GUIDO FRANZINETTI
Le riscoperte delle «foibe»
La vicenda delle «foibe» rappresenta una complessa costruzione storiografica e politica, nella quale si possono riconoscere successive stratificazioni, dal 1943 a oggi. Il presente intervento si propone di individuare alcuni passaggi cruciali di tale processo, e pertanto prenderà in esame strati successivi di elaborazioni di questa costruzione, cercando di fornire una qualche contestualizzazione e forse anche una spiegazione storica della medesima. Per questo motivo l’approccio sarà di natura regressiva, partendo dal presente per arrivare al passato.
Riscoprire le foibe dopo la Guerra fredda
Il primo percorso di questa ricostruzione è la riscoperta della vicenda delle foibe dopo la fine della Guerra fredda. Nello spazio di poco più di un decennio si è passati dalla rivisitazione storiografica e politica della vicenda, alla sua esplicita politicizzazione, all’istituzione di un’apposita Giornata del Ricordo (modellata sulla Giornata della Memoria per lo sterminio degli ebrei), al noto intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano del 10 febbraio 2007. Si tratta di un percorso perfettamente visibile, e coerente in ogni sua fase1260.
La fine della Guerra fredda è rilevante non solo e non tanto per la cosiddetta «caduta del Muro di Berlino» (evento ormai entrato nel novero dei miti contemporanei), quanto piuttosto per l’insieme di eventi del 1989-91, dal crollo dei sistemi comunisti esteuropei, alla dissoluzione della Lega dei comunisti di Jugoslavia, alla fine dell’Unione sovietica, e infine all’avvio delle guerre jugoslave del 1991-95. Questo insieme di eventi ha determinato un radicale riorientamento dei termini del dibattito italiano sulle foibe.
Da un punto di vista formale, la dissoluzione della Federazione jugoslava sembrava permettere la riapertura di contenziosi tra l’Italia e gli stati successori della Jugoslavia (Slovenia e Croazia), che erano stati risolti dal trattato di Osimo del 1975. Tale ipotesi fu in effetti ventilata da esponenti politici italiani, e trovò concreta attuazione nella breve stagione del primo governo di centrodestra nel 1994, quando le trattative per l’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea furono ostacolate dall’Italia.
L’episodio sarebbe rimasto circoscritto se non fosse stato legato a un più ampio riorientamento del sistema politico italiano dopo la fine della Guerra fredda. Come è noto, nel corso della Guerra fredda vigeva un sistema di preclusione asimmetrica delle due ali estreme del sistema politico: da un lato il Partito comunista italiano (pci) era escluso dall’area delle possibili coalizioni governative per motivi di allineamento internazionale dell’Italia nel sistema della nato, dall’altro il Movimento sociale italiano (msi) era considerato estraneo al cosiddetto «arco costituzionale», in virtù del suo esplicito legame con la Repubblica sociale italiana, e quindi della sua estraneità alla Repubblica nata nel dopoguerra.
Nella pratica della vita politica italiana tale esclusione venne applicata in modo variabile, ma nel complesso fu un fatto reale. Essa era asimmetrica nella misura in cui il pci costituiva la maggior forza dell’opposizione, legata a una superpotenza mondiale, mentre il msi era una forza minore, per giunta priva di significativi appoggi a livello internazionale. Paradossalmente, alla fine della Guerra fredda il pci si trovava ad avere un bagaglio politico e ideologico più ingombrante di quello di cui doveva disfarsi il msi. Il legame con l’Unione sovietica era stato profondo e duraturo, protraendosi infatti fino alla dissoluzione dell’urss. Sino ad almeno la metà degli anni Ottanta la seconda superpotenza mondiale era stata percepita come una minaccia concreta al sistema di difesa di cui faceva parte l’Italia.
Il msi, dal canto suo, aveva un bagaglio politico e ideologico molto diverso di cui doveva liberarsi. Non era oberato da pesanti alleanze internazionali. C’era indubbiamente un’eredità storica e ideologica (quella della rsi) che costituiva un ostacolo all’espansione del msi sul piano elettorale e alla sua accettabilità sul piano politico. Come aveva osservato a suo tempo Vittorio Foa, il paradosso della destra radicale italiana stava nel fatto di aver scelto come punto di riferimento l’aspetto meno italiano del fascismo italiano: correnti ideologiche straniere e un alleato proveniente dal nemico storico dell’Italia, la Germania. Non era un difetto da poco per un movimento che affondava le radici nel Movimento nazionalista italiano dell’inizio del xx secolo. Lo stigma di aver tradito l’Italia, di essere stata una forza collaborazionista (con lo straniero, tedesco per giunta) pesò a lungo sul msi.
Da questo punto di vista, la vicenda delle foibe costituiva uno strumento cruciale nella strategia di riabilitazione e di normalizzazione del msi - Destra nazionale, e poi di Alleanza nazionale. L’area triestina e una parte del mondo degli esuli dalle terre annesse alla Jugoslavia dopo la seconda guerra mondiale avevano sempre rappresentato un bacino elettorale privilegiato del msi1261. Ma, al di là di considerazioni di natura elettoralistica, la vicenda delle foibe permetteva al msi di presentarsi senza lo stigma della collaborazione con il nemico germanico. Anzi, in questo caso il msi poteva presentarsi come il difensore della causa degli italiani, anche di quelli antifascisti, vittime della furia omicida del nemico «slavo», dei «titini», con la complicità dei comunisti italiani e l’indifferenza dei democristiani.
Questo tipo di discorso narrativo non perse forza col passare degli anni, ma al contrario ne acquistò. Diversi fattori concorrevano nel dare maggiore credibilità a questa trasformazione dell’immagine della destra radicale italiana. E troppo facile ridurli a uno dei tanti effetti della cosiddetta «fine della prima Repubblica» (che spiega tutto e nulla nel contempo). A scanso di equivoci, non è neppure il caso di spiegare tutto con un complotto politico-mediatico per la riabilitazione della destra italiana. Al contrario, il msi non avrebbe mai potuto realizzare questa riscoperta e revisione del giudizio storico e pubblico sulle foibe senza il ruolo attivo delle altre forze politiche italiane, e in particolare di quello che era oramai diventato l’arcipelago delle sinistre italiane.
Il pci (e i suoi partiti successori, pds, ds, e via dicendo) accolse con grande facilità la legittimazione reciproca e simultanea di quelli che erano stati i due estremi dell’arco politico. In questa decisione confluivano diversi ordini di motivi. Il primo era l’idea (rivelatasi poi ingenua) di una facile vittoria delle sinistre alla prima prova elettorale della cosiddetta “seconda Repubblica”, e cioè le elezioni politiche del 1994, che per l’appunto portarono all’elezione di un governo di centrodestra o di destra. Il secondo era il desiderio di lasciarsi definitivamente alle spalle le eredità del passato comunista. Quale migliore modo di farlo, se non quello di riconoscere, una volta per tutte, la propria «colpa», in una vicenda così sensibile come quella delle foibe, che aveva dato ombra a quella certificazione di patriottismo sempre ricercata dal pci (come da quasi tutti i partiti comunisti al di fuori dell’area sovietica). Fin dal 1935, dall’epoca del 7º Congresso dell’Internazionale comunista e dell’avvio dell’epoca dei Fronti popolari, i partiti comunisti occidentali avevano quasi sempre cercato di cancellare il sospetto di «nichilismo nazionale». Questa tendenza era particolarmente marcata nel pci, che cercò ogni occasione per rimarcare la propria lealtà allo Stato nazionale italiano (ad esempio, sottolineando che Palmiro Togliatti era stato interventista, fatto che in precedenza sarebbe stato considerato imbarazzante per un comunista).
A fattori di questo genere si aggiungeva una nota più specifica, che riguardava la cultura politica di sinistra dell’area del versante italiano del Litorale: la progressiva, ma inarrestabile disgregazione di una cultura comunista triestina «internazionalista», che aveva rappresentato una delle forme (non l’unica, beninteso) di integrazione sociale tra italiani e sloveni a Trieste. Questa cultura aveva certamente subito incrinature nel corso degli anni compresi tra il 1943 e il 1955 (l’anno della riconciliazione tra comunisti jugoslavi e sovietici), ma era rimasta una cultura politica significativa nella regione.
La fine del comunismo esteuropeo e poi della Federazione jugoslava accelerarono il processo di disgregazione di questa cultura internazionalista, con una profonda lacerazione del tessuto politico e culturale nel mondo della sinistra triestina. In tal modo, l’operazione di riorientamento del discorso storico e politico sulla questione delle foibe, che culminò nell’incontro tra Luciano Violante e Gianfranco Fini a Trieste, nel 1998, incontrò meno ostacoli di quelli che avrebbe trovato in precedenza. Il fatto che l’occasione fosse stata promossa da Giampaolo Valdevit, a lungo figura di spicco dell’Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia, era emblematico1262.
Prima di esaminare le fasi successive di questo processo, è bene tenere presente il ruolo giocato dalle guerre di dissoluzione jugoslave. In primo luogo dettero maggiore visibilità all’intera area del Litorale, e quindi anche ai gruppi di pressione interessati alla riscoperta delle vicende delle foibe. In secondo luogo le guerre jugoslave fornirono una perfetta occasione per l’adozione di un lessico politico interamente nuovo per la legittimazione di questi gruppi di pressione. Mentre durante la Guerra fredda la pubblicistica di questi diversi gruppi privilegiava espressioni quali «titini» ed eventualmente «slavo-comunista», nella nuova era fece la sua comparsa il termine «pulizia etnica», utilizzato per descrivere i processi diretti alla espulsione delle popolazioni durante il conflitto jugoslavo. Questo termine, già impreciso nel contesto delle guerre jugoslave degli anni Novanta del xx secolo, fu rapidamente incorporato nella pubblicistica sulle foibe, definite anch’esse una forma di «pulizia etnica», senza alcun bisogno di verifiche o contestualizzazioni storiche. L’operazione ebbe un notevole successo di pubblico e di critica, ed è ormai diventata un luogo comune nel dibattito italiano1263.
La fase successiva di questo processo (che rifletteva sempre una molteplicità di dinamiche, di provenienza assai diversa) fu rappresentata dall’incontro Violante-Fini già menzionato, e poi dall’istituzione della Giornata del Ricordo, nel 2004, anch’essa frutto di un incontro trasversale di forze politiche di sinistra e di destra1264. In questo modo si realizzò quel processo che potrebbe essere definito la «olocaustizzazione» delle foibe, vale a dire di progressiva osmosi tra la commemorazione delle vittime dello sterminio antisemita e quella delle vittime delle foibe1265. La vicinanza tra le due date (27 gennaio - 10 febbraio), la stessa vicinanza tra le designazioni (Memoria in un caso, Ricordo nell’altro) rafforza questo processo di osmosi, perlomeno agli occhi dei responsabili delle commemorazioni scolastiche. Nel 2005 la rai mandò in onda una fiction televisiva sulle foibe, Il cuore nel pozzo. Le visite delle comitive scolastiche alla Risiera di San Sabba cominciarono a essere abbinate a quelle alla foiba di Basovizza. Gli editori italiani si dimostrarono più propensi a pubblicare libri sull’argomento. Il cerchio si era chiuso.
Il culmine di questo processo di consacrazione del discorso sulle foibe fu raggiunto con il discorso del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano del 10 febbraio 2007, in occasione della Giornata del Ricordo. Il discorso suscitò la reazione del presidente della Croazia, Stipe Mesič, che lo definì un discorso «razzista»1266.
L’intervento di Napolitano era formalmente diretto a superare i contenziosi con la Slovenia e la Croazia1267. Tenuto conto del fatto che egli era stato per molti anni un dirigente del pci e dei partiti successori, esso aveva anche una destinazione politica, e cioè un’apertura politica alla destra italiana. Il secondo obiettivo sembra perfettamente realizzato; il primo molto meno.
Il testo conteneva due aspetti centrali. Il primo è un’analisi sommaria della vicenda:
[...] si è scritto, in uno sforzo di analisi più distaccata, che già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell’autunno del 1943, si intrecciarono «giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento» della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzi tutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una «pulizia etnica»1268.
Il secondo è il riconoscimento di responsabilità politiche da parte italiana nell’aver taciuto la vicenda stessa:
[...] va ricordata [...] la «congiura del silenzio», «la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio» [...] Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali1269.
Il testo è interessante sotto diversi punti di vista. In primo luogo, non contiene alcun riferimento esplicito al nazionalfascismo italiano, al nazionalsocialismo tedesco, o all’invasione della Jugoslavia nel 1941. Se un uomo politico tedesco o austriaco avesse pronunciato una commemorazione che avesse fatto omissioni equivalenti, è facile immaginare quali sarebbero state le reazioni europee (basti pensare alle reazioni alle affermazioni di Haider).
In secondo luogo, l’apertura alla destra italiana è un’operazione perfettamente lecita in sede politica. Non è chiaro quale funzione svolga nell’ambito di una commemorazione da parte di una figura istituzionale.
In terzo luogo, il testo è chiaramente inteso anche come espiazione pubblica di un dirigente comunista italiano. L’espressione «un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”» è significativa. L’espressione «slavo» per designare coloro che sarebbero stati definiti all’epoca (e soprattutto dai dirigenti comunisti italiani) «jugoslavi» è sintomatica, anche perché l’espressione ha spesso avuto (nell’area del Litorale) una connotazione spregiativa. E anche curiosa l’omissione dell’aggettivo «comunista», dal momento che le forze partigiane slovene e croate facevano riferimento al Partito comunista jugoslavo.
I motivi per cui un ex dirigente del pci ha optato per queste preferenze lessicali sono facilmente intuibili, e cioè il desiderio di prendere le distanze, per quanto è possibile, da un passato ideologico ingombrante. E altrettanto comprensibile che un ex dirigente comunista croato, ex presidente della Repubblica socialista federale jugoslava, trovi questi commenti «razzisti». Erano commenti che rivelavano una scarsa sensibilità storica e politica. Indubbiamente, erano perfettamente rappresentativi del senso comune oggi prevalente in Italia.
Al di là delle considerazioni sui calcoli politici (perfettamente legittimi) vi sono due aspetti di rilevanza più generale che meritano di essere sottolineati. Il primo è l’ambiguità del processo di revisione del giudizio storico, storiografico e politico sulla seconda guerra mondiale, in corso dagli anni Settanta del xx secolo in poi. Questa revisione prese le mosse dalla discussione critica dell’opera di Renzo de Felice (spesso condotta in termini rozzi e mistificatori, almeno nei primi anni), e poi da quella sugli interventi di Claudio Pavone (che nel 1986 scandalizzava ancora i politici comunisti per aver ripreso la categoria di «guerra civile»). Nel corso degli anni Novanta sono anche riprese le discussioni sulla «morte della patria» che sarebbe avvenuta in Italia all’indomani dell’8 settembre 1943. Sono inoltre emerse diverse correnti interpretative storiografiche che hanno fornito contributi nuovi e sostanziosi sulla storia della seconda guerra mondiale in Italia, con particolare riferimento alle stragi naziste e ai bombardamenti angloamericani sulle città italiane1270. Detto ciò, la storiografia (non meno della pubblicistica) non ha ancora affrontato adeguatamente molti problemi, come dimostra il persistere dell’idea degli «italiani brava gente», o anche solo le reazioni al film di Spike Lee, sulla vicenda di Sant’Anna di Stazzema1271.
Il secondo aspetto riguarda invece il tema della «olocaustizzazione» della vicenda, menzionata in precedenza. Ballinger rileva: «Quasi ogni esule con cui ho parlato mi ha detto “Quel che gli slavi [jugoslavi] si stanno facendo [nelle guerre degli anni Novanta] è quello che fecero a noi cinquanta anni fa”». Ballinger illustra ampiamente le identificazioni tra la vicenda dell’esodo e il genocidio degli ebrei. Lo stesso Valdevit fornisce un caso esemplare di identificazione, allorché afferma che «Gradualmente la memoria storica nazionale si riequilibria: accanto alla Risiera di San Sabba, che vi sta dai tempi del processo del 1976, compaiono e foibe e l’esodo»1272.
L’aspetto interessante è che questo processo non è per nulla unico nel panorama europeo, ma presenta notevoli analogie con la ripresa (o riscoperta) del dibattito tedesco sulle espulsioni (Vertreibungen). L’espressione «olocaustizzazione» è stata per l’appunto coniata da Andreas F. Kelletat1273. Eva Hahn e Hans Henning Hahn, che l’hanno ripresa, hanno anche ricordato ciò che già nel 1950 Eugen Lemberg scriveva: «Quel che i tedeschi hanno fatto agli ebrei, i polacchi e i cèchi hanno fatto ai tedeschi»1274. In Germania, come in Italia, dopo la fine della Guerra fredda, c’è stata una ripresa di discorsi apologetici, presentati sotto nuove etichette, e in particolare con la olocaustizzazione di eventi che richiederebbero una contestualizzazione storica più attenta1275. Anche qui, come in Italia, i vecchi sostenitori di queste tesi (da destra) sono stati affiancati da una sinistra politica e storiografica alla ricerca di aperture a nuovi mercati elettorali e editoriali, o anche solo di una nuova verginità politica e ideologica. In entrambi i paesi i transfughi dall’estrema sinistra hanno giocato un ruolo di primo piano1276.
Il problema non consiste nel fatto che queste correnti interpretative propongano una revisione di canoni storiografici; è piuttosto il fatto che esse non sono basate su nuove ricerche, ma consistono semplicemente nella riproposizione di vecchie tesi sotto nuove etichette, prima fra tutte quella della «pulizia etnica».
Ovviamente, nel corso degli ultimi decenni vi sono state molte ricerche valide sulle tematiche legate alla vicenda delle foibe. Ciò non significa però che queste nuove ricerche abbiano sostanzialmente dimostrato la validità di un qualsiasi paradigma della olocaustizzazione delle foibe e dell’esodo. In particolare, va rilevata la sproporzione tra il grado di sofisticazione delle nuove discussioni sulle stragi naziste in Italia centrale e settentrionale (e le relative «memoria divise») e la povertà metodologica di gran parte delle ricerche italiane sulle foibe1277. Indubbiamente, il fatto che gran parte delle ricerche da parte italiana prescindano dall’uso sistematico di fonti in sloveno e in serbocroato rende difficile un confronto scientifico tra la storiografia italiana e quella slovena e croata. È sufficiente fare un confronto con le ricerche degli storici tedeschi e austriaci sull’area danubiana per verificare il dislivello esistente1278.
La riscoperta delle foibe durante la Guerra fredda
Nel discorso del presidente Napolitano compare l’espressione «congiura del silenzio», che ci sarebbe stata lungo tutto il dopoguerra; aggiungendo la necessità di assumersi «la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali». Innanzitutto, l’affermazione risulta difficilmente comprensibile. Quale è il soggetto di questa affermazione? Il presidente personalmente? La classe politica italiana della Prima Repubblica nel suo complesso? E in che modo è stata attuata questa «congiura del silenzio»?
Il quadro si fa ancora più fosco se si scende di livello, passando a un intervento apparso in una raccolta curata da un noto storico di formazione comunista1279. Maurizio Tortorella spiega la vicenda nei seguenti termini:
Inizia in quel momento [il 15 settembre 1947, con l’entrata in vigore del trattato di pace tra l’Italia e la Jugoslavia] un incredibile fenomeno collettivo, persistente e su scala nazionale, di rimozione storica. Per decenni prevalgono l’oblio e la reticenza: le foibe e la loro tragedia umana non esistono più; chi osa parlarne è dichiaratamente fascista o viene comunque subito tacciato di fascismo, oppure è accusato di agire in malafede. In ogni caso viene brutalmente messo a tacere. Questo terrorismo psicologico non lascia alcuno spazio alla ricerca storica o semplicemente giornalistica. La controinformazione si limita a qualche libro (presto dimenticato) e a numerosi opuscoletti, veri e propri samizdat condannati alla semiclandestinità e ghettizzati all’ambito provinciale o regionale, oppure si fa propaganda inevitabilmente di parte, neofascista e missina1280.
Sarebbe facile indugiare con ironia sul quadro che viene fatto di un paese, come l’Italia, che votò nel 1948 in maggioranza per la Democrazia cristiana, che mantenne una rigorosa maggioranza non comunista lungo tutto l’arco della Guerra fredda, e che faceva parte integrante della nato. Indubbiamente, possono esserci stati momenti e contesti in cui l’accusa di fascismo avrebbe potuto creare problemi ad alcuni individui. Ma dopo l’amnistia di Togliatti e dopo il 1948 è onestamente difficile vedere di quale paese e di quali contesti si stia parlando1281. Esistevano case editrici di destra e di centro che pubblicavano libri che parlavano delle foibe (come ad esempio la Mursia); esistevano giornali, settimanali e mensili della destra radicale (il «Candido», «il Borghese») che ebbero un grande successo di pubblico, e questi certamente parlavano di foibe. Indubbiamente, i mezzi di comunicazione radiofonica e poi televisiva erano preclusi alle forze di opposizione, di destra e di sinistra, almeno sino agli anni Settanta; parlare di «congiura del silenzio» è però eccessivo.
L’intervento di Tortorella è comunque interessante sotto un altro profilo. Al di là del livello del giornalismo (che è nella media, trasversalmente di destra e di sinistra, sostanzialmente intercambiabile) sono estremamente rivelatorie le sue scelte lessicali, che ricalcano perfettamente modelli retorici elaborati dalla sinistra radicale negli anni Sessanta e Settanta: «terrorismo psicologico», «controinformazione». Il modulo è quello della critica alla «manipolazione delle masse», della censura occulta, della falsa tolleranza che cela il fatto che il pensiero venga «brutalmente messo a tacere». Non è la formazione individuale del giornalista a essere rilevante, non è neppure una questione di migrazioni di transfughi ideologici, quanto piuttosto una subalternità culturale della destra radicale nei confronti della cultura di sinistra, e in particolare della sinistra radicale1282. E da questo contesto che emerge l’olocaustizzazione delle foibe: se l’Olocausto è l’evento definitorio della contemporaneità, allora anche le foibe devono essere presentate in questa medesima veste.
Cosa si sapeva effettivamente delle foibe durante i lunghi decenni della «congiura del silenzio» durata dal 1947 al 1991? Ovviamente nella regione del Litorale le notizie sulle foibe (attendibili o meno che fossero) erano note sin dal 19431283, e continuarono a esserlo sempre durante la lunga notte della Prima Repubblica. Fuori dal Litorale il grado di informazioni disponibili sarà stato certamente variabile. Gli esuli italiani (e non) dalle terre istriane e dalmate furono dispersi lungo l’intera penisola, ed è improbabile che abbiano rispettato tutti un’autocensura totale sulla vicenda delle foibe. D’altronde era spesso vero che i profughi si saranno trovati in situazioni nelle quali era consigliabile una certa prudenza nel sollevare un argomento di cui la maggioranza degli italiani, di qualsiasi colore politico, poco sapevano e a cui forse non erano particolarmente interessati. È possibile che l’indifferenza sia stata la causa prima della scarsa conoscenza delle vicende delle foibe in Italia anche se è l’ipotesi più dolorosa da accettare per i sopravvissuti alle foibe e per i loro familiari. Questo spiegherebbe la persistenza dell’idea della «congiura del silenzio»1284.
La subcultura politica legata al pci costituisce un caso a sé stante. Il pci era certamente in una posizione particolare, essendo stato presente tra le forze partigiane del Litorale, avendo sempre avuto rapporti stretti con i partigiani comunisti jugoslavi e poi con il governo jugoslavo (salvo che nel periodo 1948-55). É davvero improbabile che i militanti comunisti della regione non fossero a conoscenza della vicenda delle foibe, per gli stessi motivi per i quali il resto della popolazione lo era. Indubbiamente, il tema delle foibe non costituiva uno dei temi d’obbligo presso i corsi della scuola di partito alle Frattocchie; ma in un partito di massa quale era il pci le fonti di informazione erano innumerevoli. Generalizzando, si può dire che quasi tutti sapevano quasi tutto.
Certamente, i comunisti italiani, come il resto della popolazione, potevano razionalizzare in una varietà di modi le informazioni che raccoglievano. Potevano ritenere che le vittime delle foibe fossero in gran parte dei fascisti che si meritavano una simile fine, che le necessità della guerra dovevano comunque prevalere, e via dicendo. Possiamo citare, a titolo esemplificativo, la vicenda di Pier Paolo Pasolini. Suo fratello Guido faceva parte della brigata partigiana Osoppo (autonoma, non comunista), e fu ucciso da partigiani garibaldini a Porzûs (provincia di Udine)1285. Pasolini fu informato dell’accaduto. Ne parlò e scrisse in più occasioni, e pubblicamente. Una di queste occasioni fu in un’intervista pubblicata negli anni Sessanta, e non su un qualche oscuro bollettino di partito, bensì sul settimanale di massa del pci, «Vie Nuove». Indubbiamente, la vicenda era leggermente diversa da quella delle foibe istriane, ma è difficile sostenere che il militante comunista di base fosse una vittima della «congiura del silenzio»1286. Il militante comunista di base, indubbiamente, sapeva come interpretare «correttamente» queste vicende.
Nel 1980 l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia pubblicò un massiccio volume (più di 600 pagine) sull’esodo istriano e dalmata, che beninteso parlava anche delle foibe1287. L’autore della prefazione, Giovanni Miccoli, ha in seguito riconosciuto che il libro non fu accolto con favore da molti Istituti di Storia della Resistenza. Ma non fu certo una «congiura del silenzio».
Se il quadro tracciato delle conoscenze disponibili sulle foibe fosse attendibile, da dove potrebbe derivare la rivendicazione crescente della seconda ondata di «riscoperta» delle foibe, che alla fine ha ottenuto il suo Giorno del Ricordo? Che cosa è mancato nel corso degli anni della Prima Repubblica? La risposta è molto semplice: è mancata la ritualizzazione della commemorazione delle vittime delle foibe, è mancata la sua sacralizzazione, quel riconoscimento che i superstiti e i loro parenti hanno agognato e rivendicato.
Adesso la ritualizzazione è arrivata. Le comitive scolastiche si recano immancabilmente alla Risiera di San Sabba, e poi alla fossa di Basovizza. È probabile che i ragazzi (al pari dei loro genitori) confonderanno il Giorno della Memoria con il Giorno del Ricordo. Sarà interessante, a distanza di anni, verificare cosa sia rimasto nella loro memoria di queste visite, degli sceneggiati televisivi replicati, delle lezioni affrettate.
Conclusioni
Le conclusioni di questo intervento non vogliono fermarsi a un facile cinismo sugli sforzi vani di creare una memoria delle foibe. E un cinismo che si può ritorcere contro una qualsiasi impresa di commemorazione, giusta o sbagliata che sia.
Rimane invece aperto il problema storico, e cioè il problema dei rapporti tra popolazioni italiane (nella loro diversità) e popolazioni slovene e croate nel Litorale austriaco1288. È facile proiettare secoli di convivenza (e di ostilità) verso un unico, inesorabile, destino segnato dalle etichette «foibe» e «esodo». È anche facile ricorrere alla comoda etichetta dello scontro tra una cultura nazionale «urbana» (quella italiana) e una «rurale» (quella slovena e croata)1289. Ma queste sono descrizioni, non spiegazioni di processi storici; e sono per giunta tautologiche, frutto del senno del poi. Forse sarà utile ricordare le parole di un grande patriota goriziano, che scriveva in un’epoca di trionfalismo nazionalista italiano e si rendeva ben conto della fragilità della posizione degli italiani nel Litorale:
[...] sarà lecito dubitare se sia opera di oculato patriottismo il non badare alle conseguenze che derivano agl’italiani di laggiù [nel Litorale] da un’agitazione che muove lo straniero alla vendetta insieme e alla disistima1290.
Scritto nel 1895, senza il senno del poi.