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Estratto dal diario di Tunda:

 



 

Ieri sera, alle dieci e mezzo, è entrato con tre ore di ritardo il piroscafo "Grashdanin". Me ne stavo, come sempre, al porto e vedevo la ressa dei facchini. E' arrivata molta gente vestita con una eleganza vistosa, passeggeri della prima classe. Erano, come al solito, gente della NEP e alcuni mercanti stranieri. Da quando scrivo questo diario m'interessano in particolare gli stranieri. Prima non me ne curavo affatto. La maggior parte vengono dalla Germania. Pochi dall'America, alcuni dall'Austria e dai Paesi balcanici. Oramai li distinguo bene, certi vengono da me, all'istituto, a prendere informazioni. (Nel nostro istituto sono l'unico che sappia parlare il tedesco e il francese). Vado al porto, giudico la nazionalità degli stranieri e sono contento quando l'ho indovinata. Non so, veramente, da che cosa la riconosco. Sarei in imbarazzo se dovessi elencare le caratteristiche nazionali. Forse li riconosco dai vestiti. Beninteso, non dalle singole parti del vestiario, ma dall'intero portamento. Talvolta si potrebbero scambiare i tedeschi per inglesi, specie se si tratta di gente anziana. I tedeschi e gli inglesi hanno, a volte, lo stesso colorito rosso. Ma i tedeschi sono calvi, gli inglesi invece hanno per lo più dei folti capelli così bianchi che il loro colorito rosso sembra molto più scuro. Quei capelli argentei non sono tali da suscitare rispetto in me. Anzi, pare a volte che gli inglesi invecchino e incanutiscano per civetteria. La loro freschezza ha un che di perverso, e non so se si possa dire: di empio. Hanno l'aspetto innaturale di un gobbo col busto ortopedico. Vanno in giro come facessero la réclame ad attrezzi ginnici e a racchette da tennis, a garanzia di una vecchiaia giovanile. Invece, certi anziani signori del continente sembrano curare la pubblicità di mobili d'ufficio e buone poltrone. Dai fianchi in giù si allargano, i ginocchi urtano l'uno contro l'altro, anche le braccia sono così aderenti al busto come se essi fossero appoggiati a morbide, ampie spalliere di cuoio.

Ieri sono arrivati tre europei, e sulle prime non sapevo da quale paese venissero. Erano una signora, un uomo anziano di bassa statura, spalle larghe, col viso bruno e una barba grigiastra, un giovane, bruno, di statura media con occhi chiari, quasi bianchi in quel viso così scuro, la bocca molto stretta e gambe lunghissime in bianchi calzoni di lino che fasciavano le ginocchia come una seconda pelle.

L'omino barbuto faceva un po' pensare a quei variopinti nani di pietra e di gesso che si trovano in mezzo alle aiuole di qualche giardino. In questo signore mi urtava anche la salute, il volto spavaldamente abbronzato nella cornice della barba. Camminava a passi brevi e veloci vicino all'uomo dalle gambe lunghe e alla signora alta, saltellava, quasi, accanto a loro. Sembrava proprio che la signora lo tenesse, come un animale, a un guinzaglio sottile. Faceva gesti vivaci e, a un tratto, lanciò in aria il suo chiaro cappello floscio, un attimo prima di salire sul "phaeton". Due facchini li seguivano con le valigie.

Immagino che i gesti dell'uomo barbuto siano, a casa sua, più lenti e calcolati. In viaggio è vivace. C'era un gran rumore, e per giunta parlavano piano, cosicché non sentii nulla sebbene mi fossi fatto avanti fino a loro.

La donna nel mezzo era la prima signora elegante che vedevo dopo il ritorno dalla mia ultima licenza a Vienna.

Questa mattina sono venuti da me.

Sono francesi. Il signore è un avvocato parigino. Inoltre scrive per il "Temps". La signora è sua moglie, il giovane suo segretario. Costui è uno dei pochi francesi che comprendano il russo. Per questo motivo, e probabilmente per la signora, è venuto in Russia anche lui.

Quando la signora mi ha guardato, mi è venuta in mente Irene, a cui non pensavo più da tempo. Non che questa signora somigli alla mia fidanzata!

E' nera, talmente nera che i suoi capelli sono quasi blu. Ha occhi sottili, mi guarda con signorile miopia. Sembra che non le piaccia fissarmi apertamente. Quando mi parla, aspetto sempre qualche ordine. Ma non le viene in mente affatto di darmi ordini. Probabilmente sarei felice se si degnasse di farlo.

Tamburella a volte con l'indice, il medio e l'anulare della mano su un libro, sulla spalliera di una sedia, sulla tavola. E' un tamburellare lento e una specie di rapida carezza. Le sue unghie sono strette e bianche, unghie esangui, le labbra, come per deliberato contrasto, di un rosso scarlatto.

Porta sottili scarpe grigie di pelle fine, da guanti, ha dita lunghe, si vedono sotto la pelle, vorrei disegnarle con una matita.

Il segretario - stando al biglietto da visita il suo nome è Monsieur Edmond de V. - mi ha detto: 'Lei non parla il francese come uno slavo. Viene dal Caucaso o è russo?'.

Ho mentito. Gli ho raccontato che i miei genitori erano immigrati e che sono nato in Russia.

'Ormai sono tre mesi che viaggiamo per la Russia' ha detto Monsieur de V. 'Siamo stati a Leningrado, a Mosca, a Niznij-Novgorod, sul Volga, ad Astrakhan. Si sa ben poco da noi, in Francia, della Russia sovietica. Da noi si pensa a un caos russo. Siamo sorpresi dell'ordine, per quanto anche del carovita. Con lo stesso denaro avremmo potuto esplorare tutte le colonie francesi in Africa... finché non ci fossero venute a noia'.

'Sono dunque delusi?' ho chiesto.

L'avvocato barbuto ha lanciato un'occhiata al suo segretario. La signora ha guardato dritto davanti a sé, non voleva partecipare nemmeno con uno sguardo alla nostra conversazione. Ho notato che tutti e tre si sono spaventati alla mia domanda. Ma probabilmente non credevano che ci fosse ordine da noi. Mi ritenevano forse una spia.

'Non hanno nulla da temere. Dicano tranquillamente il loro parere. Non sono della polizia. Giro film scientifici per il nostro istituto'.

La signora mi ha lanciato uno sguardo sottile, rapido. Se fosse irritata o se mi credesse, non sono riuscito a capirlo.

(Solo ora mi viene in mente di averla, forse, delusa. Forse le piacevo proprio finché poteva credere che nascondessi qualche segreto).

Ma Monsieur Edmond de V. mi ha detto, facendo gli occhi gentili e una bocca sprezzante, - tanto che non sapevo più a quale parte del viso dovessi credere -

Monsieur de V., dunque, ha detto: “'Non crederà, signore, che abbiamo paura. Siamo provvisti delle migliori raccomandazioni, è quasi come avessimo una missione ufficiale. Lo diremmo, se fossimo delusi. No, non lo siamo. Siamo entusiasti dell'accoglienza delle vostre autorità, della vostra gente, del vostro popolo. Però vediamo, - glielo posso dire da parte di tutti noi - vediamo in quella che voi definite una fondamentale trasformazione sociale soltanto un fenomeno etnologico, russo. Per noi il bolscevismo è russo quanto - mi scuserà il paragone – lo fu lo zarismo. Inoltre - e su questo punto mi trovo in contrasto con i signori - ho la speranza che verserete molta acqua nel vostro vino'.

 

'Lei vuole probabilmente dire: vino nella vostra acqua' ho replicato.

'Lei esagera, signore, apprezzo la sua cortesia'.

'Lei vuol provocarci, forse!' ha detto la signora guardando in aria.

Era la prima frase che mi aveva rivolto direttamente, e non mi guardava, quasi volesse far capire che, anche se parlava con me, non si riferiva proprio ed esclusivamente a me.

'Spero che lei scherzi e non sospetti...'.

'E' stato uno scherzo' mi ha interrotto l'avvocato. Mentre parlava la sua barba si muoveva, e io cercavo di capire già da quei movimenti che cosa avesse detto. “'Forse le farà piacere parlarmi della Francia. Capita di rado qualcuno del suo Paese, che io non conosco'.

'E' difficile descrivere la Francia a un russo che non conosce l'Europa,' ha detto il segretario 'e lo è specialmente per noi francesi. Ad ogni modo se ne farà un'idea non molto esauriente dai nostri libri e giornali. Che cosa vuole? Parigi è la capitale del mondo, Mosca lo diventerà forse un giorno. Parigi è inoltre l'unica città libera del mondo. Da noi vivono reazionari e rivoluzionari, nazionalisti e internazionalisti, tedeschi, inglesi, cinesi, spagnoli, italiani, noi non abbiamo la censura, abbiamo eque leggi scolastiche, giudici onesti...'.

'... e una polizia efficiente' ho detto, perché lo sapevo dai racconti di alcuni comunisti.

'Della vostra, piuttosto, non dovreste lamentarvi' ha detto la signora, continuando a non guardarmi.

'Non ha nulla da temere dalla nostra polizia' ha detto il segretario. 'Se lei un giorno volesse venire da noi, non con intenzioni ostili, naturalmente... potrà sempre contare su di me'.

'Certamente' ha confermato la barba.

'Verrò con le intenzioni più pacifiche' ho assicurato. Così dicendo, sentivo quanto ingenuo apparissi. La signora mi ha guardato. Ho fissato le sue sottili labbra rosse e ho detto, goffo e puerile, credendo di dover ancora esagerare la mia rozza ingenuità: 'Verrei da voi... per le vostre donne'.

'Ma come siete "charmant".' ha buttato là in gran fretta la barba. Forse aveva paura che lo dicesse sua moglie. Con tutto ciò non ha potuto impedire che sorridesse.

Avrei voluto dirle: Io l'amo, "madame".

Lei ha cominciato a parlare come fosse del tutto sola: “'Non potrei mai vivere in Russia. Ho bisogno dell'asfalto dei boulevard, della terrazza di un caffè al Bois de Boulogne, delle vetrine di Rue de la Paix'.

Ha taciuto di colpo, come aveva incominciato. Pareva avesse sparso davanti a me gioie d'ogni genere, splendide, profumate. Stava in me raccoglierle, ammirarle, cantarle.

L'ho guardata per qualche attimo, dopo che ha smesso. Attendevo altre delizie. Ma in realtà attendevo la sua voce. Era una voce intelligente, profonda, penetrante.

'Non c'è altro posto in cui si viva bene come a Parigi,' ha ripreso il segretario ' io sono belga, non è quindi campanilismo'.

'E lei è di Parigi?' ho chiesto alla signora.

'Di Parigi; nel pomeriggio vogliamo andare nella zona del petrolio' ha detto in fretta.

'Se non ha niente in contrario, l'accompagno'.

'Allora io potrei lavorare e andarci soltanto domattina presto' ha detto la barba. “Ho mangiato prima al ristorante vegetariano, perché non avevo fame. Ero anche a corto di soldi. Mi pagheranno lo stipendio solo tra dieci giorni. Temevo che la signora avesse bisogno di una carrozza: sarei ancora riuscito a pagarla. Ma se aveva bisogno d'altro? Se a un tratto avesse voluto mangiare? Non potevo farmi pagare nulla dal segretario.

Ho mangiato senza appetito. Alle due e mezzo, sotto un sole rovente, ero davanti alla stazione.

Dopo venti minuti è arrivata su una carrozza, sola.

'Dovrà viaggiare con me soltanto' ha detto. 'Abbiamo deciso di lasciare il signor de V. con mio marito. Vuol girare per la città ed è preoccupato perché non riesce a farsi capire'.

Ci siamo trovati seduti tra mercanti di piazza, operai, maomettane semivelate, ragazzi senza tetto, mendicanti paralitici, venditori ambulanti, pasticcieri vestiti di bianco che vendevano dolciumi orientali. Le ho mostrato le torri di trivellazione. “'Che noia!' ha detto.

Siamo arrivati a Sabunci.

Ha detto: 'E' inutile vedere la città. Sarebbe uno strapazzo, fa caldo. Aspetteremo il prossimo treno, torniamo'.

Siamo tornati indietro.

Quando siamo scesi di nuovo a Baku ci vergognavamo. Qualche attimo dopo ci siamo guardati negli occhi scoppiando a ridere.

Abbiamo preso dell'acqua di seltz in un baracchino, le mosche ronzavano, una carta moschicida nauseante pendeva alla finestra.

Mi è venuto un gran caldo, per quanto bevessi acqua di continuo. Non avevo nulla da dire, il silenzio era anche più opprimente del caldo. Ma lei sedeva, impassibile al caldo, alla polvere, alla sporcizia che ci circondava e solo ogni tanto scacciava una mosca.

'Io l'amo' ho detto - e, benché fossi già tutto rosso per il caldo, sono arrossito anche di più.

Lei ha annuito.

Le ho baciato la mano. Il venditore d'acqua di seltz mi ha guardato irritato. Ce ne siamo andati.

Ho girato con lei per la vecchia città asiatica. Era ancora pieno giorno, l'ho maledetto.

Abbiamo camminato due ore senza meta. Temevo si stancasse o incontrassimo suo marito e il segretario. Siamo arrivati al mare senza volerlo. Sulla banchina del porto ci siamo seduti e io ho continuato a baciarle la mano.

Tutti ci guardavano, alcuni conoscenti mi hanno salutato.

La notte è calata rapida. Siamo entrati in un piccolo albergo, il proprietario mi ha riconosciuto, è un ebreo levantino. Mi crede un uomo influente ed è lieto, probabilmente, di sapere qualcosa di intimo su di me. Probabilmente intende servirsi all'occasione del suo segreto.

Era buio fitto, sentivamo il letto, non lo vedevamo.

'C'è qualcosa che punge' lei ha detto più tardi.

Ma non abbiamo acceso la luce.

La baciavo, lei indicava col dito ora qua, ora là, la sua pelle risplendeva nel buio, io inseguivo con labbra tremanti il suo dito che saltellava.

E' salita sulla carrozza, domattina tornerà con suo marito e il segretario, per congedarsi. Vanno in Crimea e poi da Odessa a Marsiglia.

Scrivo queste cose due ore dopo aver fatto l'amore con lei. Credo di doverle scrivere perché domani io sappia ancora che è stato vero.

Alja è appena andata a letto.

Non l'amo più. La silenziosa curiosità con cui mi accoglie da mesi mi sembra insidiosa. Come un taciturno che sta a spiare chi è un po' brillo e chi parla troppo, così lei accetta il mio amore...”.



 

Vennero il giorno dopo a congedarsi da Tunda.

 

“Ieri ho trattenuto deliberatamente il signor de V.” disse l'avvocato. “Sono convinto che non si possa mostrare a due persone tutto quello che si fa vedere a una sola. A quanto mi ha detto ieri mia moglie, deve aver visto un mucchio di cose interessanti”.

 

L'avvocato somigliava davvero a un nano, non più a uno di quelli innocui che stanno in un prato verde, ma a un nano che si nasconde nell'infida pietraia.

 

Si congedarono come degli estranei.

 

“Tenga” disse la signora prima di andarsene, e diede a Tunda un biglietto con il proprio indirizzo.

 

Non lo lesse che un'ora dopo.

 

Da quel giorno Tunda seppe che non aveva più nulla da fare a Baku. Le donne che incontriamo stimolano più la nostra fantasia che non il nostro cuore. Amiamo il mondo che rappresentano e il destino che ci additano.

 

Della visita della signora straniera erano rimaste le sue parole a proposito delle vetrine di Rue de la Paix, e a quelle vetrine Tunda pensò mentre cercava le sue vecchie carte.

 

Era un ordine in chiaro, numero 253, firmato, con timbro rotondo, dal colonnello Kreidl e rilasciato dal sergente Palpiter. La carta gialla, oramai porosa nelle piegature, aveva acquistato come una consacrazione, era liscia, dava al tatto la sensazione del sego e faceva pensare alla levigatezza delle candele. Il suo contenuto era inequivocabile. C'era scritto che il tenente Franz Tunda, a scopo prelievo uniformi, doveva recarsi a Lemberg.

 

Se il giorno dopo non fosse caduto prigioniero, quel viaggio di servizio sarebbe finito in una scappatina furtiva a Vienna.

 

C'era il nome Franz Tunda, così grande, così forte, disegnato tanto accuratamente con filetti e ombreggiature che usciva quasi dalla superficie della carta a vita propria.

 

Nei nomi vive una forza, come negli abiti. Tunda, che da qualche anno era Baranowicz, vide venir fuori dal documento il vecchio Tunda.

 

Accanto all'ordine in chiaro c'era la fotografia di Irene. Il cartoncino era deformato, l'immagine sbiadita. Mostrava Irene in un abito scuro accollato, un abito severo, di quelli che si indossano quando ci si fa fotografare per un combattente al fronte. Lo sguardo era ancora vivace, malizioso e intelligente, combinazione riuscita di una disposizione naturale e di un ritocco fotografico. Guardando l'immagine Tunda pensò alle vetrine di Rue de la Paix.