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Così Tunda andò in casa del signor Cardillac.

 

Non aveva mai visto una casa più grande. Gli sembrava anche più spaziosa di quanto non fosse, perché non la conosceva tutta, perché di volta in volta ne vedeva solo parti, frammenti. La conosceva non più di quanto si conosce un dizionario enciclopedico di cui si prende ogni tanto un certo volume per cercare una certa parola.

 

Lo interessava soprattutto la signorina Pauline, con la quale doveva fare conversazione. Diciottenne, bruna, con una tipica carnagione balcanica - il signor Cardillac veniva dalla Romania meridionale -, con quella carnagione che fa pensare al colore delle meteoriti e sembra fatta di ferro, di vento e di sole, con le spalle cascanti, magre, misere da far compassione, con fianchi morbidi e dolci, soggetti sicuramente un giorno alla minaccia di un'insidiosa, deformante larghezza, Pauline pareva degna d'un padre migliore di quanto il suo non fosse e di una vita più ricca, più piena di quella che faceva. Era una delle inclinazioni fatali di Tunda quella di avere compassione delle donne graziose. La loro bellezza gli sembrava solo il giusto compenso per il loro valore, non riusciva ad abituarsi a pensare che la bellezza di un corpo femminile non è un sovrappiù, una grazia, un lusso, un po' come il genio in una mente maschile, ma il naturale strumento della sua esistenza, come le membra, la testa, gli occhi. La bellezza è il semplice, anzi, primario segno distintivo di una donna, come il seno è in lei un organo della sessualità e della maternità. La maggior parte delle donne sono belle - così come la maggior parte degli uomini non sono storpi. Ma Tunda era sbalordito da ogni bellezza, al punto che era disposto a cercarne una spiegazione in qualche merito insufficientemente apprezzato della sua depositaria. In lui l'amore cominciava sempre con la compassione - unita all'obbligo di far sparire dal mondo una ingiustizia che gridava vendetta al cielo.

 

Dapprima, dunque, sopravvalutò Pauline. Gli faceva piacere vederla entrare nella stanza in cui egli l'aspettava e lasciare aperto per un attimo uno spiraglio della porta che dava nella sua camera, colma, ai suoi occhi, di gioie indescrivibili, immateriali, puramente atmosferiche. Gli piaceva vederla mettere con grazioso abbandono il braccio dietro la schiena per chiudere la porta, la cui maniglia si trovava all'altezza della sua testa - lo faceva come qualcosa di segreto, di pericoloso, noto solo a loro due, tanto che ogni volta sembrava per un istante che quello fosse un convegno illecito. Le sue esili mani, che non osavano quasi tenere le cose, erano fredde, tinte di un tenero rossore che impallidiva solo a poco a poco e faceva sempre pensare alla recente adolescenza di Pauline. Usava queste mani con cautela, come fossero membra preziose prese in prestito; quasi come giovani uccellini le loro penne, così Pauline sentiva le proprie mani. Allungava troppo il braccio oppure teneva il gomito troppo timorosamente stretto al petto; non aveva ancora imparato a valutare le distanze. Piaceva a Tunda il quarto d'arco nel profilo del mento abbassato e la candida, morbida lanugine diffusa su tutto il volto ambrato, una specie di muschio argenteo della gioventù e della bellezza.

 

Eppure era sempre consapevole che questa ragazza, per quanto giovane e piccola, veniva come i grandi da un mondo che egli disprezzava e che non meritava la sua bellezza. Da che gente veniva, verso che gente andava? I suoi giorni e le sue notti erano pieni dei pensieri, dei discorsi, delle esperienze e dei gesti esecrabili e ridicoli di quella gente. Faceva con loro passeggiate in auto, frequentava balli, andava al mare e ai monti, s'innamorava di loro, giocava e ballava con loro, si sposava con uno di loro e aveva dei figli uguali a tutti loro. Ragione sufficiente per disprezzarla! Ragione sufficiente per pensare che la natura, cieca com'è, rende belle anche le donne di questa casta perversa, come ne fa crescere sani gli uomini. Come un frate che rischi di cedere alle lusinghe di una donna e sfugga a questo pericolo in virtù del metodo innaturale ma infallibile di sottrarre dal suo fascino la donna, così Tunda cominciò a sommare Pauline al suo mondo. Ben presto in fondo ai suoi occhi svelti, civettuoli, sempre luminosi, egli trovò a una profondità anatomicamente non accertabile e clinicamente indefinibile, una parete opaca, contro la quale le immagini del mondo s'infrangevano miseramente.

 

Trovò nei suoi lineamenti levigati e ben curati quella fredda stupidità che somiglia tanto alla bontà soave, alla grazia gentile, all'inconsapevole gioia di vivere, quella desolante, incantevole, elegante stupidità che s'impietosisce del mendicante al margine della strada e schiaccia con ogni suo passo leggero migliaia di vite.

 

Era una casa ricca. I giovani che la frequentavano conoscevano tanto bene i maneggi e i campi sportivi internazionali quanto i loro padri le borse del commercio dei gioielli tra Bucarest e Amsterdam. Ma come coloro che sono affetti da un lieve daltonismo non hanno sensibilità per una parte della scala cromatica e distinguono a malapena o niente affatto il violetto dal blu, e il blu dal verde scuro, così mancava a questi giovani ogni sensibilità per la bellezza, la bruttezza, il carattere naturale o innaturale, la comodità o lo schifo di certe situazioni e di certe 'condizioni'. Ne erano assolutamente sprovvisti. Tunda si meravigliava soprattutto che costoro, pur essendo entusiasti della natura e sostenendo, addirittura in buona fede, di esserne gli alleati, tuttavia non ne risentivano affatto gli umori mutevoli, e nei giorni freddi e nuvolosi, come in quelli caldi e sereni, mostravano la stessa fisionomia dell'animo, e nell'afa che precede un temporale, come nelle ore fresche dopo la pioggia, a mezzogiorno, all'alba e al tramonto erano sempre in quello stato d'animo allegro-festoso, un po' tutto fretta e sudore, che domina tra i giocatori e i raccattapalle nei tornei di tennis. In smoking o in camicia sportiva, erano sempre gli stessi. Con denti forti, bianchi e larghi da sembrare la réclame del Kalodont, che essi, invece di sorridere, mettevano addirittura in vetrina, con le spalle ben imbottite e la vita sottile, con mani grandi, muscolose e monde di ogni senso tattile, con variopinte cravatte a farfalla al collo, con capelli dal taglio preciso e molto curati che facevano sperare di non perdere mai il colore - questi giovani ben massaggiati, freschi di doccia, sempre come se uscissero allora da un bagno al mare, gli venivano incontro simili a una specie cittadina di predatori, addomesticati e portati a sfilare in corteo, al cui mantenimento doveva provvedere il municipio. Parlavano con voce sonora, e già nella cavità orale ne risonava l'eco. Pronunciavano con incrollabile serietà formule di cortesia da manuale di galateo da quattro soldi. Erano in grado di discutere su qualunque argomento della vita nel tono in cui le riviste mondane, nelle ultime pagine e in caratteri più piccoli, dopo aver presentato come al solito la moda della prossima stagione, informano debitamente sulla politica, la letteratura e la finanza. Di macchine e di automobili i giovani conversavano nel linguaggio degli annunci pubblicitari. In generale, sembravano prendere il loro stile dalle pagine di inserzioni dei giornali. Erano sempre al corrente di tutto - e quando parlavano di cose o situazioni, le azzeccavano pressappoco come un fotografo ambulante la fisionomia di una coppia irrequieta di fidanzati in un parco.

 

Le rappresentanti femminili di questa società facevano una vita gaia, in abiti leggeri, pieni di colori e molto costosi. Camminavano sul selciato con gambe dalla linea perfetta, in scarpine di modello sorprendente, anzi, talvolta eccentrico, pilotavano automobili, andavano a cavallo, guidavano carrozzelle, e Claude Anet era il loro autore prediletto. Non si facevano mai vedere sole o in coppia, ma arrivavano a stormi, simili a uccelli migratori, ed erano tutte ugualmente belle, come gli uccelli. Tra loro potevano distinguersi se mai per certi abiti e fiocchi, per la diversità della tintura dei capelli e il colore del rossetto. Ma a un estraneo parevano figlie della stessa madre, sorelle di strabiliante somiglianza. Che poi portassero nomi diversi, era un errore dell'anagrafe.

 

Del resto avevano per lo più nomi inglesi. Non gli avevano dato - cosa quanto mai giusta - né nomi di sante né i nomi delle nonne, ma di eroine di film americani o di commediole inglesi. Non mancava loro più nulla per rappresentare certe parti. Già come entravano in una stanza, emanando e diffondendo intorno a sé una nuvola di profumo e di bellezza, avrebbero potuto calcare un palcoscenico o trasformarsi in ombre gesticolanti su uno schermo. Era naturale che, pur essendo così vivaci, non vivessero affatto. Tunda non le sentiva come delle realtà concrete: era un po' come con le ballerine sulla scena del varietà, così incredibilmente identiche, belle e tante che, nonostante la loro vivacità fisica e le loro virtù corporee, le sentiamo tuttavia come una specie di sogno ad occhi aperti, inserito tra numeri d'arte varia, prodotti di una suggestione ipnotica. Tutte queste ragazze sembravano a Tunda irreali, quasi fossero fotografie su giornali illustrati. Quando gli venivano incontro era come se le avesse sfogliate. In realtà, erano anche l'avvenente soggetto dei giornali illustrati. Costituivano anzi la parte maggiore della società mondana, d'inverno (vestite di lana d'un bianco sfolgorante) sulla slitta nelle nevi abbaglianti di Saint Moritz, a febbraio con coroncine di fiori al carnevale di Nizza, d'estate nude sulle spiagge di tutti i mari, in autunno a casa per inaugurare con nuovi cappellini la stagione invernale.

 

Erano tutte belle. Ma la loro bellezza era di una sola specie. Pareva che il loro creatore avesse distribuito a tutte una gran quantità di bellezza in parti uguali, ma questa non bastava a diversificarle l'una dall'altra.