Qualche decennio più tardi, il pubblicista Arrigo Petacco racconta:

Esempio di tecnica per un massacro. Si uniscono i polsi dei prigionieri con un unico filo di ferro. Quindi si fanno marciare uomini, donne e ragazzi in colonne, attraverso le sterpaglie del Carso, finché si raggiunge la foiba. Qui, una volta allineati i prigionieri sull’orlo dello strapiombo, profondo centinaia di metri, si spara sul primo della fila. Che, cadendo, si trascina gli altri665.

Il colmo fu però raggiunto dallo scrittore friulano Carlo Sgorlon, il quale, nel suo romanzo La foiba grande, affermò che «nella foiba di Basovizza, vicina a Trieste, era stato buttato un feudatario odioso, un uomo carico di delitti, al tempo del Patriarca di Aquileia». Basti considerare che il Patriarcato di Aquileia durò fino al 1596 e lo scavo per il pozzo della miniera iniziò nel 1901666.

Nel 1959 l’ex sindaco Gianni Bartoli pubblicò un volume, intitolato Le deportazioni nella Venezia Giulia, che si basava su una lunga sequenza di nomi pubblicata a puntate dal Bollettino del Centro studi adriatici qualche anno prima e dedicata ai «Caduti per l’italianità adriatica» dal 1848 al 1945. Questo primo elenco degli infoibati e deportati giuliani, istriani, fiumani e dalmati fu arricchito da Bartoli con ricerche anagrafiche presso il comune di Trieste, di Gorizia e Monfalcone e con dati fornitigli da varie associazioni fra cui quella dei congiunti dei deportati in Jugoslavia667. L’ex sindaco di Trieste per la verità fu solo un prestanome: oltre al già citato Luigi Papo, lo assistette Lina Galli, insegnante, scrittrice e poetessa di famiglia istriana668. È interessante notare come da quel momento la definizione «infoibati» venga estesa a tutti coloro che sarebbero stati uccisi tra il 1941 e il 1945 dagli «slavocomunisti» anche se avevano perso la vita in circostanze del tutto estranee alle «foibe»669. Il Martirologio delle genti adriatiche (cosi divenne noto l’elenco con la seconda edizione nel 1961), contiene 4.122 nomi, includendo persone cadute durante la guerra dalla Dalmazia in su, e in via eccezionale anche nel Friuli per mano jugoslava e non. A fianco di citazioni grottesche, relative a sloveni, tedeschi e russi, a persone viventi o menzionate due volte, nel complesso un buon 90 per cento dei nomi in esso inseriti, come afferma Paolo G. Parovel, risulta del tutto estraneo alla vicenda delle foibe. Ciò nonostante una copia del libro venne solennemente murata alla base della lapide di Basovizza, a testimonianza imperitura dell’asserito eccidio670. Per quanto riguarda lo «Šoht», esso misurerebbe, secondo Bartoli 6 metri per 4, e sarebbe stato profondo nell’anteguerra 208 metri e nel 1946 da 18 a 20 metri in meno. A prestare fede ai calcoli dell’ex sindaco, che di professione era ingegnere, le salme avrebbero dunque dovuto riempire dai 430 ai 480 metri cubi: il che significherebbe che nella voragine fossero state gettate 1.200-1.500 persone circa671. «Il Piccolo» nel suo reportage da Basovizza del 1º novembre 1961, non si accontentò di tale cifra, ma scrisse che quella foiba «ha visto compiersi la tragedia di almeno 2.500 civili e militari»672. Questi conteggi appaiono piuttosto fantasiosi, qualora si consideri che secondo il Calligaris, studioso delle miniere di carbone del Carso triestino, il pozzo della miniera di Basovizza misura invece 4,40 per 2,10 metri, presentando una superficie di 9,24 metri quadri. Se accettiamo la tesi di Bartoli, che nel settore di 20 metri fra il livello originario del pozzo e quello misurato nel 1946 ci sono le salme degli infoibati, dovremmo concludere che esso ne contenesse 184,8 metri cubi (18 metri di altezza contengono invece 166,32 metri cubi). Quindi, i morti potrebbero essere semmai tra 520 e 578673.

Tale funebre computo, a detta di Spazzali, «non ha risolto nulla»674. Esso fa il paio con la lapide apposta sulla foiba di Opicina: «Ai caduti Istriani, Fiumani e Dalmati». Padre Rocchi racconta che la foiba n. 149 sarebbe una «tomba tenebrosa di 2.000 anime inquiete» tra civili e militari italiani e della Wehrmacht, e insiste:

La macabra procedura si ripeté qui in tutti i suoi tragici particolari. Gli italiani, militari e civili, vennero denudati completamente; ai tedeschi vennero tolte solo le scarpe. Legati a catena di 10-20, vennero colpiti con una sventagliata di mitragliatrice: il peso del morto trascinava il ferito e l’incolume finché, sbattendo nelle tenebre da un roccione all’altro, la paurosa catena, insanguinata e sfracellata, si schiantava sul fondo675.

Più dettagliata ancora la descrizione dell’eccidio immaginata dall’avvocato triestino Piero Ponis, consigliere comunale della dc, fornita al settimanale «Gente» nel marzo 1980:

La foiba di Monrupino si apriva lungo la linea ferroviaria del Carso. I soldati di Tito facevano fermare in quel punto i vagoni bestiame carichi di italiani rastrellati in Istria, in Dalmazia. Poi aprivano i portelloni. Gli sventurati venivano scaraventati giù vivi: legati l’uno all’altro con fil di ferro: filo spinato. Piombavano sui cadaveri di altri italiani. Aspettavano la morte, fra sofferenze atroci676.

Nella Bršljanovca invece non furono affatto sepolti «istriani, fiumani e dalmati». Lo riconosce anche l’autore di numerosi studi sulle foibe, Giorgio Rustia, combattivo esponente dell’estrema destra, fondatore di un «Comitato spontaneo di triestini che non parlano lo sloveno»677.

La foiba di Monrupino, è un eccesso della nostra storiografia che ha voluto creare una foiba in cui saranno stati buttati una dozzina o una ventina soprattutto di soldati tedeschi. Rimane che la foiba di Monrupino ha un grande valore simbolico, perché rappresenta idealmente tutte le foibe dell’Istria, sia quelle esplorate sia quelle non esplorate, e giustamente gli esuli istriani, fiumani e dalmati hanno messo un cippo a ricordo dei loro caduti, anche se li materialmente non ci sono678.

Gli anni Sessanta e Settanta

Negli anni Sessanta la situazione sulla frontiera orientale sembrò evolversi meno condizionata dai traumi del passato. Le autorità italiane improntarono la loro politica nei confronti degli sloveni della Venezia Giulia a «responsabilità, moderazione e attenta cautela», per dirla con Aldo Moro, rispettando cioè i loro diritti etnici, ma con molte restrizioni; d’altro canto, non soffiarono sul fuoco del nazionalismo triestino679. L’atmosfera in Italia cambiò soprattutto per l’elezione al soglio pontificio di Giovanni xxiii, che nella sua enciclica Pacem in terris (1963) dedicò molto spazio alle minoranze nazionali, e per l’evolversi del clima politico interno, grazie al dialogo fra dc e psi. Dopo la seconda guerra mondiale, Trieste, attraverso i periodi del Governo militare alleato e poi delle prime amministrazioni italiane, era stata una specie di «zona franca» politica per responsabili e criminali fascisti e collaborazionisti680. Ma i tempi nuovi cominciarono a farsi sentire quando al timone della dc locale furono chiamati dei giovani, convinti che nella nuova congiuntura italiani e sloveni dovessero scendere dalle opposte barricate per ricercare una «convivenza pacifica». Questo progetto non fu di facile attuazione anche perché vi si oppose il vescovo Santin, il «vescovo con gli speroni», come lo definì, per non usare una parola più volgare, il leader comunista di Trieste Vittorio Vidali681. Santin rinfocolò sentimenti antislavi nel 1965, quando la prima giunta di centro-sinistra insediatasi al Comune di Trieste incluse fra i suoi assessori anche un ex partigiano di Tito già direttore del «Primorski dnevnik», Dušan Hreščak682. Nonostante manifestazioni di piazza sobillate dalle forze conservatrici, la direzione della dc, in cui era forte la sinistra morotea, resistette fermamente, riuscendo a far eleggere lo «slavocomunista» nella giunta comunale. Sembrava, per dirla con Bruno Pincherle, uno dei più coerenti e isolati intellettuali triestini di fede democratica, che fosse stato compiuto un atto di rilevanza storica, capace di dare nuova dimensione ai rapporti interetnici nel Friuli Venezia Giulia683. Al rasserenarsi dell’atmosfera contribuirono notevolmente anche i cambiamenti politici ed economici in atto nella vicina Jugoslavia, dove a metà degli anni Sessanta si affermò una generazione di riformatori, decisi a modernizzare il paese. Fra l’altro essi aprirono le frontiere, permettendo a migliaia e migliaia di operai di andare a lavorare all’estero, soprattutto in Germania. Le loro rimesse in valuta innalzarono in misura consistente il tenore di vita di molte famiglie, i cui membri, per acquistare beni di consumo «occidentali», si riversarono a Trieste e Gorizia. La città adriatica, già porto cosmopolita degli Asburgo, si trasformò in una specie di gran bazar particolarmente lucroso, dove, come disse il Tommaseo, «il commercio dimena le sue cento lingue». Lingue slave soprattutto684.

L’afflusso a Trieste di tanto denaro balcanico, che diede nuovo impulso alla sua stanca economia, non riuscì però a modificare l’atteggiamento pregiudiziale di ripulsa di buona parte della sua popolazione nei confronti degli «s’ciavi». Nei circoli degli esuli istriani e in quelli di destra le vecchie parole d’ordine sul «pericolo slavo» continuarono a esser riproposte, come un mantra dal quale dipendesse l’ordine stesso delle cose685. In tale contesto è significativo che ancora negli anni Sessanta fosse attivo un Gruppo escursionisti speleologi triestini, fondato nel dicembre 1953 e legato al msi locale, che continuò più o meno clandestinamente a esplorare le foibe, «per dare cristiana sepoltura ai caduti della rsi lasciati a marcire nell’orrido fondo del Bus de la lum [nel Friuli] e in altre cavità carsiche»686.

Più significativi ancora furono alcuni scritti apparsi tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, volti a mantenere vivo il discorso sulle foibe che la politica ufficiale sembrava voler scoraggiare. Nel 1968 Luigi Papo pubblicò un volume su I caduti e i martiri della Zona B dell’Istria, edito dall’Associazione nazionale Italia irredenta. Con esso volle celebrare l’anniversario della vittoria nella prima guerra mondiale, ricordando «i diecimila e più morti delle foibe» nella seconda687. Un vero e proprio scoop riuscì a padre Rocchi con la pubblicazione nel 1971 de L'Esodo dei Giuliani, fiumani e Dalmati, in cui è chiaro il nesso tracciato dall’autore fra gli eccidi del 1943 e del 1945, confortati da elementi non sempre accurati, per dirla con Spazzali, e l’esodo degli istriani. A questo proposito padre Rocchi cita un colloquio del primo dopoguerra fra De Gasperi e Gianni Bartoli, nel corso del quale il futuro sindaco di Trieste avrebbe descritto con parole drammatiche la condizione dei connazionali soggetti agli jugoslavi: «Ci butteranno tutti in mare». De Gasperi a questo punto avrebbe risposto: «Se le cose stanno così, venite con noi»688.

Ma lo scoop di cui si è detto è un altro: a testimonianza del massacro che gli jugoslavi avrebbero compiuto a Trieste nel maggio 1945, padre Rocchi inserì nel suo testo un documento che sarebbe stato reperibile presso il ministero della Difesa. Si trattava, a suo dire, di una relazione sul «Comportamento delle Forze jugoslave di occupazione nei riguardi degli italiani della Venezia Giulia e in Trieste», datata 30 luglio 1945 e consegnata al ministero della Guerra dal capitano di vascello Carlo Chelleri. In essa si parla anche del pozzo di Basovizza affermando che vi sarebbero stati gettati 2.500 italiani, nonché 24 neozelandesi, recuperati dai connazionali nel corso di luglio insieme ad altri 600 cadaveri. Di questo memoriale, di cui padre Rocchi non aveva parlato nel suo precedente opuscolo sulle foibe di Basovizza e Monrupino, e di cui in seguito seppe offrire solo la fotocopia della copertina di un’altra sbiadita fotocopia, è sicura solo la firma689. Carlo Chelleri fu un ufficiale della regia marina che durante l’occupazione tedesca, come abbiamo visto, collaborò con i partigiani nell’area fra Capodistria, Pirano e Isola d’Istria. D’intesa con il cln triestino, nel maggio del 1945 cominciò però a svolgere attività antijugoslava nelle stesse cittadine, cercando di costituire dei comitati di liberazione regionali clandestini. Arrestato il 23 giugno e portato al Comando della Milizia popolare di Isola sotto l’accusa di propaganda italiana e detenzione di armi da fuoco, fu subito rilasciato per interessamento delle autorità locali, visto il suo apporto alla lotta antinazista. Giunto a Trieste il giorno successivo, continuò nella sua attività patriottica «perché sono deciso a lottare per questa giusta causa fino alla vittoria»690. Alla fine di luglio fu a Roma in cerca di fondi e radiotrasmittenti. In quell’occasione avrebbe trasmesso al ministero della Guerra due distinte relazioni, inserite nel memoriale del ministero degli Esteri sul «Trattamento degli italiani da parte jugoslava dopo l’8 settembre 1943», per la Conferenza di pace di Parigi691. Interpellato da Marcello Lorenzini, vicepresidente del Comitato per le onoranze ai caduti delle foibe, il Chelleri negò tuttavia di aver firmato o consegnato alcun documento di tale tenore durante il suo soggiorno romano692.

Queste e altre pubblicazioni di propaganda sul tema «foibe»693 non riuscirono a bloccare la nascita a Trieste di una nuova temperie culturale, cui diedero apporto intellettuali d’ispirazione liberale o di sinistra, decisi a una riflessione sulla recente storia della città aliena sia dal manicheismo tradizionale, sia dal massimalismo ideologico. Se ne fece portavoce tanto autorevole quanto inatteso il Procuratore generale Alberto Mayer che, nel 1971, inaugurò l’anno giudiziario denunciando le gravi violenze commesse durante l’anno precedente da frange politiche extraparlamentari nazionaliste e neofasciste. Così concluse il suo dire:

Le tanto dolorose e tanto luttuose foibe altro non rappresentano se non la nemesi storica di quei loro bastoni chiodati, di quelle loro mazze ferrate, di quei loro manganelli di ferro; e la conseguenza, ancora, di una proditoria guerra di aggressione, non affatto provocata, e tuttavia dalla furia littoria selvaggiamente sferrata contro la Grecia, contro l’Albania e contro la Jugoslavia al dichiarato fine di «spezzar loro le reni»; e infine, ancora la conseguenza di vent’anni di dura oppressione cui il littorio aveva spietatamente condannato queste bonarie e pacifiche popolazioni di minoranza.

Per quest’analisi cosi franca e coraggiosa l’illustre magistrato triestino venne sottoposto a un vero e proprio linciaggio politico, che produsse anche un’indagine del Consiglio superiore della Magistratura e rese infine opportuno il suo trasferimento ad altra sede per motivi «ambientali»694.

Nonostante l’atmosfera ostile a ogni discorso nuovo, che permeava ancora settori importanti della vita cittadina in cui era concentrato il potere, lo sforzo di una parte dell’intellighenzia locale di sottrarsi agli schemi mentali di matrice nazionalistica non era più arginabile. Centro di riferimento per questi studiosi divenne l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia, fondato nel 1953 per iniziativa di Ercole Miani, che avrebbe conosciuto però il suo vero decollo un decennio più tardi. Nel 1961 l’Istituto pubblicò un volume su L’occupazione jugoslava di Trieste (maggio-giugno 1945), il cui autore, Ennio Maserati, più tardi docente all’Università di Trieste, affrontò per la prima volta la problematica, basandosi su un esame serio delle fonti695. In seguito essa fu trattata più volte sulla rivista dell’Istituto, «Qualestoria», da una schiera di studiosi giovani e meno giovani, decisi a sciogliere i nodi ancora irrisolti della tormentata storia cittadina. Fra loro va menzionato soprattutto Galliano Fogar che nel 1945 era uno degli esponenti del cln triestino e negli anni successivi aveva diretto il giornale «La Voce Libera». In quel periodo si era esposto al punto da esser inserito in un elenco di «banditi» che un volantino di non meglio identificati «Antifascisti di Trieste» denunciava alla cittadinanza, invitandola a farlo sparire con tutta la sua genia «una volta per tutte»696. Negli anni successivi, in qualità di giornalista, non aveva certamente lesinato critiche nei confronti della Jugoslavia e dei suoi sostenitori locali; essendo però uomo di grande integrità morale non fu disposto ad aderire alla propaganda sulle foibe scatenata in città negli anni Cinquanta e Sessanta. Egli si fece notare già nel 1968 con un suo scritto, intitolato «Sotto l’occupazione nazista nelle province orientali», in cui prendeva in esame i fatti istriani del 1943, interpretandoli nel loro contesto sociale, nazionale, politico e umano697. Negli anni successivi rimase costantemente sulle barricate, coraggioso e lucido per quanto inascoltato testimone di un momento storico e dell’esplosione di una «matta bestialità», che cercava di comprendere, pur avendo rischiato di esserne vittima lui stesso698.

La Risiera: il processo

Accanto alle foibe e all’esodo dall’Istria, una tematica che impegnò a fondo il gruppo raccolto intorno all’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia fu quella della Risiera di San Sabba, il campo di raccolta e di sterminio organizzato dai nazisti nel periodo «Operationszone Adriatisches Küstenland». Grazie a tale impegno il governo italiano riconobbe nel 1965 alla Risiera lo status di monumento nazionale di considerevole interesse storico e politico, in quanto «l’unico esempio di lager nazista in Italia»699. Negli anni successivi l’edificio fu risistemato e aperto al pubblico come museo e luogo di memoria con l’aggiunta di un’imponente entrata, costituita simbolicamente da due grandi mura di nudo cemento ai lati di uno stretto passaggio che porta al cortile centrale. Qui sul muro di fronte ci sono i segni del forno crematorio, fatto saltare dai nazisti prima che i partigiani liberassero i prigionieri ancora in vita. Nel 1966 l’Istituto per la Storia fu informato di processi organizzati nella Repubblica federale tedesca contro alcuni ufficiali delle SS che erano stati attivi anche nella Venezia Giulia. Il governo di Bonn chiese infatti la sua assistenza per avere notizie e testimonianze relative agli eventi accaduti nella città e nei dintorni fra l’8 settembre 1943 e il 10 maggio 1945. Ciò indusse Ercole Miani a far pressione sulle autorità affinché organizzassero anche a Trieste un processo contro i boia della Risiera, col preciso intento di chiarire anche il coinvolgimento delle forze borghesi locali nella politica imperialista e razzista del Terzo Reich700.

I preparativi del processo cominciarono nel 1970, anno i cui i rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia si deteriorarono improvvisamente per la decisione del maresciallo Tito di disdire un viaggio ufficiale a Roma e in Vaticano. Tale «storico» evento (per la prima volta un capo di Stato comunista avrebbe varcato le soglie dei palazzi pontifici) era stato preparato a lungo e con cura come momento culminante del processo di avvicinamento fra Jugoslavia e Italia svoltosi negli ultimi anni. Gli jugoslavi vi riponevano grandi aspettative, nella speranza che nell’occasione sarebbe stato impostato in modo serio il problema ancora aperto della frontiera fra la zona A e B dell’ormai obsoleto Territorio Libero di Trieste. All’ultimo momento tuttavia il ministro degli Esteri Aldo Moro, nel rispondere a un’interrogazione parlamentare di alcuni deputati del msi sulla politica del governo di Roma relativa al problema, affermò in maniera criptica che durante la visita di Tito non ci sarebbero state discussioni sulla sovranità nella zona B e che in ogni caso l’Italia non aveva alcuna intenzione di rinunciare a «legittimi interessi nazionali». Questa presa di posizione, ribadita tre giorni prima della partenza di Tito anche dall’ambasciatore italiano a Belgrado, spinse Tito a disdire il viaggio701. Segui una fase di rapporti piuttosto tesi fra i due governi che avevano però troppi interessi in comune per potersi permettere un periodo di ostilità troppo prolungato. Era chiaro che la disputa andava risolta prima della morte di Tito, dato che tutti si aspettavano, dopo la sua dipartita, una crisi interna in Jugoslavia da cui l’Unione sovietica avrebbe potuto trarre vantaggio, occupando magari il paese come aveva fatto con la Cecoslovacchia nel 1968. Queste considerazioni, seriamente discusse nell’ambito della nato, favorirono nel 1975 la conclusione di trattative segrete che sfociarono negli Accordi di Osimo. Essi furono firmati nel clima di distensione creato dalla recente Conferenza di Helsinki sulla cooperazione in Europa, che aveva sancito l’intangibilità delle frontiere postbelliche nel continente, e sotto la spinta del riconoscimento da parte della Germania federale tedesca della frontiera Oder-Neisse con la Polonia702.

Gli Accordi di Osimo sembravano aprire nuove possibilità di collaborazione fra i due paesi: oltre a chiudere il contenzioso sulla frontiera, stabilivano infatti, a favore di Trieste, una zona franca di confine in cui avrebbero dovuto insediarsi industrie italo-jugoslave per produrre beni esenti da imposte. Anche la questione delle minoranze non fu ignorata, dato che i due firmatari si impegnaremo a risolverne i problemi nell’ambito della propria legislazione interna in accordo con lo Statuto accluso al Memorandum di Londra. In questa atmosfera di reciproca buona volontà si apri nel 1976 il processo sulla Risiera, cui parteciparono come testimoni studiosi e combattenti italiani, sloveni nonché esponenti della comunità ebraica di Trieste. Il processo mise almeno idealmente (mai però materialmente) sul banco degli accusati, oltre a due ufficiali SS tedeschi che avevano partecipato alla gestione della Risiera, anche buona parte della classe dirigente della città, rivelando quanto si fosse compromessa nella collaborazione con i nazisti703.

Questo discorso, che avrebbe dovuto sciogliere uno dei nodi fondamentali della recente storia di Trieste, offrendo, come scrisse Enzo Collotti, l’opportunità di un’irrevocabile condanna del fascismo e dell’intolleranza nazionale, sua peculiare caratteristica, non fu però concluso704, anche perché nel frattempo le forze conservatrici appoggiate dall’ex vescovo Santin705 riuscirono a serrare le fila nel nome di una diffusa protesta contro quella che definivano «la truffa di Osimo» e contro la possibilità di collaborazione con gli jugoslavi. In città si ebbe così una vera e propria levata di scudi contro la «rinuncia» alla zona B, «abbandonata per meno di un piatto di lenticchie»706 e contro l’area industriale al confine, presentata come una terribile minaccia ambientale e nazionale, sostenendo che vi si sarebbero insediati 150.000-200.000 slavi che avrebbero sopraffatto l’italianità di Trieste. «Parliamoci fuori dai denti», stava scritto in un opuscolo, pubblicato nel 1984 in occasione della 57ª Adunata nazionale degli Alpini. «Nei tempi lunghi, snazionalizzazione e slavizzazione di Trieste [...] Infiltrazione, come virus»707. La rivolta contro l’«infausto» Trattato di Osimo cui venne così istigata buona parte dell’opinione pubblica portò alla costituzione di un «Comitato promotore per la difesa di Trieste e del Carso» e successivamente all’affermazione della Lista per Trieste, di carattere nettamente qualunquistico, che sconvolse gli equilibri politici locali, insediandosi nel 1978 al municipio come forza di maggioranza relativa (30 per cento dei voti)708. Negli anni successivi si ebbe un’inarrestabile rimonta del nazionalismo revanscista e irredentista, che in pochi anni cambiò l’intero quadro politico locale709. La «partitocazia» di centro-sinistra che aveva appoggiato gli Accordi di Osimo fu cacciata e al potere tornò la lobby liberal-nazionale di antica memoria massonica710.

La tempesta scatenata dalla Lista per Trieste influì anche sul processo della Risiera. Per suggerimento del giudice Sergio Serbo la corte decise infatti di distinguere fra «vittime innocenti» e «vittime non-innocenti», includendo fra queste ultime i partigiani jugoslavi che avevano combattuto contro le forze d’occupazione tedesche e i collaborazionisti italiani. I partecipanti alla «cosiddetta lotta di Liberazione» furono degradati a livello di «espressione armata di uno stato belligerante», la Jugoslavia, che aveva «provocato» la feroce repressione nazista. Dato che queste «vittime non-innocenti» rappresentavano la maggioranza dei prigionieri della Risiera, e dato che solo al numero relativamente modesto di «vittime innocenti», perlopiù di origine ebraica, fu riconosciuto lo status di veri perseguitati, il lager venne considerato non più campo di sterminio, ma semplicemente campo di transito verso Auschwitz e Mauthausen. Il presidente della corte Domenico Maltese giunse a equiparare nella sentenza le forze naziste a quelle partigiane, e, facendosi storico, pronunciò una frase memorabile, relativa ai 40 giorni della presenza jugoslava a Trieste, che riecheggiava la seconda motivazione della medaglia d’oro concessa alla città: con la cessazione della dominazione nazista, a suo dire, «in breve volger di tempo, la città venne ancora una volta, e in modo non meno esecrando, tragicamente insanguinata». La Risiera fu insomma comparata alle foibe e i nazisti tedeschi alla Resistenza jugoslava. Le uniche vittime innocenti degli uni e degli altri erano gli italiani711.

La piega che stava prendendo il dibattito al Tribunale di Trieste diede l’aire alle forze di destra che definivano gli Accordi di Osimo «una seconda Caporetto» e denunciavano il tradimento del governo per aver ceduto «definitivamente e senza contropartita, ad ogni pretesa su parte dell’Istria, terra italiana sin da quando era provincia dell’Impero romano»712. Prima ancora che il processo sulla Risiera fosse terminato, esse cominciarono a reclamarne anche uno sulle foibe, pubblicando su «Il Piccolo» una serie di interventi di questo tenore e riprendendo auspici in tal senso espressi già all’inizio del decennio713. Un loro esponente, Ugo Fabbri, consegnò perfino alla magistratura una «notitia criminis» su «persone che potrebbero fornire utili elementi per l’identificazione dei responsabili degli eccidi perpetrati nelle foibe carsiche dal 1º maggio al 12 giugno 1945». La procura generale si mosse dando alla Polizia Giudiziaria istruzioni per acquisire ogni dato noto e aprire le indagini; il Fabbri stesso fu invitato a deporre presso l’Ufficio politico della questura714. Sembrò dunque che l’idea del processo sarebbe stata accolta, tanto che il 18 marzo 1976 sulla rivista settimanale «Il Meridiano di Trieste» un articolo ne dava ormai per certa l’imminente apertura. Giovanni Miccoli, l’autorevole studioso della Storia della Chiesa che dirigeva allora l’Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione, reagì all’inizio di aprile con un’irosa risposta, in cui definì «aberrante» l’ipotesi di un nuovo processo sulle foibe dopo tutti quelli celebrati nell’immediato dopoguerra e strumentali alle lotte e alle manovre politiche di allora. Egli sfruttò l’occasione per formulare un giudizio storico sulla Risiera e sugli eventi del 1943 e del 1945: la Risiera, a suo avviso, era il frutto razionale e scientificamente impostato dell’ideologia nazista, che aveva prodotto Belsen e Treblinka, Auschwitz e Mauthausen; le foibe istriane del 1943 avevano invece il carattere di una sollevazione contadina; quelle del 1945 di una vendetta, tipica dei trapassi violenti. «Solo avendo ben chiare queste premesse si può parlare delle foibe: e se ne parli e se ne discuta, finalmente, e si indaghi con serietà sulla realtà dei fatti e delle circostanze, anche per mettere fine alle sporche strumentalizzazioni di chi di questi odii, da cui anche le foibe sono nate, è primo responsabile»715.

Foiba di Basovizza: monumento di interesse particolarmente importante

Il gran clamore levatosi a proposito di un possibile processo sulle foibe non ebbe seguito, perché la magistratura non ritenne di procedere nelle indagini716. Davanti a tale chiusura e in mancanza di dati oggettivi su cui costruire un discorso processuale, le forze di centro-destra triestine cominciarono a elaborare il progetto di ottenere almeno per il pozzo di Basovizza lo status di «monumento d’interesse nazionale» al pari della Risiera. Già nel 1971 l’ex sindaco Gianni Bartoli aveva proclamato le foibe «luogo sacro alla memoria» come le Fosse Ardeatine. Il suo ragionamento era lineare: «Come i riti per le Fosse Ardeatine non costituiscono offesa per la nazione tedesca e per la Germania di Bonn, così i riti per le foibe non devono costituire offesa per i popoli jugoslavi»717. Egli dimenticava tuttavia di distinguere fra le vittime innocenti e identificate del primo caso, e quelle in gran parte compromesse col nazismo e il fascismo del secondo, nemmeno mai individuate con certezza.

Questa proposta rimase nel cassetto per parecchi anni. Il sindaco Marcello Spaccini, democristiano e antifascista, disertò nel 1972 le cerimonie alla foiba di Basovizza, e anche il presidente della Repubblica Giovanni Leone, venuto a Trieste in occasione del trentennale della fine della guerra, non vi si recò, limitandosi a far deporre sul sito una corona d’alloro. Questo gesto suscitò peraltro una rabbiosa risposta dell’agenzia Tanjug di Belgrado che lo accusò di aver reso omaggio a «un monumento ai nazisti e fascisti». La corona non rimase a lungo al suo posto: essa fu asportata si disse «da alcuni teppisti slavi» e data alle fiamme718. L’anno successivo, segnato dalle roventi polemiche suscitate dalla firma degli Accordi di Osimo, venne eletto a Trieste come deputato nelle liste della Democrazia cristiana Giorgio Tombesi, esponente della sua ala più conservatrice. Nel giugno del 1977 egli inviò a Mario Pedini, allora ministro dei Beni culturali una lettera in cui chiedeva che alla Risiera fossero affiancate come monumento nazionale anche la foiba di Basovizza e quella di Monrupino (la n. 149). In esse, affermava Tombesi,

[...] durante i quaranta giorni dell’occupazione jugoslava [...] furono gettati spesso ancor vivi, uomini e donne, compresi combattenti della Guerra di Liberazione e del c.v.l., rei solo di essere italiani. Si fanno ascendere a parecchie migliaia i cadaveri custoditi nelle due cavità carsiche, oggi ricoperte da una lastra di pietra. [...] Non è nell’intenzione di nessuno, ovviamente, di rinfocolare odi e polemiche nei confronti di chicchessia. Mi sembra che, nello spirito di riconciliazione dei popoli, ed in particolar modo oggi che si sono chiuse le vertenze confinarie esistenti fra l’Italia e la Jugoslavia, non si possa ignorare il problema e si debba rendere un atto di gratitudine e di cristiana pietà nei confronti di tanti connazionali affidando il doloroso evento alla Storia d’Italia719.

Com’è evidente, in questa fase della vicenda la preoccupazione di non irritare la Jugoslavia era molto forte. La pratica, iniziata da Tombesi, ebbe pertanto un iter burocratico piuttosto lento, poiché soltanto il 22 febbraio 1980 il ministero emise il relativo decreto, dichiarando la foiba di Basovizza «d’interesse particolarmente importante [...] come testimonianza dei tragici avvenimenti alla fine della seconda guerra mondiale, quando diventò fossa comune per un cospicuo numero di vittime, civili e soldati, nella maggior parte italiani...»720. Il decreto fu notificato al sindaco di Trieste, l’avvocato Manlio Cecovini (originariamente Čehovin), che lo conservò nel cassetto pur essendo il massimo esponente della massoneria locale e fra i principali di quella italiana, erede cioè dell’irredentismo liberal-nazionale, e uno dei leader della Lista del «melone»721. Al fine di forzargli la mano, Tombesi e Enrico Tagliaferro, presidente della Lega nazionale (organizzazione della destra nazionalista con forti presenze neofasciste)722, pubblicarono il 29 giugno 1980 la notizia, offrendo al sindaco la presidenza del Comitato per le onoranze. Questi rifiutò, avendo maturato ormai l’opinione che bisognasse finirla con le auliche commemorazioni dei fatti del passato per riprendere il discorso di Trieste «centro europeo d’incontro fra la latinità, il germanesimo, lo slavismo»723. La vicenda riprese l’aire alla fine di gennaio dell’anno successivo, quando i due convocarono presso la Lega nazionale tutte le associazioni patriottiche e d’arma, chiedendo al Cecovini di far da tramite presso qualche associazione culturale della minoranza slovena affinché entrasse a far parte del comitato promotore «proprio per dare con tale adesione, e nel supremo doveroso rispetto verso i morti, una testimonianza di deprecazione per ogni atto di violenza nonché un tangibile segno di quella tanto auspicata distensione tra i popoli». Non se ne fece nulla. A questo punto Tombesi e Tagliaferro pensarono di coinvolgere nella cerimonia alla foiba di Basovizza un rappresentante del governo, magari abbinando tale atto all’omaggio alla Risiera. Passò un altro anno prima che il momento propizio sembrasse giunto con la progettata visita a Trieste del presidente del Consiglio di allora, Giovanni Spadolini, in occasione del 150º anniversario delle Assicurazioni Generali. Spadolini rifiutò tuttavia l’invito, motivandolo con la preoccupazione che ciò costituisse una turbativa nei rapporti con la Jugoslavia, la quale, dopo la morte di Tito nel 1980, era in piena crisi economica, politica e d’identità. Vane furono le pressioni di Giulio Andreotti e di Amintore Fanfani sul capo del governo; vano fu anche un passo di Tombesi presso l’ambasciatore jugoslavo a Roma, Marko Kosin, il quale, chiesto il parere al proprio governo, non ebbe nulla da obiettare alla visita di Spadolini alla foiba di Basovizza. Pur di non andarci, quest’ultimo cancellò addirittura il viaggio a Trieste, dichiarandosi quattro anni più tardi, in qualità di ministro della Difesa, contrario anche a indagini ufficiali sulle «foibe di Tito nella zona del Carso»; per non parlare del picchetto d’onore, al quale nel 1986 non diede l’autorizzazione di presenziare alla cerimonia di Basovizza724. Bisogna però aggiungere che l’esercito in quegli anni non rimase del tutto estraneo alle celebrazioni presso le due foibe. Già il 12 maggio 1984 l’Associazione degli Alpini, in occasione dell’Adunata nazionale a Trieste, collocò accanto a esse un’asta, sulla quale viene eseguito l’alzabandiera. Il 21 giugno 1987 poi la Federazione Grigioverde (associazione prettamente triestina che, a differenza di quelle del resto d’Italia, unisce 29 organizzazioni di combattenti, incluse quelle fasciste e repubblichine) con la collaborazione del battaglione minatori del 5º corpo d’armata eresse un cippo del peso di 8 tonnellate «a combattenti, italiani e stranieri, trucidati nel maggio 1945 a guerra finita»725. E dunque anche agli ex «camerati» tedeschi.

Il quarantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale fu celebrato dalla stampa legata ai circoli degli esuli e da quella di destra con una serie di articoli fortemente critici nei confronti di coloro che s’apprestavano a ricordare il 1º maggio, data in cui le forze di liberazione jugoslave erano entrate a Trieste e a Gorizia. «La Voce Libera», organo della Lista per Trieste, affermò il 16 marzo 1985 che la notizia di tali «assurdi» propositi era un «nuovo insulto ai vivi e ai morti». Non si può, scriveva, violentare impunemente una città per cui tale data «è solo il ricordo di lutti e atrocità ben più feroci delle Fosse Aretine e di Marzabotto». E ancora: «La quarantena titina [fu] ben più spaventosa per orrore, della guerra stessa»726 Su iniziativa della Federazione Grigioverde nel gennaio 1985 venne fondato un «Comitato per le onoranze ai caduti delle foibe», cui aderirono anche la Lega nazionale e la Federazione combattenti e reduci. Principale bersaglio della loro disapprovazione fu il presidente della Repubblica Sandro Pertini che, memore del suo passato partigiano, si rifiutò di recarsi alla foiba di Basovizza, rinunciando, pur di sfuggire a ciò che non accettava, a visitare la Risiera727. Più in là si spinse «Il Piccolo», la cui cronaca cittadina era in mano a un gruppo redazionale che, a detta di Fogar, era il «più nazionalista, incolto e arrogante» che si potesse immaginare728. Questo gruppo, le cui posizioni andavano da quelle della Lista per Trieste a quelle vicine al fascismo locale, sposò la tesi del genocidio etnico. Marcello Lorenzini, ex redattore capo del giornale in pensione, lo affermò a chiare lettere, scrivendo che nel maggio del 1945 «alla Gestapo aveva dato il cambio l’ozna [...] al forno crematorio era stata sostituita come rapido strumento di eliminazione, la foiba [...] Era la tecnica del massacro già ampiamente collaudata in Istria nel settembre-ottobre 1943 [...] La colpa principale della grande parte di questi sventurati era di essere italiani»729. Prese di posizione queste legate a un rigurgito di nazionalismo favorito dal governo Craxi, che si tradusse nella Venezia Giulia nella costituzione di un «Comitato per la difesa dell’identità italiana di Trieste», deciso a opporsi a qualsiasi legge di tutela della minoranza slovena730.

I medesimi concetti vennero espressi anche dal sindaco di Gorizia Antonio Scarano durante la cerimonia in cui fu scoperta una lapide con i nomi dei deportati in Jugoslavia dalla città nel maggio del 1945. In quell’occasione egli affermò infatti che l’unico comune denominatore delle persone citate era «quello dell’appartenenza alla Patria italiana»731. Prima ancora della cerimonia, l’Unione culturale ed economica slovena (skgz), organizzazione d’ispirazione filojugoslava operante a Trieste e a Gorizia, contestò il fatto che sulla lapide fossero accomunati nomi di vittime innocenti della repressione postbellica e nomi «dei collaboratori dei boia fascisti e dell’occupatore nazista»732. Ma questo fu solo un preannuncio della tempesta che si scatenò quando l’anpi goriziano sottopose a un’analisi minuziosa i nomi dei 665 cittadini che per «il loro amore per l’Italia» avrebbero dovuto essere ricordati e portati ad esempio delle giovani generazioni (come suona la scritta sul detto «lapidario»). Dalle indagini, concluse solo nel 1995, risultò che meno della metà dei nomi incisi nel marmo erano cittadini di Gorizia; che fra essi figuravano decine di nomi di persone morte prima della liberazione fra il 1943-45 Per motivi e circostanze diverse dalle deportazioni in Jugoslavia, e di altre la cui morte era stata causata da forze militari tedesche o collaborazioniste; che fra i deportati molti non potevano né dovevano esser citati ad esempio per il loro collaborazionismo con i nazisti; per non dire di persone ancora viventi incluse nell’elenco, come ad esempio un certo Ugo Scarpin, militare repubblichino tornato a casa dopo due anni di prigionia in Jugoslavia733.

La sinistra e le foibe

L’espulsione del pcj dall’Ufficio informazioni (Cominform) e la sua rottura con Mosca ebbero conseguenze drammatiche per la sinistra triestina, sconvolta dopo il 28 giugno 1948 da una vera e propria «furia cominformista»734. Il locale pc del tlt, retto fino ad allora dagli sloveni, si spaccò in due tronconi: quello maggiore staliniano, quello minore titoista. Il primo trovò il suo leader in un personaggio formidabile e controverso, Vittorio Vidali, già agente moscovita in Spagna e in Messico. Tornato in patria, «il comandante Carlos», com’era noto dai suoi anni madrileni, impostò una politica di feroce opposizione ai cosiddetti «fascisti titini», che produsse una lacerazione profonda tra i comunisti di Trieste; non sfruttò tuttavia il tema delle foibe, pur dichiarando che i 40 giorni della presenza jugoslava in città erano da considerarsi «un’occupazione»735. I rapporti tra il pc della Venezia Giulia e quello jugoslavo rimasero tesi anche dopo la morte di Stalin nel 1953 e dopo la pacificazione di Tito, il «satrapo di Belgrado» secondo Vidali, col nuovo «padrone» del Cremlino Nikita Sergeevič Chruščëv. Vidali rimase infatti fedele alla memoria del dittatore georgiano anche dopo il 20º congresso dell’urss, in cui Chruščëv ne aveva denunciato gli errori. All’inizio degli anni Sessanta i comunisti di Trieste e quelli di Lubiana ripresero comunque a dialogare, ma con una certa freddezza, sebbene il pci si fosse deciso a ergersi a paladino della minoranza slovena in Italia, presentando in parlamento - anche per monopolizzarne i voti - una legge di tutela «globale» a suo favore736.

Un tentativo di riflessione più approfondita sulla storia recente della sinistra triestina fu fatto appena nel 1980, quando l’allora segretario della Federazione locale, Claudio Tonel, in una conferenza a Lubiana pose con franchezza alla Lega dei comunisti slovena la questione delle foibe e della necessità di superare il muro di omertà che la circondava. I suoi interlocutori avevano a che fare a casa propria con gli scomodi spettri del passato, cioè degli eccidi post-bellici d’impronta staliniana e della spietata repressione interna dei cominformisti dopo la frattura fra Stalin e Tito, per cui risposero negativamente all’invito a una ricerca comune737. Tonel non desistette: d’accordo con il segretario del pci Enrico Berlinguer diede inizio a un esame interno al partito, con seminari provinciali e sezionali, e anche esterno, con la pubblicazione di libri e articoli. Fin dall’inizio fu affrontata la spinosa problematica delle foibe: cosa niente affatto gradita agli jugoslavi che rivolsero a Tonel violenti critiche738. Questi però continuò nel suo impegno, organizzando nell’Istituto studi comunisti di Cascina di Pisa ben cinque seminari sulla società triestina del dopoguerra, e pubblicando una serie di volumi che si avvalsero della prefazione dei più autorevoli esponenti del pci, da Alessandro Natta a Giorgio Napolitano. Nel 1986 l’Istituto Gramsci, l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia, nonché istituti sloveni e croati organizzarono a Trieste un convegno storico italo-jugoslavo che prese in esame i momenti salienti dei rapporti fra le due etnie negli anni 1941-47739. Per la prima volta fu affrontato nel contesto di un confronto bilaterale anche il problema delle foibe, sebbene con cautela, dato che ci si muoveva su un terreno ancora poco esplorato, almeno dagli storici sloveni. Per merito di Galliano Fogar la questione non fu comunque elusa, offrendo l’occasione per un dibattito serio fra le due storiografie, che però non venne registrato dalla Trieste ufficiale né dalla stampa italiana. «Era stata un’occasione unica», commentò amaramente più tardi Tonel, «per discutere pubblicamente e con tutti sul problema delle foibe, ma fu accuratamente evitata»740.

Negli anni successivi si ebbero trasformazioni epocali nel mondo del socialismo reale: dopo la perestroika di Gorbačëv l’Impero sovietico cominciò a sbriciolarsi, mentre la Jugoslavia conobbe un’implosione politica ed economica che ne preannunciava lo sfacelo. Nel periodo in cui veniva abbattuto il muro di Berlino, e con esso l’apparato ideologico del marxismo al potere, alcuni comunisti triestini, guidati da Nico Costa, un giovane di appena 33 anni, pensarono fosse venuto il momento di violare «il tabù dei tabù»741. Senza averne discusso nel partito, decisero di recarsi il 6 agosto 1989, nel 44º anniversario della bomba di Hiroshima, «nei luoghi che testimoniano le tragedie della seconda guerra mondiale nelle regioni tormentate dell’Alto Adriatico», cioè sull’isola di Arbe, alla Risiera e alla foiba di Basovizza, per deporvi dei fiori. Essi accomunarono così le vittime della violenza italiana, di quella tedesca e di quella jugoslava in un unico omaggio, per significare il rifiuto delle ideologie del passato che in nome dei propri progetti e ideali avevano dimenticato la cosa più importante: il rispetto dovuto alla vita umana. «Perché si affermino valori nuovi, nuovi modelli di relazioni tra cittadini e nazioni fondati sulla non violenza, sul primato della politica, sul rispetto e sul riconoscimento dei diversi»742. E infatti sul nastro rosso che legava il mazzo di fiori campestri, deposti sulla grande lastra con la croce scolpita nel mezzo della foiba di Basovizza, era impresso a lettere d’oro in italiano e sloveno: «Per un mondo nuovo senza violenza»743. Della troika incaricata dell’atto simbolico, oltre a un rappresentante della direzione nazionale, Gianni Cuperlo, e al segretario provinciale del partito, faceva parte anche uno sloveno, il senatore Stojan Spetič.

Il fatto suscitò una tempesta di critiche fra i suoi connazionali di Trieste. «Deporremo fiori solo su monumenti partigiani», scriveva irato il «Primorski dnevnik», per quanto si proclamasse desideroso di pacificazione e cooperazione. Il giornale spiegò il suo atteggiamento di critica sottolineando le decennali strumentalizzazioni delle foibe da parte della destra, ed esprimendo i propri dubbi sul tentativo di mettere sullo stesso piano tutte le vittime della seconda guerra mondiale, «quelle che rappresentavano la politica degli aggressori e quelle che lottavano per la libertà di noi tutti»744.

Gli «ultras»

Al dibattito presero parte anche due autorevoli personalità fuori dal coro, anzi, ritenute per questo due «ultras», per dirla col «Corriere della Sera»745: Paolo G. Parovel, fautore di una Trieste capace di recuperare il proprio retaggio multietnico e multiculturale di memoria asburgica, e Samo Pahor, battagliero esponente della sinistra slovena, ma critico della stessa per la sua propensione al compromesso e al piccolo cabotaggio politico, nonché propugnatore di un’Italia capace di rispettare le proprie leggi sulla tutela della minoranza. Parovel contestò ai comunisti di aver avallato acriticamente col loro gesto il mito delle foibe, creato dalla destra nel contesto della sua attività antislava, per provare il genocidio fisico degli italiani del Litorale e quello politico rappresentato dall’esodo746.

La «questione delle foibe» non è questione meramente storica, né astratta e remota, ma il pilastro centrale che regge l’esistenza politica e culturale del nazionalismo italiano al confine orientale; è quindi problema attuale e concreto, locale, nazionale ed internazionale, che non può essere risolto con rimozioni od irenismi generici, ma soltanto esaurendolo sino in fondo. Soltanto l’accertamento della verità storica e politica, quale che sia, può sottrare il tema agli usi politici e consegnarlo ad una memoria storica più serena e maturata nella consapevolezza747.

Pahor approfondì invece il discorso già impostato dal «Primorski dnevnik», sostenendo non esser lecito equiparare la violenza del passato, che era un male necessario per difendere i valori fondamentali dell’umanità, a quella il cui fine era proprio la distruzione di tali valori748. E fece di più: a Claudio Tonel, il quale cercò di giustificare il pellegrinaggio della «troika» con l’affermazione che a Basovizza erano sepolti «anche innocenti»749, chiese di provarlo, elencando, con tipico puntiglio, una serie di clamorosi svarioni riguardanti le persone e le unità militari asseritamente «infoibate». «Prima di trarre delle conclusioni bisogna anche accertare, almeno per quanto riguarda le vicende triestine, cosa c’è nella foiba n. 149 (Bršljanovca) presso Opicina e nel pozzo della miniera (Šoht) presso Basovizza»750.

Per costringere le autorità a rispondere a questa domanda, si mosse, d’accordo coi due, l’avvocato triestino Bogdan Berdon, che alla fine della guerra era stato imprigionato, per quanto appena quindicenne, nelle carceri della Gestapo. Il 29 agosto 1989 egli presentò alla procura della Repubblica di Trieste una segnalazione di «notitia criminis» per reati perseguibili d’ufficio e non prescrittibili, relativa alle due foibe menzionate. In polemica con le forze di destra, d’accordo per la prima volta col pci, egli vi scrisse che secondo voci ampiamente diffuse le due voragini sarebbero state teatro fra il 1º maggio e il 12 giugno 1945 di eccidi, di cui sarebbero state vittime innocenti appartenenti all’«etnia carsica»751, insegnanti, guardacaccia, impiegati, veterinari, operai e contadini «assolutamente estranei a qualsiasi forma di collaborazionismo col tedesco invasore». In termini giuridici si avrebbe «omicidio con contemporaneo occultamento di cadavere» (teste: dottor Giorgio Galazzi, Colonnello dei Carabinieri in congedo). L’asserito eccidio avrebbe colpito pure persone «per il solo motivo di essere di nazionalità italiana e di conoscere solo la lingua italiana», «per il solo fatto di essere italiani, senza cioè avere alcuna vera colpa o presunta» (testi: Liliana Toriser del msi, Silvio Delbello dell’Unione degli istriani)752. «Nelle foibe finirono anche gli innocenti [...] Si, ci sono cittadini innocenti nelle foibe. Lo avevamo scritto ripetutamente, l’avevamo affermato più volte, ma si doveva dirlo con l’evidenza di un atto simbolico» (testi: professor Stelio Spadaro, Gianni Cuperlo, Nico Costa nonché senatore Stojan Spetič del pci). «Per l’art. 16 ult.co.Disp.att.c.p.p», continuava la segnalazione dell’avvocato Berdon, «il dissotterramento di cadavere va ordinato “se vi sono gravi indizi di delitto” ». Per questo egli chiedeva alla procura della Repubblica il recupero dei cadaveri di Basovizza e di Opicina, la loro identificazione nonché l’escussione dei testimoni di reato indicati sulla stampa753.

La segnalazione della «notitia criminis» trovò finalmente eco. La magistratura di Trieste apri infatti due inchieste, una per proprio conto, una in seguito alla denuncia dell’avvocato triestino, che furono serie, ma non ebbero esito754. Per quanto destinato agli archivi, l’esposto di Berdon suscitò una vivace discussione sulla stampa slovena e italiana. Quest’ultima si divise in due fazioni: quella nazionale che plaudi all’avvocato triestino, vedendo in lui un paladino della verità755, e quella locale, consapevole delle sue intenzioni provocatorie. Le rubriche dedicate alle segnalazioni dei lettori si riempirono d’inviti a lasciar «in pace quei miseri resti perché continuino a riposare nella loro triste tomba»756, e di invettive contro Berdon e i suoi sodali, Pahor e Parovel, definiti «schegge inquinanti», capaci di queste e altre «nefandezze»757. «Provo una pena infinita nei confronti di suddetto docente», scriveva a proposito di Pahor Gianfranco Tumburus a nome del Movimento fascismo e libertà per Trieste, «che a dispetto dei termini, io mi rifiuto categoricamente di annoverare tra gli esseri umani dotati di raziocinio e obiettività di pensiero»758. La trasmissione settimanale dedicata all’«Altra Trieste», che i tre tennero sull’emittente privata «Radio Opčine» divenne oggetto di aspre polemiche. «Trieste deve isolare e creare un cordone sanitario attorno a Pahor», scrisse nel 1991 un irato esponente delle forze di destra759. Un programma che valeva anche per gli altri due membri del «trio»760.

La sensibilità con cui la minoranza slovena di Trieste reagì al gesto pacificatore dei comunisti si spiega soprattutto con il clima di tensione di quegli anni. La Jugoslavia era scossa da una lotta intestina senza esclusione di colpi, segnata dall’antagonismo fra Lubiana e Belgrado, mentre in Italia si facevano incalzanti le voci di chi sosteneva l’opportunità di rivedere gli Accordi di Osimo, o almeno di «aggiornarli» come diceva Gianni de Michelis, ministro degli Esteri di Bettino Craxi761. La discussione sulla legge di tutela della minoranza slovena suscitava emozioni forti, offrendo spunti di astioso dibattito sul cosiddetto «bilinguismo», interpretato dalla destra nazionalista non già come diritto degli sloveni di rivolgersi alle autorità nella propria lingua, ma come imposizione a tutti gli impiegati statali, anzi, a tutti gli italiani d’impararla. La parificazione della lingua negli uffici statali, nel recupero di una tradizione di diritto risalente all’Austria-Ungheria e regolarmente praticata, per quanto riguarda l’italiano, nell’Istria slovena e croata, veniva presentata come un inquinamento che avrebbe minacciato «l’italianità di queste terre»762. «La verità è che il panslavismo preme verso l’occidente», scriveva nel maggio 1984 l’avvocato Giorgio Bevilacqua, noto per le sue posizioni antislovene763.

Sulla polemica relativa alle «pretese insaziabili di una minoranza aggressiva»764 si innestò anche la rievocazione dell’esodo, che raggiunse l’apice nel settembre 1987, quando, a quarant’anni dall’abbandono di Pola di quasi tutta la cittadinanza, fu organizzato a Trieste un grande raduno del «Popolo dell’Esilio»765. In quell’occasione fu stampato a cura dell’Unione degli istriani e con il patrocinio della Regione un opuscolo che si apriva con una storia drammatica della latinità sulle sponde orientali dell’Adriatico:

Di qua sono passate in tutti i tempi le orde dei barbari, su essa hanno premuto, premono e premeranno sempre le maree dei germani e degli slavi. E ogni marea ha sommerso la nostra terra nei secoli dei secoli, e ha portato schianto, rovina, dolore. Con pena infinita noi siamo sempre risaliti ai confini, assimilando i relitti, ricostruendo l’ordine nostro. Dopo Attila, gli Avari e i Longobardi, ecco gli Slavi: «Tra noi e loro una distanza che neanche il cristianesimo poté ridurre».

L’esodo fu l’obbligata conseguenza di questa impossibilità di comunicare: «Avremmo potuto forse salvare la vita, rinnegando l’anima nostra e riducendoci schiavi di coloro che per secoli e secoli erano stati schiavi per nome, definizione e funzione; ma bisognava rinnegare tutta la nostra vita e l’anima di cento generazioni»766. Contro l’opuscolo razzista il Comitato per la pace e la cultura della convivenza, animato da Paolo G. Parovel, sporse denuncia cui aderirono 1.200 sottoscrittori. Ma senza esito767.

Nell’accanita discussione sulla tutela della minoranza slovena, che il governo s’era impegnato ad attuare con gli Accordi di Osimo, s’inserì anche la disputa del Comitato per le onoranze per le foibe con il Comune di San Dorligo della Valle/Dolina, retto da un sindaco comunista di nazionalità slovena. Il comitato voleva infatti ampliare il sito in cui si trovava il pozzo coperto, come abbiamo visto, da lastre di cemento, per adibirlo a cerimonie di massa; il suo proposito fu ostacolato tuttavia dal fatto che lo «Šoht», pur trovandosi nel territorio del Comune di Trieste, era, secondo antiche consuetudini a diritti di pascolo e legnatico, di proprietà collettiva degli abitanti di una frazione di Dolina. Per svolgervi i necessari lavori di riassetto bisognava insomma assicurarsi il permesso di questo piccolo Comune, che aveva pagato un prezzo altissimo nella lotta di liberazione: ben 207 caduti. I suoi rappresentanti si rifiutavano di concederlo, temendo che l’area divenisse teatro, ancor più che in passato, di manifestazioni di carattere sciovinista. Non si trattava, a loro dire, di mancanza di pietà nei confronti dei morti, ma di opposizione a monumenti che li avrebbero strumentalizzati, fomentando l’odio nei confronti degli sloveni e di coloro che avevano combattuto il fascismo. Ciò suscitò una valanga di critiche contro il sindaco Edvin Švab, protrattesi per anni768. In seguito all’intervento di numerose personalità democratiche e dello stesso vescovo di Trieste, Lorenzo Bellomi, alla fine si giunse a un compromesso che diede al Comune di Trieste la possibilità di sistemare intorno al pozzo un’area dieci volte più modesta di quella originariamente progettata769.

Tutti questi nodi vennero al pettine in concomitanza con un importante incontro politico italo-jugoslavo a Venezia e a Buie, coronato dalla visita (la prima in assoluto) del presidente del Consiglio Giulio Andreotti alla minoranza italiana nel quarantesimo anniversario di fondazione dell’Unione degli italiani dell’Istria e di Fiume770. Era un tentativo di Roma di appoggiare il traballante governo di Belgrado, impostando un’«Ost-Politik» capace di estendere l’influenza e il protettorato italiano allo Stato vicino, con particolare accento alla Serbia e ai suoi interessi. «Dal 1921, è la prima volta», commentava Diego de Castro, «che viene delineata una nostra politica danubiano-balcanica, che sembra costituire, “mutatis mutandis” una continuazione; di quella iniziata dal governo italiano di allora, per opera del ministro degli Esteri conte Sforza»771. Molti, soprattutto a Trieste, ma non solo, non lo capirono, o cercarono di sfruttare l’incontro per i propri fini. Non mancarono in quest’occasione tentativi di delegittimare la recente sovranità jugoslava in Istria, sfruttando la tensione fra Slovenia e Croazia da una parte e Serbia dall’altra, che stava ormai raggiungendo il punto di rottura. L’esponente più battagliero dell’intellighenzia belgradese, il teorico del nazionalismo grandeserbo nonché scrittore di successo Dobrica Ćosić, diede un’intervista a «Il Tempo di Roma», in cui metteva a fuoco la coincidenza d’interessi italiani e serbi nell’Adriatico, accennando alla possibilità di una revisione delle frontiere772. L’Unione degli istriani rivolse un appello ad Andreotti, invitandolo a non dimenticare che Buie era sempre stata la sentinella dell’italianità e invitandolo sulla foiba di Basovizza773. Il gesto che suscitò maggior scalpore fu però quello di Vladimir Dedijer, il biografo di Tito, da tempo caduto in disgrazia. Il 17 luglio 1989 egli indirizzò al Tribunale Russell per i crimini di guerra, di cui era presidente, una lettera in cui parlava tra l’altro degli italiani gettati nelle foibe, chiedendo un’indagine774. Questa denuncia, che s’iscriveva in realtà nelle lotte politiche interne allora in corso in Jugoslavia, fu ribadita alla fine di agosto in un’intervista a «Mladina», la rivista slovena più audace del momento. Nel testo, intitolato drammaticamente L’udba775 ha ucciso due dei miei figli, Dedijer raccontò fra l’altro che qualche giorno prima aveva sentito su Radio Trieste una dichiarazione di Stojan Spetič, membro autorevole del pci e senatore italiano. «Per la prima volta menzionò che abbiamo gettato nelle voragini 3.700 persone, fra le quali c’erano anche alcuni funzionari del Partito socialista italiano. Mentre Gorbačëv ha pubblicato la verità sul bosco di Katyn, noi di questo tacciamo»776.

Sebbene si trattasse di un discorso palesemente sconclusionato, basato, come risulta da un appunto di Dedijer, su un colloquio con Lelio Basso, che gli aveva chiesto di indagare sulla sorte dei «socialisti» italiani777, e sebbene Spetič avesse negato di aver mai pronunziato a Radio Trieste le parole che gli venivano addebitate, l’intervista ebbe vasta eco sulla stampa778. Essa s’inseriva in una stagione politica in cui la Jugoslavia era ormai al collasso, il che permetteva di affrontare in pubblico, almeno in Slovenia e in Croazia, tematiche di cui finora s’era sussurrato solo privatamente. Già nel 1987 uno scrittore dell’Istria croata, Milan Rakovac, noto per la sua caustica e ironica scrittura, pubblicò un romanzo, Sliparija (Inganno), in cui per primo affrontò il tema delle foibe. «Certo che all’epoca parlare delle foibe era un tabù», raccontava più tardi, «ma io lo facevo lo stesso. In giro si diceva: “Facile per lui che è figlio di un eroe popolare, parlare di foibe, tradurre Tomizza” (che era mal visto un po’ da tutti, dai croati, dagli esuli, era considerato il diavolo in persona), e forse avevano ragione»779. Prima della fine del 1989 apparve inoltre su «La Voce del Popolo», organo ufficiale della minoranza italiana in Istria, un’intervista col professor Anton Giron, collaboratore dell’Accademia delle scienze e delle arti di Zagabria, che presentò all’attenzione del pubblico una lista di 237 vittime delle violenze del settembre-ottobre 1943, scoperta per caso durante le sue ricerche su altri argomenti780. Ma quest’elenco compilato sul finire della guerra, in parte probabilmente dalla Pasquinelli, era artatamente gonfiato, contenendo anche nomi di persone che avevano perso la vita fra il 1945 e il 1946, e in certo qual modo imbarazzante per i propugnatori della tesi sugli «infoibati» uccisi solo in quanto italiani: quasi la metà dei nomi e cognomi risultavano infatti italianizzati in virtù della legge del 1927781. L’evento fu salutato comunque come significativo «per aver finalmente aperto una breccia nell’impenetrabile muro del silenzio creato attorno ad uno degli ultimi tabu della nostra storia recente»782. Scalpore ancor maggiore fu provocato dallo storico Tone Ferenc, il quale rispose alle accuse italiane sulla reticenza della storiografia slovena sull’argomento «foibe» rendendo noto un elenco di deportati da Trieste e Gorizia a Lubiana tra il 20 maggio e il 30 giugno del 1945, e presumibilmente fucilati alla fine dello stesso anno e all’inizio di quello successivo. In qualità di capo di una commissione di esperti, incaricata dal governo sloveno di appurare la sorte dei cosiddetti «domobranci» e delle altre formazioni politiche e militari che durante la guerra avevano collaborato con i tedeschi, il Ferenc poté accedere ad archivi finora inaccessibili. Ne risultò uno studio di poche pagine, in cui veniva rivelata la tragica sorte di 113 dei 159 arrestati, «prelevati dal carcere attorno alla mezzanotte e condotti in luoghi ignoti». Molti fra essi erano ufficiali, poliziotti e funzionari fascisti, ma almeno due appartenevano al cln di Trieste783. «Non più segreti sull’ozna» scrisse «Il Piccolo», nel dare inizio a una serie di articoli cui parteciparono esponenti della scena politica e intellettuale triestina come Arduino Agnelli, professore universitario e senatore eletto sulle liste del psi, che per primo accusò la Jugoslavia di Tito di «delitto di Stato». «Non l’esasperazione del momento, ma la fredda determinazione del potere politico, quella che in altri casi ha portato al giudizio di corti internazionali, sta alla base delle tante uccisioni»784. Il riferimento al Tribunale di Norimberga, istituito per giudicare i massimi criminali nazisti, era più che ovvio.

Dal vortice delle discussioni suscitate dall’articolo di Ferenc785, emerse comunque almeno un’idea condivisibile: quella di una seria e onesta ricerca storica sul fenomeno «foibe». A tentare l’impresa fu un giovane professore triestino, Roberto Spazzali, che dopo anni di lavori preparatori pubblicò un volume di più di 600 pagine, intitolato Foibe: un dibattito ancora aperto. Tesi politica e storiografica giuliana tra scontro e confronto786. Il suo ambizioso proposito era di ricostruire la violenza che aveva sconvolto la Venezia Giulia nel 1943 e nel 1945, ma anche di passare in rassegna nel modo più esaustivo e obiettivo possibile la discussione e la prassi politica da essa germogliata nei decenni successivi: una sfida dello studioso a se stesso e insieme alla sua casa editrice, la Lega nazionale, che in passato aveva patrocinato pubblicazioni di ben altro tenore. Spazzali fu sì coraggioso, ma non temerario. Nel suo volume demolì la produzione storiografica della destra dedicata alle foibe, senza però spingersi a denunciarne l’operato come tentativo di aizzare «uno stupido odio antislavo», per citare Claudio Magris787. «Il libro di Roberto Spazzali», giudicava Diego de Castro, «farà molto onore alla Lega Nazionale, che lo pubblica, perché è obiettivo, e l’autore critica e elogia chi, a suo motivato giudizio lo meriti, a prescindere dalla “parrocchia politica” alla quale appartenga»788. La presa di distanza dell’autore da Bartoli, da Papo, da padre Rocchi fu vista però dai circoli neofascisti come una grave offesa, e di conseguenza bollata con critiche piuttosto aspre. «E certo che il professor Spazzali nel tentativo, non riuscito di circoscrivere i delittuosi avvenimenti non ha attinto, per la continuazione storica necessaria, agli atti del Congresso di Firenze sul Nazionalismo italiano del 3 dicembre 1910...», scriveva senza ironia uno dei suoi recensori, «per soffermarsi invece su quella polemica da quattro soldi cara alla scuola gramsciana e, per la Venezia Giulia, a quell’istituto regionale [...] per la storia del movimento di liberazione»789.

Sacrari politici

A conclusione del suo volume Spazzali affermò:

Bisogna comprendere, capire, studiare e ricercare la più sicura verità con la giusta serenità d’animo per superare un tremendo nodo di contraddizioni e di malvagità di cui le nuove generazioni non si sentono sicuramente responsabili né eredi putative. E capire ciò che è stato detto del passato, può essere il più importante passo790.

Quest’invito ebbe notevole eco, perché in quel torno di tempo e negli anni successivi una serie di studiosi triestini, a partire da Elio Apih, uno degli intellettuali più lucidi e vigili della città, affrontarono il problema «foibe» con il metodo di un serio discorso storico791. Il loro impegno, per quanto proficuo, rimase tuttavia sommerso dal clamore mediatico che la questione cominciava a suscitare in Italia a livello nazionale, a opera di dilettanti abili nelle pubbliche relazioni e sostenuti dalla politica. Fra questi, merita speciale menzione Marco Pirina, figlio di un ufficiale della Guardia nazionale repubblicana ucciso dai partigiani nel Veneto, che negli anni Sessanta aveva attirato l’attenzione su di sé come rappresentante di circoli universitari romani di estrema destra (fuan e Fronte Delta), rimanendo coinvolto anche nelle indagini sul tentato golpe del Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese del 1970792. Nel 1990 egli istituì a Pordenone un centro studi «apartitico», intitolato dannunzianamente «Silentes loquimur», che si proponeva di approfondire il tema «della guerra civile 1943-45» alla frontiera orientale in collaborazione con le autorità slovene e studiosi d'oltre confine. Nel momento in cui la Slovenia si stava liberando dal soffocante abbraccio della federazione jugoslava e temi a lungo sottratti alla ricerca potevano esser finalmente affrontati, Pirina riuscì ad allacciare rapporti con il sindaco e alcuni studiosi di Nova Gorica, ottenendo l’accesso agli archivi di questa città e di Lubiana793. Il suo discorso apparve allettante a coloro che in Slovenia nell’euforia delle riacquistate libertà democratiche erano interessati a rivedere i giudizi obbligati sulla seconda guerra mondiale, instaurando rapporti di collaborazione con studiosi italiani. Un gruppo di ricercatori di Nova Gorica si recò pertanto fiduciosamente a Pordenone, dove il comandante del presidio locale li ospitò nel circolo ufficiali794. Nel dicembre del 1990 Pirina presentò i primi risultati delle sue ricerche «sulle foibe e lager jugoslavi» a Roma, presso la sede del Movimento sociale italiano, in una serata cui partecipò accanto al segretario del partito Pino Rauti anche il senatore socialista di Trieste Arduino Agnelli. L’occasione era importante, dato che per la prima volta esponenti della destra e della sinistra moderata si trovavano concordi nel denunciare il regime titoista. Secondo la documentazione raccolta - a detta del Pirina - oltre a migliaia di uomini e donne che sarebbero stati precipitati nelle foibe nei mesi immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale, «varie centinaia furono deportati in zone di montagna o in isole deserte per essere adibiti a lavori forzati e poi essere uccisi». Il senatore Agnelli rincarò la dose parlando di alcune migliaia, e accennando inoltre alle lotte intestine partigiane, di cui sarebbero stati vittime centinaia di militanti filoitaliani, eliminati per ordine dei comandi militari del maresciallo Tito795.

Mentre dopo il crollo del muro di Berlino vacillava l’Impero sovietico, cadeva a pezzi la Federazione jugoslava e l’Italia era sconvolta dalla crisi di «mani pulite», con il conseguente tramonto dei partiti tradizionali, anche il problema delle foibe assumeva dimensioni nuove. Dato che non era più necessario aver riguardi per lo Stato vicino, ma bisognava definire ex novo i rapporti con le piccole Repubbliche sovrane affrancate dalle sue rovine, a molti sembrò opportuno porre l’accento sulle tragedie del primo dopoguerra, per riaprire con Lubiana e Zagabria il discorso relativo alle rivendicazioni italiane sui «territori ceduti» con la firma del Trattato di pace del 10 febbraio 1947 e con gli Accordi di Osimo. Dai circoli degli esuli giungevano pressanti inviti in tal senso alle massime autorità dello Stato, a cominciare dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga, perché venissero in pellegrinaggio a Basovizza796. Il gesto sembrava necessario per dimostrare la volontà dell’Italia d’impostare con i vicini dell’Est una politica estera forte, basata su un più o meno esplicito neoirredentismo. A rompere il ghiaccio fu il ministro della Difesa Valerio Zanone, che si recò nella località carsica due volte, nel 1988 e nel 1989, sempre però a titolo personale797. Soltanto l’8 giugno 1991 ci venne un rappresentante ufficiale del governo, il ministro della Difesa Virginio Rognoni, il cui discorso fu considerato però dai presenti «scialbo e reticente», avendo egli parlato di una nuova Europa più integrata «in cui le specificità di ogni popolo non vengono mortificate ma valorizzate»798. «L’amaro in bocca» avvertito da molti suoi ascoltatori fu mitigato solo dal fatto che quella era la prima cerimonia sullo «Šoht» organizzata dal Comune di Trieste, il cui sindaco era il democristiano Franco Richetti799.

Di ben diverso tenore fu la successiva commemorazione, organizzata alla fine di quell’anno. Il 3 novembre, salì al «sacrario» Francesco Cossiga, il primo presidente della Repubblica a compiere tale gesto. Egli non si accontentò di deporvi una corona, ma s’inginocchiò davanti alla lastra che copre il pozzo, sostando in preghiera per un minuto. Sebbene non avesse parlato agli astanti, anzi, si fosse recato nella stessa giornata in visita lampo in Slovenia per ribadire il suo sostegno alla neonata Repubblica (non ancora riconosciuta dal governo di Roma), il suo commento successivo, pubblicato dai giornali, fu assai significativo: egli mosse infatti un’aspra critica all’«attuale regime» italiano, dominato, a suo dire, «da una pseudocultura che ci è stata propinata per 40 anni come cultura democratica». Quella cultura - incalzò Cossiga - che gli avrebbe impedito fino a ieri di andare alla foiba di Basovizza. «E io mi sono inginocchiato, cosa che non mi è consueta, non solo come atto di omaggio, perché io stavo chiedendo a quegli italiani perdono del fatto che la classe politica non avesse avuto fino a quel momento il coraggio di rendere omaggio a quei Caduti della italianità di quelle terre». E concluse ribadendo il concetto: «Io ho chiesto perdono agli italiani dimenticati dalla nostra classe politica, infoibati dai comunisti titini, che avevano occupato le nostre terre. Altro che liberazione!»800.

Questo avallo dato dalla massima autorità dello Stato alla tesi che la lotta di liberazione jugoslava fosse semplicemente il pretesto per l’occupazione della Venezia Giulia, che la resa dei conti successiva alla guerra fosse stata attuata contro gli italiani proprio perché tali e che essa fosse stata nascosta dal potere, fece scuola. Due concetti soprattutto, l’innocenza delle vittime e la decennale congiura del silenzio sul loro martirio, divennero il leit-motiv di cui si impossessarono i media in un’orgia di frasi fatte, di stereotipi prefabbricati, di eventi e cifre non verificate, che erano la più esplicita manifestazione di quella «pseudocultura» così aspramente condannata da Cossiga. «Una congiura di silenzio circondava perfino le vicende delle migliaia di italiani torturati e infoibati dal maresciallo Tito», scriveva la rivista «Panorama» del 14 marzo 1993; ignorando che nessun problema triestino era stato dibattuto nei decenni del dopoguerra quanto quello delle foibe801. Per quanto riguarda poi le cifre degli «infoibati», esse conobbero un crescendo inarrestabile col passare del tempo, dato che bisognava giustificare la tesi dello «sterminio etnico» premeditato. Se Bartoli aveva parlato di 4.000, ora i giornali, la radio e la televisione sparavano in crescendo ben altri numeri: 15-20-30.000, la gran parte dei quali buttati nelle foibe ancor vivi. L’«Avvenire», il giornale dei vescovi italiani, arrivò addirittura alla cifra di 50.000. Quanto poi al pozzo di Basovizza, in esso, a detta della rai, giacevano «5.000 vittime»802.

Un passato senza fine

Il tam tam pubblicitario era cominciato già un mese prima della visita di Cossiga a Basovizza con una trasmissione televisiva rai di Giovanni Minoli, intitolata Mixer, in cui, oltre a testimonianze filmate, fu intervistato un sopravvissuto all’infoibamento, avvenuto, a suo dire, il 5 maggio 1945 in Istria vicino a Fianona (Plomin)803. Si trattava di Graziano Udovisi, ex ufficiale della Milizia difesa territoriale, processato e condannato alla fine di settembre 1946 a Trieste per aver arrestato e seviziato tre partigiani nella zona di Portole (Oprtalj)804. Egli narrò con dovizia di particolari la sua avventura, che aveva però un lieve difetto: la stessa vicenda era stata riferita in precedenza, in qualità di protagonista, da Giovanni Radetticchio, un altro istriano, emigrato dopo la guerra in Australia. A suo dire tuttavia Udovisi era tra coloro che vennero infoibati insieme a lui e che non sopravvissero. Un’altra versione di questo macabro racconto era apparsa per ragioni propagandistiche in forma anonima già nel foglio «La Prora» nel 1946, diretto «sia agli stranieri perché ne tengano conto nella formulazione dei loro giudizi che ai nostri dolori sofferti dai giuliani»805. Le sue incongruenze non furono per altro notate né dai media né dalle autorità, che negli anni successivi premiarono l’Udovisi per le sue frequenti esternazioni ai media con una medaglia e una pensione. (Nel 2005 ottenne l’Oscar tv come «uomo dell’anno»)806. Come se ciò non bastasse la giornalista Anna Maria Mori e la scrittrice istriana Nelida Milani raccontarono nel libro Bora una storia identica, che sarebbe capitata però allo «zio» Aurelio Codrich807. E per completare il quadro, ecco come riferisce della stessa vicenda nelle sue memorie monsignor Antonio Santin, ex arcivescovo di Trieste:

In città dominava la violenza contro tutto ciò che era italiano. Tutti i giorni dimostrazioni di sloveni convogliati in città, bandiere iugoslave e rosse imposte alle finestre. Centinaia e centinaia di inermi cittadini, guardie di finanza e funzionari civili, prelevati solo perché italiani, furono precipitati nelle foibe di Basovizza e di Opicina. Legati con filo spinato venivano collocati sull’orlo della foiba e poi uccisi con scariche di mitragliatrice e precipitati nel fondo. Vi fu qualcuno che, non colpito, cadde sui corpi giacenti sul fondo e poi, ripresi i sensi per la frescura dell’ambiente, riuscì lentamente di notte ad arrampicarsi aggrappandosi alle sporgenze e a uscirne. Uno di questi venne a Trieste da me e mi narrò questa sua tragica avventura808.

Sarà stato Graziano Udovisi? Ma non era stato gettato nella foiba di Fianona?

«La storia quando serve alla propaganda può benignamente venire falsata». Quest’aurea massima, inserita da Luigi Papo nel volume L’Istria e le sue foibe del 1999, ben si addice a gran parte di quanto fu scritto sulle foibe in Italia negli anni Novanta809. Essa fu messa in pratica dallo stesso autore fin dall’inizio della sua attività, quando pubblicò un «libro bianco» che gli sarebbe stato commissionato dal ministero italiano della Marina e dalla Royal Navy britannica. In seguito, tuttavia, fu costretto a toglierlo dalla circolazione a causa delle approssimazioni di cui, a giudicare dal resto della sua produzione, era infarcito. È significativo tuttavia come ne parli nel 1991 un giornale prestigioso, «La Stampa» di Torino: «Un guizzo di luce, poi il libro troppo scomodo fu ritirato. E sulle foibe, come su Udovisi, calarono le tenebre»810.

Nonostante il 15 gennaio 1992 l’Italia avesse riconosciuto, insieme con gli altri Stati della Comunità europea, le repubbliche di Slovenia e di Croazia, i rapporti bilaterali con la prima non erano buoni. La Farnesina sollevò in quel periodo la questione degli esuli dalla zona B e dell’indennizzo dei loro beni, cercando di condizionare a essa il proprio assenso al processo d’integrazione della giovane Repubblica nell’Unione europea. Più allarmanti ancora erano le tesi della destra che metteva in forse la validità degli Accordi di Osimo, affrontando il problema delle frontiere. Le associazioni degli esuli pubblicarono delle cartine su cui erano segnate le «foibe» nelle vicinanze di Trieste e quelle in Istria, con l’evidente intento di sottolineare una coesione storica della regione, nobilitata dal martirio, che delegittimasse le attuali realtà politico-statali. Apparvero appelli secondo i quali «i giovani che non sanno [di foibe e di esodo], devono sapere»811, e sulle mura di Trieste furono affissi manifesti con parole d’ordine provocatorie, quali: «Ricompriamoci l’Istria!»812. Nel 1991 il leader neofascista Gianfranco Fini si recò insieme a Mirko Tremaglia e al senatore triestino Roberto Menia a Belgrado per accordarsi coi serbi sulla divisione delle sfere d’influenza nell’Adriatico813. Nel novembre dell’anno successivo Menia organizzò a Trieste una «domenica dannunziana», cui presero parte 5.000 nostalgici. Richiamandosi alla Beffa di Buccari, organizzata dal poeta durante la prima guerra mondiale, in cui questi violò la baia vicino a Fiume per lasciarvi una bottiglia con un messaggio derisorio agli austriaci, egli ne ripeté il gesto814. Imbarcato, insieme a Fini, su una barca a vela, gettò nel golfo di Trieste 350 bottiglie tricolori con il seguente messaggio:

Istria, Fiume, Dalmazia: Italia! [...] Un ingiusto confine separa l’Italia dall’Istria, da Fiume, dalla Dalmazia, terre romane, venete, italiche. La Jugoslavia muore dilaniata dalla guerra: gli ingiusti e vergognosi trattati di pace del 1947 e di Osimo del 1975 oggi non valgono più [...] E anche il nostro giuramento: «Istria, Fiume, Dalmazia: ritorneremo!»815

La minoranza italiana rimasta in Istria, così a lungo negletta e isolata da Roma e dalle associazioni degli esuli, anzi bollata di tradimento, venne riscoperta, perché considerata un possibile cavallo di Troia. La scelta della Slovenia e della Croazia di tracciare in Istria le rispettive frontiere sulla Dragogna, spaccando in due la comunità italiana, fu vista come una gravissima violazione degli Accordi di Osimo, tale da giustificarne la revisione. La comparsa poi nell’Istria croata di un movimento autonomista che si opponeva al centralismo di Franjo Tudjman, suscitò molto interesse, facendo nascere alleanze tattiche e l’idea di una «euroregione» capace di annullare le frontiere esistenti. «L’Istria diventi pure un’euroregione», proclamava l’onorevole Menia, «purché torni all’Italia»816.

I tragici eventi che nell’estate 1992 sconvolsero la Bosnia-Erzegovina, dov’era scoppiata una guerra civile fra le sue tre etnie maggiori, musulmani, croati e serbi, fomentata dall’esterno dalla Serbia e dal Montenegro, ma anche dalla Croazia, diedero ai discorsi sulle foibe un nuovo significato. Per molti esuli le informazioni provenienti dai Balcani relative alla pulizia etnica, ai campi di concentramento e agli stupri commessi su migliaia di donne, per non dire dell’esilio cui erano stati costretti 2.000.000 di persone, erano solo la conferma del pregiudizio che, al di là della loro frammentazione etnica, gli «s’ciavi restavano s’ciavi», cioè barbari atavicamente inclini alla violenza817. Come riferisce Pamela Ballinger, autrice di studi antropologici sugli esuli istriani, negli anni Novanta essa si senti dire spesso durante le sue ricerche a Trieste: «Quello che gli slavi stanno facendo l’uno all’altro, lo fecero a noi cinquanta anni fa»818. E non si trattava di commenti che circolassero solo nei gruppi ristretti della diaspora istriana. «Se quella non fu pulizia etnica», scrisse Arrigo Petacco, in un libro, intitolato L’Esodo, «allora il termine deve essere cancellato dai dizionari. Perché non ha senso riferirlo alle sofferenze di bosniaci e kosovari, se poi si chiudono gli occhi di fronte al passato che maggiormente, in quanto italiani, ci riguarda»819.

Non a caso proprio in questo periodo, nel 1992, due esuli istriani, Nidia Cernecca e Leo Marzini, presentarono alla magistratura di Trieste denunce simili, in cui accusavano Ivan Motika (detto anche Matika secondo la pronuncia istriana) di essere responsabile, quale capo del Tribunale del Popolo di Pisino nel 1943, della morte del padre, la prima; del padre e dello zio, il secondo: denunce corredate di dettagli raccapriccianti, sulla base peraltro di testimonianze assai labili, attribuite per di più a gente defunta. Al padre della Cernecca, dopo averlo seviziato e condannato a trascinarsi in spalla il sacco ricolmo di sassi con i quali sarebbe stato lapidato, i partigiani avrebbero tagliato la testa, per estrargli i denti d’oro e usarla a mo’ di pallone; ai due congiunti di Marzini avrebbero strappato gli occhi e li avrebbero evirati820. Ambedue le denunce - redatte evidentemente dalla stessa persona (stessi caratteri, stessa impaginazione) si concludono nell’identico modo: parlano infatti di «delitti contro l’umanità commessi o ordinati nell’intento di sopprimere, eliminare e distruggere il gruppo nazionale italiano (che era la stragrande maggioranza della popolazione dell’Istria) nell’ambito di un chiaro disegno di genocidio»821.

Era un’accusa di non poco conto, trattandosi di un delitto che secondo la Convenzione onu del 26 novembre 1968 è imprescrittibile822; accusa che tra l’altro non coinvolgeva solo il Motika, ma tendeva a criminalizzare l’intero movimento della Resistenza sloveno-croata, e di conseguenza a delegittimare i due Stati sorti da esso. Negando così implicitamente la validità delle frontiere fissate con il Trattato di pace di Parigi del 1947 e gli Accordi di Osimo del 1975, bollati come un «regalo» agli slavi823. E dunque ovvio che questa mossa giudiziaria non era legata all’iniziativa di singoli, ma rientrava in un piano di più vasto respiro, mirante anzitutto a rendere difficile il riconoscimento da parte dell’Italia della dichiarazione con cui la Slovenia assumeva l’eredità di tutti i trattati firmati dell’ex Jugoslavia. L’8 settembre 1992 tuttavia la «Gazzetta Ufficiale» dava notizia che il governo italiano accettava che essa subentrasse alla Federazione scomparsa per i trattati bilaterali, quelli di Osimo compresi. La stampa denunciò quest’atteggiamento «rinunciatario», questa «svendita», come fu definita, mettendo sotto pressione il governo. «Il Giornale» di Indro Montanelli giunse al punto di reclamare anche la Dalmazia «negata e tradita», accusando i governi italiani di «alto tradimento» per aver «ceduto» la zona B alla Jugoslavia. Per la revisione del Trattato di Osimo fu dato il via a una raccolta di firme che in poche settimane vide 142.000 adesioni824.

Nel 1992 la Lista per Trieste, sorta dopo il 1975 in opposizione ai Trattati di Osimo, riuscì a coronare i suoi sforzi affinché il nuovo presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, dichiarasse con un decreto dell’11 settembre la foiba di Basovizza monumento nazionale come la Risiera825; questo, nonostante l’assicurazione fornita dal direttore generale del ministero dei Beni Culturali quattro mesi prima che la qualifica «monumento di interesse storico», conferita alla foiba con il decreto del 1980, bastava per ritenerla «monumento nazionale»826. Quando Scalfaro nel febbraio successivo venne nella città adriatica, rendendo omaggio alla foiba, i rappresentanti delle associazioni di profughi dalmati e istriani fecero pressioni su di lui, invitandolo a farsi portavoce delle loro aspirazioni. «Non cerchiamo vendette, vogliamo solo che sia dichiarata ufficialmente l’innocenza e l’estraneità delle migliaia di italiani sepolti vivi dai partigiani jugoslavi», disse padre Rocchi, segretario dell’Associazione Venezia Giulia e Dalmazia, aggiungendo però in modo volutamente ambiguo, ma minaccioso: «non ci accontenteremo delle solite corone di fiori o delle assoluzioni collettive»827.

Scalfaro non si fece pregare: prima di elevare il 24 luglio 1993 anche la «Bršljanovca» al rango di monumento nazionale828, con una lettera inviata al capo del governo Giuliano Amato, chiese di far luce sulle foibe, riprendendo in gran parte le tesi di padre Rocchi. Scrisse:

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Figura 1 - Riesumazione di resti umani dalle «foibe», Carso 1950.

 

 

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Figura 2 - Durante l’arrivo di Mussolini a Gorizia, settembre 1938.

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Figura 3 - Parata militare dell’esercito germanico davanti al tribunale di Trieste.

 

 

 

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Figura 4 - Soldati italiani portano partigiani jugoslavi verso la fucilazione.

 

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Figura 5 - Due soldati italiani con alcune vittime.

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Figura 6 - Alcune vittime in un villaggio carsico a causa di azioni delle milizie territoriali della RSI.

 

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Figura 7 - Impiccati in via Ghega a Trieste come rappresaglia all’attentato dei partigiani contro ufficiali tedeschi, aprile 1944.

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Figura 8 - Manifesto di propaganda fascista, affisso a Novara il 26 febbraio 1944. Equiparazione propagandistica: vittime di Katyn e vittime delle «foibe» istriane.

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Figura 9 - Pubblicazione contro l'annessione dell'Istria italiana alla Jugoslavia di Tito. La pagina riporta una denuncia agghiacciante del sistema delle «foibe»: «Alleati! consegnarci a Tito vuol dire macchiarsi dei medesimi orrendi massacri». Pagina da giornale istriano del luglio 1946.

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Figura 10 - Manifestazione jugoslava nel centro di Trieste, 3 maggio 1945.

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Figura 11 - Soldati dell’esercito jugoslavo davanti al carcere Coroneo di Trieste, dopo aver liberato i prigionieri politici, 1º maggio 1945.

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Figura 12 - Reduce del campo di Borovnica, 1945.

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Figura 13 - Riesumazioni di sloveni uccisi da nazi-fascisti vicino alla località Ajdocščina (Aidussina), post 1945.

 

 

Foibe. Una storia d'Italia
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