1
Londra, agosto 1819
Miriam Ellery, duchessa madre di Ashland, aveva le caviglie incatenate al letto.
Era per la sua stessa sicurezza, aveva detto l’inserviente del Bedlam. Le catene servivano a impedirle di allontanarsi, rischiando di fare del male a sé o ad altri pazienti. Poteva sembrare innocua, aveva aggiunto, ma non era possibile sapere se e quando un pazzo potesse cedere a impulsi violenti.
Elise DeVries la guardava dalla porta. La parrucca castana le faceva prudere terribilmente la testa, come pure i baffi finti e la barba incollati al viso. Le stanghette degli occhiali le incidevano la pelle sopra le orecchie. Mentre guardava la patetica figura della duchessa in catene, Elise stentava a celare il proprio disappunto.
— Che cosa ne pensate, dottor Rowley? — domandò l’inserviente, pulendosi il naso nella manica.
“Penso che tu sia un perfetto imbecille” avrebbe voluto rispondere Elise.
L’idea che quella donna fragile e anziana, sdraiata sul letto, potesse fare del male a un altro paziente era semplicemente assurda. Sarebbe già stato un miracolo se la duchessa fosse riuscita ad alzare una gamba nonostante il peso dei ceppi alle caviglie, figurarsi correre all’impazzata per l’ospedale e mettere in pericolo altri degenti.
— Questi casi possono trarre in inganno — disse invece, abbassando la voce come faceva a volte sul palcoscenico. — Da quanto tempo è ricoverata la duchessa? — domandò, tentando di concentrarsi.
— Mi sono visto costretto a portare qui mia zia circa un mese fa — rispose Francis Ellery, il nipote della donna, mettendosi le mani sui fianchi e guardando con aria sussiegosa Elise e l’inserviente.
— “Costretto”? — ripeté Elise, nella speranza che lui le rivelasse il motivo per cui aveva portato la zia al manicomio di Bedlam.
— Era peggiorata al punto da non riuscire più a badare a se stessa neppure con l’aiuto dei domestici — disse Ellery. — Qualcuno doveva pur fare qualcosa — concluse con eccessiva disinvoltura.
“In effetti qualcosa hai fatto” pensò Elise.
— Non ha un marito? — domandò, pur conoscendo la risposta. Elise, come tutti coloro che leggevano i giornali, sapeva bene che l’undicesimo duca di Ashland era morto di recente. Due anni prima, un ictus lo aveva privato della possibilità di parlare e camminare e di conseguenza lui e la moglie si erano ritirati a vita privata. A quanto le risultava, non si era più ripreso.
— Il duca è deceduto — rispose Ellery. — La sua scomparsa è stata un brutto colpo per me e per tutti coloro che gli erano vicini.
Elise dubitava fortemente che Francis Ellery, in procinto di ereditare il ducato di Ashland, fosse sconvolto per la morte dello zio.
— Un bel guaio — commentò. — La duchessa non ha figli che possano badare a lei? — domandò, voltandosi a guardarlo.
— Ha solo una figlia, ma se n’è andata di casa più di dieci anni fa — rispose Ellery, scuotendo la testa. — Purtroppo sono l’unico che possa occuparsi di lei in un momento così difficile.
— Mmh — mormorò Elise, fingendo di osservare la duchessa mentre in realtà era l’atteggiamento di Ellery che le interessava. Più lo guardava e meno gli piaceva. All’inizio non ne aveva compreso il motivo. Ellery era un perfetto rappresentante dell’aristocrazia, con la sua chioma bionda senza un capello fuori posto e con i suoi abiti impeccabili. Nulla in lui faceva pensare che fosse insensibile, se non addirittura crudele, come lei sospettava. Aveva un’espressione angelica, come se soffrisse davvero per le condizioni della zia.
Era lo sguardo di quell’uomo a rafforzare i suoi dubbi. Per quanto cercasse di sembrare triste e compassionevole, dai suoi occhi traspariva una smodata ambizione. Elise ne aveva conosciuti molti come lui e i fatti avevano sempre dato ragione al suo istinto.
— Avete provato a rintracciare la figlia? — domandò. — Lei sicuramente...
— No, non c’è motivo — la interruppe Ellery. — La figlia della duchessa è sparita dalla sua vita e da quella dell’intera famiglia. Io non l’ho mai vista e credo che non la vedrò mai.
“Bugiardo” pensò Elise, chiedendosi il motivo di quella menzogna.
In realtà lady Abigail, la figlia della duchessa, si era presentata pochi giorni prima nello studio di Elise. Disperata e bisognosa di aiuto, le aveva detto di avere ricevuto una lettera dalla vecchia e fedele governante della famiglia, da cui aveva appreso che il duca era morto e la duchessa era stata rinchiusa al Bedlam. Si era affrettata a tornare in città e, giunta a Londra, aveva scoperto che il mondo cui apparteneva le era diventato inaccessibile. Francis Ellery le aveva impedito di entrare nella casa in cui era cresciuta e i medici del Bedlam non le avevano consentito di vedere la madre. Dopo alcuni giorni e diversi tentativi andati a vuoto, non avendo trovato un appoggio neppure tra i suoi amici di un tempo, in preda alla disperazione e non sapendo a che santo votarsi, Abigail aveva deciso di ingaggiare Elise.
Ecco perché in quel momento lei si trovava nelle viscere del manicomio, chiedendosi per quale motivo una donna anziana, in pieno possesso delle proprie facoltà mentali e in discrete condizioni di salute, a detta della figlia, si trovasse incatenata al letto di un manicomio. Si chiedeva anche quanto sarebbe stato difficile tirarla fuori.
Prima di recarsi al Bedlam, Elise aveva contattato un dottore di chiara fama che, su sua richiesta, le aveva fornito delle false credenziali e una magnifica lettera di presentazione grazie a cui aveva avuto accesso all’ospedale. Essendosi presentata come Emmett Rowley, membro del Royal College of Physicians, aveva avuto la possibilità di visitare Miriam Ellery e, per non destare sospetti, si era offerta di esaminare altri tre pazienti di sangue blu, i cui parenti non avevano avuto nulla in contrario.
Aveva già visto quelle persone, e nessuno dei congiunti delle tre donne si era opposto. O meglio, nessuno si era degnato di rispondere alle lettere inviate dal Bedlam alle famiglie per richiedere l’autorizzazione. Il fatto che il nipote di Sua Grazia avesse accettato di far visitare la zia solo a condizione che lui fosse presente, insieme con un inserviente a sua scelta, la diceva lunga sulle sue intenzioni. Elise era pronta a giurare che Francis Ellery avesse avuto un motivo ben preciso e inconfessabile per far ricoverare la duchessa, ma lei non aveva idea di quale fosse.
— La degenza qui dentro deve costare un patrimonio — osservò, dando un’occhiata tutt’intorno alla stanza privata occupata dalla nobildonna.
— Desidero il meglio per la mia amata zia — replicò Ellery, mettendosi le mani dietro la schiena.
— Il signor Ellery è un nostro grande benefattore — precisò l’inserviente.
Elise si voltò a guardarlo, chiedendosi se il denaro finisse nelle casse dell’ospedale o direttamente nelle tasche di quell’uomo.
— Sua Grazia riceve molte visite? — chiese. — Da parte di qualche amico, magari?
L’inserviente scrollò il capo. — No, non è in condizioni di riceverne — rispose. — Con pazienti come lei non ci si può distrarre un momento, senza contare che le visite di parenti e amici influirebbero negativamente sulla terapia.
— Sì, certo — convenne Elise, fingendosi d’accordo. Dunque, non era soltanto alla figlia che impedivano di vedere la duchessa. L’avevano tagliata fuori dal resto del mondo. Perché?
Finse di prendere appunti sul suo taccuino, poi si rivolse di nuovo all’inserviente: — Quali sono le manifestazioni e gli effetti della malattia? — domandò.
— La paziente non ricorda gli eventi recenti, nemmeno ciò è successo un minuto prima. Confonde le persone che vede con quelle che appartenevano al suo passato. Parla di avvenimenti accaduti vent’anni fa come se fossero attuali. La poveretta è persino convinta che il figlio sia ancora vivo.
Con la coda dell’occhio Elise vide Ellery irrigidirsi. “Interessante.”
Lady Abigail le aveva detto di essere l’unica ancora in vita dei due figli del duca. Consultando i registri parrocchiali, Elise aveva appurato che effettivamente il defunto aveva avuto due figli. Il maschio si chiamava Noah. Non erano chiare le circostanze della sua morte. Accanto al suo nome, qualcuno aveva annotato “morte presunta”, ma non c’erano né la data né la causa del decesso. Era come se fosse svanito nel nulla.
— Ne deduco che si sbagli — replicò Elise. — In realtà suo figlio è morto, vero?
— Sì — rispose l’inserviente a bassa voce. — Ma forse è stato meglio così. Nemmeno quel giovanotto aveva la testa a posto.
— Come avete detto? — domandò Elise, stavolta senza bisogno di fingersi stupita poiché lo era davvero.
Temendo di avere rivelato troppo, l’uomo lanciò a Ellery uno sguardo allarmato, ma lui pareva tranquillo.
— È vero — confermò con un sospiro. — Mio cugino è nato matto, perciò non mi sorprende che ora la sua povera madre abbia lo stesso problema.
Elise rimase colpita dalla sua affermazione, ma si sforzò di restare impassibile. — Due casi di pazzia nella stessa famiglia? Interessante — tornò a ripetere, fingendo di prendere nota. Lady Abigail avrebbe dovuto informarla in proposito, e stranamente la cosa non era trapelata quando lei aveva indagato. Se era vero ciò che quei due asserivano, era alquanto seccante. — Potete dirmi quali erano i sintomi della sua follia?
— Non sapeva parlare. Riuscite a immaginare l’erede di un duca che si esprime a gesti come le scimmie? Tanto vale che sia morto, a mio modo di vedere. Non c’erano cure per lui — concluse Ellery, scuotendo mestamente la testa.
Elise rifletteva. Se Noah Ellery era davvero malato di mente, ciò spiegava la mancanza di dati precisi nel registro parrocchiale. Se l’erede del ducato aveva un simile problema, era plausibile che la famiglia si fosse comportata come se il ragazzo non fosse mai esistito. Avrebbero potuto far cancellare il suo nome dal registro. Con il denaro si può fare tutto, persino riscrivere la storia. Lei lo sapeva meglio di chiunque altro.
— Evidentemente la pazzia è un male ricorrente in quella famiglia — disse l’inserviente. — Dal lato materno, per la precisione. La mela non cade mai lontano dall’albero, come si suol dire.
— Agghiacciante! — esclamò Ellery. — Per fortuna io sono imparentato con il defunto padre.
— Meglio per voi — ribatté Elise. — E la figlia? Anche lei dava segni di squilibrio?
— Be’, lady Abigail è scappata di casa con un fabbro e si è stabilita a Derby, ma prima aveva fatto una scenata in pubblico alle patrone dell’Almack, che avevano osato criticare il suo legame con un uomo di basso ceto. Praticamente il suo è stato un suicidio sociale. Non le è rimasto un solo amico a Londra. Escludendo, naturalmente, i fabbri della città — aggiunse Ellery, sogghignando.
— Forse ha fatto la sfuriata in un momento in cui non era lucida — azzardò Elise.
— È probabile — ammise il gentiluomo, con evidente soddisfazione.
— Dovete sapere — interloquì l’inserviente, sfregandosi le mani — che la salute mentale della duchessa andrà peggiorando sempre di più, a meno che non venga sottoposta a drastiche cure quali salassi e docce fredde, accompagnate da una dieta adeguata. Solo così potrebbe esserci qualche speranza di guarigione.
— Davvero? — mormorò Elise, rabbrividendo.
— La follia dev’essere tenuta sotto controllo a costo di ricorrere a rimedi estremi. La duchessa costituisce un pericolo per gli altri, perciò deve restare qui.
— Vorrei provare a parlarle — disse Elise.
— Come potete vedere, dottor Rowley, non è in condizione di farlo — replicò Ellery, aggrottando la fronte.
— Vorrei accertarmene di persona — insistette Elise, lasciando trapelare una certa diffidenza. — I familiari delle altre pazienti non si sono opposti. Non vorrei che mi nascondeste qualcosa.
— Certo che no — ribatté Ellery in tono piccato.
— Perfetto, me la sbrigherò in pochi minuti — replicò Elise, avanzando verso il letto della duchessa senza dargli il tempo di protestare.
— Non avvicinatevi troppo — la ammonì Ellery. — Da questo momento in poi non rispondo della vostra incolumità. La duchessa è imprevedibile, sapete?
— Grazie dell’avvertimento — rispose Elise, resistendo a stento alla tentazione di assestargli un calcio negli stinchi.
Lasciati i due uomini sulla porta, si accostò al letto e vi si accosciò accanto per poter guardare la duchessa negli occhi. Mentre era in quella posizione, né l’inserviente né Ellery potevano udire ciò che diceva. — Vostra Grazia? — esordì sottovoce, evitando di posare lo sguardo sulle catene. Sapeva per esperienza cosa significasse essere prigionieri e conosceva le orribili sensazioni che si provavano in quei frangenti. Era uno dei motivi per cui desiderava liberare quella povera donna. — Vostra Grazia? — ripeté a voce un po’ più alta.
La duchessa continuò a fissare il muro. Ciocche disordinate di capelli grigi le incorniciavano il volto. Muoveva le labbra come se stesse recitando una preghiera. Dovevano averla drogata. Elise, nella sua vita, aveva visto tanti oppiomani, non poteva sbagliarsi.
Posato il taccuino sul pavimento, prese tra le sue le mani fredde e magre della duchessa. — Mi manda Abigail — disse sottovoce. — Vi va di parlare con me?
La duchessa distolse lo sguardo dal muro e incrociò quello di Elise. Aveva gli occhi arrossati. — Vi manda Abigail? — domandò con una voce strana, che probabilmente non usava da tempo. — Lei dov’è? Perché non è venuta?
— Avrebbe voluto — rispose Elise, cercando di captare eventuali segni di squilibrio mentale, senza peraltro trovarne. La duchessa appariva solo stanca e provata. — Non gliel’hanno concesso — continuò. — Mi ha mandato da voi per sapere come state.
— Siete un dottore?
— Solo per oggi — rispose Elise, sorridendo sotto i baffi.
— Francis vuole vedermi morire qua dentro — disse la duchessa, raddrizzando la schiena — ma Abigail non lo permetterà. Non ho niente che non va e loro lo sanno bene. Abigail porterà Noah con sé.
— Vostro figlio? — domandò Elise.
La duchessa accennò di “sì” con il capo e il suo sguardo si offuscò.
— Vostro figlio è morto — le fece notare Elise.
— Morto, morto, morto — ripeté la duchessa come in una litania. — Non è morto... è andato via — disse, strascicando le parole.
Elise avrebbe voluto scuoterla per farla parlare, ma non si mosse. — Dov’è andato, Vostra Grazia?
— Non è più tornato — rispose la nobildonna con le guance rigate di lacrime.
Elise la guardava senza capire.
La duchessa taceva, forse non era neppure conscia della sua presenza.
— Quando aveva sette anni mi regalò delle rose per il mio compleanno — riprese con aria trasognata. Ora le parole erano chiare, ma lo sguardo distante. — Non un semplice mazzo, ma un intero giardino di rose coltivate da lui. Era bravissimo, e anche molto dolce.
— Dove si trova ora, Vostra Grazia? — la interrogò Elise, chiedendosi se ciò che diceva fosse vero. Era possibile che l’erede del ducato di Ashland fosse ancora vivo? O era invece lo strazio di una madre disperata a dettarle quelle parole? — Dov’è ora Noah? — domandò di nuovo.
La duchessa rimase in silenzio per un minuto intero. — Chi siete? — chiese finalmente. — Un altro dottore?
— Sì — rispose Elise suo malgrado.
— Non voglio un’altra doccia fredda — disse la duchessa in tono implorante. — Dov’è Abigail?
— Arriverà presto. Verrà non appena possibile e vi porterà via.
— Non voglio restare qui — disse la donna, conficcandole le unghie nelle mani.
— Non ci resterete a lungo, ve lo prometto. — Date le circostanze, la promessa valeva ben poco, tanto più che la povera donna non avrebbe resistito un mese in quelle condizioni.
— Sono molto stanca — disse la poveretta con un filo di voce.
— Lo so — rispose Elise alzandosi. Le lasciò andare le mani, che ricaddero inerti sul copriletto.
Elise diede un’occhiata alla stanza e soffermò lo sguardo sulle sbarre alle finestre. Non sarebbe stata un’impresa facile portare via la duchessa da quella sorta di prigione, ma neppure impossibile. Probabilmente là dentro c’erano tante persone facilmente corruttibili. Ma occorreva tempo. Purtroppo lei non aveva conoscenze in quel luogo e la duchessa non poteva aspettare.
— Basta così — disse Ellery, schiarendosi la voce. — È evidente che la zia è stanca.
— Sì, infatti — convenne Elise, recuperando il taccuino e ostentando un’aria disinvolta.
— Che cosa avete scoperto sul conto della paziente? — domandò l’inserviente mentre lei si avvicinava sotto lo sguardo attento di Ellery.
“Che l’avete drogata e che potrebbe essere a conoscenza di qualcosa che impedirebbe al signor Francis Ellery di ottenere quello che vuole” pensò Elise.
— Che la duchessa delira — rispose, sapendo che era ciò che i due uomini volevano sentirle dire. — Confonde il presente con il passato, ha rari momenti di lucidità ed è incapace di ricordare cose dette un istante prima.
Come c’era da aspettarsi, i due uomini si rasserenarono. — Ora capite perché deve restare qui, vero? — domandò Ellery.
Nel timore di dire qualcosa di cui si sarebbe pentita, Elise evitò di rispondere. Aprì il taccuino e scrisse: “Dov’è Noah?”.
— Desiderate vedere qualche altro paziente, già che siete qui? — chiese l’inserviente. — Ce n’è uno che crede di essere un cane. Abbaia tutta la notte e mangia solo dal pavimento. È molto divertente. — Rise forte. — Purtroppo ora il pubblico a pagamento non è più ammesso.
Elise prese fiato. — Per oggi basta così — replicò. — Mi occupo soltanto delle signore dell’alta società.
— Che peccato.
— Vi ringrazio per il tempo che mi avete dedicato — aggiunse Elise. — Ora devo andare.
— Come desiderate — disse l’inserviente. — In quale ospedale lavorate, dottor Rowley? Il direttore non ce l’ha detto.
Elise diede un’ultima occhiata alla sventurata duchessa. — E non lo farò nemmeno io — rispose uscendo dalla stanza e inoltrandosi nel dedalo di corridoi che conducevano all’uscita del manicomio.
Francis Ellery seguì con lo sguardo l’odioso Rowley che si allontanava. Fece una smorfia di disprezzo.
Era soddisfatto e sollevato al pensiero che il dottore avesse visto soltanto ciò che lui aveva voluto mostrargli, ma la mancanza di rispetto del medico nei suoi confronti gli faceva vedere rosso. A breve la situazione sarebbe cambiata radicalmente.
Suo padre gli aveva detto più di una volta di essere ben felice che il ducato di Ashland fosse toccato al fratello maggiore. Secondo lui, essere il figlio cadetto era un vantaggio poiché gli aveva dato la possibilità di vivere come voleva e persino di scegliersi la moglie. Essere duca non era entusiasmante come poteva sembrare.
Suo padre era un fesso.
Oltre a un patrimonio da capogiro, il titolo di duca offriva un potere immenso, secondo soltanto a quello della monarchia. Chi non lo avrebbe desiderato?
Ora tutto ciò poteva essere suo. Francis lo voleva ardentemente, anzi, ne aveva bisogno. Era così vicino alla meta che già assaporava la vittoria. Il vecchio duca era morto, e così pure suo padre. Rimaneva un unico ostacolo, a causa del quale il tribunale non gli aveva ancora concesso ciò che tanto desiderava.
L’ostacolo era quel pazzo di suo cugino, che purtroppo era introvabile.
Il fatto che fosse scomparso non bastava per trasferire il titolo, le proprietà e il patrimonio da Noah a Francis Ellery, senza contare che la duchessa urlava ai quattro venti che l’adorato figlio era ancora vivo.
Il problema della duchessa lo aveva risolto. Per risolvere anche l’altro si era mosso nella direzione che la situazione richiedeva. Avrebbe dovuto sborsare un sacco di soldi, ma ne sarebbe valsa la pena. Se Noah Ellery era ancora vivo, lo avrebbero scovato.
E se il tribunale voleva vedere il suo cadavere, a lui non restava che accontentarlo.