4
Appoggiato al carro, Noah Lawson osservava, senza darlo a vedere, la donna che diceva di chiamarsi Elise DeVries.
Viaggiava sul carro con John e Sarah. Giunti all’altezza del ponte, avevano udito un grido seguito da un tonfo. Quasi non credendo ai suoi occhi, Noah aveva visto un giovane saltare giù da cavallo, salire sul parapetto e tuffarsi nel fiume senza pensarci su due volte.
Poi aveva scoperto che non si trattava di un ragazzo, ma di una donna. Lo aveva capito non appena era entrato in acqua per aiutarla, mentre lei lottava contro la corrente sotto il peso del ragazzino. In un primo momento si era irrigidita, poi si era lasciata aiutare. Noah non ricordava bene cosa fosse successo dopo, quando l’aveva portata a riva.
Mentre si lasciava andare sull’erba, aveva detto qualcosa di spiritoso. Gli abiti bagnati le si erano appiccicati addosso, non lasciando nulla all’immaginazione. Aveva delle curve incredibili che veniva voglia di toccare, seni prosperosi che la camicia non poteva nascondere, fianchi generosi, un bel sedere e gambe lunghe che Noah aveva subito immaginato avvinghiate ai propri fianchi. La sua reazione era stata imbarazzante, perciò era rimasto a lungo accosciato nell’erba. Gli ci era voluto qualche minuto per riuscire a controllarsi, visto che con i calzoni bagnati era quasi impossibile nascondere l’eccitazione.
Si era imposto di guardarla in faccia e di distrarsi pensando ad altro.
Poi lei si era alzata a sedere e gli aveva sorriso, vanificando i suoi sforzi. Noah si era eccitato di nuovo, più di prima, e dimenticando l’abituale prudenza le aveva parlato come se la conoscesse da una vita senza sentirsi a disagio.
Forse era questo aspetto che lo inquietava di più, considerando che ignorava chi lei fosse e da dove venisse. Avrebbe dovuto stare in guardia, scappare via a gambe levate, invece aveva cercato dei pretesti per starle accanto il più a lungo possibile.
Forse in lei aveva rivisto se stesso com’era molti anni prima. Chi si traveste ha un motivo per farlo. Se non c’è una ragione, non si reagisce come un animale spaventato a morte. Lui lo sapeva per esperienza, perciò voleva rassicurarla, aiutarla, conoscerla meglio.
Anche perché la giovane donna aveva salvato la vita al figlio di un amico fraterno.
Passata la paura, dopo essersi accertato che Andrew stava bene, John avrebbe sicuramente dato una lezione al ragazzino. Sarah, la moglie, non si era più staccata dal figlio, e l’espressione di Andrew cambiava di continuo: dallo stupore per l’attenzione che aveva attirato su di sé passava all’imbarazzo e infine alla paura della reazione del padre, che non gliel’avrebbe fatta passare liscia.
Quanto alla signorina DeVries, rispondeva con il sorriso sulle labbra alle domande che le facevano le persone giunte sul posto. Soddisfatta la curiosità, il gruppo si era andato via via assottigliando, ma l’argomento sarebbe stato ripreso più tardi con i commenti di rito.
All’inizio Noah aveva cercato di proteggerla, rispondendo per lei alle domande più sfacciate, ma Elise lo aveva bloccato dicendogli che poteva cavarsela da sola. Lo aveva fatto, ma ora il suo sorriso era più tirato e Noah capì che era stanca. L’aveva vista arrancare su per la riva del fiume. A quel punto doveva essere esausta.
Quasi gli leggesse nel pensiero, Elise si girò verso di lui e si avvicinò. Non tanto a lui, quanto al suo baio, ora saldamente legato al carro.
— Sapreste indicarmi una locanda? — gli domandò con un debole sorriso. — Possibilmente con una buona stalla e una birra bevibile, e magari anche la possibilità di fare un bagno caldo.
Noah aggrottò la fronte. Dopo tutto quello che era successo, gli sembrava irragionevole lasciarla andare per la sua strada. Non se la sentiva. Lo trovava ingiusto e, più che altro, desiderava conoscerla meglio. Lo desiderava in modo preoccupante. — Questa notte dormirete con me — rispose.
Elise alzò la testa di scatto, spaventando il cavallo. — Come, prego?
Noah si rese conto di essersi espresso male. — Dormirete da me — si corresse. — A casa mia c’è la tinozza per fare il bagno.
Elise si tranquillizzò e Noah si accorse di essere arrossito. A volte gli capitava di dire le cose sbagliate senza volerlo. Era seccante.
— Volevo semplicemente dire che posso offrirvi ospitalità per questa notte. Ho una buona stalla per il vostro cavallo, la tinozza per fare il bagno e ci sarà sicuramente qualcosa da mangiare a cena.
— Mmh — mormorò Elise, perplessa.
— Ho anche una governante — si affrettò a precisare Noah — che se la cava bene in cucina. — Aveva il terrore che lei rifiutasse, e le parole gli uscirono dalla bocca in modo confuso. — Per favore — disse. — È il minimo che possa fare.
— Vi ringrazio — rispose Elise, scuotendo la testa — ma devo andare...
— Eccovi, finalmente — disse John, avvicinandosi con Sarah.
La donna, più pallida del solito, si avvicinò a Elise e le prese le mani tra le sue. — Siete il nostro angelo custode — mormorò. — Abbiamo un debito di riconoscenza che non potremo mai saldare.
Elise annuì. — Grazie — replicò. — L’importante è che sia finito tutto bene.
— Sono io a dovervi ringraziare — ribatté Sarah. — Se c’è qualcosa che possiamo fare per voi, qualsiasi cosa, non dovete fare altro che chiedere.
— Siete molto gentile, ma l’unica cosa che mi occorre è un’indicazione per trovare una locanda...
— Non sia mai! — la interruppe Sarah. — Non vi lasceremo soggiornare in un buco di locanda infestata dalle pulci. Starete da noi.
— Può stare con me e con la signora Pritchard — intervenne Noah. — Gliel’ho già proposto.
John e Sarah lo fissarono, e Noah ne evitò lo sguardo. Sapeva perfettamente ciò che stavano pensando. Conoscevano bene la sua diffidenza nei confronti degli estranei.
— Avete sei figli — disse — uno dei quali ha particolarmente bisogno di avervi vicino, questa sera. Non avete letti vuoti, io invece ho tutto lo spazio che occorre. La signora Pritchard sarà felice di avere un’ospite per cui cucinare, oltre a me. — Noah era certo che l’amico e la moglie non avrebbero trovato nulla da obiettare a quella logica.
Elise scosse di nuovo la testa. — Siete molto gentili, signori... Scusate, non so come chiamarvi...
— Non vi siete ancora presentati? — domandò Noah, incredulo.
— Poco fa mi avete detto di essere il padre del ragazzino caduto nel fiume — osservò Elise.
— Vi chiedo scusa. Io sono John Barr e lei è Sarah, mia moglie. — Guardò Noah, riportò lo sguardo su Elise e riprese: — Vi consiglio di accettare la proposta del signor Lawson.
Elise parve titubante, poi sorrise e disse: — Bene, allora accetto, signor Lawson. Grazie.
Per un attimo Noah si chiese che cosa le avesse fatto cambiare idea, poi pensò che non era importante. L’idea di avere quella donna sotto il suo stesso tetto era così eccitante da impedirgli di riflettere.
— Magnifico! — esclamò Sarah, spostando lo sguardo da Elise a Noah e viceversa. — Allora domani sera dovrete assolutamente partecipare al ballo che si tiene ogni estate a Nottingham. Lo definiamo “ballo”, in realtà è un picnic che si conclude con le danze. Sarete nostra gradita ospite.
— Mi farebbe molto piacere — rispose Elise — ma...
— Ditemi di “sì”, vi prego — insistette Sarah, prendendole di nuovo la mano. — Per noi sarebbe un grande onore.
Elise esitava. — Verrò con piacere — fece alla fine.
Noah ne fu felice.
— Grazie — mormorò Sarah, stringendole forte la mano. Sorrise, tornò dal figlio, lo prese di nuovo tra le braccia e gli stampò un bacio sulla fronte.
— Venite — disse Noah a Elise. — Lasciate il cavallo legato al carro e salite davanti con me.
— Sì — rispose lei semplicemente. Forse era troppo stanca per discutere. — Lieta di avervi conosciuto, signor Barr.
— Piacere mio — rispose John. — Non vedo l’ora di rivedervi in circostanze migliori.
Mentre Elise girava intorno al carro, John afferrò Noah per un braccio.
— Dobbiamo parlare.
— Che c’è? — domandò lui, girandosi verso l’amico.
— Cosa ti è saltato in mente?
— Che intendi dire?
— Chi è questa signorina DeVries? — chiese John sottovoce.
— Dove vuoi arrivare?
— Perché ti sei offerto di ospitarla?
— Perché ha bisogno di un posto dove passare la notte e perché ha salvato la vita a tuo figlio. — Rendendosi conto di essersi messo sulla difensiva, aggiunse: — Dovresti baciare la terra su cui cammina.
— È vero — convenne John, alzando una mano in un gesto conciliante. — Forse lo farò. Non potrò mai ringraziarla abbastanza, solo che... — Fece una pausa. — Ti conosco da tanto tempo e non ti ho mai visto così ben disposto nei confronti di una persona appena conosciuta.
Noah capì subito dove quel discorso andava a parare. John sapeva che lui si teneva alla larga dalle locande con stazione di posta e dalle taverne dove era facile incontrare gente proveniente da Londra e dalle zone circostanti. Non gli aveva mai chiesto spiegazioni, ma gli era chiaro che, qualunque cosa nascondesse il passato di Noah, era meglio lasciarla dove stava.
Erano trascorsi quindici anni. Quindici anni da quando Noah Ellery aveva cessato di esistere. Quindici anni da quando si era ricostruito la vita con il nome di Noah Lawson.
All’inizio, girando per le strade di Londra, era terrorizzato dagli uomini in palandrana nera, armati di corde e catene, che avrebbero potuto riportarlo nella gabbia da cui era fuggito. Era convinto che tutti gli sconosciuti che incontrava fossero guardie, incaricate da qualcuno di dargli la caccia e arrestarlo. Non era mai successo. In seguito, quando aveva lasciato la città, con il trascorrere del tempo gli era passata anche la paura. Nessuno aveva cercato l’uomo il cui nome un tempo era Noah Ellery. La possibilità che Elise DeVries fosse venuta a Nottingham per stanarlo era così remota che non valeva nemmeno la pena di prenderla in considerazione.
— Mi piace — disse. Quelle parole suonarono strane alle sue stesse orecchie. — Lei è diversa. Non so come spiegarlo.
John lo guardò a lungo in silenzio, quasi cercasse di decidere se la donna in attesa davanti al carro fosse più buffa o più enigmatica. — Piace anche a me, ma non sappiamo niente di lei. Ho paura che ti abbia stregato.
“So che è gentile, simpatica e coraggiosa” pensò lui. “E forse mi ha davvero stregato.”
Elise lo stava guardando.
Noah sentiva gli occhi di lei su di sé mentre portava il cavallo al piccolo trotto verso casa. Non parlava, ma non era un silenzio imbarazzante. Erano sempre gli altri a sentirsi in dovere di riempire i silenzi o ad aspettarsi che lo facesse lui. Elise invece taceva. Un chilometro dopo, la situazione era la stessa.
Dopo un altro chilometro, nulla era cambiato.
— Ho dei fili d’erba tra i capelli? — domandò Noah. Strano che fosse stato lui a parlare per primo.
— No — rispose Elise. Se era imbarazzata per essere stata sorpresa a fissarlo, non lo diede a vedere.
— Forse sui denti?
— No.
— Avete freddo?
Elise non rispose. Noah distolse gli occhi dalla strada, si voltò a guardarla e la vide mordersi il labbro. — No, sto bene così, grazie — disse lei, indicando la camicia che lui le aveva prestato.
Noah annuì e tornò a concentrarsi sulla strada. Vedere Elise con la sua camicia addosso gli dava un’emozione mai sperimentata. Non gli era successo prima, quando erano con gli altri, ma ora che erano soli provava un curioso senso di possesso e di protezione. Ripensò alle sensazioni che lo avevano travolto quando l’aveva toccata per aiutarla a infilarsi la camicia.
Pensò anche a come sarebbe stato togliergliela, sfilarle anche gli indumenti bagnati sotto la camicia e accarezzarle la pelle nuda.
— Dovreste togliervi gli stivali — disse Elise.
— Come avete detto? — domandò Noah con un certo imbarazzo, come se avesse scritti in fronte i pensieri licenziosi che gli attraversavano la mente.
— I vostri stivali sono fradici — replicò Elise. — Se non ve li togliete adesso, poi non ci riuscirete.
Noah tirò un sospiro di sollievo, ma non se li tolse. Si era fatto prestare una camicia, un po’ troppo stretta per lui, per evitare a Elise l’imbarazzo di avere al fianco un uomo a torso nudo. — Me li toglierò quando saremo a casa — disse.
— Come volete — mormorò Elise. — Grazie — aggiunse inaspettatamente.
— Per non essermi tolto gli indumenti? — domandò. Si era sbagliato, avrebbe voluto dire “gli stivali”. Arrossì di vergogna e si preparò mentalmente a ricevere una lavata di capo.
Elise rise.
Noah la guardò.
— A mio parere, signor Lawson — disse — la maggior parte delle donne che ci stavano attorno sarebbe stata ben felice di vedervi a torso nudo.
Noah avvampò in viso. Girò la testa dall’altra parte. Non sapeva cosa rispondere.
— Siete un uomo molto attraente, signor Lawson — continuò Elise in tono divertito. — Una vera signora non lo direbbe mai, ma secondo me tacere la verità è perfettamente inutile.
Noah non sapeva come comportarsi con una donna come lei che, invece di riprenderlo per la gaffe, gli aveva fatto un complimento. — Grazie — mormorò.
— Prego — rispose Elise, sorridendo.
— Ma voi siete una vera signora — osservò Noah.
— Molto gentile da parte vostra. Una signora con i pantaloni, bagnati per giunta.
Per un attimo Noah si sentì mancare il respiro. Dio, com’era bella. Nonostante i capelli bagnati e la macchia di fango sulla fronte, era la donna più affascinante che avesse mai visto.
— Vi ho messo in imbarazzo? — domandò Elise.
— No.
Elise gli lanciò un’occhiata maliziosa.
— Sì, un po’, forse — confessò Noah.
— Non posso scusarmi per avere detto la verità — replicò Elise. Noah le restituì il sorriso. L’allegria di Elise era contagiosa.
— Comunque vi ringrazio per l’aiuto che mi avete dato entrando in acqua — continuò lei.
Ripensandoci, lo stesso Noah stentava a credere di averlo fatto. Odiava il fiume e la sua acqua nera e fredda, ma non aveva esitato un attimo quando aveva visto Andrew lottare contro la corrente. In quel momento erano riaffiorati vecchi ricordi legati a momenti bui della sua vita. — Prego — rispose lui, non trovando nulla di meglio da dire.
Elise fece un cenno d’assenso e si portò dietro l’orecchio un ricciolo ribelle.
— Venite da Londra? — domandò Noah, tanto per dire qualcosa e non sembrare un idiota.
— Sì. È stato bello lasciare la città. In certi giorni il caldo è così soffocante da far stramazzare un cavallo.
Noah non commentò, ma temette di nuovo, con il suo silenzio, di fare la figura del cretino.
— Ci siete mai stato? — domandò Elise, staccandosi distrattamente dalla pelle delle gambe il tessuto bagnato. — D’estate, intendo.
A Noah vennero i brividi, pensando a Londra d’estate. Ma anche a Londra d’inverno e così pure nelle stagioni intermedie.
— No — rispose.
— Be’ — replicò Elise, agitando le braccia, forse sperando di asciugarsi più in fretta — non avete perso nulla.
A Noah, che la sbirciava con la coda dell’occhio, sembrò una cicogna che sbatteva le ali prima di prendere il volo e si sorprese a sorridere, nonostante i brutti ricordi.
— State di nuovo ridendo di me — lo accusò Elise.
— Sì — ammise lui.
— Se non altro siete sincero, signor Lawson.
Noah si fece serio. Non era affatto sincero, non lo era da oltre dieci anni. Gli sarebbe piaciuto esserlo. A un tratto ebbe l’impulso di dirle almeno una cosa vera sul suo conto. — Qualche volta mi confondo nel parlare — confessò. Almeno questo era vero.
Anche Elise smise di sorridere. — E quindi? — domandò, aggrottando la fronte.
Noah non sapeva cosa rispondere. Generalmente, quando qualcuno si rendeva conto del suo problema, lo compativa o lo guardava con diffidenza. Elise non batté ciglio.
— Per voi non ha importanza? — domandò.
— Be’, io non so cantare.
— Davvero? — domandò Noah, perplesso. Non capiva cosa c’entrasse con la sua ammissione.
— A parte questo, non sopporto di non avere il controllo della situazione, ma questo lo avete già scoperto. Odio i topi, e quando mi arrabbio dico parolacce. In francese.
Noah non fece commenti.
— C’è altro? — lo interrogò Elise, armeggiando con i capelli nel tentativo di rifarsi la treccia.
— Che cosa? — Se prima non aveva fatto la figura dello stupido, sicuramente la stava facendo in quel momento.
Sospirando, Elise rinunciò a sistemarsi i capelli. — Credevo che stessimo confrontando i nostri limiti e i nostri difetti. O almeno, quelli che gli altri vedrebbero come difetti — disse. — Se volete, ve ne elenco qualcun altro. Non sono una vera signora, altrimenti non indosserei i pantaloni, giusto? Non permetto a nessuno di toccare il mio fucile...
— Il fucile? — ripeté Noah, convinto di avere capito male. — Avete un fucile?
— Sì, certo, quello legato alla sella del mio cavallo. Non è piccolo. Credevo che lo aveste visto.
— Perché portate con voi un fucile?
— Per la stessa ragione per cui lo fanno gli altri — rispose Elise.
Noah ricordò di avere notato un lungo pacco avvolto nella tela cerata. — Sì, ho visto un involto — rispose — ma credevo che contenesse i picchetti per la tenda da campo.
— La tenda da campo! — ripeté Elise, ridendo di gusto. — Tornando ai miei difetti, mi hanno detto che qualche volta russo mentre dormo...
— Non è di questo che volevo parlare — la interruppe Noah, a cui importava davvero poco delle piccole “manchevolezze” di quella donna, che in realtà la rendevano ai suoi occhi una delle persone più interessanti che avesse mai conosciuto.
— Per me non è un problema se a volte non riuscite a trovare le parole giuste, signor Lawson — disse Elise. — Mi seccherebbe molto, invece, se toccaste il mio fucile senza chiedermi il permesso.
A Noah venne una gran voglia di toccare lei, di affondare le mani nei suoi capelli e di baciarla fino a farle perdere i sensi. Non aveva mai incontrato una donna come Elise DeVries e aveva il terrore che non gli capitasse mai più. — D’accordo — disse, senza aggiungere altro.
— Bene, questo punto lo abbiamo chiarito — ribatté Elise. — E ora ditemi, chi è John Barr?
— Un fabbro, uno dei migliori. Non c’è nulla che non sappia riparare. Aratri, armi, qualunque cosa. Può ferrare il vostro cavallo, se occorre. È bravissimo anche con gli animali più focosi.
— Veramente volevo sapere chi è John Barr per voi. Mi avete detto di tenere molto a suo figlio. È un vostro parente?
— No, ma è come se lo fosse — rispose Noah. — Voi avete parenti?
— Sì, un fratello di sangue e una sorella acquisita a cui voglio molto bene — rispose Elise. — E voi avete fratelli o sorelle?
— No — rispose Noah senza esitare, ma non riuscì a evitare che il ricordo del dolce volto di Abigail e del suo spirito indomito gli riempisse la mente.
— Vi chiedo scusa — mormorò Elise.
— Per quale motivo?
— Non volevo rattristarvi.
La nostalgia che provava era così evidente? — Avevo una sorella — decise di rivelare.
— Come si chiamava? — domandò Elise.
— Abby — rispose Noah. Era da un secolo che non pronunciava quel nome. — Abby — ripeté.
Elise gli toccò il braccio in un gesto che voleva essere consolatorio. Noah ebbe l’impressione che stesse per fargli un’altra domanda, ma se ne astenne.
Per fortuna erano quasi arrivati. Se il tragitto fosse stato più lungo, probabilmente avrebbe rivelato tutti i suoi segreti a quella donna che conosceva appena.
— Ci siamo quasi — disse, svoltando nella stradina fiancheggiata dagli alberi che portava a casa sua.
— Grazie al cielo — mormorò Elise.
Noah non avrebbe potuto essere più d’accordo.