive di buche, i segnali stradali sempre affidabili, gli automobilisti così educati, che mettono le frecce e danno la precedenza. Sorride al ricordo di tutti i taxi guidati da adolescenti spericolati cui lui e Timur hanno affidato la loro vita a Kabul.

Sul sedile del passeggero, Nahil è tutta domande. Kabul era sicura? Com’era il cibo? È stato male? Ha scattato fotografie e ripreso video di tutto? Idris fa del suo meglio. Le descrive le scuole colpite dalle schegge, gli occupanti abusivi che vivono in edifici scoperchiati, il fango, i mendicanti, l’elettricità inaffidabile, ma è come descrivere la musica. Non riesce a dar vita ai suoi racconti. I dettagli vividi, sbalorditivi di Kabul: la palestra di body-building in mezzo alle macerie, per esempio, l’immagine di Schwarzenegger sulla finestra: simili dettagli gli sfuggono ora e le sue descrizioni suonano generiche, insipide, come quelle di un qualsiasi articolo dell’Associated Press.

Sul sedile posteriore i ragazzi, per fargli piacere, per un po’ si degnano di ascoltarlo, o almeno fingono. Sente che i suoi racconti li annoiano. Poi Zabi, che ha otto anni, chiede a Nahil di mettere il film. Lemar, che è maggiore di due anni, cerca di ascoltare ancora un po’, ma ben presto Idris sente il ronzio delle macchine da corsa del suo Nintendo DS.

«Allora, ragazzi» li sgrida Nahil. «Vostro padre è tornato da Kabul. Non siete curiosi? Non avete nessuna domanda da fargli?»

«Non preoccuparti» dice Idris. «Lasciali stare.» Ma di fatto è infastidito dalla loro mancanza di interesse, dalla spensierata ignoranza dell’arbitraria lotteria genetica che ha garantito loro una vita privilegiata. Sente un’improvvisa frattura tra sé e la sua famiglia, persino tra sé e Nahil, le cui domande sul suo viaggio riguardano soprattutto i ristoranti e la mancanza di acqua corrente nelle case. Ora li guarda con occhi accusatori, come i locali devono aver guardato lui al suo arrivo a Kabul.

«Muoio di fame.»

«Cosa ti piacerebbe?» chiede Nahil. «Sushi, qualcosa di italiano? C’è una nuova gastronomia vicino a Oakridge.»

«Mangiamo afghano.»

Si dirigono alla Abe’s Kabob House, nella zona orientale di San José, vicino al vecchio mercato delle pulci di Berryessa. Il proprietario, Abdullah, è un uomo dai capelli grigi, poco più che sessantenne, con baffi a manubrio e mani forti. Lui e sua moglie sono pazienti di Idris. Quando Idris entra con la famiglia, Abe li saluta con la mano da dietro la cassa. L’Abe’s Kabob House è un piccolo ristorante a conduzione familiare. Ci sono solo otto tavoli, coperti da tovaglie di plastica appiccicose, menu plastificati, manifesti dell’Afghanistan sulle pareti, un vecchio distributore di acqua tonica in un angolo. Abdullah saluta gli ospiti, batte alla cassa, pulisce. Sua moglie, Sultana, è nel retro; è lei la responsabile della magia. Idris la scorge in cucina, china sopra qualcosa, i capelli raccolti in una retina, gli occhi socchiusi per il vapore. Lei e Abdullah si sono sposati in Pakistan alla fine degli anni Settanta, hanno raccontato a Idris, dopo che i comunisti avevano occupato il loro paese. Nel 1982 hanno ottenuto asilo politico negli USA, l’anno in cui è nata la loro figlia Pari.

È lei che ora prende le ordinazioni. Pari è affabile e cortese, ha la carnagione chiara della madre e la stessa luce di risolutezza negli occhi. Ha un corpo stranamente sproporzionato, il busto sottile e grazioso, ma fianchi larghi, cosce grosse e caviglie robuste. Indossa come al solito una gonna ampia.

Idris e Nahil ordinano agnello con riso integrale e bolani. I ragazzi scelgono chapli kebab, la cosa più vicina all’hamburger di carne che trovano sul menu. Mentre aspettano, Zabi racconta a Idris che la sua squadra di calcio è riuscita ad arrivare in finale. Gioca come ala destra. Domenica ci sarà la partita. Lemar dice che suonerà in un recital di chitarra sabato.

«Cosa suonerai?» chiede Idris svogliatamente, appesantito dalla fatica del viaggio.

«Paint It Black

«Magnifico.»

«Secondo me non ti sei esercitato abbastanza» lo rimprovera con cautela Nahil.

Lemar lascia cadere il tovagliolo di carta che stava arrotolando. «Mamma, per favore! Non vedi cosa mi tocca fare ogni giorno? Ho un sacco di compiti!»

A metà del pranzo arriva Abdullah per salutarli, pulendosi le mani nel grembiule legato in vita. Chiede se il cibo è di loro gusto, se desiderano qualcos’altro.

Idris dice che lui e Timur sono appena tornati da Kabul.

«Cosa mi combina Timur jan?» chiede Abdullah.

«Niente di buono, come al solito.»

Abdullah sorride. Idris sa che è molto affezionato a Timur.

«E come vanno gli affari?»

Abdullah sospira. «Dottor Bashiri, se volessi maledire qualcuno, gli direi: che Dio ti conceda un ristorante.»

Tutti e due scoppiano a ridere.

Poi, lasciato il locale, mentre stanno per salire sul SUV, Lemar chiede: «Papà, dà da mangiare gratis a tutti?».

«No, naturalmente» risponde Idris.

«Allora perché non ha preso i soldi da te?»

«Perché siamo afghani, e io sono il suo dottore» risponde, ma è vero solo in parte. La ragione vera, sospetta Idris, è che è cugino di Timur il quale, anni addietro, gli aveva prestato il denaro per aprire il ristorante.

A casa, in un primo momento, Idris si stupisce di trovare l’atrio e il soggiorno privi di moquette, e le assi sulle scale senza passatoia. Poi ricorda che avevano deciso di sostituire la moquette con il parquet, grandi assi di ciliegio che il posatore ha definito color rame. Le porte del mobile in cucina sono state sabbiate e c’è uno spazio vuoto al posto del microonde. Nahil gli dice che lunedì lavorerà mezza giornata in modo da poter parlare il mattino con i posatori del parquet e con Jason.

«Jason?» Poi ricorda. Jason Speer è il tizio dell’home theatre.

«Verrà a prendere le misure. Ci ha già comprato con lo sconto l’altoparlante subwoofer e il proiettore. Mercoledì manderà tre uomini a iniziare il lavoro.»

Idris annuisce. L’home theatre era stato un’idea sua, una cosa che aveva sempre desiderato. Ma ora il solo pensiero lo mette in imbarazzo. Si sente lontano da tutto questo: Jason Speer, i nuovi armadietti, i pavimenti color rame, le scarpe high-top da 160 dollari dei suoi ragazzi, il copriletto in ciniglia in camera da letto, l’energia con cui lui e Nahil hanno perseguito queste cose. Ora i frutti della sua ambizione gli sembrano frivoli. Gli ricordano soltanto la brutale disuguaglianza tra la sua vita e ciò che ha trovato a Kabul.

«Che c’è, tesoro?»

«Jet lag. Ho bisogno di dormire.»

Il sabato ce la fa a resistere per tutto il tempo del recital di chitarra e il giorno dopo per quasi tutta la partita di calcio di Zabi. Durante il secondo tempo, deve sgattaiolare sino al parcheggio e dormire per una mezz’ora. Fortunatamente Zabi non se ne accorge. Domenica sera, alcuni vicini vengono a cena. Si passano le foto del viaggio e se ne stanno educatamente seduti per un’ora ad assistere al video di Kabul che Nahil, contro ogni desiderio di Idris, si ostina a voler proiettare. Durante la cena gli chiedono del viaggio, la sua opinione sulla situazione in Afghanistan. Sorseggia il suo mojito e risponde a monosillabi.

«Non riesco a immaginare come possa essere laggiù» dice Cynthia. È l’istruttrice di pilates della palestra frequentata da Nahil.

«Kabul è...» Idris cerca le parole giuste. «Mille tragedie per chilometro quadrato.»

«Deve essere stato uno shock culturale, andare laggiù.»

«Sì.» Idris non dice che il vero shock culturale l’ha provato tornando.

Alla fine il discorso cade sulla recente epidemia di furti che ha colpito la posta del quartiere.

Quella sera, a letto, Idris dice: «Credi che sia necessario avere tutto questo?».

«Tutto questo?» chiede Nahil. La vede riflessa nello specchio del bagno. Si sta lavando i denti.

«Tutto questo. Tutte queste cose.»

«No, non sono indispensabili, se è questo che vuoi dire.» Sputa nel lavandino, fa dei gargarismi.

«Non pensi che sia troppo?»

«Abbiamo lavorato sodo, Idris. Ti ricordi gli esami d’ammissione che abbiamo sostenuto, io alla facoltà di giurisprudenza e tu a quella di medicina, e tutti gli anni di internato? Nessuno ci ha regalato niente. Non abbiamo nulla di cui scusarci.»

«Con il costo dell’home theatre avremmo potuto costruire una scuola in Afghanistan.»

Nahil entra in camera e si siede sul letto per togliersi le lenti a contatto. Ha un profilo stupendo. Idris è affascinato dalla leggera rientranza della fronte nel punto dove inizia il naso, dagli zigomi pronunciati, dal collo sottile.

«Puoi fare entrambe le cose» dice voltandosi verso Idris e battendo le palpebre dopo essersi messa il collirio. «Non vedo dove sia la difficoltà.»

Alcuni anni prima, Idris aveva scoperto che Nahil aiutava un bambino colombiano di nome Miguel. Non gliene aveva parlato e, poiché era lei che si occupava della corrispondenza e della contabilità, per anni Idris non ne aveva saputo niente, finché un giorno l’aveva sorpresa a leggere una lettera di Miguel che una monaca aveva tradotto dallo spagnolo. C’era anche la foto di un ragazzino alto, segaligno, con un pallone in braccio, all’esterno di una capanna di paglia e dietro di lui nient’altro che mucche dall’aspetto macilento e colline verdi. Nahil aveva iniziato ad aiutare Miguel sin da quando frequentava la facoltà di giurisprudenza. Da undici anni gli assegni di Nahil si incrociavano silenziosamente con le foto di Miguel e le sue lettere di gratitudine tradotte dalla monaca.

Si toglie gli anelli. «Che significa tutto questo? Sei stato contagiato dal senso di colpa del sopravvissuto?»

«Semplicemente vedo le cose in modo diverso adesso.»

«Bene. Fanne buon uso, allora. Ma piantala di rimirarti l’ombelico.»

Quella notte il jet lag impedisce a Idris di dormire. Scende di sotto e per un po’ legge, guarda parte di una replica di Tutti gli uomini del Presidente, finisce di fronte al computer nella camera degli ospiti che Nahil ha trasformato in studio. Trova una mail di Amra. Spera che il suo viaggio di ritorno sia stato buono e che la sua famiglia stia bene. A Kabul ha piovuto “istericamente”, scrive, e le strade sono invase dal fango che arriva alla caviglia. La pioggia ha causato allagamenti e circa duecento famiglie hanno dovuto essere evacuate in elicottero da Shomali, a nord della capitale. Sono state prese misure di sicurezza più rigide a causa del sostegno di Kabul alla guerra di Bush in Iraq e delle possibili ritorsioni di Al-Qaeda. Nell’ultima riga scrive: Hai già parlato al tuo capo?

Sotto la mail di Amra è stata aggiunta una breve nota di Roshi, che Amra ha tradotto. Dice:

Salam, Kaka Idris,

Spero che tu sia arrivato sano e salvo in America, inshallah. Sono sicura che la tua famiglia è molto felice di vederti. Ti penso ogni giorno. Ogni giorno guardo i film che mi hai comprato. Mi piacciono tutti. Mi rattrista che tu non sia qui a vederli con me. Io sto bene e Amra jan si prende cura di me. Per favore, di’ salam alla tua famiglia da parte mia. Presto ci vedremo in California, inshallah.

Saluti,

Roshana.

Risponde ad Amra, la ringrazia, le dice che gli spiace di sentire le notizie degli allagamenti. Spera che le piogge cessino presto. Aggiunge che in settimana parlerà al suo capo di Roshi. Sotto scrive:

Salam, Roshi jan:

Grazie del tuo gentile messaggio. Sono molto felice di aver avuto tue notizie. Anch’io ti penso moltissimo. Ho raccontato alla mia famiglia di te e tutti desiderano conoscerti, specialmente i miei ragazzi, Zabi jan e Lemar jan, che mi hanno fatto molte domande su di te. Non vediamo l’ora che tu venga qui. Con tutto il mio affetto,

Kaka Idris.

Invia e va a letto.

Il lunedì, quando arriva in ufficio, viene accolto da un mucchio di messaggi sulla segreteria telefonica. Dal cestino traboccano le richieste di rinnovo delle prescrizioni che attendono la sua approvazione. Trova oltre centosessanta mail da scorrere e la sua casella vocale è piena. Studia il proprio orario sul computer ed è costernato nel constatare che la settimana è tutta un accavallarsi di appuntamenti alle stesse ore: le cosiddette «spremute», come le chiamano i medici. Peggio ancora, quel pomeriggio dovrà visitare la temuta signora Rasmussen, una donna litigiosa, particolarmente sgradevole, affetta da vaghi sintomi che non rispondono a nessuna cura. Il pensiero di affrontare il suo ostile bisogno di attenzioni gli fa ribollire il sangue. E infine, uno dei messaggi vocali è del suo capo, Joan Schaeffer: gli comunica che un paziente cui, prima del suo viaggio a Kabul, aveva diagnosticato una polmonite, in realtà è risultato affetto da scompenso cardiaco. Il caso sarà studiato la settimana successiva durante la videoconferenza mensile seguita da tutti i reparti, nella quale sono utilizzati a scopo didattico gli errori commessi da medici, che rimangono anonimi. L’anonimato non dura a lungo, Idris lo sa: almeno metà delle persone presenti saprà chi è il medico che fa da capro espiatorio.

Sente che gli sta montando il mal di testa.

Quel mattino è spaventosamente in ritardo sulla tabella di marcia. Un paziente asmatico si presenta senza appuntamento e ha bisogno di cure inalatorie e di un attento monitoraggio del picco di flusso e della saturazione di ossigeno. Un dirigente di mezza età, che Idris ha visitato tre anni prima, entra con un infarto miocardico anteriore in atto. Quando riesce a pranzare, è già passata metà della pausa. Nella sala conferenze dove i medici consumano i loro pasti, Idris butta giù qualche boccone di un rinsecchito panino al tacchino, mentre cerca di mettersi in pari con gli appunti. Risponde alle domande dei colleghi, sempre le stesse. Kabul era sicura? Cosa pensano gli afghani della presenza americana? Dà risposte concise, stringate, pensando alla signora Rasmussen, ai messaggi cui deve rispondere, alle ricette che deve firmare, alle tre «spremute» che deve infilare nel proprio orario quel pomeriggio, all’imminente videoconferenza, agli operai che segano, trapanano e battono chiodi in casa sua. Parlando dell’Afghanistan all’improvviso ha l’impressione di discutere di un film visto da poco, molto coinvolgente sul piano emotivo, ma i cui effetti si stanno volatilizzando. È stupefacente che sia avvenuto così in fretta.

Trascorre una delle settimane più dure della sua carriera professionale. Nonostante avesse intenzione di parlare di Roshi a Joan Schaeffer, non ne ha trovato il tempo. Per tutta la settimana è vittima di un umore schifoso. A casa è sgarbato con i ragazzi, infastidito da tutto quel rumore e dagli operai che entrano ed escono in continuazione. Il sonno non è ancora tornato al suo ritmo abituale. Riceve altre due mail da Amra con altri aggiornamenti su Kabul. Rabia Balkhi, l’ospedale femminile, ha riaperto. Il gabinetto Karzai permetterà alle reti televisive via cavo di trasmettere, sfidando gli islamisti più intransigenti che si erano opposti. In un post scriptum alla fine della seconda mail, Amra chiede ancora se ha parlato al suo capo e dice che, da quando lui è partito, Roshi si è chiusa in se stessa. Idris si allontana dal computer. Poi vi ritorna, vergognandosi dell’irritazione che gli ha provocato il messaggio di Amra, di come per un attimo sia stato tentato di risponderle in maiuscolo. LO FARÒ. DAMMI TEMPO.

«Spero che sia andato tutto bene.»

Joan Schaeffer è seduta alla scrivania, le mani intrecciate in grembo. È una donna energica, di carattere allegro, con un viso pieno e capelli bianchi incolti. Lo adocchia da sopra i mezzi occhiali da lettura. «Capisci che il punto non era mettere in discussione te, sì?»

«Sì, ovvio» dice Idris. «Capisco.»

«E non avertene a male. Potrebbe capitare a chiunque. Lo scompenso cardiaco e la polmonite sono difficili da diagnosticare ai raggi X.»

«Grazie, Joan.» Si alza per andarsene, ma alla porta si ferma. «Oh. C’è una cosa di cui volevo discutere con te.»

«Certo, certo. Accomodati.»

Torna a sedersi. Le parla di Roshi, descrive le sue lesioni, la mancanza di risorse dell’ospedale Wazir Akbar Khan. Le confida l’impegno che si è assunto con Amra e Roshi. Parlandone ad alta voce, si sente schiacciato dalla sua promessa come non gli era accaduto a Kabul, nel corridoio, quando Amra gli aveva dato un bacio sulla guancia. Scopre di aver fatto i conti senza l’oste, come dice il proverbio.

«Dio mio, Idris» dice Joan scuotendo la testa. «Apprezzo il tuo impegno. Ma è spaventoso. Povera bambina. Non riesco a immaginare.»

«Lo so.» Chiede se l’ospedale è disposto a finanziare l’intervento. «O gli interventi. La mia sensazione è che uno non basterà.»

Joan sospira. «Mi piacerebbe. Ma francamente dubito che il consiglio d’amministrazione possa approvare questo finanziamento, Idris. Lo dubito davvero. Sai che siamo in rosso da cinque anni. Inoltre ci sarebbero questioni legali piuttosto complicate.»

Joan aspetta, forse pronta alle sue rimostranze, ma Idris non replica.

«Capisco» dice.

«Dovresti trovare un’associazione umanitaria che fa questo tipo di cose, no? Dovrai darti da fare, ma...»

«Ci proverò. Grazie, Joan.» Si alza di nuovo, sorpreso di sentirsi leggero, quasi sollevato dalla sua risposta.

L’home theatre richiede un altro mese di lavoro, ma è una meraviglia. Le immagini provenienti dal proiettore montato sul soffitto sono nitide, i movimenti straordinariamente fluidi sullo schermo da 102 pollici. Il dolby surround a 7.1 canali, gli equalizzatori e gli assorbitori di bassi che hanno collocato nei quattro angoli hanno fatto miracoli con l’acustica. Seduti al suo fianco, i ragazzi guardano i Pirati dei Caraibi, entusiasti della tecnologia, e mangiano i popcorn dalla ciotola comune sulle ginocchia di Idris. Si addormentano prima dell’interminabile scena della battaglia finale.

«Li metto a letto io» dice Idris a Nahil.

Prende in braccio prima l’uno, poi l’altro. I suoi figli stanno crescendo, il loro corpo snello si sta allungando a una velocità impressionante. Nel momento in cui rimbocca le coperte a ciascuno di loro, lo coglie la consapevolezza della sofferenza che lo aspetta. Fra un anno, o al massimo due, lui verrà sostituito. I ragazzi si appassioneranno ad altre cose, ad altre persone, e si sentiranno imbarazzati da lui e da Nahil. Pensa con nostalgia a quando erano piccoli e indifesi, interamente dipendenti da lui. Ricorda che Zabi da piccolo era terrorizzato dai tombini e ci girava goffamente attorno facendo ampi cerchi. Una volta, guardando un vecchio film, Lemar aveva chiesto al padre se lui c’era quando il mondo era in bianco e nero. Il ricordo gli suscita un sorriso. Li bacia sulle guance.

Seduto al buio, osserva Lemar che dorme. Ora si rende conto di essere stato sbrigativo e ingiusto nel giudicare i ragazzi. Ed è stato fin troppo severo anche con se stesso. Non è un criminale. Tutto quello che possiede, se l’è guadagnato. Negli anni Novanta, quando metà dei suoi compagni si ritrovavano al club o corteggiavano le ragazze, lui era immerso nello studio, si trascinava per i corridoi dell’ospedale alle due del mattino, rinunciando al sonno, allo svago, all’agiatezza. Aveva regalato i suoi vent’anni alla medicina. Ne aveva pagato lo scotto. Perché dovrebbe sentirsi scontento? Questa è la sua famiglia. Questa è la sua vita.

Nel corso dell’ultimo mese, Roshi è diventata qualcosa di astratto per lui, come un personaggio letterario. Il loro legame si è sfilacciato. L’inaspettata intimità che si era creata all’ospedale, così urgente e acuta, si è usurata, diventando qualcosa di insignificante. Quell’esperienza ha perso il suo fascino. Riconosce la caparbia determinazione che l’aveva assalito allora per ciò che realmente era: un’illusione, un miraggio. Era caduto sotto l’influenza di qualcosa di simile a una droga. Adesso la distanza tra lui e la ragazza sembra immensa. Infinita, insormontabile, e la promessa che le ha fatto gli sembra un errore incauto, avventato, un’interpretazione terribilmente sbagliata dei suoi poteri, della sua volontà e del suo carattere. Un episodio che è meglio dimenticare. Lui non è all’altezza. Molto semplice. Nelle ultime due settimane ha ricevuto altre tre mail di Amra. Ha letto la prima ma non ha risposto. Ha eliminato le altre due senza leggerle.

La coda nella libreria conta dodici, tredici persone. Si snoda dal palco improvvisato sino allo scaffale delle riviste. Una donna alta, dalla faccia larga, distribuisce piccoli post-it gialli su cui scrivere il nome ed eventualmente un messaggio personale. Una commessa in cima alla fila aiuta le persone ad aprire il libro al frontespizio.

Idris, quasi in testa alla coda, tiene in mano una copia del libro. La donna davanti a lui, sulla cinquantina, i capelli biondi tagliati corti, gli chiede: «L’ha letto?».

«No.»

«Lo leggeremo nel nostro gruppo di lettura il mese prossimo. Tocca a me scegliere.»

«Ah.»

La donna aggrotta le sopracciglia e si posa una mano sul petto. «Spero davvero che la gente lo legga. Una storia così commovente. Così illuminante. Scommetto che ne faranno un film.»

È vero quello che Idris le ha detto. Non ha letto il libro e dubita che lo leggerà mai. Non crede di avere la forza di rivedersi in quelle pagine. Ma altri lo leggeranno. E quando leggeranno, lui verrà messo a nudo. Tutti sapranno: Nahil, i suoi figli, i suoi colleghi. Gli viene nausea al solo pensiero.

Riapre il libro, salta i ringraziamenti, la biografia del co-autore che ha raccontato la storia. Guarda di nuovo la fotografia sul risvolto di copertina. Non si vedono segni della lesione. Se è rimasta una cicatrice, che deve pur esserci, i lunghi capelli neri ondulati la nascondono. Roshi indossa una camicetta con perline dorate, una collana con il nome di Allah, orecchini di lapislazzuli. È appoggiata a un albero, sorride, guarda nell’obbiettivo. Idris pensa alle figure stilizzate che aveva disegnato per lui. Non andare via. Non partire, Kaka. In questa giovane donna non scorge un briciolo della creaturina tremebonda che aveva incontrato dietro una tenda sei anni prima.

Guarda la pagina con la dedica.

Ai due angeli della mia vita: mia madre Amra e il mio Kaka Timur. Siete i miei salvatori. A voi devo tutto.

Le parole ondeggiano. La donna con i corti capelli biondi si fa firmare la sua copia. Si scosta e Idris, con il cuore che gli martella in petto, fa un passo avanti. Roshi alza lo sguardo. Porta uno scialle afghano sopra una camicetta a maniche lunghe giallo zucca e piccoli orecchini ovali d’argento. Gli occhi della ragazza sono più scuri di come Idris li ricordava e il suo corpo sta acquisendo morbide curve femminili. Roshi lo guarda senza batter ciglio e, benché non dia segni evidenti di averlo riconosciuto e il suo sorriso sia cortese, c’è qualcosa di divertito e distante nella sua espressione, qualcosa di ironico, malizioso, che non si lascia intimidire. Idris ne è sopraffatto. Improvvisamente tutte le parole che aveva preparato, che aveva persino messo per iscritto, che aveva mentalmente ripetuto andando alla libreria, gli muoiono in gola. Non riesce a spiccicare parola. Rimane là impalato con un’aria un po’ stupida.

La commessa si schiarisce la voce: «Signore, dia a me il suo libro e Roshi glielo firmerà sul frontespizio».

Il libro. Idris abbassa lo sguardo e vede che lo sta tenendo stretto in mano. Non è venuto qui per farselo firmare, naturalmente. Sarebbe autolesionistico, grottescamente autolesionistico, dopo tutto. Ma si ritrova a passare il libro alla commessa che da esperta lo apre alla pagina giusta, mentre la mano di Roshi scrive qualcosa sotto il titolo. Gli rimane qualche secondo per parlare, non per mitigare ciò che è indifendibile, ma perché pensa di doverglielo. Tuttavia, quando la commessa gli restituisce il libro, Idris non riesce a mettere assieme le parole. In questo momento vorrebbe avere almeno una punta del coraggio di Timur. Torna a guardare Roshi che ha già rivolto la sua attenzione alla persona dietro di lui nella coda.

«Sono...»

«Dobbiamo far scorrere la fila, signore» dice la commessa.

China la testa e si scosta.

Ha lasciato la macchina nel parcheggio dietro la libreria. Il tratto di strada che deve percorrere per raggiungerla gli sembra il più lungo della sua vita. Apre la portiera, ma non sale subito. Con le mani che non hanno smesso di tremare, sfoglia il libro. Non è una firma. Sono due frasi che Roshi ha scritto in inglese.

Chiude il libro e anche gli occhi. Dovrebbe sentirsi sollevato. Ma una parte di lui desidererebbe qualcos’altro. Forse che lei gli avesse fatto le boccacce, gli avesse detto qualcosa di infantile, parole cariche di odio e di ribrezzo. Un’esplosione di rancore. Forse per lui sarebbe stato meglio. Invece è un congedo diplomatico, pulito, sintetizzato in una breve nota: Non preoccuparti. Non si parla di te. Un atto di cortesia. Forse, per essere più precisi, un atto di misericordia. Dovrebbe sentirsi sollevato. Ma fa male. Ne accusa il colpo, come quello di un’ascia che gli fende la testa.

Non lontano c’è una panchina, sotto un olmo. Idris si avvicina e vi lascia il libro. Ritorna alla macchina, si siede al volante e gli ci vuole un po’ prima di trovare la forza per girare la chiave e partire.