8
Avevano cenato in silenzio, a parte i ringraziamenti alla signora Pritchard, che aveva servito uno stufato delizioso e del pane appena sfornato. Lo stupore della governante per quel silenzio innaturale era evidente, ma non fece domande e annunciò che sarebbe andata a dormire presto. Se non avesse avuto il morale a terra, Elise avrebbe trovato buffa la situazione.
Non aveva mai lavorato così male come con Noah Ellery. Avrebbe dovuto indagare meglio prima di lasciare Londra, ma era partita in fretta e furia e ora se ne pentiva.
“Nemmeno quel giovanotto aveva la testa a posto” aveva detto l’inserviente del Bedlam.
E Abigail: “Non so dove lo abbiano mandato i miei genitori”.
Le due frasi, messe insieme, le aprirono gli occhi. E le fecero rizzare i capelli.
Non voleva crederci, non voleva neanche pensarci, ma considerando la reazione di Noah quando gli aveva detto che sua madre era al Bedlam, praticamente aveva già la risposta, chiara come il sole.
Se ciò che sospettava era vero, se Noah Ellery da bambino era stato ricoverato nell’ospedale degli orrori, Elise non osava immaginare quali ricordi avesse conservato di quel periodo della sua vita. Non erano fatti suoi, comunque si pentiva di non essersi informata meglio sul suo conto.
— Siate pronta domattina all’alba — disse Noah al termine della cena, prima di sparire.
Elise gli aveva dato un minuto di vantaggio, poi lo aveva seguito. Non era andato lontano: si era fermato in prossimità degli alberi che costeggiavano il fiume ed era rimasto quasi un’ora a contemplare lo scorrere dell’acqua. Lei si era inoltrata nel boschetto senza vedere anima viva. Nessuno lo aveva seguito. Tirò un sospiro di sollievo, ma al pensiero di non avere controllato al momento stesso del suo arrivo si sentì una stupida. Era una distrazione che aveva esposto entrambi a un potenziale pericolo.
Lo aveva aspettato, senza farsi vedere, fino a quando non era rientrato in casa. Si era coricata e aveva tentato inutilmente di prendere sonno. Aveva continuato a rigirarsi nel letto, con le molle che cigolavano e la mente in subbuglio. L’unica cosa chiara quando, rinunciando a dormire, era sgattaiolata in giardino, era che non se ne sarebbe andata da quella casa se il duca di Ashland non fosse partito con lei.
La mucca che aveva cominciato a mungere improvvisamente si mosse. Elise trasalì e si rese conto di essersi imbambolata. Sistemò meglio lo sgabello, appoggiò la fronte al fianco caldo dell’animale e riprese a mungere. Il cielo iniziava a schiarirsi. Chiuse un attimo gli occhi. Come sempre, quel lavoro riusciva a rilassarla, anche se non la aiutava a trovare le risposte ai suoi interrogativi.
Forse qualche giorno prima avrebbe davvero dovuto dire a Roderick di portarle una mucca...
— Cosa diavolo state facendo? — La voce di Noah proveniva dall’esterno. Elise sussultò e tirò i capezzoli della mucca un po’ più forte di quanto avrebbe dovuto.
— Mi sembra ovvio — rispose, benché non riuscisse a vederlo dal punto in cui si trovava. — Ora che ho iniziato, lasciatemi finire.
— Perché mungete la mia mucca?
— Perché mi aiuta a riflettere, e comunque è un lavoro che andava fatto.
Noah lanciò un’imprecazione. Guardando sotto l’animale, Elise scorse la sua sacca e il fucile.
— Vi siete dimenticata di prendere la vostra roba — disse Noah. — Mi sono preso la libertà di portarla fuori. Per favore, lasciate stare la mia mucca.
Elise non gli diede retta.
— Mi avete sentito, signorina DeVries?
Lei non rispose.
Noah imprecò di nuovo. — Mi ignorate di proposito? — domandò. Si era avvicinato e ora si trovava all’altro lato della mucca.
— Sì — disse Elise.
— Dovete andarvene. — Il tono era perentorio.
— Lo farò a patto che veniate via con me — replicò lei. Non intendeva cedere su quel punto. Il secchio era colmo e gli zampilli di latte finivano al suolo.
— Non verrò da nessuna parte, signorina DeVries, e voi non potete restare a casa mia.
— Bene, allora dormirò qui. Tanto meglio: se qualcuno la stesse tenendo d’occhio, non l’avrebbe vista entrare e uscire dalla casa. Meglio dormire nella stalla.
— Qui a Nottingham, intendete?
— No, qui nella stalla.
— Io... Voi... Non ve lo permetto. Dovrete passare sul mio cadavere.
— È esattamente ciò che intendo evitare.
Noah sbuffò. Ignorandolo, Elise prese il secchio pieno e lo posò con attenzione accanto agli altri che aveva già riempito, poi si raddrizzò, diede una pacca sul sedere alla mucca che aveva finito di mungere, la fece uscire dalla stalla e si voltò a guardare Noah.
Qualunque cosa stesse per rispondere, le morì sulle labbra. Noah era ancora fermo sulla porta, illuminato dai primi raggi dorati del sole. La camicia logora e i calzoni da lavoro che indossava non riuscivano a celare la potenza dei suoi muscoli.
Le tornò in mente il giardino delle rose e l’effetto che le aveva fatto toccarlo e sentire il calore del suo corpo. Le si era rimescolato il sangue nelle vene. Guardò le sue labbra e ripensò a quando lui l’aveva baciata, lasciandola senza fiato. Così forte era l’attrazione che esercitava su di lei che non aveva potuto resistergli. Nulla era cambiato, non ci sarebbe riuscita neanche in quel momento.
Avrebbe voluto baciarlo di nuovo e accarezzarlo nella speranza di spianare le piccole rughe che gli increspavano la fronte. Purtroppo era stata lei a provocarle.
Ancora una volta si sentì in colpa. Aveva la sensazione di avere subito una perdita irreparabile.
“Cerca di ragionare” disse a se stessa. Di Noah Ellery doveva occuparsi per lavoro, non per diletto. Doveva ricordarsene e tenere a bada le emozioni, altrimenti le cose si sarebbero potute mettere male. Alzò gli occhi, sperando che lui non le avesse letto nel pensiero, ma Noah guardava altrove.
Guardava i secchi di latte. — Avete munto tutte le mie mucche — osservò. Elise non capì se ne fosse contento o contrariato.
— Hanno un buon carattere — replicò Elise. — È tutto più complicato quando si ha a che fare con qualcuno che si rifiuta di collaborare.
— Credevo che veniste da Londra — disse Noah.
— Infatti è così. Che ci crediate o no, anche a Londra sanno mungere. Ci sono tante mucche.
— Non siete cresciuta in città — mormorò Noah.
— No — ammise lei, sollevando due secchi pesanti. La cosa era ininfluente e non era il caso di discutere.
Noah le si parò davanti. — Di dove siete? — domandò.
— Vengo dalla campagna — rispose Elise sorridendo. — E ora, se volete scusarmi, darò questi due secchi alla signora Pritchard. Ce ne sono altri da portare in casa — aggiunse, indicandoli con un cenno del capo.
— Non è così che funziona — protestò Noah, restando fermo dov’era. — Sapete tutto di me mentre io non so nulla di voi.
Elise esitava. Non gli doveva spiegazioni, inoltre non parlava volentieri del proprio passato. In compenso Noah aveva smesso di imporle di andarsene. Forse era il caso di accontentarlo. Gli avrebbe fornito una versione abbreviata dei suoi trascorsi. Magari, così facendo, avrebbe riconquistato la sua fiducia.
— Sono di York — disse.
— Yorkshire?
— No. In Canada.
— Venite dalle colonie.
— Esatto. E ora lasciatemi passare. Questi secchi sono pesanti. — Fece per andarsene, ma lui fu più veloce.
— Siete cresciuta in una fattoria, non è così?
— Sì.
— Ci siete nata.
— Sì, io e i miei fratelli.
— I vostri fratelli? Mi avevate detto di averne solo uno.
— Il maggiore è morto — rispose Elise, alzando gli occhi al cielo. Si morse la lingua. Non avrebbe dovuto dirlo. — È rimasto solo Alex. — Il dolore per la perdita del fratello la colse alla sprovvista. Forse era l’ambiente circostante che aveva fatto riaffiorare, oltre ai dolci ricordi dell’infanzia, anche l’angoscia di quei giorni lontani. I suoi fratelli erano stati tutto per lei, l’avevano cresciuta come avrebbero fatto i genitori, che erano morti quando lei aveva sei anni. — Alex e Jonathon erano entrambi nell’esercito. Third York Regiment, guidato dal maggiore William Allen. Jonathon è rimasto ucciso mentre combatteva per difendere York, una causa in cui tutti noi credevamo.
Quel terribile giorno Alex era al suo fianco, lo aveva visto morire. Eppure non aveva mai parlato di ciò che era accaduto sul campo di battaglia. C’era anche lei, ma non le era stato concesso di indossare l’uniforme del reggimento. Anche all’epoca lei era una specie di fantasma, incaricata dai superiori di infiltrarsi nel territorio nemico, scovare le truppe e riferire sulle loro posizioni, sugli spostamenti e sull’equipaggiamento. Purtroppo le informazioni raccolte non avevano salvato la vita al fratello.
— Mi dispiace — disse Noah, ma il tono era secco, mirato a farle capire che era comunque risoluto a tenerla a distanza.
Elise rispose con un cenno d’assenso e si avviò verso la casa.
— È per questo motivo che avete lasciato la vostra fattoria?
Per un attimo lei rivide i tronchi anneriti dal fuoco e le rovine fumanti. — È andata distrutta — rispose. — Dopo la ritirata degli inglesi, gli americani hanno raso al suolo le case, ucciso gli animali e incendiato i campi coltivati.
Noah si guardò intorno, forse pensando a come sarebbe stato tornare a casa dopo una lunga assenza e scoprire che tutto ciò che si era costruito non c’era più.
— Mi dispiace — ripeté.
— Anche a me. — Quelli erano gli effetti devastanti della guerra.
— Perché siete venuti a Londra? — Noah si era posto di nuovo davanti a lei, costringendola a fermarsi.
Dopo la ritirata delle truppe regolari britanniche erano subentrate le milizie, e a York non erano rimaste altro che rovine. I soldati americani cercavano ogni pretesto per punire quelli che erano rimasti fedeli alla Corona.
A Elise non piaceva affatto la piega che aveva preso la conversazione. — Per via del teatro — rispose. C’era un fondo di verità nelle sue parole.
— Il teatro?
— Sì. Sono anche un’attrice. Lavoro al Theatre Royal di Drury Lane.
— Ah, davvero? — domandò Noah. Non pareva convinto. Che credesse pure ciò che voleva. Meglio incredulo che adirato.
— Ogni tanto — disse Elise, stringendo con forza i manici dei secchi per essere certa di non rovesciare il latte.
— Be’, questo spiega molte cose — replicò Noah a bassa voce.
— Che cosa intendete dire?
— Che siete abile nell’ingannare il prossimo. Mi avete imbrogliato fin dall’inizio.
Elise posò i secchi, si mise le mani sui fianchi e lo guardò con aria combattiva. Non sopportava di sentirsi dire che tutto ciò che era accaduto, da quando aveva messo piede a Nottingham, fosse frutto di un inganno. — Credete forse che sia venuta fin qui e abbia salvato quel ragazzino solo per potervi avvicinare? — proruppe. — Pensate che mi abbia fatto piacere piombare nella vostra vita e metterla a soqquadro?
Noah rimase in silenzio. Elise non aveva idea di come interpretarlo.
— C’è una cosa che gli attori imparano presto. Ogni sera si va in scena e si finge di essere qualcun altro, ma quando cala il sipario, gli spettatori vanno a casa e noi ci togliamo il trucco e il costume, si torna a essere se stessi. Non si può fingere per sempre di essere chi non si è.
— Io non fingo, se è questo che insinuate — replicò Noah, piccato. — L’uomo che cercavate non esiste più.
— Non avete più dieci anni, Vostra Grazia — disse Elise, scuotendo la testa. — Siete un duca, che vi piaccia o no. Siete un uomo ricco e potente, ma, soprattutto, avete una sorella e una madre che hanno bisogno di voi.
— Ora mettete in discussione il mio senso dell’onore? — ribatté Noah, fulminandola con lo sguardo.
Elise non si lasciò intimidire. Non c’era nessuno in giro, gli unici testimoni erano i passeri. — Vi sbagliate — disse, facendo un passo avanti. — Sto semplicemente dicendovi come stanno le cose.
— No, voi non potete saperlo.
— Allora ditemelo voi.
— Pensate che possa servire a qualcosa? — domandò Noah, livido di rabbia.
— Sarebbe già un inizio. Potrebbe essermi utile per affrontare eventuali problemi che dovessero presentarsi quando torneremo a Londra.
— Santo cielo, come ve lo devo dire? Non verrò con voi. Io... — Tacque di colpo, forse cercando le parole giuste, ed Elise comprese dalla sua espressione che, una volta trovatele, non le sarebbero piaciute.
Lo prevenne. — Vostra sorella mi ha pregato di rintracciarvi e io l’ho fatto. Non devo scusarmi per avere svolto il mio lavoro. Non siete l’unica persona al mondo che vorrebbe dimenticare parte del proprio passato, e neppure l’unico che ha dovuto lottare per sopravvivere. — Qualcosa le disse di fermarsi lì, lasciando che Noah Ellery pensasse di lei ciò che voleva. Non le interessava. L’importante era portare a termine l’incarico, in un modo o nell’altro.
Ripensandoci meglio, capì che le importava eccome. Quell’uomo non le era indifferente, purtroppo.
— Non sono vostra nemica — continuò, addolcendo il tono — anche se voi siete convinto del contrario. Sono con voi, non contro di voi.
— Ne siete sicura? — replicò Noah, ironico. — Era questo che volevate dimostrarmi ieri sera, nel giardino delle rose?
— No! — protestò Elise con foga. — Non era quello il mio intento.
— Davvero? Non sentite il bisogno di scusarvi?
— Quello che è successo ieri tra me e voi è stato bello, anche se è durato solo un momento — disse Elise. Erano così vicini che riusciva a vedere le pagliuzze verdi delle sue iridi. — Non ho nulla di cui scusarmi.
Noah cambiò espressione di colpo, come se anche lui si fosse accorto di quanto erano vicini. Ma nessuno dei due si mosse.
Elise sentì il sangue scorrerle con forza nelle vene e un dolore pulsante che partiva dal ventre e si irradiava nel resto del corpo. Cercò di ignorarlo, ma ormai era troppo tardi. Affondò le unghie nella gonna per vincere la voglia di toccarlo.
I capelli sciolti gli coprivano la fronte e le orecchie, e la tentazione di farvi scorrere dentro le dita era forte. Come quella di accarezzargli il viso, reso ancora più virile dalla ricrescita della barba, dal collo abbronzato e...
— C’è altro? — domandò Noah con voce rauca.
— Come, prego? — domandò Elise. Ormai era un caso disperato. Non ricordava neppure cosa stessero dicendo. Dopo tutte le raccomandazioni che aveva fatto a se stessa, le bastava stare vicino a Noah Ellery qualche secondo per dimenticare il buonsenso. Non aveva mai desiderato un uomo come desiderava lui.
— C’è altro di cui non sentite la necessità di scusarvi?
Elise lo guardò e si accorse che ogni traccia d’ira era sparita dal suo volto, lasciando posto a qualcosa di più pericoloso. Aveva gli occhi offuscati come nel giardino delle rose, e la stessa espressione intensa che le aveva fatto diventare le gambe molli e le aveva acceso il fuoco nelle viscere. Dunque l’attrazione fisica era reciproca... e questa consapevolezza accrebbe in lei il desiderio.
— Sì — rispose. — Non vi devo delle scuse neanche per questo.
Lo baciò.
Nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere un bacio veloce, come bere un goccio d’acqua quando si è assetati. Voleva anche dimostrargli quanto avesse apprezzato ciò che era successo tra loro nel giardino delle rose.
Ma Noah le prese la testa tra le mani e la baciò a lungo, facendole perdere completamente il controllo. Affondando le dita tra i suoi capelli, Elise gli mordicchiò il labbro inferiore, poi gli baciò il mento e il collo, infilò le mani sotto la giacca e gli accarezzò il petto muscoloso.
Noah le sfiorò l’orecchio, ma Elise cercò di nuovo la sua bocca. Lui la strinse forte a sé. Lei avvinghiò una gamba attorno alla coscia di lui e le gonne si alzarono fino alla vita. Sentire il corpo di Noah premere contro il suo ebbe un effetto devastante. Oltre a lasciarla senza fiato, la privò della ragione. Con un gemito soffocato, gli sfilò i lembi della camicia dai calzoni e gli accarezzò la pelle nuda.
Lo sentì tremare, sentì i suoi muscoli tendersi. Allora si mosse. Ora il membro di Noah le premeva contro un fianco. La frustrazione la fece gemere di nuovo. Avrebbe dato qualunque cosa al mondo pur di sentire la sua virilità dentro di sé.
Imprigionandole il volto tra le mani, Noah la tenne alla mercé della sua sapiente lingua, poi le baciò il collo, accarezzandole le spalle e facendo scivolare le mani fino ai seni. Istintivamente Elise inarcò la schiena. Voleva di più. Noah glieli baciò attraverso il tessuto, stimolando i capezzoli con i pollici. Elise piegò la testa all’indietro, premendo la coscia su quella di lui. Non poteva più aspettare. Era bagnata e pronta, ormai aveva perso il controllo, ma non le importava.
Noah cambiò posizione, la prese per la vita e la fece aderire completamente al suo corpo. Aveva il respiro affannoso. Elise constatò con gioia che era eccitato almeno quanto lei.
— Noah — sospirò. Lei stessa non avrebbe saputo dire se fosse una supplica o un ammonimento.
Lui si tirò indietro di colpo e imprecò.
Elise si rese conto di essere in seri guai. Nel momento in cui i loro corpi, avvinghiati l’uno all’altro, avevano iniziato a tentare di spogliarsi a vicenda con la frenesia di due adolescenti, era come se il suo mondo si fosse capovolto. Immaginò come sarebbe stato portarsi quell’uomo a letto e lasciargli fare ciò che voleva.
Ma erano all’aperto, tra secchi di latte dimenticati, e divisi dal seme della discordia. Elise raddrizzò la schiena e si abbassò le gonne.
Noah stava infilandosi la camicia nei calzoni. Si fermò a guardarla. Nei suoi occhi si leggeva ancora il desiderio, ma era visibilmente confuso. — Non so perché mi facciate questo effetto — disse.
— Allora siamo in due a non capire — replicò Elise, arrabbiata con se stessa per avere lasciato che la situazione precipitasse. Non le era mai capitato di perdere il controllo in quel modo. — Qualunque sia il motivo — continuò — non cambia nulla.