JOŽE
PIRJEVEC
Foibe: quali verità?
Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti. Al singolo, vittima di eventi più grandi di lui, può anche non importare capire l’origine delle sue disgrazie; ma chi fa responsabilmente il mestiere di politico o anche più modestamente quello dell’educatore deve avere la consapevolezza dei messaggi che trasmette, deve sapere che cosa significa trasmettere un messaggio dimezzato, unilaterale.
e. collotti, Giù le mani dalle foibe
Viaggio in Dalmazia
Nel 1774 usci a Venezia una ponderosa opera in due volumi di Alberto Fortis, naturalista e scrittore padovano, intitolata Viaggio in Dalmazia, che ebbe grande successo non solo in Italia, ma in tutta Europa: quasi subito, infatti, apparve a Berna un suo ampio estratto dal titolo Die Sitten der Morlacken, cui si aggiunse due anni più tardi, sempre nella città elvetica, la sua traduzione integrale. Goethe, Herder, Merimée furono soltanto alcuni fra i molti ed entusiasti lettori del libro, che colpi evidentemente l’immaginazione degli ambienti culturali, appagandone il gusto dell’esotico e del primitivo, tanto di moda nel tardo Settecento1.
Come risulta dal titolo del frammento pubblicato a Berna, in esso Fortis parlava anche degli usi e dei costumi dei «morlacchi». Con questo termine di origine veneta (abbreviazione di Mauro Valacchi) erano indicati quegli abitanti della Dalmazia che non vivevano nelle città costiere, bensì nell’entroterra montagnoso, e parlavano il serbo-croato, detto per tradizione classicheggiante «illirico». Essi costituivano la stragrande maggioranza della popolazione, senza però avere alcun peso nella vita pubblica, chiusi com’erano in una società patriarcale misera e primitiva, quasi del tutto impermeabile agli influssi dell’Occidente. Fortis insomma, al pari del suo contemporaneo capitano James Cook, che nel 1769 aveva scoperto i «buoni» selvaggi di Tahiti, presentava a sua volta all’Europa dei lumi i selvaggi della Dalmazia, descrivendone - non senza ampie concessioni alla fantasia - moralità e ritmi di vita in modo non dissimile da quello del navigatore inglese. Essi gli apparvero incontaminati o quasi dalla corruzione della civiltà, ingenui, sinceri, ospitali, fieri, e a tratti anche feroci, ma di una ferocia mai meschina, e sempre «proporzionata al bisogno e alla vita selvaggia che menano»2. Scrive il Fortis:
Il morlacco che abita lontano dalle sponde del mare, e dei luoghi presidiati, è generalmente parlando un uomo assai diverso da noi. La sincerità, fiducia ed onestà di quelle buone genti, si nelle azioni giornaliere della vita, come ne’ contratti, degenera qualche volta in soverchia dabbenaggine e semplicità. Gl’italiani, che commerciano in Dalmazia, e gli abitanti medesimi del litorale ne abusano pur troppo spesso; quindi è che la fiducia de’ morlacchi è scemata di molto, e va scemando ogni giorno più per dar luogo al sospetto, e alla diffidenza. Le replicate sperienze ch’essi hanno avuto dagl’italiani, han fatto passare in proverbio fra loro la nostra malafede. Eglino dicono per somma ingiuria egualmente passia-vira, e Lanzmanka-vira, fede di cane e fede d’italiano. Questa mala prevenzione contro di noi potrebb’essere incomoda a viaggiatore poco conosciuto: ma non lo è quasi punto. Ad onta di essa, il morlacco nato ospitale e generoso, apre la sua povera capanna al forestiero, si dà tutto in moto per ben servirlo, non richiedendo mai, e spesso ricusando qualunque ricognizione. A me più d’una volta è accaduto per la Morlacchia di ricevere il pranzo da un uomo che non m’avea veduto giammai, né poteva ragionevolmente pensare di dovermi rivedere in avvenire mai più3.
Insomma, il morlacco di Fortis potrebbe benissimo trovar posto nel Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau, in quell’epoca beata antecedente l’affermarsi della proprietà individuale, in cui secondo il grande filosofo ginevrino gli uomini, abbandonando la primitiva solitudine, si raggrupparono in comunità conservando l’innocenza delle origini. In questa descrizione, legata a schemi intellettuali preconcetti, non c’era ovviamente spazio per una considerazione più realistica delle cose, come ad esempio quella fatta una generazione prima, il 17 dicembre 1747, dal nobiluomo veneziano Marco Foscarini in una relazione al Maggior consiglio della Serenissima. Egli vi denunciava con franchezza il malgoverno dei domini d’oltreadriatico da parte di funzionari senza scrupoli, dipingendo a vivaci colori la «comune desolazion» che avevano portato tra i morlacchi «i depredatori delle provincie»4
La visione dello slavo come buon selvaggio, uomo vicino allo stato di natura, non corrotto dalla civiltà, persistette a lungo nell’immaginario collettivo delle classi colte dell’area adriatica. L’ultima e più alta espressione di tale stereotipo è rintracciabile nelle famose Scintille (Iskrice) di Niccolò Tommaseo, che pure in una serie di scritti compilati nello stesso periodo si mostrava consapevole del degrado in cui versava la sua patria dalmatica e del fatale distacco fra i «cappelli» e i «berretti»: «Non pochi de’ Dalmati delle città guardano com’uomo d’altra razza, quasi come animale, il villico misero»5.
Le Iskrice, pubblicate a Zagabria in versione «illirica» nel 1844, furono scritte dal letterato dalmata a cavallo degli anni Trenta e Quaranta, quando, dopo un lungo peregrinare in Italia e Francia, riscoprì, tornando in patria, le proprie radici slave. Si tratta di un poema in prosa, e insieme di un esercizio in quella lingua «illirica» che il Tommaseo, elegantissimo scrittore italiano, volle recuperare in ricordo della madre al ritorno nella natia Sebenico. Scriveva nella IV Scintilla:
Non ha questo popolo pulito e fine il vestire; ma l’animo ha franco e nella sua semplicità gagliardo. S’ubriaca di povero vino e acquavite: ma l’ebbrezza del pusillanime orgoglio e della paura violenta, e della vergogna, e della moneta, è più turpe ebbrezza. Non ha palazzi il popolo, ma non ha né manco ripieni i suoi letti d’impurità [...] Non abbiamo case, ma abbiamo famiglie; qui padre e madre non son nomi vani6.
Com’è evidente da questo passo e da altre «scintille» del volumetto del Tommaseo, il suo legame col Fortis nel modo di descrivere i morlacchi è molto stretto. Non va dimenticato del resto che egli s’era «accorto» di quel popolo slavo della Dalmazia proprio grazie al resoconto di viaggio del professore padovano, capitatogli per caso tra le mani. Nelle Scintille il Tommaseo rappresentò dunque la stessa società già descritta dal viaggiatore settecentesco, primigenia, pura e forte, povera di beni materiali, ma ricca di valori etici e di forza creativa, arricchendo però tale quadro di un afflato romantico di matrice herderiana che in Fortis non c’era, con la visione del grande ruolo cui gli slavi erano predestinati nel progredire dell’umanità verso mete più alte di civile convivenza. «Può la gente nostra congiungere il settentrione e il mezzodì, rinnovare le vecchie razze stanche, e nell’Europa alcuna cosa infondere dell’asiatico spirito»7.
La primavera dei popoli: 1848
L’interesse e la simpatia per il mondo slavo che la cultura italiana ed europea avvertirono nell’età dei lumi e nel primo Ottocento erano destinati a venir meno inopinatamente durante la rivoluzione del 1848. Gli slavi, dai russi ai croati, si dimostrarono troppo spesso e troppo volentieri sostenitori dell’ancien régime, per conservare agli occhi dei liberali dell’Europa occidentale quell’aura d’infantile innocenza che era stata loro attribuita. Nell’area adriatica nord-orientale, poi, approfittando degli spazi di libertà aperti dal moto rivoluzionario da cui fu scossa la monarchia asburgica, essi si presentarono sulla scena pubblica con programmi politici e progetti propri e richieste nazionali che rappresentavano grave minaccia al potere della borghesia di lingua italiana insediata nel Litorale. Cosi, da un momento all’altro, i buoni selvaggi di ieri apparvero agli sbigottiti «cappelli» delle città costiere della Dalmazia, dell’Istria e di Trieste dei pericolosi rivali, niente affatto disposti a rassegnarsi a un ruolo subalterno nella vita politica e sociale8. Ancora nel 1847 il settimanale «L’Istria» nel dedicare una serie di articoli agli slavi della penisola, dichiarava che essi «lungi dall’essere maligni, rapaci e feroci» erano al contrario «pii, sinceri, leali ed al sommo ospitali». Il modo di vita di questo popolo antichissimo «imita di molto la condotta degli antichi patriarchi, per cui serbiamo venerazione cotanta»9. Tuttavia, già nel 1850 in Istria si cominciò a discutere sulla «necessità di fondere la popolazione slava nella popolazione italiana» essendo «certo che l’ingegno Italiano è superiore allo slavo, e che la lingua italiana possiede una maggiore ricchezza di civiltà»10.
Questa nuova situazione diede il via a un’aspra diatriba, scatenatasi in un primo momento in Dalmazia, dove le posizioni dell’elemento italiano si rivelarono fin dall’inizio assai precarie per la sua esiguità numerica. Di conseguenza, nel giudizio della popolazione di lingua e cultura veneta che si sentiva assediata nelle cittadine della costa, lo slavo perse i connotati di pacifico e innocuo villico, da trattare e sfruttare con paternalistico distacco, per trasformarsi in cattivo selvaggio, nemico della civiltà, barbaro e distruttore. Visione che, come la precedente di matrice settecentesca, trova le sue radici in una precisa temperie culturale, quella romantica, che aveva scoperto i lati oscuri e demoniaci della natura umana, proponendo all’attenzione dell’Europa colta rivisitazioni suggestive dell’età delle incursioni «mongolo-slave» e della loro traccia nella storia. Non aveva del resto già il marchese De Custine, nelle sue Lettere dalla Russia, pubblicate a Parigi nel 1838, affermato che i barbari erano ancora presenti in Europa? «I russi che sono nati dal congiungersi di popolazioni nomadi per lungo tempo e guerriere sempre, non hanno ancora dimenticato la vita del bivacco»11.
Dopo l’intermezzo dell’assolutismo asburgico negli anni Cinquanta, la disputa fra italiani e slavi (sloveni e croati) divampò nell’area adriatica all’inizio del decennio successivo, coincidendo col ripristino almeno parziale delle libertà costituzionali nell’ambito della monarchia. In Dalmazia sorse allora il problema della posizione giuridica della regione nella complessa struttura amministrativa dell’impero: mentre il Partito filoitaliano ne chiedeva l’autonomia per poterla gestire, quello filoslavo ne auspicava la riunione con la Croazia e la Slavonia per ripristinare l’antico «regno trino». La polemica tra i fautori dell’una e dell’altra soluzione divenne violentissima e gravida di conseguenze, perché nel corso di essa si cristallizzò la visione negativa dello «slavo» destinata a sopravvivere fino a oggi in buona parte della pubblicistica italiana. Vi intervenne con molto impegno e notevole inventiva lessicale lo stesso Tommaseo, dimentico dei suoi entusiasmi «illirici» del periodo quarantottesco e fieramente avverso a qualsiasi richiesta avanzata dal Sabor (parlamento) di Zagabria di un connubio della «sua» Dalmazia con l’entroterra d’oltre monte: «Croati! Se vi ha ricoperti per secoli l’oscurità, non vi renda cospicui la vergogna»12.
A formulare più compiutamente il nuovo stereotipo non fu tuttavia il filologo di Sebenico, ma il direttore del foglio degli autonomisti la «Voce Dalmatica», Vincenzo Duplancich. Nel 1861 egli pubblicò a Trieste un opuscolo, Della civiltà italiana e slava in Dalmazia, che riflette in modo eloquente l’incapacità della borghesia locale di confrontarsi con spirito aperto con la nuova consapevolezza nazionale che si andava formando nei croati, accettandola come una realtà inevitabile, con cui trovare un compromesso. Scriveva il Duplancich:
Dire civiltà slava è contraddirsi nei termini; è dire il sole della mezzanotte. Se per civiltà slava s’intendono sapienza di leggi e di istituzioni, altezza morale, grandezza di azioni, cultura e avanzamento di scienze, fioritura di lettere, splendore di arti, vastità di commerci e d’industrie, ricchezza e prosperità, è fuor di dubbio che civiltà slava in Dalmazia non è mai esistita13.
Di più: a suo giudizio gli slavi, discendenti di barbari e barbari essi stessi, non erano in grado di ascendere a un livello superiore di civiltà: rimanevano conquistatori e devastatori d’istinti feroci, di selvaggia rozzezza; la loro lingua era primitiva e imperfetta, incapace di esprimere idee nuove14 Potevano per altro esser distinti in due categorie: da una parte stava la stragrande maggioranza, l’umile popolo delle campagne che non provava desiderio d’emanciparsi, non ne aveva mai sentito il bisogno e non avrebbe neppur potuto comprenderlo, non avendo mai sognato di mettersi a capo della società o prender l’iniziativa negli affari pubblici. «Egli ha sempre sentito per istinto la preminenza che dà necessariamente alla stirpe italiana l’eccellenza della cultura, la riconobbe come dominatrice, la rispettò sempre e l’amò come quella da cui poteva tutto sperare, e dalla quale doveva venirgli ogni bene», dall’altra c’erano però quegli slavi, meno numerosi ma più aggressivi, che approfittavano dell’ignoranza e della buona fede del popolo: mestatori importati, miranti a suscitare un «odio di razza» mai esistito in Dalmazia, destando nell’animo degli slavi desideri inappagabili e sentimento d’insanabili mali15.
Nel discorso di Duplancich è possibile trovare, accanto all’immagine relativamente recente dello slavo «barbaro», anche quella più antica del «buon selvaggio»; che rimane tale appunto finché selvaggio: appena cerca di emanciparsi, sottraendosi alla sua condizione subalterna di «villico», viene catalogato nella categoria di quei «barbari» pericolosi, che con cieca violenza s’accaniscono a sovvertire l’ordine costituito. Questo schema mentale era destinato a persistere inalterato non solo in Dalmazia, dove la polemica tra «slavi» e «autonomisti» venne - se non sopita - in certo qual modo superata nel giro di pochi anni col trionfo del Partito nazionale (filocroato), ma ancor più in Istria e a Trieste, pur senza arricchirsi di spunti sostanzialmente nuovi16. Il rifiuto totale di accettare il risveglio culturale e politico degli sloveni e dei croati nell’area adriatica e l’incapacità di confrontarsi con esso, se non in termini ostili, trovano efficace espressione nel discorso che il consigliere comunale, archeologo e storico di Trieste e dell’Istria Pietro Kandler tenne, con tutta l’autorità di cui godeva, nel 1864:
Ma di questi nomi slavi, scritti come stanno sulle tavole geografiche moderne, accolti nelle moderne scritture, ho ribrezzo, non potendomi persuadere che nella nomenclatura della lingua nobile, culta, giustificata dalla storia, e dalla ragione, debbasi preferire la lingua idiota, la rozza e volgarissima, sragionata oltre ogni credere, ho ribrezzo di trasportare la lingua di stupidi boscaioli e pastori, in altra qualunque, che sia nobile e culta, per scendere fino alla ridicolezza di sproloqui”.17
Österreichisches Küstenland - Litorale austriaco - Avstrijsko Primorje
Più che in Dalmazia, dove secondo il censimento del 1846 gli abitanti di lingua italiana non superavano di molto il numero di 15.000 unità (3,72 per cento della popolazione)18, nel Litorale asburgico la lotta interetnica assunse connotati di estrema asprezza per il diverso e bilanciato rapporto di forze: in Istria ai 134.000 e passa croati e a quasi 32.000 sloveni si contrapponevano infatti ben 60.000 italiani o comunque italofoni (26,31 per cento della popolazione), a Trieste vivevano 44.940 italiani (54,72 per cento), 25 300 sloveni (31,51 per cento), 8.000 tedeschi (9,96 per cento) e 3.060 ebrei (3,81 per cento). Nel Goriziano c’erano invece 128.462 sloveni (77 per cento), 61.489 italiani (32,06 per cento) e 1.385 tedeschi (0,72 per cento)19.
Sebbene in Istria non mancassero contadini, artigiani e pescatori di etnia o lingua italiana, va detto che la classe dei borghesi e dei proprietari terrieri era invece costituita esclusivamente da essi. Nelle cittadine costiere quali Capodistria (Koper), Isola (Izola), Pirano (Piran), Umago (Umag), Cittanova (Novigrad), Parenzo (Porec), Rovigno (Rovinj), Albona (Labin) e alcuni centri maggiori dell’interno o poco lontani dalla costa: Buie (Buje), Montona (Motovun), Pinguente (Buzet), si parlavano perlopiù dialetti di tipo veneziano e ci si sentiva culturalmente italiani20. L’articolo 19 delle leggi fondamentali del 1867 riconosceva a ogni etnia dell’Impero asburgico il diritto di conservare e coltivare la propria nazionalità e la propria lingua, pur senza istituire alcun organo statale che ne fosse guardiano21. Nei territori mistilingui questa norma progressista significò quindi l’inizio di conflitti politici fra le diverse componenti per assicurarsi il controllo delle diete (parlamenti) regionali e delle assemblee municipali, che ne regolavano l’applicazione. Grazie a un sistema elettorale legato al censo, la borghesia italiana o italianizzata del Litorale riuscì a dominare completamente, fino al crollo della duplice monarchia degli Asburgo, la Dieta di Pisino e di Gorizia e il Comune di Trieste22. In questa realtà, in cui i «liberal-nazionali» potevano impunemente violare i più elementari diritti di buona parte della popolazione, si creò così una barriera invalicabile fra italiani e «slavi», croati e sloveni, che accentuava il divario politico e storico-culturale fra le tre etnie. La classe dirigente italiana, cui appartenevano a Trieste anche numerosi ebrei, si sentiva superiore per ricchezza, sviluppo sociale e civile agli s’ciavi (come definiva sprezzantemente croati e sloveni), avvertendone nel contempo la minacciosa presenza23. Nel tentativo di difendersene si chiuse a riccio, come se il rifiuto di prender atto delle proprie condizioni reali in una regione mistilingue bastasse a esorcizzare il pericolo. A tale proposito possiamo citare il comportamento della Dieta istriana, che nel 1861, seguendo l’esempio di Venezia, rifiutò di inviare al Consiglio imperiale di Vienna i propri rappresentanti, e poco dopo respinse l’istanza in base alla quale i suoi atti avrebbero dovuto esser pubblicati in italiano e in «slavo»; o la violenta rivolta di Pirano del 1894, per impedire la posa di una tabella bilingue sulla facciata del Tribunale distrettuale24; o ancora il comportamento del Comune di Trieste che nel 1898 cercò di proibire l’apposizione di una scritta in sloveno su un monumento funebre nel cimitero di Barcola, sobborgo ancora abitato all’epoca in prevalenza da pescatori «slavi»25.
Come riferisce Fausta Cialente nel suo romanzo d’ambientazione triestina Le quattro ragazze Wieselberger, nei circoli liberali massonici e irredentisti che dominavano la città nessuno veniva turbato da frasi come «le calate di slavi nel nostro territorio», e nessuno, nemmeno la borghesia ebraica, era impressionato da ragionamenti razzisti contro la parificazione delle etnie pubblicati dal diffuso libello nazionalista «La Coda del Diavolo»:
Io sono modestissimo, sono anzi l’ultimo degli italiani che abitano il Comune, ma Dio buono, vi sfido a parificare, se lo potete, me a un Pischianz o ad un Gherdol purchessia nel territorio! Se è vero che Dio ha segnato con indelebili confini di monti e marine le diverse patrie, esso ha pure segnato le diverse razze con indelebili caratteri cerebrali che si trasmettono di generazione in generazione. E il Governo non potrà mai raggiungere la pacificazione sognata, per quanto s’affatichi d’insultare alla civiltà a beneficio di chi è lontano ancora dall’essere incivilito26.
Cacciata dalle diete locali e dalla vita pubblica in generale, almeno da quella controllata dai borghesi italiani, la lingua «slava» - slovena e croata - trovò accoglienza nelle chiese: il clero, appoggiato dal vescovo metropolita di Gorizia e dai suoi suffraganei di Trieste-Capodistria, Parenzo-Pola e Veglia, d’origine prevalentemente slava per tradizione e per scelta dell’imperatore, si dedicò a una vasta opera sociale e culturale, che aveva naturalmente anche aspetti risorgimentali. L’uso tradizionale nella liturgia delle chiese istriane di testi glagolitici, scritti cioè nell’antico slavo ecclesiastico, favorito da parecchi parroci nell’Istria croata nel tardo Ottocento e nel primo Novecento, fu visto ad esempio dalla borghesia italiana come un insulto alla «civiltà latina» e avversato in tutti i modi. A cavallo del secolo, il Litorale divenne pertanto teatro di un vero e proprio «Kulturkampf», di una lotta per il dominio delle anime e delle menti, che vide contrapporsi organizzazioni italiane (quali la Lega nazionale) e sloveno-croate (la Società dei Santi Cirillo e Metodio), impegnate, soprattutto nel contado, a fondare scuole e circoli culturali per attirare nella propria orbita quanti più giovani possibile27.
Nonostante l’impegno dei cosiddetti «preti slavi» - un nome fra tutti, quello di Juraj Dobrila, vescovo di Trieste (1875-82) - in questa lotta gli sloveni e i croati avevano costantemente la peggio, e non solo perché più deboli economicamente, ma perché l’istruzione pubblica, elementare e media, dipendeva dalle amministrazioni comunali che a Trieste e nelle cittadine istriane impedivano l’apertura di scuole slovene e croate finanziate dall’erario. In tale contesto conflittuale si affermarono così due concezioni contrastanti d’identità nazionale: quella italiana, che sottolineava il momento volontaristico, cioè la libera scelta dell’individuo di aderire a una cultura «superiore», e quella slava, basata sul richiamo alle radici della stirpe, nella convinzione che la tanto vantata possibilità di scelta non fosse altro che un paravento delle pretese egemoniche di una borghesia che per conservare il proprio dominio sociale accettava nel proprio seno solo chi fosse disposto a mimetizzarsi rinnegando la propria identità. Per quanto riguarda la prima i suoi stessi fautori erano in realtà così poco convinti della propria tesi da favorire con ogni mezzo l’immigrazione dal Regno sabaudo di italiani «purosangue», assumendoli in massa nelle strutture pubbliche da essi controllate. Questo flusso si inserì anch’esso in un eccezionale movimento immigratorio plurisecolare che proveniva soprattutto dall’Istria, dal Friuli, dalla Carniola, dalla Puglia, dalla Grecia, e favorì in maniera straordinaria lo sviluppo demografico ed economico di Trieste28.
Così la popolazione italiana, anche per l’afflusso delle decine di migliaia di «regnicoli», riuscì a rafforzarsi notevolmente, ma si rafforzò anche quella croata e slovena, che dopo l’introduzione del suffragio universale per il parlamento di Vienna nel 1907 era ormai in grado di far meglio valere il proprio peso politico. Il che acuì ulteriormente lo scontro tra le etnie, alimentato dalle rispettive borghesie d’ispirazione liberale cui diedero manforte, nonostante il loro internazionalismo programmatico, anche i socialdemocratici presenti fra il sempre più numeroso proletariato del Litorale29.
Per render l’idea del rancore che si andava accumulando nell’animo dei croati e degli sloveni, va citato il racconto Veli Jože di Vladimir Nazor. Questo scrittore dalmata di vigorosa e fresca vena narrativa e di costante impegno civile fu, fino al crollo dell’Austria, insegnante in diverse città dell’Istria, conoscendone pertanto di persona le piaghe e le storture che denunciò in parecchie sue opere. Nella breve prosa fantastica e allegorica del Veli Jože, pubblicata nel 1908, Nazor narra la storia di un gigante, dotato di forza smisurata, che vive nei pressi di Montona (Motovun) e lavora per i signori della città, i quali però, invece di essergli grati, lo disprezzano e lo deridono. Ma viene il giorno in cui «Veli Jože» si ribella, prendendo coscienza della propria dignità umana, e fugge nei boschi per attendere i propri fratelli coi quali combatterà per diventare libero. «E verranno - se non subito tra cento, tra mille anni»30.
A leggere il racconto di Nazor, che richiama alle rivolte contadine tra il Cinquecento e il Seicento, e grazie agli eventi successivi ha acquisito quasi il valore di parabola profetica, si rimane colpiti dalla sottile capacità di osservazione con cui l’autore riesce a cogliere il piccolo mondo delle cittadine istriane, chiuse nelle proprie mura, superbe e garrule nella presunzione della propria superiorità; eppure così fragili ed esposte per la dipendenza dai villici del circondario e dai conterranei «s’ciavi», dei quali disprezzano e non comprendono la lingua e nei cui confronti sono portate a sviluppare sentimenti ostili sentendosene accerchiate.
Trieste o Trst?
Nonostante l’aria cosmopolita di Trieste e la sua importanza di primo porto dell’impero nella seconda metà del secolo, questo schema vi si replicò anche per l’affermarsi di una vigorosa borghesia slovena e di un proletariato ben organizzato che affluiva in città, attratto non già da oscure mene governative a danno degli italiani come questi affermavano, ma dal lavoro che essa offriva31. E vero che a Trieste si potevano sentire alcune voci parzialmente discordanti come quella di Angelo Vivante, che nel suo Irredentismo adriatico (1912) profetizzò il declino della città se non fosse rimasta centro di sviluppo, commercio e cultura dell’entroterra mitteleuropeo di cui faceva parte; o quella di Scipio Slataper, che ne Il mio Carso (1912) tendeva idealmente la mano allo «slavo», cui però attribuiva dei tratti «mongoli», per portarlo in città e indicargli le strade del mondo, con un afflato che ricorda la fede nel grande futuro della stirpe slava del Tommaseo delle Iskrice32. Queste voci rimanevano tuttavia isolate nel clamore di una lotta etnico-politica combattuta senza esclusione di colpi, in previsione di nuovi equilibri tra forze nazionali e sociali di cui si sentiva imminente l’affermazione33. Nel 1914 Ruggero Fauro Timeus, uno dei più lucidi ed estremi esponenti dell’irredentismo triestino, scriveva da Roma, scelta come luogo d’esilio per non vivere sotto il dominio asburgico:
Dove il popolo è omogeneo, lo straniero è considerato come qualcosa di totalmente diverso e talvolta, se è nemico, di mostruoso e malvagio. Ma da noi lo slavo o tedesco vive talvolta nella nostra stessa casa, e può essere un uomo che vi ossequia, vi sorride ed accarezza i vostri bambini. Può sapere ognuno che anche quello lì è un nemico che si deve odiare e combattere senza quartiere34.
Questo atteggiamento nei confronti delle popolazioni croate e slovene dell’Adriatico settentrionale e orientale, viste come un nemico razziale di cui diffidare e da disprezzare35, fu tipico del resto non solo degli italiani «irredenti» del Litorale e della Dalmazia, perché contagiò pure gli ambienti nazionalisti e imperialisti del Regno sabaudo che, abbandonati gli ideali mazziniani di «fratellanza dei popoli», miravano ad assicurare all’Italia un posto alla pari con le grandi potenze nel «concerto europeo». Su questa base si sviluppò negli ultimi decenni dell’Ottocento e all’inizio del Novecento una vivace propaganda che trovò i suoi portavoce in una schiera di intellettuali, scrittori, poeti e giornalisti, e terreno fertile in cui attecchire nella sempre più numerosa borghesia, avida di conquiste e d’avventura. «Noi gettiamo in faccia a tutti il nostro sogno d’un impero», scriveva ancora il Timeus nel fatale 1914. «Vogliamo conquistare: che c’importa delle giustizie nazionali o delle convenienze internazionali o morali»36.
Quando, scoppiata la prima guerra mondiale, il governo di Roma decise di associarsi nello sforzo bellico alle potenze dell’Intesa, lo fece non tanto per salvare i fratelli «irredenti» dal giogo austriaco, quanto per assicurarsi domini su territori cui pensava di avere diritto quale erede dell’Impero di Giulio Cesare e di quello marinaro di Venezia. Come risulta, per fare un solo esempio, da un discorso di Gabriele D’Annunzio a un gruppo di dalmati che il 7 maggio 1915 gli presentò un libro per attestare l’italianità della loro patria, il conflitto fu considerato dagli interventisti un’occasione per affermare lo status di grande potenza dell’Italia nello spazio danubiano-balcanico. «Non il tedesco dell’Alpe, non lo sloveno del Carso, né il magiaro della Puszta, né il croato che ignora o falsa la storia, né pure il turco che si camuffa da albanese, niuno potrà mai arrestare il ritmo fatale del compimento, il ritmo romano». E la sera del 30 maggio, nel celebrare il voto in favore della guerra, estorto dal re Vittorio Emanuele III al parlamento, il «vate» proclamò alla folla esultante:
Non temiamo il nostro destino ma gli andiamo incontro cantando. La plumbea cappa senile ci opprime; ed ecco, la nostra giovinezza scoppia subitanea come folgore. In ciascuno di noi arde il giovanile spirito dei due Cavalieri gemelli [i Dioscuri] che guardano il Quirinale. Essi scenderanno stanotte ad abbeverare i loro cavalli nel Tevere, sotto l’Aventino, prima di cavalcare verso l’Isonzo che faremo rosso di sangue barbarico37.
Il Patto e la Guerra
Queste velleità imperialistiche avevano trovato puntuale definizione nel Patto segreto di Londra, stipulato, dopo non facili trattative, nell’aprile del 1915 dal governo Salandra-Sonnino con i britannici, russi e francesi, che cedettero sia pur con notevole riluttanza alle richieste territoriali italiane nell’area adriatica. Come già lo Stato maggiore piemontese nel lontano 1845, l’Italia chiedeva come «frontiere naturali» quelle dal Triglav (Tricorno) allo Snežnik (Nevoso) e al Bitoraj a est di Fiume38. Le argomentazioni esclusivamente strategiche addotte dal governo di Roma per decidere da che parte schierarsi nella guerra, senza alcun riguardo per il principio etnico, suscitarono repulsione persino in Inghilterra, abituata a ogni cinismo espansionista39. Ne è testimone un appunto «privato» che il primo ministro britannico, sir Herbert Henry Asquith, inviò all’amica Venetia Stanley nei giorni conclusivi delle trattative:
Il gabinetto [...] è stato impegnato nella discussione, come acquistare a basso prezzo l’immediato intervento di quella potenza voracissima, sfuggente e perfida che è l’Italia. Essa sta aprendo la sua bocca piuttosto ampiamente, soprattutto sulla costa dalmata, e noi non dobbiamo permetterle di bloccare l’accesso dei serbi al mare. Ma, a parte ciò, vale la pena di comprarla: anche se io rimarrò sempre dell’opinione che sulla grande scena essa ha interpretato uno dei ruoli più sporchi e meschini40.
Nonostante considerazioni di questo tenore, col Patto di Londra l’Italia ottenne - almeno a livello di promessa - una frontiera strategicamente assai favorevole sulle Alpi tirolesi, giulie e orientali, assieme a Trieste, l’Istria, la parte centrale della Dalmazia e un’enclave in Albania che le avrebbero garantito il dominio economico e militare dell’Adriatico; se a ciò si aggiungono il Dodecaneso e Rodi greci, nonché promesse di altri acquisti territoriali in Turchia, non era difficile immaginare che in caso di vittoria sull’Austria-Ungheria, alleata di ieri, Roma avrebbe potuto affermarsi come potenza egemone nei Balcani e nel Mediterraneo orientale. A detta di Antonio Salandra, il Patto di Londra era stato l’atto autonomo più importante della politica italiana dopo il Risorgimento, poiché permetteva all’Italia di «ripristinare» sulle Alpi una frontiera perduta da quindici secoli e di «riconquistare» la signoria sul mare che era stato dominio di Venezia41.
Per raggiungere questo scopo l’Italia s’impegnò negli anni successivi in un conflitto sanguinoso, avvertito dalle popolazioni slovene e croate come una guerra di conquista cui opporsi a oltranza non tanto per fedeltà verso la dinastia asburgica (ormai piuttosto impopolare), quanto in difesa del proprio territorio etnico. Ciò contribuì alla lunga tenuta dell’esercito imperiale, che nell’ottobre 1917 con la vittoria di Kobarid (ovvero Caporetto, come gli italiani avevano chiamato questa cittadina nella valle dell’Isonzo) celebrò l’ultimo momento di gloria della sua storia plurisecolare. L’Italia, respinta fino al Piave, poté occupare con le sue truppe i territori di cui rivendicava il possesso soltanto dopo il crollo dell’Austria-Ungheria a guerra finita, il che indebolì indubbiamente il suo peso decisionale alla Conferenza di pace di Parigi; va detto inoltre che a causa della rivoluzione russa e dell’intervento degli Stati Uniti nel conflitto a fianco dell’Intesa, lo scenario internazionale nel 1918 era notevolmente mutato rispetto a quello del 1915: questi avvenimenti avevano imposto infatti un riesame dei fini della guerra, come risulta eloquentemente dai 14 punti del presidente usa Woodrow Wilson, di cui i più innovativi e insieme i più contrari agli interessi italiani erano quello che rifiutava il valore di ogni patto segreto concluso durante il conflitto (come il Patto di Londra), e quello che reclamava il diritto all’autodeterminazione per i popoli soggetti all’Austria-Ungheria.
Il Regno shs e la Venezia Giulia
In seguito allo sfacelo della monarchia asburgica, nasceva sull’Adriatico il Regno dei serbi, croati e sloveni (Regno shs), sostenuto dalle grandi potenze anche perché colmasse quanto prima, in funzione antibolscevica e antitedesca, il vuoto apertosi nell’Europa centrale, senza curarsi del collidere delle sue rivendicazioni territoriali in Dalmazia e nell’Adriatico settentrionale con quelle dell’Italia. Nel corso del novembre-dicembre le truppe di quest’ultima riuscirono a occupare tutti i territori menzionati dal Patto di Londra, Dalmazia inclusa; il che non significa però che avessero automaticamente fissato le frontiere col nuovo Regno dei Karadjordjevič, al cui riconoscimento il governo di Roma si era vanamente opposto. Questa situazione, che nella primavera del 1919 indusse i rappresentanti italiani a Parigi ad abbandonare per protesta la Conferenza di pace, suscitò in Italia un’ondata di manifestazioni contro la cosiddetta «vittoria mutilata», di cui il nascente Partito fascista seppe efficacemente avvantaggiarsi. In questo gli furono d’ispirazione le gesta e la retorica di Gabriele d’Annunzio, che nel settembre del 1919 compì con un manipolo di volontari la marcia su Fiume (non inclusa tra i futuri possessi italiani dal Patto di Londra) per rivendicarne l’appartenenza al Regno sabaudo. Lo Statuto della Reggenza del Carnaro proclamava:
Fiume è l’estrema custode delle Giulie, è l’estrema rocca della coltura latina, è l’ultima portatrice del segno dantesco. Per lei, di secolo in secolo, di vicenda in vicenda, di lotta in lotta, di passione in passione, si serbò italiano il Carnaro di Dante. Da lei s’irraggiarono gli spiriti dell’italianità per le coste e per le isole da Volosca a Laurana, da Moschiena a Valona, da Veglia a Lussino, da Cherso ad Arbe. E questo è il suo diritto storico42.
Sebbene la Dalmazia e la Venezia Giulia (come fu ribattezzato il Litorale austriaco) venissero proclamate terre «italianissime», la loro storia e soprattutto la loro complessità etnica erano poco conosciute in Italia. Due erano inoltre gli atteggiamenti preponderanti in coloro che sapevano della presenza slava alla porta orientale: la paura del panslavismo alimentato dalla Russia, secondo una convinzione tanto radicata nelle élite politiche e culturali, quanto priva di riscontri sostanziali, e il disprezzo per le popolazioni contadine, viste come una massa amorfa priva di una sua dignità politica e culturale. Nessuno sembrava preoccuparsi del fatto che nella neocostituita Venezia Giulia, secondo il censimento del 1910, il 58 per cento della popolazione fosse in realtà composta da sloveni e croati43. Per di più, le autorità militari, e in seguito civili, inviate ad amministrare la nuova provincia erano culturalmente e psicologicamente impreparate ad affrontare questa realtà, formate com’erano in un ambiente dove i concetti di Nazione e Stato coincidevano. Alla fine della seconda guerra mondiale il poeta gradese Biagio Marin osservava nel suo diario:
L’Italia, che nel 1918 occupava Trieste, non aveva la minima idea del compito che si assumeva. La sua classe dirigente era politicamente provinciale, incapace quindi di comprendere il problema squisitamente europeo che le si presentava. La boria della vittoria concorse a farci perdere di fronte agli slavi della Giulia il senso della misura. Abbiamo fatto loro torto e non poco44.
Nel momento in cui giunse a Trieste, il generale Carlo Petitti di Roreto, comandante del corpo d’armata, assicurò con un particolare manifesto agli sloveni e ai croati il massimo rispetto delle loro tradizioni e della loro cultura e persino più scuole di quante ne avessero avute sotto l’Austria. Ma furono solo parole, non confermate dalla prassi delle nuove autorità, dettata piuttosto dal proclama dannunziano: «Fuori la schiaveria bastarda, con le loro mandrie e le loro lordure di porci»45. Convinti del «primato morale e civile degli italiani» i nuovi padroni pensarono che gli «alloglotti» e gli «allogeni», come furono detti gli sloveni e i croati per privarli della loro autoctonia e dignità nazionale, dovessero esser rapidamente assorbiti non solo nell’interesse dello Stato, ma nel loro stesso interesse, per potersi inserire quanto prima nella vita del paese. A questo scopo bisognava però neutralizzare al più presto quelle personalità di spicco delle nuove province che potessero offrire resistenza ai progetti di assimilazione, e in primo luogo gli intellettuali e i sacerdoti, parecchi dei quali vennero inviati al confino nei villaggi malarici della Sardegna già nel luglio e agosto 191946. La tensione così creatasi è testimoniata dall’attacco dei nazionalisti, nel dicembre del 1918, contro il palazzo del vescovo di Trieste e Capodistria monsignor Andrej Karlin, aggredito, vilipeso e presto costretto, come del resto quello di Veglia (Krk), monsignor Anton Mahnič, ad abbandonare la cattedra. (Quest’ultimo fu semplicemente rapito dal capitano di una nave militare italiana ancorata nel porto e tradotto a Frascati)47. Il trattamento subito dai due presuli (ma anche del vescovo di Zara Vinko Pulišič, a sua volta degradato a vescovo titolare «in partibus infidelium») è eloquente testimonianza dell’assenza di diritto in cui si trovarono gli sloveni e i croati del Litorale dopo il 1918. Essi vivevano in una specie di limbo, in cui tutto era permesso: il trattamento disumano dei prigionieri di guerra austro-ungarici, che ne morirono a migliaia, la persecuzione indiscriminata di individui scomodi al regime d’occupazione, le violenze di «arditi» di ogni tipo, dai legionari di D’Annunzio agli squadristi di Mussolini48. Il primo telegramma riservato in cifra con cui il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando ordinò al Comando Supremo la repressione degli «jugoslavi» (sloveni e croati), «clericali e socialisti» (compresi gli italiani antinazionalisti) a Trieste, è del 24 novembre 1918, tre settimane dopo la formalizzazione del Governatorato militare49.
Eia! eia! eia! alalà
Quando, alla fine del 1920, fu raggiunto col Trattato di Rapallo un accordo tra Belgrado e Roma relativo alla frontiera, le violenze dei nazionalisti e dei fascisti non cessarono, ma crebbero, manifestandosi con particolare virulenza a Trieste «fascistissima» e in Istria, «completamente in mano ai fascisti», come testimoniato da apologeti locali del regime a partire da Giorgio Alberto Chiurco50. Dappertutto furono largamente usati l’olio di ricino e il manganello, e non solo: ci furono distruzioni di camere del lavoro e incendi di case del popolo e di cultura, sanguinose spedizioni nei villaggi croati e sloveni della penisola, rapine e violenze sulle donne, e assassini di antifascisti slavi ma anche italiani51. L’allarmante situazione indusse il nuovo vescovo di Trieste monsignor Angelo Bartolomasi, già vescovo castrense, a elevare nel maggio del 1921 una pubblica protesta, scrivendo persino al papa:
Nuclei di 20 o di 40 giovani, provenienti dai centri precipui del fascismo - Pisino, Capodistria, Pirano, Parenzo e Pola - sparsero il terrore nei piccoli paesi dell'Istria, abbruciando libri e registri parrocchiali, se scritti in sloveno, intimando al parroco di non dire né acconsentire più parola slovena nelle funzioni, minacciando incendi di case e parecchie minacce ebbero esecuzione. L’impressione nelle popolazioni slave è che tali imprese siano un brigantaggio legalizzato e voluto, od almeno non impedito dalle autorità. Perciò avvennero anche alcune reazioni furiose e cruente e gli odii si accesero a dismisura, specialmente là dove il parroco fu malmenato e percosso52.
Questa denuncia fu tanto allarmante da spingere Benedetto XV a rispondergli con una lettera in cui deplorava i «gravi avvenimenti che turbano questa diocesi», senza però sortire alcun effetto, se non quello di rendere impossibile la permanenza del vescovo Bartolomasi nella cattedra di san Giusto. Il clima di violenza rimase inalterato, com’è testimoniato da un altro accorato lamento, inviato al Vaticano dal metropolita di Gorizia, monsignor Francisek Borgia Sedej, che scrisse nel suo italiano zoppicante: «I gesti dei fascisti hanno superato quelle compiute dai Vandali, Unni e Turchi in queste regioni e perciò il popolo tanto slavo che italiano si sente fortemente esacerbato non avendo nessuna fiducia per le autorità che lascia correre e non fa garantire la sicurezza dei propri cittadini»53.
Per sottrarsi ai trasferimenti forzosi (parecchi ferrovieri finirono in diverse regioni italiane), al confino (Tremiti, Ustica, Ponza, Ventotene, Santo Stefano, Portolongone, Lipari, Favignana) e alle persecuzioni, molti decisero di emigrare in Jugoslavia oppure oltremare: 60.000 dall’Istria, 40.000 dal resto della Venezia Giulia54. In una relazione sulle condizioni e i problemi delle aree occupate nella primavera 1919 il socialista triestino Aldo Oberdorfer scriveva:
Dalle provincie della Venezia Giulia e specialmente da Trieste, c’è una grandissima emigrazione di sloveni, che passano con armi e bagagli nella Jugoslavia. Ciò fa gongolare i nazionalisti triestini, felicissimi di vedere fuori di casa loro i «porchi de s’ciavi», mentre dovrebbe renderli, come rende noi, preoccupati delle ripercussioni che il fatto avrà sulla vita economica della città. Se ne è andata, cosi, parte del proletariato del porto e delle ferrovie, parte della borghesia intellettuale; e sono partiti pieni di odio, che noi dobbiamo tentare di estinguere, in essi e in coloro che sono rimasti, con una politica inflessibile nell’esigere, ma giusta fino allo scrupolo nel concedere. Occorre che ai nostri nuovi concittadini slavi - che nell’interno e sulla costa orientale dell’Istria sono la maggioranza stragrande, e nella Carniola sono la totalità della popolazione - l’Italia riconosca perfetta uguaglianza di diritti, e primo fra tutti quello di usare, anche nei rapporti con l’autorità centrale, la loro lingua [...]55.
Vane parole che non trovarono eco nei circoli governativi a Roma, a Trieste, a Gorizia e a Pola.
Il Trattato di Rapallo fu il risultato di un compromesso raggiunto dal ministro degli Esteri italiano, conte Sforza, con i suoi interlocutori di Belgrado, nella convinzione che all’Italia convenisse avere sull’Adriatico un vicino interessato a far fronte comune contro la minaccia di una restaurazione asburgica a Vienna o a Budapest e contro il probabile riproporsi della spinta germanica verso il Sud. Il governo di Roma rinunciava con esso alle sue pretese territoriali sulla Dalmazia (a eccezione dell’enclave di Zara, nonché delle isole di Cherso, Lussino e Lagosta), a ciò indotto anche dall’esiguità della minoranza italiana in quella provincia e dalla consapevolezza che essa non era difendibile da un punto di vista strategico; annetteva però al suo territorio l’intera contea di Gorizia e Gradisca, la città e l’entroterra di Trieste, il Sud-Est della Carniola e l’Istria aggiungendovi più tardi, nel 1924, anche la città libera di Fiume. Vennero cosi a passare sotto la sovranità di Vittorio Emanuele III circa 300.000 sloveni e più di 170.000 croati, nei confronti dei quali lo Stato italiano non aveva assunto nessun impegno formale di tutela, limitandosi a promesse di buon trattamento, confortate dal richiamo alla propria «bimillenaria civiltà»: mera retorica, non certo sufficiente a mascherare una realtà deludente, anche per le minori capacità della burocrazia italiana rispetto a quella austriaca nella gestione della cosa pubblica. Pure dal punto di vista dei «redenti», afferma Diego de Castro, «l’Italia non si dimostrò quel paradiso che credevamo fosse, prima del 1918»56. Si aggiunga che le violenze contro la popolazione slovena e croata, tollerate e praticate già dai governi liberali e dai loro rappresentanti nelle nuove province, si accentuarono ulteriormente con l’avvento al potere del fascismo. Esso, del resto, aveva già dato prova di sé a Trieste e a Pola quando, nel luglio 1920, i centri culturali sloveno e croato delle due città erano stati incendiati quale rappresaglia per gli incidenti scoppiati a Spalato fra la popolazione e alcuni marinai italiani57.
In realtà, per dirla con Carlo Schiffrer, si trattò più che di vendetta di un atto di sabotaggio, organizzato dai circoli irredentisti e nazionalisti nel tentativo di minare la possibilità di un accordo fra Belgrado e Roma relativo all’irrisolta questione delle frontiere. In quest’impresa essi poterono contare sulla connivenza più o meno aperta delle autorità civili e militari, che non fecero nulla per impedire la violenza annunciata; al contrario, com’è testimoniato da documenti recentemente scoperti, collaborarono perfino a fomentare i disordini. Mentre il Narodni dom (Casa della nazione) di Trieste bruciava (13 luglio 1920), i soldati che avevano occupato i dintorni dell’edificio già da ore permisero infatti l’apertura del portone d’ingresso solo all’ultimo momento prima che gli ospiti dell’albergo Balkan, situato nel palazzo, fossero arsi dalle fiamme e soffocati dal fumo58. Il rogo di Trieste, accompagnato da una catena di altre violenze, che si estesero a macchia d’olio all’intera Venezia Giulia, fu per l’Italia, come scrisse Renzo de Felice «il vero battesimo dello squadrismo organizzato»59. I nazionalisti locali lo considerarono un atto dovuto per liberare la città - proclamata la «secondogenita» del fascismo dopo Milano - da una presenza immonda. Vent’anni più tardi nel commemorare quella distruzione, il direttore de «Il Piccolo», Chino Alessi, scriveva: «Le grandi fiamme del Balkan purificarono finalmente Trieste, purificarono l’anima di tutti noi»60. Di fronte a tanta delittuosa stupidità, per citare Giani Stuparich che nei suoi ricordi narra dell’incendio cui aveva assistito, il suo giudizio è calzante: «Il risentimento, l’odio degli slavi, suscitato e alimentato dal fascismo, doveva rovesciarsi o presto o tardi sull’intera nazione italiana, come difatti è avvenuto»61.
Nei mesi e negli anni successivi alla marcia su Roma le autorità, con la connivenza delle squadre fasciste, chiusero progressivamente le scuole croate e slovene, eliminarono dalla vita pubblica le due lingue, italianizzarono circa 1.500 toponimi e, in seguito al decreto regio del 7 aprile 1927, oltre 50.000 cognomi62. In questo modo ne veniva «ripristinata» - sostenevano - l’antica forma italiana che sarebbe stata alterata dai preti slavi o italiani slavofili durante la dominazione austriaca. Esse ordinarono inoltre la chiusura di tutte le società culturali, dei giornali e degli istituti finanziari degli sloveni e dei croati, e ne abolirono i partiti politici63. Fu cosi attuato il programma annunciato da Mussolini durante una visita a Pola nel settembre 1920 prima ancora che diventasse il «Duce»: «Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del Bastone. I confini della Patria devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche. Io credo che si possono più facilmente sacrificare 500.000 sloveni e croati barbari a 50.000 italiani»64. A mo’ di consolazione, il ministro dell’Istruzione pubblica Antonino Anile diceva arrogantemente all’onorevole Josip Wilfan, rappresentate degli sloveni e dei croati al parlamento di Roma: «Siete condannati a una cultura superiore, non al male dunque, ma al bene, e perciò arrendetevi»65. Più esplicito e brutale era un editoriale del «Popolo di Trieste» che in risposta alle lamentele del giornale sloveno «Edinost» sulle violenze fasciste pubblicò il 4 febbraio 1921 questo avvertimento:
Ora diciamo due parole chiare. Premettiamo che queste sono le prime e le ultime a tale riguardo; perché non vogliamo perderci in discussioni con tale razzamaglia. I beccamorti dell’«Edinost» tengano ben presente che raccoglieranno presto i frutti del loro eccitamento alla rivolta. Ci infischiamo dei loro piagnistei e delle loro velleità storiche. La storia è viva e palpante sulle cime di tutti i bianchi campanili della Venezia Giulia; e vi è un’altra storia più recente e più importante: quella che abbiamo scritto noi col più generoso sangue. Per quattro porcari che da due anni stiamo sfamando, abbiamo sepolto il fiore della nostra gente, in numero di oltre cinquecentomila. Stieno buonini gli slavi. Noi siamo disposti a non accorgerci che simili insetti vivano in mezzo a noi, a patto che gli insetti restino a muffire nell’ombra. Altrimenti mediteranno amaramente sulle conseguenze...66.
Questo minaccioso invito alla sottomissione tuttavia non fu ascoltato; anzi, al trionfo della dittatura fascista molti giovani sloveni e croati della Venezia Giulia replicarono con l’organizzazione di un movimento clandestino, chiamato tigr (acronimo che riuniva in sé i nomi delle città e regioni da liberare: Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka/Fiume), col preciso intento di rispondere alla violenza con la violenza. Nel 1929, in occasione delle elezioni che avrebbero dovuto rappresentare un plebiscito per il regime, un membro croato del tigr, Vladimir Gortan, organizzò un tentativo per impedire ai fascisti di convogliare i contadini a votare a Pisino, nel corso del quale partì un colpo, uccidendone uno. Arrestato quasi subito, fu portato davanti al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, trasferitosi per l’occasione da Roma a Pola, con l’intento palese di dare alla popolazione «slava» una lezione, mostrandole tutto il rigore della giustizia fascista. Il giovane croato fu infatti condannato a morte e fucilato il 17 ottobre 1929, tra gli applausi della stampa di regime67.
L’esemplare condanna di Gortan non sortì però l’effetto desiderato sulle minoranze croata e slovena della Venezia Giulia che continuarono a ribellarsi contro l’oppressione fascista. Le autorità replicarono per ben due volte - nel 1930 e nel 1941 - la tragica sceneggiata davanti al Tribunale speciale, condannando a morte o a pesanti pene detentive altri oppositori «slavi»: il tutto secondo la logica di uno spregio totale, accompagnata dagli «osanna al fascismo, dal culto esasperato della Patria, del valore militare dei sentimenti di potenza bellica, di un futuro sfolgorante della nazione...»68.
Nei due processi si manifestò appieno il peculiare razzismo giuliano, che non rifiutava l’assimilazione degli «allogeni», anzi, l’esigeva, bollando come pericoloso mostro chi osava rifiutarla. Una delle poche voci di dissenso giunte fino a noi è quella dello scrittore istriano Quarantotti Gambini, che seppe della condanna di Gortan ascoltando per caso in un tram di Milano la conversazione concitata di alcuni passeggeri:
Feci attenzione. E inaspettatamente sentii crescere in me un’inquietudine e poi un rancore e quasi un’avversione per quei tipi seduti quietamente in tram che continuavano nei loro commenti contro i condannati [...] Quel mattino, lì in tram, nell’orgasmo che mi aveva preso, non sentii più alcuna differenza tra noi e gli slavi; essi erano come noi, e noi come loro; e sentii in quegli istanti, con strazio e con ribellione, che la condanna pesava su noi tutti69.
Questo nobile ma privato sentimento di solidarietà non restò del tutto isolato fra gli intellettuali giuliani dell’epoca, che però non osarono mai dissociarsi apertamente dalla violenza fascista70. L’unico ad avere il coraggio d’impegnarsi in questo senso fu il vescovo di Trieste e Capodistria monsignor Luigi Fogar, che pagò cara la sua pur flebile protesta contro la politica del regime: venne perseguitato, diffamato e costretto a rinunciare nel 1936 alle cattedre di san Giusto e san Nazario per andarsene in esilio a Roma71.
La tensione sulla frontiera orientale non era però causata solo dalla volontà dei poteri locali e centrali di domare quanto prima gli «alloglotti» e dalla resistenza di quest’ultimi, ma anche dall’aggravarsi dei rapporti fra Roma e Belgrado. Già nel dicembre del 1918 il generale Pietro Badoglio aveva elaborato un piano per la destabilizzazione del Regno shs (approvato da Armando Diaz, capo di Stato maggiore, e da Sidney Sonnino), anche attraverso aiuti finanziari alle diverse nazionalità (soprattutto croati) insoddisfatte del dominio serbo72. Mussolini, appena giunto al potere, segui per alcuni anni la linea di buon vicinato con il Regno dei Karadjordjevič già impostata dal ministro Carlo Sforza; fin dal 1926, tuttavia, decise un cambiamento di rotta, inaugurando una politica estera di marcata aggressività, che lo portò a riscoprire la proposta di Badoglio al quale si affrettò a scrivere:
La morale, caro Maresciallo, è questa. Bisogna preparare - senza perdere un minuto di tempo - le 20 Divisioni mobilitabili di cui al nostro programma. Bisogna fare ai nostri Ufficiali una mentalità offensiva ed aggressiva. Frustrarli nel loro amor proprio, facendo conoscere le infamie calunniose del shs. Per fortuna l’Italia oggi è capace di infliggere agli shs una di quelle lezioni che bastano a correggere le storture mentali e politiche di qualunque popolo. Ma ancora una volta: non c’è un minuto da perdere!73.
Con «infamie calunniose» Mussolini alludeva ovviamente alla propaganda anti-italiana che in quel periodo aveva ampia diffusione nel Regno dei Karadjordjevič a causa dei maltrattamenti inflitti alle minoranze slovena e croata. Essa s’inasprì ulteriormente all’inizio degli anni Trenta, quando divenne chiaro l’appoggio del governo di Roma al movimento terroristico degli ustascia, fondato dal nazionalista croato Ante Pavelic. I suoi adepti, addestrati in due campi militari vicino a Brescia, organizzarono, tra il 1930 e il 1934, una serie di attentati in Croazia, scegliendo come trampolino di lancio verso il territorio jugoslavo le città di Trieste, Fiume e Zara (Zadar). Tutti e tre questi porti, tagliati fuori dal proprio hinterland, subirono in quel dopoguerra una pesante crisi economica e insieme d’identità, che si tentò di mascherare con un nazionalismo aggressivo e parolaio, cui la stampa locale diede ampio spazio. Quella jugoslava rispondeva naturalmente a tono, contribuendo a inasprire l’ostilità tra i due Stati, culminata il 9 ottobre 1934 nell’attentato di Marsiglia di cui rimase vittima, per mano di un sicario ustascia, lo stesso re Alessandro74.
Negli anni successivi le relazioni tra Roma e Belgrado conobbero un temporaneo miglioramento, dovuto, fra l’altro, all’ambizione di Mussolini di contrastare la progressiva influenza della Germania nazista nello spazio balcanico. Ma la normalizzazione dei rapporti, raggiunta attraversi i contatti fra il ministro degli Esteri italiano Galeazzo Ciano e il premier jugoslavo Milan Stojadinovič, non cambiò di molto la sorte della minoranza slovena, e ancor meno di quella croata in Istria, com’è testimoniato dalla lettera del nuovo vescovo di Trieste Antonio Santin, indirizzata nel 1938 al prefetto di Pola:
Non si comprende se ai fini superiori della nazione un semplice canto religioso slavo, eseguito dai fedeli, e che serve a far amare la Chiesa e a sentirla vera madre di tutti, possa essere di tale danno da dover con tanta insistenza chiederne l’abolizione. La quale susciterebbe disgusto sia pure celato nei contadini, farebbe giudicare non bene la Chiesa ed il clero, senza nulla apportare ai veri fini della grandezza della Patria [...] Con il più schietto e fervido amor di Patria sento nel campo ecclesiastico di servire utilmente la Nazione, mostrando cuore e comprensione delle mentalità, delle tradizioni, della cultura - alla buona popolazione di altra lingua75.
Il vescovo si sentiva di parlare così anche perché in occasione di un’udienza, concessagli da Mussolini alla vigilia di natale 1938, questi lo aveva autorizzato a intervenire presso i gerarchi locali per ammorbidirne la politica nei confronti degli slavi. Ma era tutto inutile: «Facile per lui che è a Roma. Ma noi siamo qui», risposero i capi del fascismo triestino76.
La guerra di conquista e la Resistenza
Il Patto Ciano-Stojadinovič (25 marzo 1937) fu solo un intermezzo: quando infatti, nella primavera del 1941, Hitler decise di attaccare la Jugoslavia, l’Italia fu al suo fianco per partecipare alla spartizione di una facile preda. Il Regno dei Karadjordjevič, minato da contraddizioni e conflittualità interne, fu infatti in grado di offrire agli eserciti invasori una resistenza solo simbolica, capitolando appena dieci giorni dopo quel fatidico 6 aprile 1941 in cui le sue frontiere erano state violate senza nemmeno dichiarazione di guerra; in seguito venne diviso tra i vincitori secondo i loro appetiti e interessi, ma anche secondo il loro peso nei rispettivi rapporti77.
L’Italia ottenne finalmente quel che le era stato promesso con il Patto di Londra, cioè la Dalmazia centrale con le città di Sebenico (Šibenik), Traú (Trogir) e Spalato (Split), le isole che fiancheggiano la costa e la regione di Cattaro (Kotor). Annesse inoltre come «Provincia di Lubiana», la parte meridionale della Slovenia di allora, estendendo il suo protettorato anche al Montenegro e, almeno nelle intenzioni, allo Stato indipendente croato (dove aveva preso il potere Ante Pavelic con i suoi ustascia). Sebbene con tali acquisti si fosse garantita il dominio sull’Adriatico, non poteva comunque illudersi di aver pienamente realizzato il piano che era stato alla base della sua politica estera negli ultimi lustri, cioè quello di dominare i Balcani quale potenza egemone: al contrario, fu costretta a fare i conti con la Germania, che si era invece assicurata nel territorio dell’ex Jugoslavia le comunicazioni strategiche e le regioni più ricche. Ben presto inoltre divenne evidente che Pavelic, nonostante i suoi molti debiti di gratitudine nei confronti di Mussolini, era sempre più succube di Hitler, lasciando scivolare lo Stato indipendente croato (di cui faceva parte anche la Bosnia-Erzegovina) nell’orbita del Terzo Reich. Da ciò una serie di attriti diplomatico-militari fra Roma e Berlino che sarebbero durati fino alla capitolazione dell’Italia dimostrandone sempre più chiaramente la fatale debolezza nei confronti dell’alleato germanico.
Tale debolezza (che era anche di organizzazione e controllo del territorio) fu avvertita pure dalle popolazioni slovene e croate soggette. Non a caso la Resistenza, quando nell’estate 1941 cominciò a svilupparsi sotto la guida del Partito comunista jugoslavo (pcj), prese piede proprio nelle zone d’occupazione italiana per estendersi, nei mesi successivi, anche all’interno dell’ex frontiera di Rapallo, cioè nell’Istria e nel resto della Venezia Giulia. Di fronte a questa rivolta che le coglieva impreparate, le autorità militari e civili italiane reagirono cercandosi alleati locali, e rispondendo con una serie di operazioni belliche contro i «banditi» e di spietate rappresaglie contro la popolazione civile che li sosteneva. Nella Provincia di Lubiana, in Dalmazia e nel Montenegro decisero cosi di formare o appoggiare delle unità anticomuniste, costituite da milizie volontarie slovene e dai «cetnici» serbi, impegnandosi con la loro assistenza in una lotta senza esclusione di colpi contro la guerriglia partigiana. Il generale Mario Roatta, comandante della 23 armata in Slovenia e Croazia (Supersloda), aveva diramato nel marzo del 1942 la propria circolare 3C con le seguenti istruzioni: «Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì da quella testa per dente»78. Di conseguenza si ebbero arresti in massa, deportazioni e fucilazioni di migliaia di ostaggi in Dalmazia, alle Bocche di Cattaro, nel Montenegro e nella Provincia di Lubiana. Durante i ventinove mesi di occupazione solo in quest’ultima su 340.000 abitanti 25.000 persone furono internate e 13.000 uccise. Un cittadino su cinque fini in carcere, il 3,8 per cento della popolazione venne assassinata79.
Il terrore scatenato fra il maggio e il dicembre 1942 è eloquentemente testimoniato dal diario del curato militare don Pietro Brignoli, intitolato Santa Messa peri miei fucilati: «Dicono che donne e bambini e vecchi a frotte, o rinvenuti nei boschi o presentatisi alle nostre linee costretti dalla fame e dal maltempo, sono stati intruppati e avviati (tra pianti e pianti e pianti) ai campi di concentramento»80. E il generale Taddeo Orlando, comandante delle truppe impegnate nell’operazione, cosi disse agli ufficiali della divisione Granatieri di Sardegna: «Dobbiamo ripristinare la supremazia e l’onore degli italiani, anche se per ciò dovessero scomparire tutti gli sloveni e la Slovenia fosse distrutta»81. A tal fine furono organizzati numerosi campi di concentramento dall’Albania all’Italia meridionale, centrale e settentrionale (Gonars, Visco, Chiesanuova, Cairo Montenotte, Monigo, Fraschette di Alatri) per deportarvi la popolazione civile. Il più famigerato fu quello sull’isola d’Arbe (Rab), dove, tra il 1942-43 furono internate 5.000 persone. Di queste persero la vita per fame, stenti, maltrattamenti e malattie 1.500 circa, tra cui molte donne e bambini82. Tuttavia, ogni sforzo per contenere e soffocare la rivolta fu vano, come si evince, fra l’altro, da un rapporto del generale Gambara dell’8 agosto 1943, a poche settimane dalla caduta di Mussolini:
Il sensibile aggravarsi della situazione - situazione generale che ha notevoli ripercussioni nel campo ribelle, afflusso di formazioni croate a rinforzo di quelle slovene, notevole miglioramento nell’armamento e nello spirito aggressivo delle bande partigiane in genere - richiede una instancabile attività operativa che nel suo complesso riduce sensibilmente l’efficienza dei reparti operanti (stanchezza delle truppe, perdite in combattimento, per malattie ecc.)83
Il crollo
Esattamente un mese più tardi, l’8 settembre 1943, con la proclamazione dell’armistizio con gli angloamericani, firmato a Cassibile dal «governo tecnico» di Badoglio, l’esercito italiano, stretto nella morsa delle forze partigiane e tedesche, sarebbe crollato. Nella Venezia Giulia si disfece con esso anche l’apparato statale, creando un vuoto di potere simile a quello di vent’anni prima per la dissoluzione della monarchia asburgica. Di fronte all’incalzare delle unità tedesche i soldati italiani avevano poche possibilità di scelta: o collaboravano coi tedeschi per non finire nei loro campi di prigionia, o si associavano ai partigiani, oppure cercavano di tornare a casa arrangiandosi ognuno per conto proprio. Appunto in quest’atmosfera di sbandamento generale, nei rapporti tra gli italiani e la popolazione slovena e croata si creò, dopo decenni di violento conflitto, un primo momento di solidarietà umana. Ne furono partecipi oltre a coloro che si arruolavano nelle brigate Garibaldi per continuare la lotta insieme con le forze di Tito, le migliaia di giovani che furono aiutati dalla gente del luogo, soprattutto dalle madri di partigiani, con abiti dei propri figli e cibo per tornarsene alla chetichella in Italia84. «Da questo lato sono stati molto bravi, anzi troppo bravi, inquantoché molti fascisti, poliziotti poterono rientrare nel paese, con tutta calma, specie quelli che erano nell’esercito fascista». Così sta scritto in un «Rapporto», inviato a Georgi Dimitrov, l’ex segretario generale del Comintern, « sulle relazioni fra il pci e il pcj e Sloveno sul problema del Litorale»85. Ed ecco la testimonianza del colonello Dino Di Ianni, capo di Stato maggiore del 23° corpo d’armata: «Una marea di sbandati della 2ª armata si riversarono attraverso il territorio del 23° corpo. I ribelli e le popolazioni slave inconciliabili nemici di ieri e di domani, furono larghissimi di aiuti di ogni genere a favore dei fuggiaschi: ospitalità, vitto, indumenti civili, indicazioni di itinerari più sicuri ecc.»86.
Il crollo del governo di Roma colse di sorpresa Tito, che protestò vivacemente presso il rappresentante militare britannico giunto al suo Quartier generale per non essere stato preavvisato dell’armistizio, e non aver quindi potuto trarre il maggior vantaggio dallo sbandamento delle truppe italiane nei territori in cui operavano le sue forze87. Il caos di quei giorni, l’esaltazione dei partigiani, l’umiliazione degli italiani e l’incombente pericolo dei tedeschi, che cercavano di occupare quanto prima i centri vitali delle aree già controllate dagli ex alleati, vengono efficacemente descritti da Koča Popović, uno dei principali comandanti di Tito, in un passo del suo diario di guerra. Parlando, nella sua prosa letteraria da poeta simbolista, della gara ingaggiata con i tedeschi per arrivare prima di loro nella capitale della Dalmazia, egli scriveva:
Spalato bolle! Nell’albergo Palace, confusi generali italiani ci ossequiavano e ci offrivano dei portacenere, corrieri giungevano dalle isole, si stava organizzando l’esercito dalmata. Lavoravamo come in dormiveglia, inebriati, assonnati, straccioni. Intorno a noi il mare e il ronzio impazzito delle nostre vetture e degli Stuka tedeschi. Dal cerchio fatato non v’era uscita - se non nella vittoria88.
La consapevolezza che i tedeschi, per quanto ancora temibili, stavano ormai perdendo la guerra diede ulteriore slancio al movimento partigiano un po’ dappertutto e in primo luogo nei territori annessi col Trattato di Rapallo al Regno sabaudo. Qui si assistette allo scoppio di una vera e propria insurrezione che coinvolse larghe masse popolari slovene e croate, ma anche la popolazione italiana delle città. Mentre nei territori sloveni della Venezia Giulia e della Provincia di Lubiana non si registrarono, se non in casi sporadici, violenze nei confronti dei civili italiani, ivi residenti per ragioni d’ufficio, nell’Istria «croata» e in quella costiera si verificò una vera e propria caccia contro i conterranei fascisti. Tenendo conto del numero degli scomparsi nelle varie località istriane ne furono vittime circa 400-500 esponenti della classe dirigente locale (e non solo), più o meno legati al regime89. Questo scoppio di furia popolare fu in parte spontaneo, in parte manipolato da capi partigiani improvvisati, ma comunque condizionato da un’antica miseria e dalle tensioni sociali che l’irredentismo prima, poi il fascismo col suo disprezzo della «schiaveria» e vent’anni di violenze, avevano esasperato. Sebbene la propaganda ufficiale si vantasse di opere pubbliche di qualche respiro - come un acquedotto che risolse la cronica carenza d’acqua nella penisola90 - l’Istria rimaneva infatti la penultima fra le regioni più povere d’Italia ed era minata, come s’è detto, da tensioni nazionali e sociali radicate nei secoli, che la stessa prosopopea fascista aveva contribuito a inasprire91. Il regime vi avviò una politica di esproprio sistematico delle terre dei contadini croati e sloveni per sostituirli con altri «di pura razza italiana». Lo strumento principale fu il fisco (assai più pesante di quello austriaco) che col mezzo delle aste appunto fiscali e tramite enti appositi consentiva l’assegnazione delle terre espropriate a soggetti o imprese gradite, in quella che veniva definita una «bonifica etnica» del territorio92.
In ciò ebbero non poca responsabilità i nuovi arrivati dal regno che occuparono tutti i posti di qualche rilievo nell’amministrazione pubblica, approfondendo inevitabilmente il fossato fra italiani e «alloglotti»93. Già afflitta dai suoi mali antichi e recenti - ricorrente siccità, malaria, tubercolosi, fame, elevata mortalità infantile, specie nelle aree centrali - alla vigilia della guerra la penisola istriana era un barile di polvere pronto a esplodere; e in una realtà prevalentemente di pura sussistenza uno dei detonatori era proprio la politica di esproprio fiscale dei piccoli contadini sloveni e croati con pignoramenti, sequestri di beni mobili e immobili, che umiliavano e gettavano nel degrado estremo intere famiglie, costringendole all’accattonaggio nelle città94. Questo fenomeno di emarginazione e povertà fu così vasto da lasciar traccia negli archivi di prefettura di Pola, dai quali risulta addirittura che i gerarchi fascisti furono costretti a chiedere aiuto a Roma: «Qui c’è gente che muore di fame, basta con i discorsi, fate qualcosa!»95.
Con la guerra s’erano inoltre inasprite le misure di controllo poliziesco e militare, con esecuzioni collettive, distruzioni di villaggi, deportazioni di civili compresi vecchi, donne e bambini in vari campi di concentramento e centinaia di arresti fra le maestranze operaie dei centri industriali96. Se è vero che nella penisola i fascisti militanti erano relativamente pochi, è anche vero che il regime aveva goduto a lungo di grande popolarità e connivenza fra la piccola e media borghesia locale, irrobustita, come detto, dopo il 1918 da circa 50.000 immigrati, per cui non era sempre facile distinguere gli uni dall’altra. Il fascismo istriano fu se possibile ancora più virulento di quello triestino, com’è testimoniato dal fatto che organizzazioni politiche croate e il giornale «Istarska riječ» (Parola istriana) per sopravvivere fino al 1928, quando il regime proibì la stampa e ogni associazione slava, dovettero cercare precario rifugio presso gli sloveni nel capoluogo della regione97. A tutto questo si aggiungeva il lavoro segreto della Polizia Politica fascista, in particolare dell’ovra, con agenti, informatori e delatori che spesso approfittavano della loro posizione per regolare con la violenza di regime conti e screzi privati, in una terra non aliena da drammatiche faide. Da questo terrore, da queste frustrazioni e odi ebbe origine una serie di vendette, alcune di carattere privato, che colpirono sicuramente anche degli innocenti, e che assunsero talvolta aspetti orribili conducendo alla sepoltura sbrigativa dei corpi nelle cavità carsiche dette «foibe»98.
Le foibe
Questo termine dialettale, che proviene dal latino «fovea» (fossa), non è registrato da Niccolò Tommaseo nel suo Dizionario della Lingua italiana e non è usato nemmeno da Luigi Vittorio Bertarelli ed Eugenio Boegan, autori di un’opera fondamentale sul Carso e le sue 2000 grotte99. Si tratta di voragini naturali, utilizzate spesso per gettarvi rifiuti di ogni genere, carogne di animali, ma a volte anche per occultare qualche delitto o commettere suicidio. Durante la seconda guerra mondiale alcune di esse vennero usate come fosse comuni già pronte in un terreno che per la sua natura rocciosa è difficile da scavare. «Foiba» è il nome di un torrente di Pisino che scompare in una spettacolare voragine naturale del luogo, scelta da Jules Verne per ambientarvi un suo romanzo d’avventure (Mattia Sandorf)100. Nel senso «moderno» lo troviamo adoperato da Giovanni Bennati, un prete nativo di Pirano, vissuto nella seconda metà dell’Ottocento, prolifico poeta, cui vanno ascritti anche questi versi «scherzosi»: «Se Muja ga dei squeri, Albona ga el carbon, Che per brusar le birbe El poi venir in bon. A Pola xe la rena, La foiba ga Pisin, Per butar zo in quel fondo Chi ga zerto morbin»101. Essi furono ripresi, in maniera trucemente ben diversa, da Giuseppe Cobol, il quale era diventato da fanatico irredentista fanatico fascista, assumendo con vezzo dannunziano lo pseudonimo di «Giulio Italico». La sua metamorfosi non fini qui: man mano che faceva carriera nei ranghi del partito fino ad assurgere ai fasti di segretario del Fascio di Trieste e di ministro dei Lavori pubblici, egli pensò bene di italianizzarsi ulteriormente assumendo un cognome dal suono aristocratico: Cobolli Gigli. Ancora da semplice Cobol, pubblicò nel 1919 un opuscolo, intitolato Guida di Trieste (la fedele di Roma) e l’Istria (nobilissima), in cui, nel rivendicare l’italianità dell’Istria, citava la «musa» locale, per indicare quale sarebbe stata la fine violenta e la sepoltura «per chi nella provincia minaccia con audaci pretese la caratteristica nazionale dell’Istria»: «A Pola xe l’Arena | la foiba xe a Pisin | che i buta zo in quel fondo | chi ga un zerto morbin | E chi con zerte storie | tra i pié ne vegnerà | diseghe ciaro e tondo: | ’feve più in là, più in là’»102.
Nonostante la grazia del dialetto veneto il messaggio è chiaro e brutale: nell’Istria nobilissima non c’è posto per gli «s’ciavi»; se non lo capiranno con le buone, lo capiranno con le cattive. «Infoiberemo tutti quelli che non parlano di Dante la favella», scrisse già da ministro «Giulio Italico» sulla rivista «Gerarchia» nel 1927. E aggiunse che le foibe erano «quel luogo degno per la sepoltura di quelli che nella provincia dell’Istria danneggiano le caratteristiche nazionali del luogo»103. Nello stesso periodo il termine «foiba» apparve anche in una poesiola scolastica104, come pure, alcuni anni più tardi, in un nuovo opuscolo di Cobol, intitolato Guida descrittiva di Trieste e dell’Istria105.
Non sappiamo se durante il Ventennio i fascisti abbiano effettivamente gettato qualcuno nelle foibe per seppellirlo sbrigativamente; sappiamo però che ciò successe alla vigilia della guerra. Raffaello Camerini, triestino, che nel 1940, ottenuta la licenza scientifica, era stato costretto come ebreo al lavoro coatto nelle cave di bauxite vicino ad Albona, racconta:
Quello che ho veduto in quel periodo, sino al 1941 - poi sono stato trasferito a Verteneglio - ha dell’incredibile. La crudeltà dei fascisti italiani contro chi parlava il croato, invece che l’italiano, o chi si opponeva a cambiare il proprio cognome croato o sloveno, con altro, italiano, era tale che di notte prendevano di forza dalle loro abitazioni gli uomini, giovani e vecchi, e con sistemi incredibili li trascinavano sino a Vignes, Chersano e altre località limitrofe, ove c’erano delle foibe, e lì, dopo un colpo di pistola alla nuca, li gettavano nel baratro106.
Per quanto tutti fossero a conoscenza di ciò che succedeva, sembra che nessuno se ne preoccupasse.
Gettare gente nelle foibe offrì anche lo spunto per coniare nuovi versi adattati a una celebre canzonetta dell’epoca. A Trieste la cantavano i miliziani della X mas stazionati nel sobborgo di Gretta: «Vieni, c’è una foiba nell’Istria, | là vicin Capodistria | preparada per ti...»107. La barriera psicologica fra i «cappelli» e i «berretti», per dirla col Tommaseo, era ormai tale da non offrire spazio a considerazioni di umana pietà, essendo gli s’ciavi considerati non solo alloglotti e allogeni, ma alieni. È significativa la testimonianza che ne dà Guido Miglia (già Miljavac), scrittore, fondatore e direttore dell’«Arena di Pola»:
La venezianità, l’italianità delle coste istriane e dalmate è stato un fatto coloniale. Al popolo slavo, manovalanza utile alla Serenissima, non è mai stata riconosciuta dignità di interlocutore. Da allora siamo arrivati ai nostri, ai miei giorni. A quegli anni Quaranta in cui gli italiani dell’Istria non sapevano praticamente nulla delle comunità croate e slovene che vivevano a pochi chilometri di distanza108.
E per completare il quadro, ecco la testimonianza di Diego de Castro: «In Istria [...] i proprietari terrieri italiani non conoscevano una sola parola di slavo - e si sarebbero ben guardati di usarla se l’avessero conosciuta... »109.
Tensioni sociali e scontri etnici
Poco più di tre mesi prima dell’entrata dell’Italia in guerra, il 28 febbraio 1940, l’Istria fu funestata da una grave tragedia mineraria. Nel bacino carbonifero dell’Arsa, dove lavoravano circa 9000 operai fra croati, sloveni e italiani (molti provenienti da altre province del regno), si estraeva un prodotto di elevato potere calorico, ma con un forte tenore di zolfo. La condizione operaia era assai dura, accresciuta dalle disastrose condizioni finanziarie e gestionali con conseguenti licenziamenti, sospensioni, riduzione di salari. Nel 1935 le miniere erano passate per il 60 per cento alla proprietà pubblica dell’Azienda Carboni Italiani anche in connessione col riarmo, e nel 1937 era stato insediato sul posto un ufficio militare di sorveglianza. I carabinieri inviavano al prefetto di Pola promemoria quasi quotidiani sullo stato d’animo delle maestranze, tanto più che la zona era vicina al confine. L’intensificazione dello sfruttamento si intrecciava con gravi deficienze nelle misure di sicurezza del lavoro. Uno scoppio di grisou provocò 185 morti e 147 feriti fra minatori croati, sloveni e italiani. Due incidenti avvenuti in precedenza nel 1937 e 1939, e uno studio del medico rovignese Mario Diana, pubblicato dall’Università di Padova nel 1938, in cui venivano denunciate le precarie condizioni di sicurezza dei minatori non erano valsi a convincere i responsabili a prendere le opportune misure. Anche nel 1940, nonostante la gravità della sciagura - una delle più tragiche verificatasi in Europa - nessuna inchiesta appurò le manchevolezze gestionali e direttive dei responsabili, fra cui gerarchi fascisti. Questo modo di procedere acuì indubbiamente il sordo rancore della classe operaia che, per quanto vigilata e repressa, già in precedenza, nel marzo- aprile 1921, era stata protagonista di tentativi rivoluzionari110. E non a caso proprio la zona mineraria di Albona fu al centro della resa dei conti della seconda metà di settembre 1943111.
Dopo l’attacco italiano alla Jugoslavia insieme alla Germania, Ungheria e Bulgaria, la Venezia Giulia, trovandosi a confinare con la nuova Provincia di Lubiana era scossa da fremiti di resistenza provenienti dalla Slovenia e dalla Dalmazia occupate, come pure dallo Stato indipendente croato. Scrive Galliano Fogar: «Da allora Trieste e l’Istria sono più vicine a Lubiana e Zagabria che al resto d’Italia»112. Le autorità fasciste, ben consapevoli della situazione esplosiva, erano decise a reprimere ogni velleità di ribellione col pugno di ferro. «Qui ci troviamo», asseriva con cognizione di causa il prefetto di Fiume Temistocle Testa al sottosegretario Guido Buffarini Guidi, «nello stesso parallelo dei Galla, degli Asmara e degli Sciaoni, sia pure in termini un po’ più aggiornati»113. E non esagerava, considerato che solo nella Venezia Giulia, fra tutte le regioni d’Italia, si erano verificati dalla fine del 1941 in poi scontri fra «bande» partigiane e truppe regolari, accompagnati da atti di sabotaggio, che impensierirono seriamente le autorità, facendo accorrere lo stesso Mussolini a Gorizia per rendersi conto della situazione114. Egli impartì ai suoi generali e gerarchi ordini draconiani, illudendosi di poter emulare Giulio Cesare domando gli sloveni invece dei galli.
Sono convinto che al «terrore» dei partigiani si deve rispondere con il ferro e il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta. Come avete detto è incominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto, per il bene del Paese ed il prestigio delle forze armate. Questa popolazione non ci amerà mai115.
Ne risultò un regime di ancor più spietata durezza, soprattutto nella parte nord-orientale dell’Istria, alle spalle di Abbazia, dove le autorità militari estesero all’inizio di giugno il controllo delle famiglie da cui risultasse assente qualche congiunto, presupponendo che avesse raggiunto i «banditi»116. Ci furono così arresti, deportazioni, confische di beni, stupri, incendi di case, fucilazioni, reclamati del resto dai fascisti giuliani che, in un incontro con Mussolini alla fine di febbraio 1942, pretesero «una politica forte nei confronti degli allogeni»117.
Terribile la sorte del villaggio di Podhum, nella cosiddetta Provincia del Carnaro, completamente distrutto dalle Camicie Nere (108 ostaggi fucilati e 800 deportati) per vendicare l’uccisione di due maestri elementari, colpevoli di aver maltrattato sistematicamente i bambini del luogo perché non riuscivano a imparare abbastanza in fretta l’italiano. Di uno di questi, affetto da tubercolosi, si diceva che usasse sputare in bocca agli alunni quando sbagliavano un verbo o un vocabolo118. Nel giugno successivo fu la volta della zona intorno a Villa del Nevoso com’era stata ribattezzata Ilirska Bistrica. Alle squadre fasciste (battaglione squadristi emiliano), coadiuvate dai Carabinieri e dalla Polizia, il prefetto Testa aveva dato «carta bianca» per agire contro la popolazione119.
Alla fine del 1942 ben 10.000 soldati, di cui l’Italia aveva disperato bisogno in Africa settentrionale, erano impegnati a combattere i partigiani nella sola Venezia Giulia: entro l’anno altri 60 civili furono uccisi in provincia di Trieste e sette altri villaggi furono bruciati. Si ebbe una valanga di arresti, scorrerie con uccisioni, stupri, ferimenti e distruzioni del neosquadrismo urbano che si rivolse anche contro gli ebrei120. La situazione degenerò a tal punto da spingere, nell’aprile del 1943, i quattro vescovi della Venezia Giulia, tutti di provata fede fascista, a indirizzare al Duce una lettera, stilata dal vescovo di Trieste Antonio Santin, nella quale chiedevano che «non si brucino case e villaggi», «non si uccidano persone», «non siano internati vecchi, gli ammalati, le donne, le fanciulle», per concludere: «Gran parte delle case bruciate rappresentano un’inutile distruzione, che ha seminato l’odio contro il nome italiano»121.
Caduto Mussolini il 25 luglio 1943 si ebbero dappertutto momenti di giubilo e manifestazioni, che furono però represse con nuovi arresti in nome dell’ordine pubblico. La struttura del regime nella Polizia e nell’amministrazione rimase infatti sostanzialmente inalterata122. A Trieste si formò comunque fra l’intellighenzia locale un Fronte nazionale antifascista, i cui esponenti indirizzarono al prefetto Giuseppe Cocuzza un memoriale, per chiedere tra l’altro un cambiamento radicale di politica nei confronti delle popolazioni slave all’interno dei confini statali, affermando che il comportamento delle autorità nei loro confronti non era più sostenibile123. Il documento in questione era datato 2 settembre. Lo stesso giorno il vescovo Santin scriveva al cardinale Luigi Maglione, presso la segreteria di Stato vaticana:
Essere slavi non è un delitto [...] Villaggi e case incendiate, famiglie disperse, gente uccisa senza motivo all’impazzata, torture e bastonature violente durante gli interrogatori, arresti in massa, campi pieni di internati spesso tenuti in modo disumano (chi parla ha visto con i suoi occhi) hanno seminato odio, amarezza, sfiducia ed hanno favorito la campagna partigiana124.
L'anno zero per l’italianità della Venezia Giulia
Sei giorni più tardi, nel pomeriggio, giunse la notizia dell’armistizio cui segui, come abbiamo detto, il caotico crollo dell’apparato amministrativo e militare italiano. E scoccò, per citare l’eminente storico triestino Carlo Schiffrer, «l’anno zero per l’italianità nella Venezia Giulia»125. La popolazione slovena e croata lo visse invece come la fine di un incubo: lo Stato dominante e oppressore si era disgregato.
Il generale Gambara, comandante dell’11° corpo d’armata consegnò Fiume a un’unità corazzata germanica. Il generale Alberto Ferrero, comandante del 23° corpo d’armata, responsabile della difesa del confine orientale, abbandonò precipitosamente Trieste; mentre la città fu subito occupata dai tedeschi, che vi disarmarono, a detta di Radio Berlino, una guarigione di 90.000 soldati, e mentre nei centri strategici di Gorizia, Fiume e Pola s’insediarono loro truppe, l’Istria fu lasciata momentaneamente in balia di se stessa per la scarsità delle forze di cui potevano disporre i comandi germanici (tra 4.000-5.000 uomini appena).
«Nel trambusto che segui», ricordava pochi mesi più tardi un testimone oculare, il garibaldino toscano Mario Chierici, «mentre autorità civili e militari perdevano completamente la testa, le formazioni clandestine che esistevano da tempo nella regione occuparono militarmente la zona, assumendo dovunque la direzione dei comuni, mettendo sotto controllo miniere e fattorie, provvedendo ad una immediata equa distribuzione dei prodotti126.
Nel momento di transizione da un regime all’altro ci fu un vuoto di potere, in cui trionfò un’insurrezione popolare, pregna di fervore patriottico e antifascista, nel corso della quale la gente s’impossessò delle armi consegnate senza resistenza dall’esercito regio, dai Carabinieri e dalle Guardie di Finanza (circa 8.000 uomini). Ad Albona 1.200 soldati si arresero a 30 contadini d’ambo i sessi; a Pisino la guarnigione forte di 1.000 effettivi si disperse, abbandonando fra l’altro pezzi d’artiglieria, mitragliatrici e mortai a chi volesse appropriarsene127. Prima però il suo comandante fece arrestare borghesi italiani che chiedevano di potersi armare per difendere la città dagli slavi. Questi li trovarono ancora in carcere, pronti per essere «liquidati»128.
Molti soldati si unirono agli insorti, altri vagarono per la penisola, cercando di sottrarsi con l’aiuto della popolazione alla prigionia tedesca e di scambiare le proprie divise con abiti civili129. Questa situazione di caos rese anche possibile una vendetta etnica e sociale difficilmente controllabile dagli organi del Movimento di liberazione già presenti sul terreno e dai fuorusciti rientrati dalla Croazia, che non avevano a disposizione se non scarse unità militari per imporre subito il proprio controllo sulla regione130.
Rivelatrice, a questo proposito, l’autocritica sui «25 giorni del potere popolare», formulata in occasione della riunione dei capi del Partito comunista croato (pcc) per l’Istria alla fine di ottobre. Essa suona come una giustificazione a posteriori, ma non è priva di accenti di sincerità:
La nostra dirigenza di partito non riuscì ad orientarsi nella nuova situazione dopo la caduta dell’Italia. Abbiamo suscitato l’insurrezione popolare senza essere capaci di restare alla sua testa. Ci siamo sciolti nelle masse [...] Durante i 25 giorni non siamo riusciti a riunirci ed elaborare un piano di lavoro. Ciò ebbe per conseguenza la mancanza del nostro controllo sul terreno per cui posti di responsabilità vennero occupati da persone contrarie al nostro movimento. Furono compiuti diversi sbagli.131
Va aggiunto però che l’insurrezione istriana ebbe facce diverse, secondo le località in cui era scoppiata: nelle cittadine della costa, fu un affare più che altro italiano, con la creazione di comitati di salute pubblica o civici di unità antifascista o rivoluzionari che si sostituirono al regime appena crollato132; nelle campagne, abitate perlopiù da croati e sloveni, assunse anche le caratteristiche di una rivolta contadina di stampo antico, mentre nella zona proletaria dell’Arsa non fu priva di spunti rivoluzionari. Spesso però questi tre aspetti si accavallarono, contribuendo a rendere ancor più confusa una situazione in cui il mondo sembrava aver perduto il proprio asse133.
I comunisti italiani, parecchi dei quali erano rientrati in Istria dalle carceri in cui li aveva rinchiusi il regime, preavvertivano la tempesta, gravida di violenza, che si andava profilando all’orizzonte. In diversi incontri con i compagni croati sollecitarono da questi la promessa che i fascisti arrestati sarebbero stati sottoposti a regolare processo. Essi furono tranquillizzati dal presidente del Comitato di liberazione nazionale per l’Istria, Joakim Rakovac, che s’impegnò ad impedire «vendette arbitrarie»134. Le direttive di non compiere esecuzioni sommarie furono però perlopiù ignorate, soprattutto da elementi estremisti e facinorosi, o anche psicopatici, che si infiltrarono fra gli insorti, e da vendicatori di torti e interessi personali135. In questo clima e in questo ambiente, in cui l’analfabetismo - retaggio dell’amministrazione veneziana e di quella italiana sotto gli Asburgo e sotto i Savoia - era altissimo, si verificarono anche delazioni, arresti, atti vandalici, espropri e assalti contro negozi e contro il servizio annonario o istituzioni di valore simbolico come gli archivi comunali o il municipio di Buie, dove tutti i documenti relativi all’erario finirono bruciati136.
Ne furono vittime, afferma Galliano Fogar, molti italiani o croati italianizzati, gerarchi e gerarchetti, anche ai livelli più bassi: quelli che portavano un’uniforme, il militare, il finanziere, l’impiegato o messo comunale, ma anche il notabile di paese diventato proprietario terriero grazie ai pignoramenti dei beni dei contadini; e perfino una levatrice, accusata di aver causato durante l’assistenza a un parto la morte del neonato137. Non però i pesci grossi che si erano nascosti dopo il 25 luglio, trovando rifugio a Trieste o a Roma e Milano, o erano tornati, nei regnicoli, nei paesi d’origine. Persino gli ufficiali dell’esercito tagliarono la corda quasi tutti, abbandonando migliaia di soldati alla loro sorte138. Proprio in quei giorni non pochi italiani dell’Istria scoprirono la presenza del «vicino» croato, mezzadro o colono, di cui poco o nulla sapevano, ignorandone, anche senza malanimo preconcetto, sentimenti, tradizioni, umiliazioni. «In molti casi», scrive Fogar, «c’è stata una convivenza fra separati e sconosciuti in una casa secolare comune, una frattura esistenziale, storica e culturale in una terra nazionalmente composita e in alcune zone etnicamente non districabile»139.
L ’annessione
Ancora nel 1941 il governatore fascista Luigi Federzoni aveva riproposto in un opuscolo sulla Dalmazia appena annessa al regno (ma il discorso valeva anche per la Venezia Giulia) il vecchio cliché sull’armonia dell’ordine stabilito nella regione, sottolineando la supremazia italiana nella vita pubblica e la «devozione» dei contadini slavi nei confronti dei padroni140. Dopo l’8 settembre tutto cambiò: i buoni e inermi coloni di ieri diventarono ribelli armati. La sensazione di sgomento e d’impotenza che attanagliò le classi dirigenti della penisola, per le quali la rivolta giunse come un fatto inatteso e inconcepibile, è ben descritta da don Francesco Dapiran, all’epoca segretario di monsignor Raffaele Radossi, vescovo di Parenzo:
Eravamo a cena improvvisamente un frastuono all’esterno, un forte picchiare alla porta, poi spalancarsi ed entrare l’avvocato Amoroso con uno stuolo di facce mai viste, gridando di suonare le campane, che non c'era più fascismo, che non c’era più guerra […] Fu l'inizio della più grande crisi per Parenzo. Ogni giorno, ceffi sconosciuti prelevavano dalle case i migliori: Podestà e Vice Podestà, Segretario Comunale, il Direttore della Sepral, il capitano dei Carabinieri, il maresciallo etc., non so quanti, oltre cento141.
A Rovigno alcuni esaltati si proclamarono «guardie della rivoluzione», costituendo un corpo poliziesco detto ceka sull’esempio della Polizia segreta bolscevica. «I massimi esponenti del Comitato partigiano rovignese», scrive Luciano Giuricin, «ebbero un bel da fare per neutralizzare l’azione di questi avventurieri e far sì che gli arresti fossero limitati ai soli fascisti responsabili di precise colpe durante il ventennio»142. La repressione non colpi insomma solo «i migliori», ma anche numerose persone con le quali questo o quell’improvvisato comandante di gruppi di insorti - italiani a Parenzo, Rovigno e Albona - aveva avuto in passato screzi personali o conflitti d’interesse. Alcuni di questi «giustizieri» improvvisati, emersi da una condizione di anonimato politico e sociale, apparvero ebbri di un senso di potere che li spingeva a decidere senza indugi o ripensamenti della vita dei malcapitati. Vi furono anche episodi di faide familiari e tra vicini di casa, dal sapore antico di tragedia greca143. Risultò ancora che gli incaricati della cattura dei fascisti non conoscevano affatto i veri «nemici del popolo» e che mancavano dati precisi sulla loro colpevolezza144.
Scene di violenza e reazioni si ripetevano un po’ dappertutto a opera delle forze popolari improvvisate che s’impossessarono fra il 9 e l’11 settembre dell’intera penisola, a parte Fola, Dignano (Vodnjan), le isole Brioni, Capodistria e Isola. Si trattava di 10.000, 12.000 uomini, affluiti o mobilitati nei reparti degli insorti, dei quali, come afferma Giacomo Scotti, pochi potevano dirsi veri partigiani e pochissimi erano comunisti: erano contadini e operai guidati dai comunisti italiani reduci dalle prigioni, da patrioti croati, esponenti del vecchio Partito nazional-clericale istriano, sopravvissuto nella clandestinità o rientrati dall’esilio145; fuoriusciti che si lasciarono spesso travolgere dall’odio per tutto ciò che sapeva di italiano.
Il 13 settembre, quando riuscì almeno in parte a prendere le redini della situazione, il Comitato di liberazione nazionale per l’Istria proclamò l’annessione della regione alla Croazia con una dichiarazione dal linguaggio non privo di rivalse nazionalistiche. In essa si decretava infatti l’espulsione dalla penisola di tutti i «regnicoli», che vi si erano stabiliti dopo la prima guerra mondiale146. È significativo in proposito l'atteggiamento di sfiducia nei confronti dei compagni italiani, membri del comitato, che non furono invitati all’assemblea147. Il 20 settembre questa decisione, che garantiva peraltro l’autonomia della «minoranza italiana», fu fatta propria dall’organo supremo della Resistenza croata, lo zavnoh (Consiglio territoriale antifascista della Croazia), suscitando le ire di Tito, secondo cui deliberazioni di tale importanza avrebbero dovuto essere avallate a livello più alto; quando tuttavia alla fine di novembre l’avnoj (Consiglio antifascista di liberazione nazionale della Jugoslavia) si riunì a Jajce, antica capitale della Bosnia, la dichiarazione fu solennemente riconfermata, insieme a quella degli sloveni del 15 settembre 1943 per quanto riguardava il Litorale (province di Gorizia e Trieste, Resia e Valli del Natisone in provincia di Udine)148.
Alla metà di settembre Pisino, l’antica città posta nel cuore asburgico della penisola, considerata dagli istriani croati la culla del Risorgimento nazionale, divenne in pratica capitale di tutti i territori controllati dai partigiani. Essa fu scelta non a caso, essendo stata nell’Ottocento centro di una furibonda lotta etnica, in cui l’esigua minoranza italiana (6,23 per cento) riuscì a imporre fino al 1887 il suo dominio alla popolazione croata. Quando nel 1899 il governo di Vienna decretò l’apertura di un ginnasio croato a Pisino i nazional-liberali istriani e triestini furono presi «da irosa passione», per citare lo storico nazionalista Attilio Tamaro149. «Una grave minaccia sovrasta alla nostra nazionalità, al diritto storico dell’italica civiltà sulla terra istriana». A Trieste fu organizzata un’assemblea di protesta di 200 maggiorenti che emanarono un proclama in cui si dichiararono
[...] fermi e concordi nel combattere fino all’ultimo per conservare alla propria nazione la incontestabile continuità territoriale di queste provincie, regione decima dell’Italia augustea, per venti secoli fecondata dal lavoro e dal genio latino, fatta prospera e gentile per sola virtù degli Italiani, cuore cervello, unica luce di storia e civiltà in questo estremo seno dell’Adria150.
A Pisino giunsero il 23 settembre i quadri militari inviati dallo Stato maggiore dell’Esercito di liberazione della Croazia, per organizzare le nuove unità di combattenti, tra le quali anche un battaglione «Garibaldi», composto da soldati italiani, decisi a lottare a fianco degli jugoslavi «per un’Italia progressista di domani». Grazie anche alla loro presenza fu possibile mettere un freno agli abusi e dare una qualche disciplina ai reparti degli insorti. Essi furono inquadrati in due brigate, un distaccamento e diversi battaglioni per un totale di 12.000 uomini, quasi tutti alle prime armi151. A Pisino fu convocata, il 25 settembre, un’assemblea popolare, composta da 100 delegati di nazionalità croata (gli italiani furono di nuovo tenuti da parte), che ribadì, se ce ne fosse stato bisogno, l’unione dell’Istria alla Croazia. Nel frattempo la 2ª brigata istriana attaccò Pirano e Capodistria, dove liberò circa 200 prigionieri politici, entrando anche a Isola e Pirano152. Mentre gli antifascisti venivano scarcerati, le celle del cinquecentesco castello dei Monteccuccoli di Pisino si riempivano di fascisti o supposti tali, rastrellati nei giorni successivi all’8 settembre nelle zone di Parenzo, Rovigno, Orsera e San Lorenzo del Pasenatico, per essere sottoposti al giudizio di un «tribunale popolare»153.
A presiederlo fu chiamato uno dei pochi capi che avesse un’istruzione universitaria, Ivan Motika, membro di quel gruppo di fuorusciti che il pcc aveva inviato in Istria per dare una direzione agli insorti. Già tenente del regio esercito jugoslavo, il Motika, giminese d’origine, fu nominato presidente del Comitato regionale del Fronte di liberazione nazionale per l’Istria, nonché comandante della città di Pisino e presidente del «tribunale del popolo»154. Oltre che Pisino gli arrestati furono concentrati in altre due località: a Pinguente quelli dell’Istria settentrionale, ad Albona quelli della parte meridionale e orientale della penisola. In queste tre località furono poi gestiti i processi sommari contro gli accusati. A tale scopo furono costituite delle commissioni d’inchiesta che lavorarono con procedura «abbreviata» nel momento in cui i tedeschi cominciavano a premere alle porte. Succedeva però che si facesse a meno anche di tale formalità155. Anni più tardi un esponente del pcc in Istria, Bozo Kalcic, si vantò pubblicamente di aver «liquidato» 82 fascisti per vendicare le 82 vittime, «cadute all’incrocio di Ticna»156 (località dove nell’ottobre 1943 si verificò uno scontro tra partigiani e tedeschi). Le prime esecuzioni ordinate dal Tribunale di Pisino furono eseguite il 19 settembre nella cave di bauxite locali; dato però che uno dei condannati riuscì a fuggire, si decise che in futuro le fucilazioni sarebbero avvenute nelle vicinanze di «foibe» dove seppellirli157.
Operationszone Adriatisckes Küstenland
I tedeschi, da tempo sospettosi dell’alleato italiano, non furono certo presi alla sprovvista dall’armistizio dell’8 settembre. Mentre s’apprestavano a occupare l’Italia settentrionale e centrale e organizzarvi la Repubblica di Salò sotto la guida di Mussolini liberato dalla sua prigione sul Gran Sasso, decisero di formare con i territori italiani ex austriaci due entità amministrative sotto il loro diretto controllo. Il 10 settembre Hitler in persona ordinò di costituire la «Zona di Operazione delle Prealpi», l’Alpenvorland, che avrebbe abbracciato il Tirolo del Sud, il Trentino e Belluno, e la «Zona d’Operazioni Litorale adriatico», in cui inclusero la Provincia di Lubiana e l’intera Venezia Giulia, cioè le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume. Tale «zona», che rimaneva italiana solo di nome, fu considerata strategicamente assai importante per la possibilità che i britannici vi progettassero uno sbarco costituendovi una testa di ponte per spingersi in direzione della frontiera germanica, distante appena 100 chilometri dalla costa. Inoltre, la presenza di forze partigiane ben organizzate, appoggiate dalla popolazione locale, rendeva ancor più necessario il diretto controllo della Wehrmacht. A reggere l’«Adriatisches Küstenland» (ozak - così veniva detto il territorio con riferimento al Litorale austriaco), venne chiamato in qualità di Supremo Commissario, con poteri discrezionali in tutti i campi: civile, militare, economico, giuridico, un vecchio burocrate austriaco, il Gauleiter e Reichsstatthalter della Carinzia Alois Friedrich Rainer. Intimo del Fuhrer e fanatico esponente di quel nazismo austriaco che era forse il più estremista e violento del Terzo Reich, questi aveva già ampiamente dimostrato la sua capacità di far fronte con deliberata ferocia ai «banditi» sloveni nella Carniola superiore158.
Il 13 settembre i tedeschi diedero il via all’operazione «Pulizia dell’Istria» con due colonne, una delle quali scendeva da Trieste verso Parenzo e Rovigno con l’intento di raggiungere Pola, mentre l’altra, partita da questa città, cercava di risalire la costa orientale. A proposito di quest’ultima, il già citato Mario Chierici racconta:
Quando la notte fra il 13 ed il 14 settembre, una colonna corazzata tedesca, proveniente da Pola e diretta a Fiume, venne assalita dai nostri nella valle del Carpano, e vi ebbe a subire perdite assai forti (una sessantina di automezzi fu allora distrutta), alcune autoblindo germaniche raggiunsero la miniera di Pozzo Littorio sotto Albona. I fascisti, credendo che i tedeschi vi arrivassero da vincitori, presero coraggio e cominciarono una violenta sparatoria alle spalle dei partigiani. Abbiamo avuto una settantina di morti, ma i tedeschi si ritirarono all’alba e noi riuscimmo a ristabilire l’ordine. Fu soltanto dopo questo episodio che tutti i fascisti del Bacino dell’Arsa, specie quelli della zona di Pozzo Littorio, vennero arrestati e portati via verso la costa quali prigionieri di guerra. Non si procedette neanche allora ad esecuzioni sommarie159.
Dopo aver isolato la penisola dall’entroterra, la notte fra il 1º e il 2 ottobre fu dato il via alla seconda fase dell’operazione «Säuberung Istriens» (Pulizia dell’Istria), inviando da Trieste unità carriste delle divisioni lss «Adolf Hitler» e «Hermann Göring», nonché reparti di fanteria della 44ª e 71ª divisione. Mentre queste truppe motorizzate avanzavano lungo la parte occidentale della penisola in direzione di Pola e di Pisino, altre puntavano direttamente su Fiume, da dove si mossero contemporaneamente unità già presenti nella città per indirizzarsi verso il massiccio centrale del Monte Maggiore (Učka); da Pola, intanto, truppe tedesche avanzavano su Barbana e Albona. Le forze partigiane di nazionalità croata e italiana, impreparate e inadeguate, s’impegnarono in disperati e caotici combattimenti ma ebbero nel giro di una settimana ben 2.000 morti, cui si aggiunsero parecchie migliaia di civili160. (I tedeschi si vantarono addirittura di 13.000 fra uccisi o catturati)161. Si trattò di una controffensiva rapida, col suo corredo di stragi e devastazioni indiscriminate, che colpirono le popolazioni di ogni etnia, seminando lutti dappertutto: saccheggi, incendi di paesi interi, fucilazioni sommarie, impiccagioni, assassinii di donne e bambini, anche di sacerdoti. Solo a Pisino, pesantemente bombardata, furono uccise 200 persone in poche ore162. In seguito vi si installò per un certo periodo la Gestapo, ordinando brutali esecuzioni163. Le diedero man forte i fascisti locali, parecchi dei quali rientrati da Trieste o riemersi dai rifugi dove si erano nascosti in attesa dell’arrivo dei tedeschi. Essi misero in atto tutta una serie di vendette contro i croati, saccheggiando e ammazzando, abbandonandosi a massacri che durarono dall’ottobre 1943 all’aprile 1945164.
L’Istria, che nei giorni precedenti era imbandierata di tricolori partigiani rossi, bianchi e blu, o rossi, bianchi e verdi con la stella rossa in mezzo, o più spesso ancora semplicemente rossi, cambiò di colpo colore: da ogni finestra sventolava la bandiera bianca165. Fra i prigionieri presi dai tedeschi con l’aiuto di forze ausiliarie italiane, tra cui Carabinieri, si trovavano pure molti soldati del regio esercito, che finirono nei lager in Germania come i loro compagni civili166. In questa caotica situazione di panico, i capi partigiani di Pisino non seppero far altro dei circa 200 prigionieri ancora sotto il loro controllo che passarli per le armi, in parte per rappresaglia delle atrocità commesse contro la popolazione durante il passato regime, in parte perché convinti che, se li avessero liberati, si sarebbero associati ai nemici nazisti, come stavano facendo i loro «camerati» rimasti in libertà. Il comportamento di coloro che ebbero invece salva la vita confermò l’esattezza della previsione167.
I condannati vennero prelevati dal posto di detenzione, condotti, solitamente di notte, su automezzi nelle campagne, dove in genere furono uccisi con armi da fuoco e gettati nelle grotte, nelle cave di bauxite o in fosse comuni lungo gli argini delle strade; ci sarebbero indizi sulla possibilità che alcuni fossero ancora vivi168. L’equazione italiani = fascisti, che si suppone usata per condannarli, può sembrare a mente fredda sommamente ingiusta; ma a quel tempo poteva non esserlo, a giudicare anche da un appunto anonimo (dovuto probabilmente all’onorevole Giovanni Maracchi), il quale, nel riferire degli eventi istriani all’inizio di ottobre 1943, scriveva: «Qualunque sia il giudizio che può essere pronunciato sull’opportunità di creare e mantenere i fasci in Istria nel 1943, un fatto è innegabile: che dove sorgeva un fascio là si difendeva la bandiera italiana, là era l’Italia»169.
Ma non tutti gli arrestati furono «liquidati», come si diceva allora: alcuni furono scagionati dagli stessi comandi partigiani, o liberati alla notizia che stavano arrivando i tedeschi. Questa fortuna capitò ai 100 gerarchi rastrellati a Capodistria, Isola e Umago, e radunati a Pinguente170. Altri morirono sotto i bombardamenti tedeschi, altri ancora furono salvati dall’avanzata della Wehrmacht171. In alcune località i comandi partigiani impedirono le esecuzioni, arrivando a inviare rapporti falsi sull’avvenuta «liquidazione» dei condannati172. Tragica fu la sorte dei detenuti di Albona liberati dalla prigione grazie all’intervento di Aldo Negri, comandante della locale unità partigiana. Quando un «partigiano» locale, Mate Štemberga, cui i fascisti avevano ammazzato il fratello, ne venne a conoscenza, reagì immediatamente: a capo del suo manipolo riarrestò le persone liberate, le «liquidò» e le gettò parte nelle foibe, parte in mare173. L’indignazione per la sua «vergognosa» crudeltà fu tale, da indurre il partito, all’inizio di ottobre, a espellerlo dalle proprie file, costringendolo a ritirarsi nei boschi174.
Come scrisse il 6 novembre 1943 Zvonko Babic-Žulje, inviato dal Servizio informativo partigiano in Istria subito dopo l’offensiva nazista, «la lotta contro i nemici del popolo» era stata condotta in maniera «radicale» in certe zone, come quella di Gimino (Žminj) e nell’agro Parentino, fiaccamente in altre. In alcune s’erano verificate, a suo dire, delle «deviazioni». Fra queste egli annoverava sicuramente, dato che lo ricorda, il caso di tre sorelle fra i 17 e i 21 anni, una delle quali incinta, trovate nella grotta di Lindaro (Lindar); o di un ragazzo diciottenne, trucidato insieme al padre e sepolto nella stessa voragine175.
La riesumazione
Parlando dell’elemento scatenante di questi terribili eventi, don Dapiran affermò che in seguito l’Istria fu messa a ferro e fuoco dalla riconquista dei nazisti; ma aggiunse poco dopo, con un disarmante paradosso: «Coi tedeschi era una resurrezione, tutto ritornò normale, nonostante una quarantina di bombardamenti [degli inglesi o americani] causa l’imbarco della bauxite»176. Proprio normale no, perché i tedeschi, convinti di dover ristabilire i vecchi legami del Litorale con lo hinterland austro-germanico impostarono fin dall’inizio una politica «morbida e lusinghiera» nei confronti dell’elemento slavo, offrendo agli sloveni e ai croati, in cambio della collaborazione, scuole, giornali e incarichi nell’amministrazione pubblica177. La risposta fu però modesta, per cui bisognò importare dalla Provincia di Lubiana i «domobranci» che s’installarono nelle città per collaborare con le SS nelle operazioni di Polizia contro i «banditi»; il fatto però che tali unità potessero marciare in pieno centro di Trieste con la bandiera slovena in testa, cantando «Trst je naš!» (Trieste è nostra), e che a Fiume e a Pola fossero insediati rispettivamente un prefetto e un viceprefetto croato, mentre a Gorizia fu nominato un vicepodestà sloveno, la dice lunga sull’astuzia dei tedeschi, decisi a sfruttare ai propri fini l’animosità italo-slava presente nel territorio178.
Ridimensionamento della presenza italiana nella Venezia Giulia, valorizzazione del collaborazionismo sloveno e croato, concessioni di scuole e di giornali sloveni e croati. Ferreo controllo di tutta la stampa. Propaganda nostalgica dell’Impero (asburgico) con prospettive di rilancio del porto di Trieste nel grande spazio del Reich e del Nuovo Ordine Europeo. Venezia Giulia «mosaico» di popoli sgovernato dall’Italia. Sfruttamento delle risorse locali orientando traffici e commerci verso il Reich. Sfruttamento della popolazione per il servizio obbligatorio di guerra fino a ordinare la mobilitazione per il servizio del lavoro (fortificazioni) di tutti gli uomini dal 16 ai 60 anni. Opposizione a qualsiasi intromissione della rsi («Duce-Italien»). Si preparano cosi le condizioni per incorporare il «Litorale» nel III Reich in forme da stabilirsi.
Con queste efficaci pennellate Galliano Fogar delinea la politica delle autorità tedesche179.
Per quanto riguarda le strutture civili e militari dello Stato italiano nell’«Adriatisches Küstenland», le nuove autorità si comportarono diversamente da quelle dell’«Alpenvorland», dove tutti i Carabinieri e gli agenti di Polizia vennero internati in Germania180. Nel Litorale essi, come pure i burocrati civili, passarono, con compiti soprattutto repressivi, al servizio del Terzo Reich, o meglio al servizio di Rainer e di Odilo Globočnik, nominato il 15 ottobre capo di Polizia e delle SS del Litorale. Figura notevole, la sua! Nato a Trieste nel 1904 da madre austriaca e padre sloveno, egli si trasferì nel 1923 a Klagenfurt, aderendo al Partito nazista nel 1931. Il 1° settembre del 1934 entrò nelle file delle SS, dove fece carriera nonostante un’accusa per malversazioni nel 1939. Alla fine di quell’anno fu inviato in Polonia come promotore dell’«Aktion Reinhard», la «soluzione finale» relativa agli ebrei. Dopo aver sterminato quasi 2 milioni di persone, fu trasferito a Trieste con la sua squadra di collaboratori, perlopiù carinziani, per un’analoga «Aktion R», con il compito d’impegnarsi nella persecuzione dei partigiani e nella spoliazione ed eliminazione degli ebrei del Litorale e dell’Istria181.
Le nuove autorità, esperte di massacri sovietici in Ucraina e Bielorussia, capirono immediatamente il valore propagandistico delle «foibe». Il 29 settembre 1943 esse favorirono la costituzione a Trieste di un «Centro istriano» per riunire gli istriani residenti in città al fine di affiancare «l’opera delle Forze armate germaniche diretta a liberare l’italianissima provincia». Diceva l’appello del comitato promotore:
Le notizie che giungono dalla nostra provincia recate dai profughi e dagli scampati, dipingono a colori che non potrebbero essere più foschi le sorti della nostra gente rimasta sotto il dominio dei partigiani slavo-comunisti. Esse parlano di sempre nuove deportazioni, di fascisti e di non fascisti, di nuovo sangue e di nuovi lutti tra la popolazione italiana dell’Istria182.
Già durante l’offensiva dei «nostri valorosi alleati delle potenti Forze armate germaniche» della prima metà di ottobre fu avviata la ricerca delle salme degli scomparsi, preoccupandosi di darle la maggior pubblicità possibile. Ci si guardò bene dal rilevare che nelle voragini carsiche o nelle cave di bauxite erano stati frettolosamente sepolti anche molti cadaveri di coloro che all’inizio di ottobre erano stati vittime della loro soldataglia, o anche di loro caduti nelle operazioni antipartigiane: tutte le persone ritrovate dovevano essere vittime innocenti della «ferocia slavo-comunista»183. A partire dal 5 ottobre 1943 apparvero su «Il Piccolo di Trieste, portavoce della locale borghesia nazionalista, e sul «Corriere Istriano», organo della Federazione del Partito fascista repubblicano, articoli propagandistici che descrivevano nei dettagli quanto era successo in Istria durante «le tragiche giornate dell’anarchia». Il 19 ottobre 1943 il giornale polesano usò anche per la prima volta nel titolo di un articolo la parola «foiba». Lo scopo, come commenta Luciano Giuricin, era quello di «sconvolgere l’opinione pubblica, denigrare il movimento partigiano, mobilitare nuovi seguaci nelle esigue file del fascismo repubblichino e dare così una patente di legittimità a coloro che si erano schierati col nuovo occupatore tedesco in nome della “difesa nazionale e dell’italianità dell’Istria minacciata dagli Slavi”»184.
Autore degli articoli sul foglio triestino era un giovane giornalista originario di Pisino, Manlio Granbassi (Niederkorn), che nelle settimane successive pubblicò una serie di resoconti su quanto avvenuto nelle cittadine istriane dopo il ribaltone185. Nel primo - a conferma di quanto improvvisata fosse l’insurrezione - narra come i partigiani, installatisi dopo l’armistizio nelle città interne (Pisino, Pinguente in particolare), avessero aizzato la popolazione, affermando che avevano sobillato gli ingenui con false notizie a loro favore e scatenato i delinquenti:
La propaganda attecchì, e da Pinguente si diffuse fin sopra Capodistria, Isola, Pirano e Umago, guadagnando, come tanti allocchi i contadini che non già il comunismo intravvedevano nel movimento, bensì molto chiaramente una forte ripresa del vecchio nazionalismo slavo e croato, unito alla speranza di far bottino di quanto l’Esercito aveva nei magazzini, specie in quelli dei centri maggiori [...] Parlano i fatti. Il 26 e 27 mattina Capodistria vide, come una muta di cani, scendere in città le più losche figure dell’interno dell’Istria. Una ventina di cittadini fra le figure più in vista e rispettate, anche al di sopra di ogni tendenza politica, si videro comparire nelle loro abitazioni delle facce torve, col moschetto puntato verso il loro petto: «In arresto»186.
Sempre più impressionanti sono i resoconti successivi, dedicati alla riesumazione delle salme dalle foibe e dalle cave in cui erano state sbrigativamente sepolte187. A svolgere i lavori di recupero furono squadre di minatori e un reparto del 41º corpo dei Vigili del Fuoco di Pola, ai comandi del maresciallo Arnaldo Harzari (Harzarich) che espletarono il macabro incarico sotto la scorta di truppe della marina tedesca, Carabinieri e Camicie Nere188. Individuata una voragine da esaminare, veniva costruita su di essa una «biga formata da pali fissi all’estremità superiore e aperti a quella inferiore a mo’ di piramide» e «un paranco con doppia carrucola», mediante il quale gli uomini, muniti di maschere antigas, si calarono nell’abisso. Con lo stesso mezzo furono quindi recuperati, talvolta a grappoli, i corpi infoibati, ormai in stato di putrefazione più o meno avanzata189. Le salme non venivano ricomposte prima di esser mostrate per l’identificazione ai familiari, che venivano anzi invitati ad assistere alle varie fasi delle operazioni fra scene strazianti di disperazione. Almeno in un caso essi furono trasportati sul posto con autocorriere, anche da lontano. «Urla di dolore e di orrore, uno scoppio di pianto che nulla ha di umano, come di gente ferita nelle proprie carni, gli occhi sbarrati in una fissità che contempla senza forse vedere... »190. Ancor più spettacolari furono le esequie delle vittime, come racconta don Dapiran nel suo articolo sulle foibe: «I funerali a Parenzo furono un trionfo di pianto, di dolore, di paura. Per me la principale ragione dell’imponente esodo. Il terrore portato da Tito ha vinto una Regione, una Patria»191.
Dallo stato in cui furono trovati i cadaveri - a detta del cronista - fu possibile arguire come fossero morti. Talvolta erano nudi, talvolta scalzi, avevano le mani legate dietro la schiena col filo d’acciaio stretto con tenaglie, fino a spezzare il polso, spesso erano legati a due a due spalla contro spalla, e mostravano segni evidenti di arma da fuoco, talvolta di torture192. Alcuni erano evirati: cosi don Angelo Tarticchio, il trentaseienne parroco di Villa di Rovigno (Rovinjsko Selo), prelevato il 17 settembre da un gruppo di «banditi» in odio alla Chiesa e ritrovato un mese e mezzo più tardi nella cava di bauxite di Lindaro193. Colui che lo aveva arrestato spiegò dopo la guerra di essere stato denunciato da don Tarticchio ai Carabinieri, che lo avrebbero «interrogato» in sua presenza194. Le lesioni prodotte alle salme e agli indumenti dalla caduta nelle cavità, dalla decomposizione e dal recupero stesso vennero presentate, insomma, come prove di orrende torture (evirazioni, fratture delle ossa) inferte alle vittime ancora vive, mentre dagli ammanettamenti con filo di ferro e dalle ferite da armi da fuoco identificabili su alcuni corpi si dedusse che le esecuzioni fossero avvenute sparando a uno dei catturati per trascinare gli altri ancora vivi: episodi che non si possono ovviamente escludere, ma che la fonte e l’evidente forzatura propagandistica delle notizie non prova, anche perché spesso differisce dai rapporti effettivi sulle esumazioni o dalla semplice plausibilità.
La più nota fra tutte divenne la foiba di Vines (Vinez), detta anche «dei colombi», vicino ad Albona dove furono ritrovate 84 salme, esumate il 6 ottobre 1943. Essa assurse, come scrisse il Granbassi, a «simbolo di una ferocia che ha superato quella delle brutali uccisioni per cui divennero tristemente famose in tutto il mondo, Katyn e Winnitza»195. L’accostamento degli eccidi istriani a quelli di cui rimasero vittima per ordine di Stalin migliaia di ufficiali dell’esercito polacco, al di là dell’enorme sproporzione numerica e delle ben differenti cause dei due eventi, serviva ai nazisti e ai loro collaboratori italiani per dimostrare la ferocia universale dei «bolscevichi». A questo scopo fu anche permesso al cronista de «Il Piccolo» di calarsi in una foiba, e vennero filmati e fotografati i miseri resti dei corpi196. Per dare un ulteriore tocco di colore alla propaganda si fece notare come nella «grotta dei colombi» a Vines nell’Albonese e a Terli, vicino a Barbana, fosse stata trovata tra i cadaveri una carogna di cane nero, suggerendo un rituale esoreistico legato alle «barbare supersitizioni degli assassini»197. Questa fantasia viene tuttora accreditata da una quantità di pubblicisti e da un film della rai. E su queste basi ancora mezzo secolo più tardi la giornalista Anna Maria Mori avrebbe così ricostruito la scena:
Catene di persone legate l’una all’altra vennero gettate nelle foibe, dopo aver sparato un colpo in testa solo al «capocordata» che si trascinava dietro tutti gli altri, spesso insieme a qualche bestia rabbiosa lanciata giù per ultima, con la conseguenza di carni straziate, e urla che non sono mai più andate via dal cervello e dal cuore di chi viveva, o meglio tremava, nelle vicinanze198.
Nella penultima foiba esplorata, quella di Villa Surani (Surani), fu recuperata, fra ventisei salme estratte, anche quella di una studentessa dell'Università di Padova, Norma Cossetto, figlia di un possidente nonché ex segretario del Fascio e podestà di Santa Domenica di Visinada. A sua volta fervente mussoliniana, iscritta alla scuola di mistica fascista e colpevole di aver respinto l’offerta dei partigiani di collaborare con il Movimento di liberazione, essa era destinata a diventare la più nota fra le poche donne finite in quel tragico modo, oggetto di «incontrollate fantasie e presunte testimonianze»199. Per quanto, nel momento del recupero, il suo cadavere fosse trovato intatto e ben conservato, sebbene nudo, come testimoniò il capitano Harzari, ben presto si diffuse la voce che prima di morire fosse stata brutalmente violentata e seviziata200. Prima di gettarla nella foiba, secondo una testimonianza, le amputarono anche i seni201. O peggio ancora: chiusa in una stanza, sarebbe stata violentata da 17 partigiani slavi, crocifissa a una porta e impalata202.
Su richiesta della sorella Licia i tedeschi arrestarono a metà ottobre 13 giovani indicati da quest’ultima come i colpevoli della morte di Norma e del padre, caduto in uno scontro con i partigiani nel tentativo di liberare la figlia con l’assistenza di un gruppo armato. Senza prove né giudizio essi furono massacrati e gettati in foiba, dopo essere stati rinchiusi per una notte intera in una cappella con la morta ormai in decomposizione, per cui tre impazzirono203. Nel 1944 il nome della Cossetto fu assunto come vessillo di battaglia da un reparto della Brigata nera femminile, costituita in gran parte da congiunte dei caduti204. Dopo la guerra, nel 1949 le fu conferita dall’Università di Padova la laurea honoris causa. Nel 2006 ottenne dal presidente della Repubblica italiana la medaglia d’oro al valore civile alla memoria, con la motivazione: «Giovane studentessa istriana, catturata e imprigionata dai partigiani slavi, veniva lungamente seviziata e violentata dai suoi carcerieri e poi barbaramente gettata in una foiba. Luminosa testimonianza di coraggio e amor patrio»205.
Oltre ad alcuni indumenti militari furono trovate nella voragine di Surani ben 17 bustine con la stella rossa che, a detta del cronista, dovevano appartenere ai massacratori, nonostante fosse evidente che appartenevano a partigiani massacrati206. Non tutti i cadaveri delle vittime delle uccisioni del settembre-ottobre 1943 finirono nelle foibe: pare che almeno in un caso 19 corpi, quasi tutti di dipendenti della società mineraria «Arsa», siano stati caricati, come già accennato, su una barca e fatti affondare al largo207. Il loro carnefice Mate Stemberga fu sorpreso all’inizio di novembre, in seguito a delazione, da un reparto del battaglione speciale Camicie Nere di stanza a Pisino e ucciso in uno sperduto casolare di campagna dopo uno scontro violento dal caposquadra Dante Gasparini, cui lo Stemberga avrebbe ammazzato a pugnalate due fratelli208. Sua moglie incinta fu trucidata dai tedeschi, mentre suo fratello Tommaso mori in prigione a Pola. Un altro fratello e sua moglie perirono a Dachau. La madre fu tenuta come ostaggio nel carcere polesano fino all’uccisione del figlio209.
Le prime denunce
Recuperati i cadaveri - 204 in tutto, fra cui una ventina di tedeschi210 - venne il tempo del «martirologio», per usare un termine destinato ad aver fortuna, apparso per la prima volta su «Il Piccolo» il 1° dicembre 1943. Sul foglio triestino e su quello di Pola cominciarono a esser pubblicati elenchi dei «martiri delle idee di patria e italianità» identificati come vittime innocenti dell’odio delle bande slavo-comuniste. In quel momento suonò come conferma della dignità del loro sacrificio il fatto che molti fossero proclamati «camerati» e i loro nomi fossero spesso accompagnati da benemerenze o cariche fasciste ricoperte in vita211. Si fece inoltre leva - come giustamente rileva Paolo G. Parovel - su una tipica deformazione morale, per cui l’uccisione di qualsiasi italiano era sempre e comunque un delitto grave e imperdonabile, mentre uccisioni e massacri di slavi non avevano neppure dignità di omicidio e trovavano giustificazioni di autodifesa «patriottica»212.
Il primo osservatore esterno a stendere un rapporto sulle giornate settembrine in Istria fu un diplomatico croato, Nikola Zic, che per incarico del governo di Zagabria monitorava la situazione. A suo dire, il motivo scatenante della violenza contro gli italiani fu la notizia, giunta il 13 settembre, che i fascisti di Arsa e di altre località avevano chiamato in proprio aiuto i tedeschi da Pola e che costoro s’erano scontrati con i partigiani. Ciò avrebbe suscitato fra gli insorti grande allarme: «Ci tradiranno!», si senti dappertutto. Si ebbero così i primi arresti e le prime fucilazioni fra coloro che erano stati i più compromessi col passato regime, Alcuni sarebbero stati salvati per intervento degli stessi contadini (come il marchese Paolo Polesini, possidente terriero di Parenzo) o dei sacerdoti locali, soprattutto del vescovo di Parenzo e Pola, monsignor Raffaele Radossi213.
La situazione istriana del settembre-ottobre 1943 fu presentata con efficace capacità di sintesi dal cln di Trieste già nel novembre successivo con un manifesto alla gioventù italiana apparso clandestinamente. In esso veniva bollata con parole di fuoco la repressione germanica del movimento partigiano («Vi fu infamia, saccheggio, morte, assassinio e tutto ciò che vi ha di più atroce») ma non venivano neppure taciute riserve per quanto riguarda il breve periodo «partigiano». Cosi diceva il manifesto:
Ad onor del vero nei primissimi giorni d’occupazione i partigiani si comportarono bene, cioè senza lasciarsi trascinare ad eccessi e ad atti inconsulti di violenza e quindi sulle prime furono accolti ovunque, anche nelle plaghe italiane, con favore e benevolenza. Ma nei giorni seguenti essi finirono ad alienarsi le iniziali simpatie non solo degli abitanti dei borghi e delle cittadine, ma anche di quelli di contado perlopiù slavo e ciò a causa del verificarsi di casi di saccheggi, di deportazioni e di successive atrocità commesse in molti casi anche verso gente del tutto innocente214.
La prima vera critica sull’uso delle «foibe» fu quella di Giuseppe-Pino Budicin, esponente del pci di Rovigno. Egli si fece interprete del disagio dei comunisti italiani dell’Istria, preoccupati degli accenti nazionalistici che la lotta partigiana stava prendendo nella penisola nonostante la proclamata «fratellanza»215. Le ostilità nei confronti degli italiani «come se tutto il popolo fosse responsabile dei delitti consumati dai fascisti», turbarono molte coscienze. Scriveva un esponente del pci, inviando nel gennaio 1944 il già citato «rapporto» al Georgi Dimitrov a Mosca: «Però il Partito deve saper mettere un freno - ripeto - un freno perché io stesso dovetti molto spesso difendermi, non solo da uno qualunque, ma anche da compagni responsabili...»216. Alla prima conferenza dei comunisti istriani di Brgudac del dicembre 1943, incoraggiato da una protesta ufficiale del pci per le uccisioni di settembre e dei primi di ottobre, Budicin rivolse un aperto rimprovero ai dirigenti del pcc in merito alle responsabilità sui fatti delle foibe e ad altri incidenti di stampo nazionalista verificatisi durante l’insurrezione, rinfacciando loro di aver mancato alla parola data: fatto che, a suo dire, stava causando un certo disorientamento tra l’elemento italiano e non pochi danni al Movimento di liberazione217. Gli fu risposto che la situazione era sfuggita di mano ai dirigenti del movimento resistenziale, e che in un momento in cui le Divisioni SS «Prinz Eugen» e «Leibstandarte Hitler» stavano mettendo a ferro e fuoco l’Istria non era il caso di cospargersi il capo di cenere. «Lasciamo stare, ora è il momento di battere i tedeschi!» Cosi Antonio Vincenzo Gigante, già membro del Comitato centrale del pci, riparato in Istria dopo esser fuggito da un campo di concentramento, tentò di superare i dissapori che si stavano profilando fra comunisti croati e italiani218.
Il vescovo di Trieste e di Capodistria, monsignor Santin, informò a sua volta il Vaticano dell’accaduto, inserendo la sua testimonianza in un ampio rapporto inviato al papa nel novembre 1943 sulla «drammatica e insostenibile» situazione istriana. I partigiani, a suo dire, erano nei boschi e terrorizzavano la popolazione dei villaggi, che li detestava, ma li temeva, per paura di esporre le proprie case e famiglie alle loro rappresaglie. L’unica soluzione per tenerli a bada era quella di far presidiare la regione da reparti tedeschi. Se essi fossero stati costretti a ritirarsi, lasciando spadroneggiare i partigiani anche solo per alcuni giorni - affermava il vescovo - questi avrebbero massacrato la popolazione. «Le ultime notizie parlano di circa un migliaio di vittime da loro fatte nei pochi giorni di loro dominio in Istria nel mese di settembre. L’interregno non deve essere permesso. Qualunque sacrificio deve essere fatto per conservare l’ordine e impedire brutalità»219.
Il vescovo era abbastanza realista da comprendere che i tedeschi avevano ormai perso la guerra e da riporre le proprie speranze nell’arrivo degli inglesi e degli americani; non tanto però da capire che la presenza dei tedeschi poteva esser ben vista come «salvezza» da una parte degli italiani, non certo dai croati e dagli sloveni. Non capiva soprattutto che la forza dei partigiani non nasceva tanto dal timore che potevano incutere alla popolazione delle campagne, quanto dall’adesione di essa alla lotta di liberazione. Da questa cecità di natura ideologica nasceva la sua fiducia nell’intervento risolutore degli alleati occidentali ai quali, tramite il Vaticano, si premurava infatti di denunciare la Resistenza, affermando che a dire dei suoi esponenti «il nemico odierno è il tedesco, ma veri nemici nostri sono gli Inglesi e gli Americani che noi combatteremo con tutte le nostre forze»220. Incapace di vedere e comprendere lo slancio di riscatto sociale e nazionale che la lotta partigiana aveva per gran parte della popolazione dell’Istria, egli non le riconosceva il diritto fondamentale di avere voce in capitolo per quanto riguardava la propria sorte, aspettandosi la salvezza solo dalle grandi potenze anglosassoni: di qui l’appassionata conclusione che avrebbe improntato tutta la sua successiva attività politica e pastorale:
Inglesi e Americani commetterebbero la più grande ingiustizia e negherebbero gli scopi dell’ultima guerra se dividessero con la pace Trieste e l’Istria dall’Italia. Si possono rivedere gli attuali confini, ma la città di Trieste e la parte italiana dell’Istria, che comprende tutti i centri maggiori, italiani per storia, per lingua, per cultura, per pensiero, per volontà di cittadini, non possono essere staccati dalla Madre Patria. Potrà ugualmente Trieste diventare il grande sbocco del Centro Europa e potranno essere tutelati gli interessi di tutte le nazioni, senza che sia commesso il delitto del distacco che sarebbe contro natura [...]221.
Anche le autorità fasciste e collaborazioniste presenti in Istria segnalavano ben presto alle autorità della Repubblica di Salò quanto era avvenuto. Alla fine del dicembre 1943 il prefetto Ludovico Artusi denunciava da Pola un continuo esodo delle famiglie italiane che «terrorizzate dai recenti massacri, hanno motivo di temere atti di nuove rappresaglie da parte dei ribelli»222. Libero Sauro scriveva invece direttamente a Mussolini, dopo aver ricordato «il tragico e per l’Istria sanguinoso caos provocato dal crollo del settembre», con ottimismo disperato:
I vivi vanno, credendo nel destino, fiduciosi nell’era nuova, quando le madri non piangeranno più i figli perduti, quando i combattenti deporranno la spada, quando il lavoro e la pace trionferanno sui popoli, consolando le memorie di dolore e di sacrificio, perché il sangue avrà rifatto la vita ed il martirio avrà redento gli animi alla religione della Patria223.
La propaganda nazifascista
Queste informative dovevano comunque rimanere circoscritte agli ambienti cui erano destinate. Ben diversa eco ebbe la denuncia dei massacri di settembre orchestrata dai fascisti con la collaborazione dei servizi di propaganda delle SS224. Allo scopo di dimostrare la ferocia dei sanguinari bolscevichi slavi e di favorire il costituirsi di un «fronte comune» di tutti gli italiani contro la Resistenza, il materiale fotografico raccolto durante il recupero delle foibe fu sfruttato per stampare dei manifesti con immagini atroci, con cui furono tappezzati i muri di Trieste e di altre città225. Gli slogan che le illustravano erano assai eloquenti: «La sorte atroce di queste bare e di queste salme vi accompagni e vi inciti, istriani, alla giusta vendetta dei vostri fratelli vittime della spietata ferocia dei comunisti slavi», «Parata della morte, Anche donne si trovano fra le vittime delle bestiali orde di Stalin», «Volete attendere che il vostro destino sia come questo?», «Volete consegnare il litorale agli aguzzini rossi?»
Il primo opuscolo, intitolato Ecco il conto!, fu pubblicato (anche in tedesco e in croato) a tamburo battente quand’erano state recuperate le prime 100 salme, cioè nel novembre 1943. Esso porta sulla copertina una serie di ritagli di titoli di giornale della stampa fascista, dal tipo: «Come a Katyn: i sistemi bolscevichi in Istria. Tragica scoperta in una foiba» e riferisce a suo modo dei 23 giorni del «potere delle orde comuniste nell’interno dell’Istria», elencando cinque località nei dintorni di Albona e Parenzo. É interessante che fra i comandanti delle «orde bestiali», per quanto riguarda Albona, siano citati due avvocati di nazionalità italiana, Dante Vorano e Aldo Negri, e un veterinario, dottor Antonio Sfeci, che in quanto esponenti del movimento di Resistenza, s’erano invece adoperati a mitigare la sorte di parecchi arrestati. Tra le vittime l’opuscolo elenca una serie di nomi, anche di origine indubbiamente slava (Stossi, Ghersi, Cernecca, Opassi), concludendo: «Il comunismo non sa che farsene della pace e della tranquillità e felicità del popolo. Esso specula su quegli elementi che attraverso rinunce e disperazioni portano quasi inconsciamente al bolscevismo internazionale e alla delinquenza più feroce»226. L’ultima pagina riassume un manifesto del Comando germanico, apparso il 6 novembre sui giornali227, con un appello agli italiani affinché non credano alle lusinghe dei «bolscevichi»: «Le Forze Armate tedesche sono qui, il soldato tedesco provvede all’ordine, alla sicurezza e alla quiete. Le Forze Armate tedesche vi garantiscono i diritti di vita, esse formeranno la nuova Europa e difenderanno con ciò la vostra Patria dalle orde asiatiche di Stalin». Segue un pugno che frantuma una stella a cinque punte con un’esclamazione: «Basta! »228.
Già all’inizio dell’anno successivo fu pubblicato un altro opuscolo, intitolato Le macabre foibe istriane, che contiene un’identica documentazione; è corredato inoltre da una prefazione, aperta da un’allocuzione di Alessandro Pavolini, segretario del Partito fascista, datata 19 gennaio 1944. Vi si esaltano le vittime delle «bande slavo-comuniste», ma vi si denunciano soprattutto gli ufficiali badogliani, «due volte traditori», che avevano lasciato le armi in balia della plebaglia nemica, abbandonando alle sevizie e all’assassinio «centinaia di famiglie della nostra razza». Il pensiero di Pavolini, sopravvissuto fino ai nostri giorni, è però un altro: bisogna che del martiriologio istriano e dalmata gli italiani abbiano piena conoscenza.
Il resto dell’introduzione ha l’aria di esser stato scritto a quattro mani, da un tedesco e da un italiano. Una riflessione razzista dal tono «colto», con citazioni di Merxzowski [sic] e Dostoevskij [sic], denuncia il comunismo russo, visto come retaggio di un popolo predestinato dalla storia alla violenza. Dopo la rivoluzione d’ottobre, «l’ortodossia orientale, che tutto teneva riunito, fu strappata dal Paese come da una gigantesca botte i cerchioni di ferro. Tra le doghe cadenti, la pazzia ebraica, la sete di sangue mongolica, l’isterismo dell’anima russa, si dissolvevano e si spandevano come alcol ardente». A questa filippica segue la denuncia dei partigiani jugoslavi, degni emuli dei russi, desiderosi di attuare la liquidazione
[...] dei possidenti, dei capitalisti, degli industriali, dei contadini benestanti, dei dirigenti e funzionari dei partiti borghesi, delle Guardie Bianca e Azzurra, dei componenti delle S.S. e della Ghestapò, degli intellettuali, degli studenti, dei «politici da caffè», dei sacerdoti nemici del proletariato e, in genere, di tutte le persone contrarie alla «lotta bolscevica di liberazione».
Il discorso a questo punto cambia, si fa più fiorito, alla maniera dannunziana, e passa a parlare delle foibe. Spiega come esse siano tipiche della struttura geologica dell’Istria, ricorda la secolare difesa nazionale dell’Istria «italianissima» contro gli slavi, ma soprattutto sottolinea che in Dalmazia e in Istria non sono stati «liquidati» dei borghesi e dei capitalisti - non ve n’era traccia - ma «semplicemente gli italiani, “rei” di non avere mai prestato fede al verbo moscovita e di serbare viva nel cuore la fiamma dell’amor di Patria». Sono stati infoibati, insomma, «italiani solo perché erano italiani». A questa asserzione nuova di zecca se ne aggiunse un’altra di stampo consueto: quella della contrapposizione tra «barbarie slava» e «civiltà latina». «Noi ringraziamo i fati della civiltà, non solo per la gloria più alta e più pura dataci dal vostro martirio ineffabile, ma anche perché avremo compiuto un grande gesto di civiltà percuotendo un’oscena accozzaglia di nemici, che mentisce nome e sembianze di popolo e ha nome e sostanza di barbarie fraudolenta ed atroce»229. Vi si trovano insomma tre concetti propagandistici che avrebbero accompagnato la polemica sulle foibe fino ai giorni nostri: l’assunzione dei morti a martiri, cioè a testimoni di identità nazionale e amor patrio, l’affermazione che erano morti «solo perché Italiani», e la spiegazione che erano stati oggetto della cieca sete di vendetta dei «barbari». «Non uomini, ma cani, i comunisti slavi»230.
Quest’operazione propagandistica231 sorvolava ovviamente sul fatto che tra le vittime ci fossero anche numerose persone di nazionalità o origine croata. Del resto, in un’Istria dalla coscienza nazionale ancora assai labile, era difficile stabilire chi fosse chi. Come infatti individuare dietro ai Bosicco, Giovannini, Gherbetti, Mizzan, Meriggioli, Miglia, Tornasi, Braico, Ghersi, Lauretti, Giadressi, Nacini, Oliani e via italianizzando, come scrive lo Scotti, gli ex Božikovič, Ivančič, Gerbec, Mičan, Jugovac, Miljavac, Tomisič, Brakovič, Gržič, Lovrenčič, Jedreičič, Načinovič, Uljarnč?232. Ma questo importava assai poco ai servizi d’informazione e propaganda nazisti, coi quali collaboravano nella lotta antipartigiana e anticomunista gli agenti di Salò della x mas. Erano questi dei reparti speciali d’assalto della marina al comando del principe romano Junio Valerio Borghese, che si mise al servizio dei tedeschi pur conservando contatti con il ministro della regia marina ammiraglio Raffaele de Courten, al fine di organizzare, se necessario anche con le forze partigiane «bianche» del Friuli, una difesa comune contro il nemico etnico: gli slavi di Tito233. Diceva il programma stilato il 12 ottobre 1944 dallo stesso Borghese: «Pur salvando il principio delle lealtà verso il nostro alleato, avremmo dovuto svincolare la nostra azione da quella tedesca ogni qualvolta gli interessi italiani (gli unici per i quali combattevamo) fossero stati in contrasto con quelli germanici»234.
In questo ambiente, che disponeva anche di un proprio servizio segreto e di un ufficio stampa e propaganda con sede a Milano, erano particolarmente attivi Libero e Italo Sauro, figli dell’eroe irredentista Nazario, che si macchiarono di reati e atrocità gravissimi alle dipendenze dei nazisti235. Essi guardavano con ostilità le «rievocazioni della belle epoque asburgica» impostate da Rainer e dai suoi collaboratori, accusati addirittura di svolgere una politica «panslavista»236. La figura più singolare fu però quella di una donna, Maria Pasquinelli, la cui vicenda merita un breve cenno biografico. Nata a Firenze, nel 1913 si diplomò come maestra elementare per laurearsi successivamente in pedagogia. Accesa nazionalista aderì nel 1933 al Partito fascista nella convinzione che «attraverso il fascismo si potesse raggiungere la grandezza dell’Italia». Per approfondire la sua fede s’iscrisse nel 1939 alla Scuola di mistica fascista, attratta dal suo insegnamento: «L’unico diritto del fascista è quello di compiere per primo il sacrificio e il dovere»237. Ligia a questa massima, allo scoppio della guerra partì per il fronte libico come crocerossina, rendendosi però ben presto conto che il suo posto non era nelle retrovie, ma in trincea. Delusa dai superiori e dal basso morale delle truppe «non illuminate da alcun ideale», decise di dare il buon esempio: si rasò la testa, si vestì da soldato, si procurò documenti falsi e dall’ospedale vicino a Bengasi, dove prestava servizio, mosse all’attacco degli angloamericani. Scoperta, fu rimpatriata, ma sicuramente non domata. Nel gennaio del 1942 chiese e ottenne di essere inviata come insegnante in Dalmazia, cioè nella regione appena annessa al regno, dove bisognava ristabilire l’italianità. (Diceva un inno allora in voga: «Giuriam sull’onore dalmata che fra noi non esisterà più un croato!»)238. A Spalato la sorprese l’8 settembre con la sua resa dei conti, di cui furono vittime i maggiori esponenti del regime, caduti in mano partigiana: 106 persone, tra fascisti italiani e ustascia croati, furono fucilate e sepolte nel locale cimitero in tre fosse comuni. Appena possibile, quando cioè la città fu occupata dai tedeschi, la Pasquinelli decise di rintracciare e riesumare i corpi dei caduti, fra cui vi erano parecchi suoi colleghi o superiori, assistendo impavida alla macabra operazione; in seguito raggiunse clandestinamente Trieste, dove apprese dai giornali dei fatti istriani del settembre precedente.
Capii che lo stesso tragico destino della Dalmazia gravava sull’Istria. Non ho mai creduto che si trattasse di fenomeno comunista contro il Fascismo in Istria; per me si trattava senz’altro di panslavismo, di movimento di imperialismo slavo che si compiva con metodo etnofogo [sic], cioè distruttore della razza contrastante alle sue mire imperialistiche239.
Mossa da questa convinzione la Pasquinelli cercò di coordinare le forze dell’Italia del Sud con quelle del Nord per una difesa comune, e si recò in Istria per cercarvi le prove necessarie a dimostrare che gli italiani non erano stati infoibati in quanto fascisti, ma proprio in quanto italiani. La sua spedizione, resa possibile dal patrocinio del principe Borghese, le permise di raccogliere una vasta documentazione che riuscì peraltro a consegnare allo Stato maggiore dell’Esercito italiano regolare solo a guerra finita240. Dalla testimonianza resa dalla Pasquinelli nel 1947, si direbbe che essa non partecipasse alla diffusione delle notizie sulle foibe istriane apparse sulla stampa della Repubblica sociale all’inizio del 1944. Questo compito toccò a Luigi Bilucaglia, segretario regionale dei Fasci repubblicani dell’Istria, che forni alla stampa di Salò informazioni sui 349 infoibati dagli «slavo comunisti»241. (Questa era la cifra allora citata). I resoconti pubblicati dall’agenzia «Corrispondenze repubblicane», dal foglio di Roberto Farinacci «Il regime fascista» e trasmessi per radio alla fine di gennaio 1944, rispecchiano tuttavia fedelmente la sua interpretazione dei fatti: gli slavi, comunisti o di altra fede, sanguinari nemici di tutto ciò che fosse italiano, avevano assassinato 349 italiani in Istria e altre centinaia in Dalmazia.
Questo massacro dell’inerme popolazione è effettuato su vasta scala in tutte le italianissime città e borgate dell’Istria ed è di tipico stile slavo, in esso non si sono fatte distinzioni di carattere, di sesso, di età, di idee. Nella massa degli assassinati e gettati alla rinfusa nelle foibe, è il fatto di essere Italiani che ha determinato l’esplosione della ferocia partigiana.
Per sfruttare appieno la carica emotiva di questo messaggio, furono organizzate il 31 gennaio 1944 in tutte le città della rsi solenni cerimonie e messe di suffragio dei «martiri». «I loro nomi», scriveva «Il regime fascista», «si aggiungeranno alla lunga lista dei Caduti che consacrano con il sangue l’italianità storicamente indistruttibile di quelle terre. La Patria oggi li onora. In un domani più o meno remoto li vendicherà»242.
Accanto a questa notizia sullo stesso giornale un’altra enuncia le conseguenti «draconiane disposizioni per reprimere il terrorismo sovversivo» prese dal ministro dell’Interno con una circolare inviata a tutte le questure. In essa si stabiliva che «qualunque ciclista o pedone sorpreso a circolare nel territorio della provincia in possesso di armi da fuoco senza regolare autorizzazione delle autorità competenti sarà immediatamente passato per le armi sul posto», ciò per reagire all’attività di «agenti comprati dalle sterline di Londra e dai rubli di Mosca» che «da qualche tempo avevano introdotto in Italia l’assassinio di tipo prevalentemente slavo e balcanico: l’assassinio perpetrato, giovandosi della bicicletta per arrivare inosservato a tergo della vittima e quindi scomparire rapidamente»243.
Secondo un appunto anonimo, che La Perna, uno degli autori più accreditati della pubblicistica recente sulle «foibe», attribuisce a Giuseppe Zacchi, esponente di primo piano del Fascio repubblicano di Pola e direttore del «Corriere Istriano», dietro le foibe istriane ci sarebbe stata una precisa volontà politica. A suo dire, la strage sarebbe stata decisa in un’assemblea di esponenti comunisti riunitisi «una sera di settembre di Castel Lupogliano [Semići] all’insaputa dei compagni italiani». Lo stesso La Perna definisce la fonte «non del tutto obiettiva ed attendibile»; ma su di essa è stata costruita un’accusa, attuale ancor oggi, di liquidazione premeditata di tutti coloro che in qualche modo rappresentassero l’apparato statale italiano e il «regime» borghese, se non addirittura di genocidio244.
Essa fu formulata a chiare lettere per la prima volta già il 26 ottobre 1943, dopo la fine della prima indagine esplorativa durata una settimana nella foiba di Vines. Le autorità fasciste reinstallate a Parenzo dai tedeschi pubblicarono infatti un proclama in cui le vittime furono definite «i nostri combattenti caduti», rei soltanto di essere italiani. In sintonia con la cultura del nazionalismo ottocentesco, che usava termini mutuati dalla religione per esprimere i propri valori, il loro sacrificio, a sentire il proclama, «consacrò definitivamente l’italianità di queste terre, invano contese dal secolare nemico»245. Le foibe di settembre vennero cosi usate per approfondire il fossato esistente fra italiani e slavi nell’Istria, facendo apparire questi ultimi, oltre che spregevoli, sommamente pericolosi. Un opuscolo anonimo pubblicato in Italia alla fine del 1943, in cui vennero descritti i riti religiosi organizzati in suffragio dei «martiri» istriani, lo sottolinea, ribadendo tanto la tesi politica della pianificazione del massacro da parte del pcc, quanto quella razzista della tipica brutalità «slava», che avrebbe coinvolto tutti senza distinzione di persona, ideologia, età e sesso246. Analoga tesi sugli eventi settembrini fu espressa dopo la guerra in un opuscolo anonimo, apparso a cura del cln dell’Istria e intitolato Foibe, la tragedia dell’Istria. Lo scritto, privo di data ma collocabile fra il 1945 e il 1946, accusa gli esponenti della Resistenza di aver voluto colpire l’italianità della penisola, eliminando i suoi uomini migliori, anche antifascisti:
In venti giorni essi inflissero agli italiani sofferenze e lutti indescrivibili più gravi di quanti ne abbiano sopportato gli slavi dell’Istria, per colpa del fascismo in venti anni [...] Fu un piano preordinato, quindi, non insurrezionale di classe sfruttata, non furore di popolo, non sete di giustizia o di vendetta a decretare la morte degli Istriani in quell’infausto settembre 1943247.
Le prime riflessioni
La paura che cominciò a serpeggiare fra la popolazione italiana dell’Istria nei mesi conclusivi della guerra fu rilevata anche da esponenti dello zavnoh, uno dei quali, Oleg Mandić, nativo di Abbazia, scrisse nel 1944: «Una certa dose di timore gli italiani l’avevano al ricordo del giudizio sommario a cui i partigiani avevano sottoposto i fascisti e di cui queste popolazioni sono state testimoni involontari»248. Questo diffuso stato d’animo fu tuttavia sottovalutato: il 29 agosto 1944 la sezione italiana del Comitato regionale del pcc indirizzò ai propri membri una lettera in cui dava indicazioni su come celebrare l’anniversario della rivolta scoppiata dopo l’8 settembre. In polemica con la propaganda di destra, mirante a dimostrare che si era trattato di un tentativo pianificato per eliminare gli italiani in Istria, esso scriveva:
Noi sappiamo benissimo che nelle foibe finirono non solo gli sfruttatori e gli assassini fascisti italiani ma anche i traditori del popolo croato, i fascisti ustascia e i degenerati cetnici. Le foibe non sono altro che manifestazione dell’ira popolare che, soppressa per decenni di soggezione e sfruttamento, è esplosa con la violenza tipica di rivolte popolari249.
Persino il vescovo Santin prese le distanze dal manicheismo con cui i massacri di settembre venivano giudicati dalla propaganda nazifascista. Il 4 marzo 1944 il settimanale della diocesi di Trieste «Vita Nuova» riportò un articolo del suo direttore Giorgio Beari, intitolato La «Foiba». Richiamandosi alla lettera pastorale per la quaresima, scritta dal vescovo, questi sottolineava che la «foiba» non era certamente l’ultima trovata della ferocia contemporanea.
I campi di concentramento, dove i corpi e gli spiriti languiscono in attesa della morte liberatrice; i plotoni di esecuzione, con i fucili spianati contro petti onorati e schiene che mai conobbero viltà e il tradimento, le deportazioni in massa [...] tutte, insomma, le più sfacciate e arbitrarie violenze contro uomini e cose sono altrettante tristissime realtà di cui oggi è intessuta la vita di popoli interi250.
Il richiamo implicito ai nazisti era più che evidente. Se il vescovo o il suo portavoce avessero inserito nel discorso anche qualche cenno alle responsabilità del fascismo, avrebbero impartito una lezione morale di grande dignità; cosi invece il loro ragionamento rimane monco e quasi preannuncia la tesi giustificatoria, popolare a Trieste nei decenni successivi e tuttora, secondo cui le disgrazie capitate alla città dovevano ascriversi alle opposte barbarie dei tedeschi e degli slavi, senza alcuna colpa o responsabilità italiana.
Il fatto che la propaganda della rsi cercasse di bollare la Resistenza come movimento criminale slavo-balcanico, e continuasse a pubblicare i nomi degli «infoibati», impensierì anche il cln, che tentò di correre ai ripari facendo pubblicare ai primi di maggio 1944 sull’«Italia Libera», organo del Partito d’azione, un articolo in cui si cercava d’inquadrare «le foibe istriane» nel loro contesto sociale e politico. L’autore, Bruno Pincherle, medico e politico triestino, vi parla della sconfitta della Jugoslavia, della successiva nascita del movimento di Resistenza e dell’immediato sospetto di favoreggiamento dei partigiani, nutrito dal governo fascista nei confronti delle popolazioni slovene e croata, e della violentissima repressione.
Bastò talvolta che un manifestino venisse affisso al muro di un villaggio o che del materiale di medicazione venisse rinvenuto in una casa durante una delle tante perquisizioni, perché la sorte dell’intero paese fosse segnata. Previo accordo tra la Pretura, il Fascio e la Questura, partivano da Trieste gli «autocarri gloriosi» carichi di squadristi, comandati da tre noti criminali, i due fratelli Forti e il Delle Grazie, mentre carabinieri, agenti e, purtroppo anche reparti del nostro esercito, si accodavano per proteggere la spedizione. Giunti sul posto, i primi abitanti acciuffati erano accoppati a fucilate o impiccati sulla piazza «per dare l’esempio», e mentre gli altri fuggivano per la campagna, tutte le case venivano incendiate. Distrutto così il paese, cominciava la caccia ai fuggiaschi, e gli autocarri tornavano a sera a Trieste carichi di prigionieri [...] C’è da stupirsi allora se, dopo l’8 settembre, i partigiani si sono fatta giustizia da sé sui fascisti massacratori?251