9
Si era bevuto il cervello.
Se la sua vita non fosse andata completamente a rotoli, Noah lo avrebbe trovato divertente.
Piantò l’ascia nel legno con più forza del necessario, il ciocco si spaccò in due e le schegge volarono ovunque. Le lasciò dov’erano, insieme alle precedenti, e riprese il lavoro. I muscoli gridavano vendetta, ma lui ignorò il dolore. Aveva bisogno di muoversi, di fare qualsiasi cosa lo potesse distrarre dalla pazzia che lo aveva preso da quando aveva aiutato quella bellissima donna a tornare a riva.
Quel mattino, entrando nella stalla, era stato risoluto a mandare via Elise DeVries, ad allontanarla dalla fattoria e da se stesso. Invece, chissà come, aveva finito per baciarla. E non solo. La desiderava con un’intensità che sfidava la ragione, e che gli faceva dimenticare il motivo per cui si era insinuata nella sua vita.
“Non so perché mi facciate questo effetto” le aveva confessato.
Era la verità, eppure ciò non gli impediva di continuare a desiderarla. Era come una dipendenza, qualcosa a cui non riusciva a resistere, nonostante sapesse che quella donna era pericolosa. Non si era mai trovato in una situazione del genere e la cosa lo turbava.
Persino in quel momento, pensando a lei, alle sue dolci curve, alla sua bocca, al modo in cui lo toccava esattamente come voleva essere toccato, Noah sentì il sangue scorrergli con forza nelle vene. Non era timida, non si vergognava e non si sentiva in colpa. Sapeva ciò che voleva, e anche questo era eccitante.
Per quanto si sforzasse di dimenticare le sue parole, gli tornavano in mente di continuo.
“Sono con voi, non contro di voi” gli aveva detto.
Non era vero. La sua sola presenza costituiva una minaccia a tutto ciò che lui aveva costruito.
Ma dentro di sé credeva realmente che il suo passato sarebbe rimasto sepolto per sempre? Che nessuno lo avrebbe mai riconosciuto? Fin da piccolo si era sentito dire che era l’immagine sputata del padre. Forse con il passare degli anni la somiglianza si era persino accentuata. Poteva considerarsi fortunato che nessuno lo avesse riconosciuto o avesse avuto dei dubbi sulla sua vera identità. Per quanto evitasse le stazioni di posta, dove era probabile incontrare persone che venivano da Londra, non poteva vivere da recluso, quindi il rischio era costante.
Quando aveva lasciato definitivamente la città, non aveva progetti per il futuro. Voleva soltanto sparire dalla circolazione, trasferirsi in un luogo da cui potesse tenere d’occhio Abigail senza farsi notare. Con il passare dei giorni, dei mesi e degli anni, Noah si era illuso di essere al sicuro.
Evidentemente si sbagliava. Forse era un bene che fosse stata Elise DeVries a trovarlo. Meglio lei che una guardia o un rappresentante della legge. Comunque non si sarebbe lasciato convincere a tornare a Londra, qualunque cosa lei gli avesse detto.
— Credete che l’inverno arriverà in anticipo? — domandò la signora Pritchard dall’angolo della casa, adocchiando la grande quantità di legna ammassata intorno a lui.
Noah prese un altro pezzo e lo posizionò sulla ceppaia. Il sudore gli colava negli occhi e la camicia si era appiccicata alla pelle.
— È un lavoro che va fatto, prima o poi — rispose senza guardare la governante. — Se lo faccio ora, la legna si asciugherà in fretta.
Tagliò il pezzo a metà e ne prese un altro, poi fissò la ceppaia sulla cui superficie erano visibili gli anelli concentrici, piccoli all’interno e via via sempre più grandi. Come i suoi pensieri, giravano in tondo e non portavano da nessuna parte.
— Ho una sorella — disse a un tratto, appoggiandosi al manico dell’ascia. Non sapeva perché lo avesse fatto. Forse perché Abigail era il suo unico rimpianto. Era strano sentirne ancora la mancanza dopo tanti anni. Forse, nominandola, l’aveva sentita più vicina.
— Ah, davvero? — domandò la signora Pritchard.
— Vive a Derby, insieme al marito e ai figli.
— Allora siete zio — commentò la governante sorridendo.
— Sì — rispose Noah, meravigliandosi di non avere mai pensato a se stesso in quella veste. Né si era mai chiesto che aspetto avessero i suoi nipoti e se fossero gentili e generosi come Abigail da piccola. Lo assalì di nuovo il senso di colpa. Aveva passato così tanto tempo a concentrarsi sulla propria vita che aveva dimenticato di preoccuparsi di quella della sorella. Gli era bastato sapere che stava bene. — Ha bisogno del mio aiuto. Mia sorella, intendo.
— Quando partite?
— Cosa vi fa pensare che lo farò?
— È vostra sorella — replicò la governante, aggrottando la fronte.
— Non la vedo da molto tempo.
— E con questo? — domandò la signora Pritchard. A Noah parve di sentir parlare Elise.
— Vuole che vada a Londra.
— Se siete preoccupato per la fattoria, potete stare tranquillo. Ci sono io, poi i due figli minori di Carter sono sempre in cerca di lavoro e si sono rivelati preziosi, l’anno scorso, durante il raccolto.
— Non è della fattoria che mi preoccupo — replicò Noah. Era l’ultimo dei suoi pensieri.
— Allora di cosa?
“Di tutto il resto.” Nulla che potesse rivelare alla signora Pritchard, che potesse fargli passare quel dannato senso di colpa che lo aveva afflitto da quando Elise aveva pronunciato le parole: “Abigail ha bisogno di voi”.
— È vostra sorella — ribadì la governante, facendolo sentire ancora più in colpa. — Fate tutto ciò che dovete. Il resto non ha importanza.
— Non è così semplice.
— No, ma solo se siete voi a complicare le cose.
Non era lui che voleva complicarle. Si erano complicate da sole, fin dalla notte in cui i suoi genitori lo avevano mandato via di casa. — Può darsi — concesse, pur di non discutere. Impugnò l’ascia e la alzò al di sopra della testa.
— Vostra sorella vi ha aiutato, quando e se ne avete avuto bisogno? — domandò la governante.
Mentre tagliava a metà un altro ciocco, a Noah tornò in mente la ragazzina determinata, con le treccine e il grembiulino, che aveva sempre preso le sue difese, almeno finché lui non era diventato grande abbastanza da poterlo fare da solo. In seguito aveva imparato da lei a difendersi persino giocando sporco, se necessario.
Allontanato con un calcio il pezzo di legno appena tagliato, conficcò l’ascia nella ceppaia.
— Questa cosa che riguarda vostra sorella — disse la signora Pritchard — ha qualcosa a che vedere con la signorina DeVries?
— Sì. No. Be’, in un certo senso — replicò Noah, asciugandosi il sudore con la manica. Se anche avesse voluto spiegarsi meglio, non avrebbe saputo da che parte cominciare.
— Forse sarebbe meglio che mi diceste cosa sta succedendo.
— Cosa intendete dire? — rispose Noah per guadagnare tempo.
— Credete che sia stupida, signor Lawson? — domandò la governante, ma senza acredine.
— No, certo che no.
— Sono al vostro servizio da dieci anni, e in tutto questo tempo non vi ho mai sentito parlare di una sorella né di vostra madre né di vostro padre e neppure della casa dove vivevate con i vostri genitori. Pensate che non me ne sia accorta? Che non mi sia posta qualche domanda?
— Non me ne avete mai fatte.
— Perché non davo importanza alla cosa, ma ora è diverso.
— È complicato.
— Sì, me lo avete già detto. Ho notato che evitate la signorina DeVries, ve ne state qui a spaccare la legna come un forsennato, rischiando un colpo apoplettico che non risolverà certo il vostro problema.
— Ho tentato di parlare con El... con la signorina DeVries — si corresse — ma non intende ragionare. — E lui non riusciva a staccarle le mani di dosso, e anche questo era irragionevole e inaccettabile. — Tornerà presto a Londra — disse. Da sola.
— Corre qualche pericolo? — domandò la signora Pritchard, incrociando le braccia sul petto. — Vostra sorella, intendo.
Noah scosse la testa. Se lo avesse temuto, sarebbe partito immediatamente, senza preoccuparsi delle eventuali conseguenze. — No, sta bene — rispose.
— E voi siete in pericolo?
— Perché me lo chiedete? Cosa ve lo fa pensare?
— La signorina DeVries mi ha chiesto se abbia notato qualcosa di strano, di recente — replicò la governante, palesemente preoccupata. — Se ho visto qualche sconosciuto aggirarsi nei dintorni o chiedere informazioni su di voi o su un altro Noah, oppure qualche forestiero in città che va facendo domande in giro.
— Quando ve lo ha chiesto?
— Stamattina, mentre preparava la marmellata.
— La marmellata? — Noah non sapeva se fossero più preoccupanti quelle domande, che oltretutto spaventavano la governante, o il fatto che Elise sembrava non avere alcuna intenzione di andarsene. — Dov’è adesso? — domandò.
— Non lo so — rispose la signora Pritchard con un’alzata di spalle. — Comunque si è messa di nuovo quegli orribili pantaloni che aveva lasciato ad asciugare nella sua stanza e se n’è andata.
— Dove?
— Non ne ho idea, signor Lawson — rispose la governante, accigliandosi. — Non sono stata io a regalarle una rosa la sera prima e a ignorarla il giorno dopo.
Noah entrò nella stalla, attese che i suoi occhi si abituassero all’oscurità, poi vide la sacca di Elise appoggiata in un angolo, dove l’aveva messa lui stesso. Ne fu sollevato e al tempo stesso seccato. La sella e i finimenti del cavallo erano al loro posto.
Dovunque fosse andata, non doveva essere lontano. Tornò a guardare la sacca, vide la tela cerata vuota e impietrì. Il fucile era sparito.
Dove diavolo poteva essersi cacciata?
Uscì dalla porta sul retro e si fermò a guardare i pascoli che digradavano verso il fiume. Intravide qualcosa muoversi in lontananza e un attimo dopo scorse un cane, il suo cane, che riconobbe dall’andatura zoppicante. Square alzò la testa, fiutò l’aria, abbaiò e scomparve tra gli alberi. Che ci faceva giù al fiume?
Forse Elise era lì. Che avesse deciso di andare a caccia, dopo avere munto le sue mucche e preparato la marmellata? Non c’era da stupirsi, ma la cosa doveva finire. Senza pensarci due volte, Noah si incamminò verso il fiume. Qualunque cosa quella donna stesse facendo, non poteva essere niente di buono. Doveva rimettersi a cavallo e tornarsene a Londra, non girovagare per la sua proprietà, facendogli perdere il lume della ragione.
Raggiunto il folto degli alberi, si fermò. Quel giorno c’era vento, le foglie e i rami dei faggi danzavano sopra la sua testa. Si inoltrò nel boschetto. A mano a mano che procedeva, il silenzio si faceva più profondo. Imboccò il sentiero dei cervi che si snodava tra gli alberi in direzione del fiume, ma di Elise non c’era traccia, e nemmeno di Square. Noah proseguì.
I raggi del sole non penetravano tra la fitta vegetazione e il boschetto era sempre più buio, ma per lui non era un problema. Andava lì spesso per avere un po’ di pace, un po’ di silenzio.
Quel giorno però c’era troppo silenzio. Un silenzio innaturale. Qualcosa non andava.
Noah estrasse dal fodero il coltello da caccia appeso alla cintura.
— Non dovreste essere qui da solo.
Si girò di scatto, brandendo istintivamente l’arma per difendersi.
Elise era a meno di cento metri. Guardò per un attimo il coltello, poi tornò a fissare lui. — Quello non vi servirebbe a nulla — disse — se il vostro aggressore avesse un fucile.
Era in camicia e pantaloni, come aveva detto la signora Pritchard. Sopra la camicia portava un’anonima giacca militare. Dal cinturone pendeva una serie di portacartucce. Si era raccolta i capelli e li aveva ficcati sotto un berretto malandato. Teneva il fucile appoggiato al braccio. Se non avesse riconosciuto la voce, Noah l’avrebbe scambiata per un giovane soldato. Era molto diversa dalla donna che quel mattino aveva munto le mucche, e dalla femmina che lo aveva guardato con desiderio e lo aveva baciato. Ora appariva distante e pericolosa.
— Da dove siete spuntata? — domandò Noah.
Elise indicò la grande quercia sopra le loro teste.
— Che cosa diavolo vi è saltato in mente? — chiese lui a denti stretti. — Chi credete di essere, Robin Hood?
— Sono qui in ricognizione — rispose lei.
— State scherzando, vero? — mormorò Noah, rifiutandosi di credere a quello che gli raccontava.
Elise non rispose subito. Lo fissò a lungo, poi replicò: — Avrei potuto tagliarvi la gola o spararvi. Dovreste essere più prudente.
Noah non nascose l’irritazione. — Primo: come ho già detto, sono perfettamente in grado di badare a me stesso. Secondo: smettetela di insinuare il contrario. A parte il fatto che spaventate la signora Pritchard, siete offensiva nei miei confronti. Se una simile accusa mi venisse rivolta da un uomo, non esiterei a sfidarlo a duello.
— Lo battereste sicuramente — disse Elise. — Comunque, non ho mai asserito che non siate in grado di difendervi.
— Siete sempre così arrogante?
— Preferisco definirmi “in gamba”. Per la cronaca, battersi a duello è da stupidi. Ci sono sempre dei testimoni, il terreno e le condizioni non sono sempre ottimali e quasi tutte le pistole sono inaffidabili. Esistono modi migliori per sistemare certe questioni. Se in futuro ne aveste la necessità, potrei suggerirvi altre opzioni. — Aveva parlato con una tale freddezza che Noah sentì un brivido corrergli lungo la schiena.
— Tipo cosa? Coltelli e catene? — replicò lui, nel tentativo di mascherare l’inquietudine. Non voleva pensare a quali altre opzioni si riferisse lei, e nemmeno a un ipotetico futuro in cui sarebbe stato necessario ricorrere davvero a coltelli e catene.
— Non è questo che avevo in mente — disse Elise. Fece una pausa e riprese: — Ve la cavate bene nelle risse di strada. — Non era una domanda, ma un’affermazione. Guardò di nuovo il coltello che Noah aveva in mano. — Quello è perfetto per un corpo a corpo. Scommetto che lo maneggiate molto bene.
Noah aprì la bocca per rispondere, ma non sapeva cosa dire. Non gradiva ricordare il sapore acido della paura, il sangue sulle mani e sulle braccia, la puzza metallica della morte. Uccidere non era mai piacevole, anche se equivaleva alla propria sopravvivenza.
— Basta così — disse, rinfoderando il coltello. Girò sui tacchi per riprendere il sentiero e tornare a casa. — Un’ultima cosa — riprese, sbirciando Elise al di sopra della spalla. — State alla larga dalla mia cucina. — Spinse via un ramo e rimase fermo, sicuro che la risposta non si sarebbe fatta attendere.
Invece non venne. Noah udì soltanto lo squittio di uno scoiattolo e il verso di un uccello. Si girò e... non vide nessuno, come se Elise fosse svanita nel nulla. Guardò in alto, verso i rami della quercia, ma non c’era niente che si muovesse, a parte qualche foglia.
— Elise — la chiamò. Si sentiva stupido ed era risentito.
— Starò alla larga dalla cucina, a patto che voi stiate lontano da questo bosco. Al momento non è un posto sicuro.
Noah ribolliva di rabbia. Si girò e la vide sul sentiero davanti a sé. Come aveva fatto ad arrivarci prima di lui? — Maledizione! — esplose. — La finite di comparirmi davanti all’improvviso?
— Meglio io di qualcun altro. Voglio solamente accertarmi che non torniate a Londra dentro una cassa di legno, nel qual caso non sareste utile né a me né a vostra sorella.
Noah alzò le mani in segno di resa.
— Vostro cugino ha assoldato...
— Mio cugino non riuscirebbe a trovare neanche un domestico, figurarsi un sicario — la interruppe Noah.
— Come fate a saperlo? Quando è stata l’ultima volta che avete parlato con lui? Prima o dopo che, diventato adulto, sperperasse denaro giocando d’azzardo? Prima o dopo che si indebitasse con gente che ha buona memoria e poca pazienza?
Che Francis avesse perso un mucchio di soldi al gioco non lo stupì. Il cugino non aveva mai brillato per intelligenza, e compensava la mancanza di cervello con la mancanza di scrupoli. Era così crudele da divertirsi a strappare le ali alle farfalle e a cavare gli occhi alle rane, ma Noah stentava a credere che potesse... Scrollò il capo. — No — disse. — Francis è cattivo, ma...
— Non è più un bambino — osservò Elise. — Ora è disperato e le persone disperate sono pericolose.
— Chi è stato a dirvi che mio cugino ha ingaggiato qualcuno per uccidermi?
— Non ha importanza.
— Lo supponevo.
— State insinuando che me lo sia inventato? — domandò Elise, facendosi paonazza.
— Li avete visti con i vostri occhi?
— Chi?
— Gli assassini che mi starebbero dando la caccia.
— No.
— Conoscete i loro nomi?
— No, ma...
— Quindi non ne avete le prove.
— Vi sbagliate. Ho qui, davanti ai miei occhi, il futuro duca di Ashland...
— Io. Non. Voglio. Quel. Titolo — tagliò corto Noah, scandendo con rabbia le parole.
— Vostra Grazia, a me non importa un accidente se preferite vivere come un campagnolo — sbottò Elise — ma non vorrei che vi faceste uccidere per questo. Mi importa di vostra sorella e di vostra madre, che hanno bisogno di aiuto. È mio dovere darglielo, in un modo o nell’altro.
Il senso di colpa, tenuto a bada per tanto tempo, sollecitato dal ricordo della paura e della morte, tornò a galla e sfociò in collera. — Se pensassi che Abigail fosse in pericolo — disse — nulla al mondo mi impedirebbe di correre da lei, ma non è così.
— Non si può dire la stessa cosa di vostra madre.
Noah si girò dall’altra parte, con i muscoli tesi e una sensazione di gelo nelle ossa. Sapeva che era sbagliato provare un tale odio per qualcuno, a distanza di tanti anni. Un uomo migliore di lui avrebbe perdonato la madre per il tradimento e l’abbandono, ma lui non ci riusciva. — Non sono affari miei — replicò.
— Non siete il tipo d’uomo indifferente alle sofferenze altrui — disse Elise, alzando la voce.
— E voi che ne sapete?
— Vi conosco abbastanza per capire che non lascereste mai vostra madre al Bedlam.
— È esattamente dove mi ha lasciato lei quando ero piccolo.
Seguì un silenzio di tomba. Noah strinse i pugni, ma stranamente non rimpianse quella confessione. Al contrario, provava un senso di sollievo. Chissà perché si era aperto con quella donna. Non ne aveva mai parlato con nessuno, neppure con John Barr. Forse glielo aveva detto perché lei conosceva già molti suoi segreti. La rivelazione era come una crepa in una diga, una fessura attraverso la quale si era insinuato un sottile filo di verità che era finito con l’emergere, lasciandolo esposto. Oppure era stato il bisogno inconfessato di rivelare la sua vera natura a un altro essere umano. Qualunque fosse la ragione che lo aveva indotto a svelare il segreto, non si pentì di averlo fatto.
Elise non aveva fatto alcun commento. Noah la fissò e non lesse nulla nel suo sguardo, né orrore né disgusto né stupore.
— Lo sapevate già? — domandò.
— Sì — ammise lei.
— Ve l’ha detto Abigail?
— No, lei non lo sa.
— Grazie a Dio.
— Nessuno sa dove vi siete rifugiato. Sanno soltanto che siete sparito quando eravate piccolo, e fino a non molto tempo fa vi credevano morto.
— C’è mancato poco, in quel luogo orrendo. Ho rischiato di morire più di una volta, o di impazzire. In certi momenti lo desideravo. Pregavo che accadesse.
Elise appoggiò il fucile al tronco di un albero e si avvicinò. — Per fortuna non è successo — disse, mettendogli una mano sul cuore. Batteva forte.
— Cosa? Morire o impazzire?
— Be’, che non siate morto mi pare ovvio. Quanto alla seconda possibilità, voi che ne dite?
— Non sono pazzo.
— Bene. Anche questo punto lo abbiamo chiarito.
Elise allungò l’altra mano e gliela appoggiò sul petto. Il calore delle sue dita sciolse il gelo che gli era penetrato nelle ossa. Noah dovette sforzarsi per non prenderla tra le braccia e affondare il viso nel suo collo. Lo avrebbe aiutato a scacciare i fantasmi.
Da quando era diventato così debole? Da quando aveva bisogno di una donna per trovare il coraggio di andare avanti? Di una donna come lei, per giunta, che lo aveva cercato per uno scopo ben preciso. — Non voglio essere compatito — disse, per recuperare la propria dignità. Per non cascarci di nuovo, doveva ignorare le pulsioni del suo corpo. Era l’unico modo per mantenere la lucidità mentale.
— Lo so — rispose Elise, prendendogli il volto tra le mani.
Noah non se lo aspettava. La guardò. La sua espressione era intensa, quasi volesse leggergli nell’anima.
— Al momento ce l’ho con voi — gli confessò Elise, ma con il sorriso sulle labbra. — Perché rendete difficile il mio lavoro e non siamo ancora sulla strada per Londra. — Fece una breve pausa. — Ma non arriverò mai a compatirvi. Un sopravvissuto merita rispetto, non pietà.
Le sue parole gli toccarono il cuore. Noah si rese conto di desiderare il rispetto di quella donna più di quanto la desiderasse fisicamente. La stima era molto più importante di tutto il resto.
— Non posso tornare — replicò, sperando che lei finalmente lo capisse.
Elise non insistette. — Perché? — chiese soltanto.
— Io ho... ucciso un uomo.
— Ah — mormorò lei senza battere ciglio. Noah avrebbe dovuto immaginarlo. La conosceva abbastanza per sapere che non si sarebbe scomposta. — Raccontatemi come sono andate le cose.
Noah non cedette alla tentazione di baciarla, come avrebbe voluto fare. Sarebbe stato un ottimo pretesto per chiudere il discorso.
— Sono rimasto al Bedlam cinque anni — disse, sforzandosi di parlare senza lasciarsi trascinare dall’emozione. — Dai dieci anni fino ai quindici. Mio padre disse agli uomini che vennero a prendermi che ero il figlio del giardiniere e diede loro un nome falso. Forse per evitare di disonorare la famiglia, in attesa che recuperassi l’uso della parola.
— Che cosa capitò quando avevate quindici anni?
— Siamo fuggiti.
— Non eravate solo?
— C’era un altro ragazzo con me. Avevamo la stessa età, ma lui era arrivato al Bedlam prima di me. Si chiamava Joshua. A volte ci legavano alla stessa catena. Faceva parte della terapia, ci dicevano i medici e gli inservienti, anche se Joshua non aveva problemi di linguaggio. La notte della fuga eravamo incatenati insieme. Uno degli inservienti aveva un debole per Joshua. Lo violentava spesso. Voleva farlo anche quella volta, benché fossimo legati insieme. O forse proprio perché eravamo legati insieme. Pretese che li guardassi. Diceva che forse avrei imparato qualcosa, prima che venisse il mio turno. Il mio turno non venne, per fortuna. — Fece una pausa e riprese: — Insieme alle chiavi, quel bastardo aveva un coltello legato alla cintura. Approfittai di un suo momento di distrazione e fui più veloce di lui. — Chinò la testa. — Non me ne sono mai pentito. Lo rifarei mille volte.
Elise lo osservava in silenzio. La sua espressione era imperscrutabile.
— Dopo la fuga, ho vissuto per le strade di Londra per tre anni. Ho incontrato altra gentaglia come quel tipo, gente che non avrebbe esitato a sgozzarmi per rubarmi i vestiti che avevo addosso. Me la sono sempre cavata perché ero più svelto di loro.
Seguì un lungo silenzio, rotto soltanto dallo stormire delle foglie.
— Non sarò utile ad Abigail se verrò arrestato non appena metterò piede a Londra — osservò Noah.
Elise fece un cenno d’assenso.
— Avanti, dite qualcosa — la sollecitò lui.
— Perché non volete far sapere a vostra sorella ciò che vi è successo da piccolo?
“Che razza di domanda” pensò Noah. Si aspettava qualcosa di diverso, di sentirsi dire che, uccidendo per difendere se stesso e l’amico, aveva fatto la cosa giusta. Sarebbe servito ad alleggerire il suo senso di colpa. Joshua glielo aveva ripetuto un’infinità di volte, dopo la loro fuga dal Bedlam.
— Ritenete che Abigail non sia abbastanza forte da reggere una notizia del genere?
— Mia sorella è una delle persone più forti che conosca — rispose Noah.
— Allora perché non glielo dite?
— Perché non voglio che sappia ciò che ho fatto, ciò che sono diventato. — Era un peso che doveva portare da solo, senza coinvolgere Abigail.
— Siete diventato ciò che eravate destinato a diventare — disse Elise. — Tutti i guai, i fallimenti che vi sono capitati, così come le gioie e i successi, vi hanno reso l’uomo che ho di fronte. Non potete nasconderlo per sempre.
— Sì, ma...
— È questo il motivo per cui avete evitato di vedere vostra sorella e vi siete rifugiato a Nottingham?
— Sì.
— I vostri genitori vi hanno abbandonato quando avevate appena dieci anni — disse Elise — perché, sbagliando, non vi consideravano normale. Secondo loro, non eravate all’altezza di ereditare il ducato, con tutte le responsabilità che il titolo comporta. Non permettete a Noah Lawson di commettere lo stesso errore. Venite a Londra con me. Vostra sorella ha il diritto di conoscere l’uomo che siete diventato.
— Non avete sentito quello che ho detto? Mi arresteranno.
— No, non accadrà. L’orgoglio dei vostri genitori, o la loro disperazione, o entrambe le cose, hanno fatto sì che nessun paziente di nome Noah Ellery sia mai stato ricoverato al Bedlam. Tutti credono che voi siate morto. E il vecchio manicomio, com’era concepito un tempo, non esiste più, molti registri sono andati perduti. Se volete tornare a Londra come duca di Ashland, posso suggerirvi una spiegazione plausibile per giustificare la vostra lunga assenza. Vi fornirò anche le prove e i documenti necessari per dimostrare chi siete veramente.
Noah la guardò in silenzio.
— La Chegarre e Associati ha risorse inimmaginabili, Vostra Grazia. Vi consiglio di approfittarne.
Noah strinse i pugni. La conversazione aveva assunto una piega surreale. — Le rivelazioni che vi ho fatto non vi hanno sconvolto? — domandò. — Il fatto che sia un assassino non è per voi motivo di turbamento?
Per la prima volta Elise distolse lo sguardo. Un’ombra velò i suoi occhi, solo per un attimo. — No — rispose.
— Perché lo negate?
— Perché so che ciò che avete dovuto fare non corrisponde a ciò che siete.
Era rigida e impettita, e Noah si rese conto che l’uniforme che indossava non era semplicemente un modo per camuffarsi. L’ombra che le aveva velato lo sguardo non era simulata. La donna soldato che aveva di fronte era parte di lei. — Voi sapete cosa significa uccidere, vero?
— Sì — rispose Elise con un filo di voce.
— Eravate un tiratore scelto? — Noah aveva sentito dire che molte donne avevano seguito i loro uomini a Waterloo e avevano combattuto al loro fianco. Poteva essere accaduta la stessa cosa nelle colonie.
— No, un ricognitore. Avevo il compito di localizzare le truppe americane e riferirne il numero e gli spostamenti. — Si guardava attorno mentre parlava e Noah ripensò a poco prima, quando gli era comparsa davanti all’improvviso. — Anch’io, come voi, dovevo fare del mio meglio per veder sorgere una nuova alba, giorno dopo giorno.
Noah non l’aveva mai vista così pallida. Nella sua voce c’era lo stesso sconforto, la stessa disperazione che lui conosceva fin troppo bene. Anche lei si era trovata in situazioni in cui bisognava scegliere se uccidere o essere uccisi.
Si avvicinò, le prese il volto fra le mani e, senza riflettere su ciò che stava per fare, la baciò.
Fu un bacio breve, delicato, un modo per contraccambiare ciò che lei gli aveva dato. Comprensione, forza, empatia. Sentì i suoi muscoli rilassarsi e la strinse a sé. Elise si lasciò abbracciare.
— Perché lo avete fatto? — domandò.
— Perché stavate pensando al passato.
— Sembrate mio fratello.
— Dev’essere un tipo in gamba.
— Sì, a volte.
— Perché siete andata in guerra?
— E voi perché siete venuto a Nottingham?
— Perché non volevo allontanarmi troppo da Abigail. Avevo bisogno di sapere che stava bene.
— E io non volevo... non potevo staccarmi dai miei fratelli — disse Elise, sciogliendosi dall’abbraccio. — Erano tutto il mio mondo. Questo Baker — continuò, accarezzando la canna del fucile — apparteneva a mio fratello Jonathon, il maggiore. Devo dire che ero più brava di lui. Non poteva negarlo: grazie a me, avevamo sempre grandi provviste di carne di cervo.
— Vi manca molto, vero?
— Tutti i giorni — rispose Elise guardandolo. — Come a voi manca vostra sorella. — Potergli parlare, poterlo toccare... Tacque di colpo e rimase perfettamente immobile.
Noah sentì Square abbaiare in lontananza.
— Abbaia sempre in questo modo? — domandò Elise, imbracciando il fucile.
— Quando abbiamo visite — rispose Noah, sul chi vive. Di solito non era così nervoso. Per colpa di Elise ora vedeva pericoli dappertutto.
Lei non perse tempo e Noah la seguì tra gli alberi. Elise si fermò di colpo al limitare del bosco e per poco lui non la urtò. Guardò al di sopra della sua spalla, vide un carro fermo davanti a casa e si sentì ridicolo. Sarah Barr saltò giù, aiutata dal marito. Square li accolse saltellando festoso e John lo ricompensò con una carezza.
— Sono John e Sarah — disse Noah, guardando la moglie dell’amico che prendeva un fagottino verde dal carro e si incamminava verso la casa, dopo avere salutato con un cenno della mano la signora Pritchard, che aveva aperto la porta.
— È molto carina — osservò Elise.
Noah si accorse in quel momento che Sarah era vestita a festa. Indossava un abito celeste. Anche John era più elegante del solito, con i pantaloni in ordine e una giacca che non gli aveva mai visto.
— Accidenti! — esclamò Noah, passandosi una mano tra i capelli.
— Che succede? — domandò Elise, preoccupata.
— Sono venuti a prenderci per il picnic.
Lei non capiva.
— Quello a cui vi hanno invitata come ospite d’onore il giorno che avete salvato Andrew nel fiume.
— Ah, me n’ero dimenticata.
— Verrete?
Lei esitò. — È proprio necessario che partecipiate?
— Perché non dovrei farlo?
— Potrebbe essere rischioso. Ci sarà molta gente e tanta confusione.
— Sono tutte persone che abitano nei dintorni — replicò Noah con un gesto d’impazienza. — Buoni amici e vicini. A ogni modo, se non volete venire, troverò una scusa per voi.
— No. Se ci andate voi, dovrò farlo anch’io — disse Elise.
— “Dovete”? — domandò Noah, inarcando un sopracciglio.
— Sì.
— Come mia guardia del corpo?
— Se è così che vi piace definirmi, va bene.
— Oh, santo cielo! — proruppe Noah. — Ne abbiamo già parlato. Se anche fosse vero che dei sicari sono sulle mie tracce, non occorre che mi stiate sempre alle calcagna.
— Non vi sto alle calcagna. Non vi accorgerete nemmeno della mia presenza. Sarò il Robin Hood della situazione.
— Che assurdità — commentò Noah. — Conosco quelle persone. Sono tutti amici. Non ci saranno sicari al picnic — concluse in tono sarcastico.
— Non vi lascerò solo — insistette Elise.
Noah avrebbe voluto risponderle male, ma quelle parole gli avevano scaldato il cuore. Ebbe di nuovo voglia di baciarla. — Bene, allora parteciperete al picnic insieme a me, come una persona normale e non una specie di fantasma. Sarete una gradita ospite di Sarah e non porterete con voi il fucile.
— Va tutto bene, tranne la parte che riguarda il fucile — replicò Elise, irremovibile.
— State scherzando, vero?
— No di certo. Devo fare in modo che siate al sicuro.
— Spiegatemi come intendete procedere. Terrete il fucile puntato su ogni singola persona finché non vi farò un cenno per segnalarvi che è un amico?
— Sì, se sarà necessario.
— Non serve un maledetto fucile a uno stupido picnic.
— D’accordo. Lo nasconderò nel carro per farvi contento.
— Non lo sono affatto. Questa faccenda è a dir poco ridicola.
— Non mi va di discutere con voi — ribatté Elise, risentita. — Vorrei che vi fidaste di me.
— Siete la depositaria dei miei segreti. Sapete più cose voi sul mio conto di chiunque altro, quindi devo fidarmi per forza.
— Vi sono grata che abbiate avuto fiducia in me, e non la tradirò mai, ma se vi fidaste completamente di me non saremmo qui a discuterne.
Lui non resse il suo sguardo. Girò la testa dall’altra parte.
— C’è qualcuno che vi vuole bene, Noah. Non solo per le vostre potenzialità, ma soprattutto per la persona che siete. C’è qualcuno che vi ama e ha bisogno di voi. Vostra sorella crede in voi, come ha sempre fatto. Penso che lo sappiate.
A Noah non importava nulla di Francis, dei suoi debiti e delle sue mire, ma non sopportava l’idea che avesse trascinato Abigail nelle sue losche faccende. Elise non aveva torto. Sua sorella aveva più che mai bisogno di lui, aveva bisogno di sapere che non era sola. Quanto alla madre... Chiuse gli occhi. Ogni volta che era tentato di perdonarla, gli tornava in mente quella tenda abbassata mentre lo portavano via dalla sua casa.
A un tratto sentì le labbra di Elise posarsi sulle sue. Aprì gli occhi. — Non continuate a rimuginare su ciò che è stato, Noah Ellery. Anch’io credo in voi. Quando lo capirete, vi fiderete di me.
Noah sentì riaccendersi nel cuore una fiammella di speranza. Finalmente un po’ di luce in quel buco nero che era il suo passato.