Il cln, non si fermò qui: desideroso di calmare le apprensioni dei suoi membri triestini, organizzò a Milano nel luglio successivo un incontro in cui chiese spiegazioni sull’accaduto al professor Urban, alias Anton Vratuša, giovane rappresentante del Fronte di liberazione sloveno inviato in Lombardia per coordinare l’attività dei due movimenti di Resistenza. Questi, preso alla sprovvista dato che era invitato a render conto di episodi che non erano sotto il controllo dell’of, ma dello zavnoh croato, e di cui era personalmente all’oscuro, rispose definendo gli avvenimenti come «fenomeni marginali», dovuti perlopiù a singoli elementi locali irresponsabili e sottolineando che quanto accaduto in Istria non aveva nulla a che fare coi fini del popolo sloveno252. Come risulta dalla corrispondenza di Leo Valiani, le sue spiegazioni non sortirono molto successo presso i triestini, che paventavano, nel caso di un’occupazione jugoslava della Venezia Giulia, massacri dell’ordine di decine di migliaia di vittime253.

Un ordine inviato dal pci di Trieste nel dicembre 1943 a un reparto garibaldino dell’Istria, il battaglione «Zol», conferma del resto come la lotta di liberazione non avesse contenuti etnici, ma soprattutto ideologici. Il pci, guidato allora da Luigi Frausin, di indubbi sentimenti italiani, raccomandava un’azione politica piuttosto che repressiva «quando non si trova resistenza», ma aggiungeva:

Non rinunciando con ciò alla tattica delle «foibe» quando si scovano fuori fascisti responsabili di azioni contro la popolazione, ex dirigenti e responsabili del regime fascista dimostratisi particolarmente reazionari, dirigenti e responsabili dell’attuale fascismo repubblichino, del governo del venduto Mussolini, militi della Milizia repubblicana e della Guardia nazionale repubblicana, collaboratori aperti, decisi e attivi dei tedeschi, spie, eccetera, eccetera254.

Ordine ribadito da clnai nell’aprile 1943 che raccomandava di fucilare i fascisti su semplice identificazione255.

A chi la Venezia Giulia?

Delle foibe intanto cominciò a interessarsi anche il governo italiano del Sud, che dopo la liberazione di Roma da parte delle truppe angloamericane ritornò da Brindisi nella capitale. A Roma venne insediata una Commissione alleata di controllo di cui faceva parte anche una delegazione jugoslava, considerato lo status di paese sconfitto dell’Italia. In questa delicata situazione, mitigata solo dalla «cobelligeranza» riconosciutale dagli occidentali, il governo Bonomi cominciava a preoccuparsi seriamente delle regioni sulla frontiera «orientale»256. Era infatti sempre più chiaro che la Resistenza jugoslava intendeva annetterle.

Nei mesi conclusivi della guerra, la Venezia Giulia venne a trovarsi in una situazione quanto mai singolare. Nella parte nord-occidentale, denominata Primorska (Litorale), si era costituito un Consiglio di liberazione nazionale, che riuscì ad attrarre nel movimento partigiano la maggioranza della popolazione slovena, ma anche il proletariato italiano, esercitando nei territori sotto il proprio controllo funzioni sia militari che amministrative; in Istria, a sud della Dragogna, fu costituito alla fine di dicembre 1943 un Comitato esecutivo croato che nella primavera del 1944 vi sviluppò un’intensa attività, aprendo fra l’altro una trentina di scuole frequentate da un migliaio di allievi. Lo stesso Santin era costretto a informare il papa, parlando della situazione istriana in una lunga lettera del 24 aprile 1944 che ormai: «I partigiani sono molto numerosi, armati con armi leggere; fanno una propaganda intensa. Hanno una buona organizzazione»257.

Per il governo di Roma e ovviamente per la Repubblica di Salò, la Venezia Giulia faceva ancor parte dell’Italia, mentre gli alleati occidentali la consideravano un territorio di cui avrebbe dovuto discutere la futura Conferenza di pace; per i tedeschi poi, che tenevano sotto controllo le principali città e le vie di comunicazione, l’«Operationszone Adriatisches Küstenland» rimaneva in un limbo istituzionale, dato che non s’erano pronunciati sulla sua sorte in caso di vittoria, nella quale continuavano a sperare. Che l’avrebbero annessa al Terzo Reich, al pari dell’«Alpenvorland», appare comunque ben più che una supposizione258.

In questa situazione così complessa, nacque nel corso del 1944 un’aspra diatriba sul futuro della regione, basata su due tesi antitetiche: gli sloveni, i croati e gli jugoslavi in genere chiedevano il ripristino della frontiera sull’Isonzo, supportando la loro pretesa soprattutto con argomenti etnici (a tal fine vennero organizzate nell’estate-autunno 1944 nelle aree controllate dall’of delle elezioni che questa considerò un plebiscito per l’annessione del Litorale alla Jugoslavia), ma anche con criteri economici, sostenendo che le città sarebbero dovuto appartenere ai territori in cui erano inserite; gli italiani riprendevano invece in maggioranza il discorso dell’unità della patria, raggiunta «con il più puro sacrificio di sangue» durante la prima guerra mondiale, e della frontiera di Rapallo «liberamente negoziata e firmata» con la vecchia Jugoslavia259. Le loro argomentazioni erano confortate inoltre da ragionamenti contingenti e più attuali: la preoccupazione per la sorte dei connazionali che sarebbero rimasti soggetti al dominio jugoslavo, vista l’esperienza istriana del settembre del 1943, e soprattutto la convinzione che la futura frontiera italo-jugoslava sarebbe diventata inevitabilmente uno spartiacque ideologico-politico fra due mondi contrapposti, e come tale doveva interessare anche gli Alleati occidentali260. In questo senso il Servizio di informazione militare (sim) aveva cominciato a raccogliere testimonianza tra i militari e i civili che rientravano o fuggivano dai territori contesi già nel settembre 1944, mentre l’allora ministro degli Esteri Alcide de Gasperi fra il novembre di quell’anno e il marzo successivo intervenne parecchie volte presso l’ammiraglio Ellery Stone, capo della Commissione alleata per il controllo dell’Italia, e presso i governi di Washington, Londra, Parigi e Mosca261.

L’auspicio che gli angloamericani occupassero l’intera Venezia Giulia ottenne una prima, promettente risposta l’11 settembre 1944, quando l’ammiraglio Stone comunicò al sottosegretario degli Esteri Visconti Venosta che le truppe angloamericane avrebbero esteso il loro controllo sulle province di Bolzano, Trento, Fiume, Pola, Trieste e Gorizia, «considerata la necessità di preservare le basi e le linee di comunicazione nell’Europa centrale»262. Per quanto l’ammiraglio Stone si affrettasse ad aggiungere che «la disposizione definitiva di questi territori e la definizione delle frontiere sarebbe stata naturalmente questione del riordinamento post-bellico», il contenuto della sua missiva non poteva certo piacere ai capi del Fronte di liberazione (Osvobodilna Fronta) e del movimento di resistenza jugoslavo. Tito stesso infatti si premurò di replicare già il giorno successivo, il 12 settembre, nel celebre discorso alla 1ª brigata d’assalto dalmata in cui rivendicava per la nuova Jugoslavia l’Istria, il Litorale sloveno e la Carinzia: «Quello che è altrui non vogliamo, quello che è nostro non lo cediamo»263.

L’Istria nel 1944

Mentre la Venezia Giulia s’avviava a diventare il pomo della discordia fra l’Italia e la Jugoslavia, e in prospettiva anche fra i due grandi blocchi politico-ideologici già in formazione, sul terreno continuava a divampare lo scontro tra tedeschi, forze collaborazioniste e partigiani. Per quanto riguarda l’Istria in particolare, dopo la riconquista dell’ottobre 1943 essa venne lasciata dai tedeschi al controllo delle forze collaborazioniste italiane, degli ustascia croati, di cetnici serbi e perfino di reparti russi, cechi, polacchi e turcmeni264. Sotto il controllo delle SS di Globočnik tali forze s’impegnarono nella lotta antipartigiana secondo le direttive del feldmaresciallo Erwin Rommel, che aveva ordinato di «distruggere l’insurrezione slavo-comunista senza pietà e con ogni mezzo, fucilare tutti coloro che avrebbero opposto resistenza, tanto slavi che italiani»265. I fascisti, tornati al potere nelle cittadine della costa e dell’interno, si dimostrarono, per citare Galliano Fogar, i peggiori strumenti del collaborazionismo vendicandosi con ferocia266. Il vescovo Santin, che nonostante la censura poteva permettersi qualche denuncia scriveva sul foglio diocesano «Vita Nuova» il 18 aprile 1944:

Ciò che succede in Istria è terribile. Il povero popolo paga una tassa terribile di sangue, le sue case sono distrutte. Terrore e orrore regnano su tutto. Sono stati uccisi molti innocenti. E ciò dopo la prima invasione dei partigiani e delle razzie che vi son succedute, e che hanno già provocato tremende distruzioni e un numero così alto di morti. Pieni di pena testimoniamo a tutti queste distruzioni267.

Nell’aprile del 1944 erano attivi nella penisola istriana 2.340 combattenti partigiani, fra cui il battaglione «Pino Budicin», composto da italiani. Alla fine del mese i tedeschi cercarono di stanare queste forze dal massiccio centrale del Monte Maggiore, dov’erano stanziate, con reparti della 278ª e 188ª divisione nonché del 10º battaglione poliziesco SS. Dato però che le unità partigiane s’erano messe al sicuro, i nazisti si vendicarono della loro attività di sabotaggio alla ferrovia che collegava Fiume con Lubiana dando alle fiamme il villaggio di Lipa, i cui 262 abitanti furono massacrati o gettati ancor vivi fra le fiamme; distrussero inoltre più di 9 altri villaggi e frazioni, fra il plauso della stampa istriana e triestina che ne esaltava le gesta. Nella zona di Pinguente in un solo giorno, il 10 agosto 1944, venne dato alle fiamme un migliaio di edifici268. Con ciò la Resistenza non fu domata: essa riprese vigore estendendo la sua attività alle vie di comunicazione Fiume-Trieste. «Era un lavoro massacrante», disse a un certo punto Globočnik, considerato l’aumento delle azioni partigiane e la scarsa efficacia delle misure di repressione. Fra il febbraio e l’agosto del 1944 il numero di incidenti giornalieri sali da 60-70 a 220-250269.

Durante l’estate (10-11 luglio 1944) fu costituita un’«Unione italiana per l’Istria e Fiume» che entrò nel Fronte di liberazione nazionale jugoslavo. Nell’agosto successivo i tedeschi incrementarono in maniera consistente le proprie forze, che con l’aiuto di 2.000 cetnici e altre unità minori avevano il compito di difendere la costa nel caso di un paventato sbarco angloamericano270. La penisola rimase sotto il loro controllo durante la seconda metà dell’anno e fino alla primavera 1945, quando le truppe furono ulteriormente rinforzate per bloccare l’avanzata della 4ª armata jugoslava. Il 20 aprile la 3ª brigata della 43ª divisione della 4ª armata s’infiltrò nel territorio attraverso le forze nemiche, mentre cinque giorni più tardi la sua 9ª divisione sbarcò sulla costa orientale, muovendo verso l’interno e lungo la fascia litoranea verso nord. Intanto gran parte del 97º corpo d’armata tedesco combatteva sul fronte fiumano. Il 27 aprile la 4ª armata ebbe dallo Stato maggiore l’ordine di puntare su Trieste. Il 29 aprile sbarcò presso Abbazia l’Unità del Quarnero della fanteria di marina e un suo gruppo sorprese presso Buie una colonna di 700 fascisti prendendoli prigionieri. Il nucleo principale puntò invece su Pola, la cui guarnigione si arrese il 6 maggio; nello stesso giorno caddero in mano partigiana Pisino e Gimino. Con ciò le operazioni nella penisola erano concluse.

Nel corso della lotta di liberazione l’Istria contò, per mano dei tedeschi o dei loro alleati, 4.285 morti, mentre nei campi di concentramento furono inviate 21.509 persone; 5.595 case furono incendiate o distrutte271. La desolazione causata dai nazisti e più tardi dalle squadre fasciste suggerì già nel dicembre del 1943 a un comandante partigiano, Ljubo Drndić, una considerazione ottimistica: richiamandosi in una relazione alle foibe, egli sostenne che la propaganda nazista era riuscita a spaventare la popolazione italiana, affermando che i partigiani avevano ucciso italiani e non criminali fascisti.

Ma la differenza di comportamento fra i partigiani e i tedeschi nei confronti degli italiani ha comunque avuto qualche influsso sugli stessi italiani, per cui la popolazione italiana divenne più influenzabile. Se ci impegnassimo in un lavoro intensivo e pianificato, potremmo avere successo. Per realizzare ciò sono necessari buoni operatori politici, che conoscano la lingua italiana. Bisogna cominciare quanto prima a risolvere la questione delle città e con ciò la questione della minoranza italiana, una questione assai importante in Istria272.

Qualche successo in questo senso fu raggiunto solo nella primavera 1945, quando i tedeschi iniziarono la chiamata alle armi e al servizio obbligatorio del lavoro della gioventù istriana, sino a quel momento abbastanza passiva. Tra febbraio e marzo, scrisse in un rapporto il capitano Carlo Chelleri, si riuscì a convincere quasi tutti i giovani del Litorale a non presentarsi alla leva, infondendo loro la sicurezza che il movimento partigiano-patriottico li avrebbe aiutati e difesi al momento opportuno. Anche la borghesia delle cittadine costiere offrì a quel tempo «abbondanti aiuti finanziari, alimentari e di vestizione necessari dapprima a quelle poche decine di uomini che iniziarono il movimento, poi a circa 200 uomini che formarono il battaglione italo-sloveno»273.

Il conflitto fra le etnie continuava peraltro a infuriare. Lo scrittore istriano Milan Rakovac, nel riflettere sulla sua patria in un libro recente, ricorda nel melodioso dialetto čakavo il dottor Bartoli che nell’Ottocento invitava i «liberali» di Lussino a «osar tutto» per combattere gli «s’ciavi». Commenta Rakovac:

Osar tutto? Eccome! Come siamo stati pronti a tutto, spensieratamente. Ma proprio a tutto; gli uni contro gli altri! Noi contro noi stessi! Questo motto avrebbe sommerso l’Istria e le sue isole di sangue: mi raccontava una vecchia cosa cantavano i disperati «dell’ultima ora»: «le donne non ci vogliono più bene, perché, perché portiam camicia nera; ci dicono che siamo da galera» [...] arrivarono nel villaggio, chiusero la gente nelle case; «ci ha spinti in camera; ha buttato tra noi una bomba a mano e ha chiuso la porta, il tetto è saltato in aria, sopra di me il cielo, sotto di me la terra piena di sangue, camminavo sul sangue della mia famiglia274.

Trieste e gli sloveni

Le ambizioni slovene di uno sbocco al mare sono di antica data, in quanto formulate già nel 1848, quando fu stilato per la prima volta un programma politico per la creazione di una «Slovenia unita» nell’ambito della monarchia asburgica. Anche se il manifesto con tale richiesta era rivolto all’imperatore Ferdinando I, e non intendeva quindi minare la dinastia asburgica, conteneva un’idea fortemente sovversiva: sosteneva cioè la necessità di ristrutturare l’impero su basi etniche, cancellando le vecchie frontiere politico-economiche delle unità di cui era composto, spesso mistilingui, che non rispondevano all’ambizione delle nascenti borghesie di essere padrone in casa propria. L’idea - nata dalla particolare condizione degli sloveni che non potevano, come invece i croati e la maggioranza delle altre nazioni della monarchia, appellarsi alle glorie di uno Stato di più o meno antica memoria, ma erano costretti a fondare il proprio ragionamento sul diritto naturale - non ebbe sviluppi nel corso di quel biennio rivoluzionario, che finì bruscamente con le vittorie militari degli Asburgo nel Lombardo-Veneto e in Ungheria e con l’introduzione di un assolutismo accentratore e germanizzatore. Quando però, in seguito alla seconda guerra d’indipendenza italiana, Francesco Giuseppe fu costretto a concedere ai suoi popoli una costituzione e il ripristino delle libertà politiche, essa riprese vigore, sebbene più come meta ideale che come impegno immediato: altri erano gli obiettivi più pressanti: scuole slovene di ogni ordine e grado, introduzione della lingua slovena nella vita pubblica e nell’amministrazione, uguaglianza di diritti nelle aree dove gli sloveni coabitavano con i tedeschi o gli italiani. In queste ultime s’era creata una situazione particolare, sebbene non certo eccezionale nella Mitteleuropa di allora: resistenza cioè di centri urbani in cui la maggioranza dei cittadini parlava una lingua diversa da quella del contado. Man mano però che la borghesia slovena si rafforzava in queste città, essa diventava sempre più consapevole della forza che le derivava da un entroterra compattamente leale su cui contare, e con ciò sempre più intraprendente, entro i limiti peraltro di una sostanziale volontà di consensazione dell’assetto asburgico sia pure modernizzato: da duplice, qual era a partire dal 1866, l’impero sarebbe dovuto diventare triplice, con la creazione di uno Stato jugoslavo sull’Adriatico, che secondo gli sloveni avrebbe avuto tre capitali: Zagabria, Lubiana e Trieste.

In quest’ultima città tali aspirazioni portarono al formarsi graduale di due blocchi contrapposti: quello liberal-nazionale italiano, deciso a conservare il controllo sulla città e attratto dall’Italia laica e massonica, e quello sloveno, minoritario ma sempre più articolato a livello culturale, economico e politico. Di qui uno scontro che contrassegnò tutta la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento, e che solo apparentemente si risolse con lo sfacelo della monarchia asburgica nel novembre 1918. Nel riassumerlo, nel 1944, il medico, politico e umanista ebreo-triestino Bruno Pincherle scrisse:

Una stolta politica (e ne portano la loro parte di colpa gli irredentisti italiani ed i nazionalisti slavi) avvelenò negli ultimi decenni del secolo scorso i rapporti fino ad allora pacifici tra le due stirpi e una meschina lotta (nella quale accento ad elementi nazionali che agivano in superficie, lavoravano in profondità il vecchio rancore tra popolazione cittadina e rurale ed ancora oscuri contrasti classisti) degenerò in un odio reciproco che solo chi visse la vita giuliana del periodo che precedette l’altra guerra può valutare in pieno275.

Giudizio da condividere ma con una riserva: non è certo corretto misurare con lo stesso metro i detentori del potere politico e coloro che ne erano privi.

L’Italia vincitrice che occupò e poi si annesse Trieste non seppe e non volle garantire agli sloveni inseriti nelle sue frontiere un trattamento accettabile, né riuscì a domarli, a dispetto dei pronostici di Felice Venezian, capo degli irredentisti triestini, il quale all’inizio del secolo aveva sostenuto che gli slavi erano una creazione del governo austriaco, e di essi nessuno si sarebbe più accorto quando quel governo fosse scomparso276. Per riprendere il discorso di Pincherle:

Nel dopoguerra i vecchi irredentisti (specie quelli che avevano visto gli interessi della nazione subordinati sempre agli interessi locali) trasfusero il loro credo antislavo nel crescente fascismo: contro le popolazioni rurali il fascismo triestino sperimentò i metodi che poi il fascismo italiano doveva, con tanto successo, applicare in tante parti del nostro Paese e Giunta277 si vantò spesso che con gli incendi dei circoli culturali slavi, con la devastazione delle scuole alloglotte del Carso e dell’Istria, con la repressione armata contro villaggi riluttanti alla brutale nazionalizzazione, il fascismo fece la sua prova generale278.

La «bonifica dei Carsi», cosi impostata dalle autorità di Roma e dalle gerarchie locali durante il Ventennio, ebbe tuttavia scarso successo279. Mentre la stampa del regime parlava della Venezia Giulia come di una regione animata da una «compatta volontà italiana e fascista», questa politica suscitò nell’animo degli abitanti sloveni una viscerale ripulsa nei confronti del fascismo e dell’Italia. Scrive Enzo Collotti:

L’equiparazione italiani uguali fascisti non è stata una invenzione degli slavi ma una equazione inventata dal fascismo all’atto di operare una vera e propria «pulizia etnica» nella Venezia Giulia, rendendo la vita impossibile alle popolazioni locali, impedendo l’uso della lingua, sciogliendo le amministrazioni, chiudendone le scuole, perseguitandone il clero e le manifestazioni associative, boicottandone lo sviluppo economico, costringendole all’emigrazione. L’espressione di «genocidio culturale» che è stata adoperata per definire la condizione della minoranza slava alla luce della vastissima documentazione esistente risulta corretta280.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale il problema della Slovenia unita, federata alla Jugoslavia, fu riproposto in modo ancor più radicale: una Slovenia con un suo sbocco al mare, che gli sloveni non potevano immaginare se non a Trieste. Essi non negavano che la città fosse abitata in maggioranza da gente di lingua, cultura e sentimenti italiani, ma la vedevano come un’isola in mezzo al loro territorio, e pertanto parte di esso. Il fatto che questa tesi generale di appartenenza, elaborata già nell’Ottocento, fosse stata ribadita dai massimi teorici del marxismo sovietico, da Lenin e da Stalin, era ai loro occhi una conferma della sua validità. L’unica questione che sembrava opportuno discutere era come legare Trieste al suo entroterra: includerla sic et simpliciter nella futura Slovenia o garantirle lo status di città libera, centro d’incontro e di commercio fra etnie diverse? Va detto, comunque, che gli sloveni riconoscevano in ogni caso la dignità degli italiani presenti a Trieste, promettendo di rispettarne i diritti. Non sempre e non di tutti, però: secondo alcune proposte, i «regnicoli» avrebbero dovuto sloggiare281.

Sebbene dopo il 6 aprile 1941 il territorio sloveno venisse smembrato tra le potenze occupatrici - il Terzo Reich, l’Italia e l’Ungheria - intenzionate ad assorbirlo nella loro compagine statale, nessuna componente politica slovena pensò di rinunciare all’ideale di una Slovenia unita, per quanto anacronistico e assurdo potesse allora sembrare. Le forze di destra, animate dalla Chiesa e dai liberali d’orientamento jugoslavo, condussero perciò durante il conflitto un ambiguo gioco di collaborazione con italiani e tedeschi, pur mantenendo contatti con i britannici e gli americani attraverso il governo in esilio di re Pietro II Karadjordjevič, fuggiasco a Londra. Da questi, infatti, s’illudevano di ottenere, finita la guerra, frontiere «giuste». Il Fronte di liberazione (of), composto in maggioranza da cristiano-sociali e liberali di sinistra, ma animato dai comunisti - all’inizio tanto pochi da poter esser comodamente rinchiusi in un modesto manicomio, per dirla con un loro avversario - puntò invece sulla lotta armata per raggiungere la palingenesi nazionale e sociale che era nei suoi piani. Fin dall’inizio dell’insurrezione i leader del Partito comunista sloveno (pcs) affrontarono il problema delle future frontiere della Slovenia unita con una decisione d’indubbia audacia: contravvenendo infatti alla regola del Comintern, secondo la quale in ogni realtà statale poteva essere attivo un solo Partito comunista, mandarono già verso la fine dell’estate 1941 un distaccamento partigiano nella Venezia Giulia con l’incarico di accendervi la scintilla della rivolta. Fu una mossa vincente, approvata da Mosca nella primavera successiva, che poneva però a sua volta il problema delle relazioni tra il pcs e il pci, essendo difficile stabilire le rispettive aree di influenza. Il dissidio che aveva covato a lungo sotto le ceneri si acuì dopo l’8 settembre 1943, quando il Plenum del Fronte di liberazione proclamò l’annessione del Litorale alla Slovenia. (Già critico nei confronti dei croati, Tito stavolta non osò protestare). Per definire le loro richieste territoriali e prepararsi alla futura Conferenza di pace, i capi del movimento di resistenza fondarono il 12 gennaio 1944 un istituto di studi che durante i mesi successivi sviluppò nei boschi di Kočevje un intenso lavoro intellettuale. La questione di Trieste vi fu ampiamente discussa, per quanto nessuno mettesse in dubbio l’opportunità di rivendicare la città: e non solo per ragioni nazionali ma anche economiche, come porto di un vasto hinterland comprendente l’Europa centrale e orientale282. Edvard Kardelj, l’esponente sloveno più prestigioso, prevedendo la spaccatura dell’Europa in due blocchi dopo la guerra, sosteneva «Trieste nostra - Trieste sovietica»283.

Nel presentare le loro tesi, i capi partigiani non negavano - come già detto - che la maggioranza della popolazione cittadina fosse italiana, ma sostenevano che, nella nuova realtà socialista, essa sarebbe stata adeguatamente tutelata, rappresentando un importante anello di congiunzione con la nuova Italia, non più nemica, ma amica284.

Animato dalla convinzione che la classe proletaria non dovesse rimaner prigioniera di obsoleti dissapori etnici, Kardelj propugnava allo stesso tempo la collaborazione fra sloveni e italiani nella lotta contro il nazifascismo, suscitando però molte perplessità e opposizioni fra gli uni e gli altri: gli sloveni del Litorale accettavano con riluttanza l’idea di collaborare con gli italiani, nei cui confronti nutrivano forte animosità per i torti subiti sotto l’Austria, nel Ventennio e durante la guerra285. I comunisti italiani da parte loro avevano molte riserve nei confronti delle aspirazioni territoriali del Fronte di liberazione alimentando così una polemica, destinata a placarsi solo dopo l’agosto del 1944, quando la Gestapo decapitò praticamente il vertice del pci di Trieste. La scomparsa dalla scena del suo leader, Luigi Frausin, fu talmente favorevole agli sloveni, da suscitare subito sospetti (infondati) di delazione. Nei mesi seguenti fu catturato dai nazisti e ucciso anche Antonio Vincenzo Gigante, suo successore e continuatore della sua politica, per cui il pci locale divenne praticamente un’appendice del pcs286.

Gli ultimi mesi di guerra in Friuli e nella Venezia Giulia

L’allineamento dei comunisti italiani di Trieste su posizioni filojugoslave dall’autunno 1944 in poi non fu dovuto solo al cambio della guardia ai vertici del partito, ma a una nuova situazione sui campi di battaglia che prometteva un imminente avvento del socialismo, almeno nei Balcani. Nel periodo che va dall’estate 1942 all’estate 1944 la Resistenza partigiana era riuscita a sopravvivere, anzi, ad affermarsi come la forza più incisiva nello spazio jugoslavo per tutta una serie di ragioni: il suo valore militare e ideale, gli sbagli del più temibile concorrente, il movimento cetnico, e la decisione degli inglesi, fra il 1943 e il 1944, di abbandonare il suo capo Draža Mihailović per puntare su Tito, dato che questi, come disse Churchill, «nuoceva più ai tedeschi»287. Fino all’agosto del 1944, i comunisti jugoslavi, pur restando per ragioni ideologiche sospettosi degli inglesi, furono ben lieti di accettare il loro aiuto. Ai primi di giugno Tito si rifugiò persino sotto la loro protezione sull’isola di Lissa (Vis), da dove diresse le operazioni delle proprie unità, preoccupandosi costantemente di non suscitare negli Alleati occidentali troppi sospetti sui suoi propositi rivoluzionari. A cavallo di agosto e settembre del 1944, tuttavia, l’Armata Rossa fece nei Balcani un gran balzo in avanti, occupando la Romania e la Bulgaria e affacciandosi il 6 settembre alle frontiere serbe. Quest’avvenimento, salutato da Tito come «il gran giorno così a lungo atteso», lo indusse a sottrarsi alla tutela britannica, volando a Mosca per concordare con Stalin le mosse successive. Già all’inizio di ottobre le truppe del maresciallo sovietico Fëdor Ivanovič Tolbuchin passarono il Danubio per puntare su Belgrado, che venne conquistata il 20 di quel mese288.

Questi eventi, accompagnati dall’impasse in cui si trovavano le forze angloamericane in Italia non riuscendo a sfondare le difese tedesche per riversarsi nella pianura padana, influirono notevolmente sulla situazione triestina: da una parte aumentarono le simpatie del proletariato per la causa della Jugoslavia, dove il socialismo sembrava a portata di mano; dall’altra rafforzarono gli sloveni nella loro determinazione di arrivare a Trieste «magari mezz’ora prima degli Occidentali»289. Dato che le forze borghesi triestine d’ispirazione antifascista non erano disposte a collaborare, i capi del Fronte di liberazione concentrarono tutti i loro sforzi sull’allacciamento di legami col proletariato, numericamente ancora forte in città, poiché gli operai erano esentati per esigenze di produzione dal servizio militare290. Sulla base della Fratellanza operaia, attiva fin dal 1942, fu costituita pertanto un’organizzazione, l’Unità operaia, per sottolineare la volontà di collaborazione tra le masse dei due popoli e la loro concorde adesione alla Jugoslavia socialista e plurinazionale. Questo impegno non fu dettato da meri calcoli di opportunità politica, ma anche dalla genuina convinzione che l’elemento operaio triestino avrebbe potuto avere nella Jugoslavia, cosi povera di proletariato, un importante peso politico nell’edificazione della società nuova. Anche per questo esso ebbe successo, portando verso la metà di aprile alla costituzione di un Comitato esecutivo antifascista italo-sloveno. La parola d’ordine fu quella della «fratellanza» nel nome di una comune visione rivoluzionaria, che nelle speranze dei comunisti sloveni e dei loro compagni italiani non avrebbe dovuto fermarsi all’Isonzo, ma varcarlo per diffondersi in tutta l’Italia settentrionale291.

Le cose tuttavia non erano così semplici, dato che nel Friuli s’era costituito un movimento resistenziale «bianco», detto Osoppo, nelle cui file militavano forze perlopiù cattoliche. I suoi capi guardavano con molto sospetto alle richieste territoriali degli sloveni nella Resia e nelle Valli del Natisone (Slavia friulana o veneta), tanto da affermare nel novembre del 1944 che non ne avrebbero in alcun modo accettato il comando e sarebbero stati disposti piuttosto a «unirsi alle forze tedesche»292. È probabile che si trattasse solo di uno sfogo verbale, ma è un fatto che gli osovani intrattennero rapporti «diplomatici» con la Wehrmacht e con i suoi collaboratori cosacchi, ma soprattutto coltivarono contatti con le forze collaborazioniste italiane, e in primo luogo con la X mas - anche qui fu attiva la Pasquinelli293 - nell’intento di bloccare la diffusione dell’influenza «slavo-comunista» nel Friuli. Questi maneggi furono disapprovati dal cln Alta Italia, dai britannici, presenti sul terreno con i propri agenti, e soprattutto dai partigiani di sinistra, una divisione dei quali, la Garibaldi-Natisone, passò alle dipendenze operative del 9º corpus dell’Esercito di liberazione sloveno294. Tendenze separatiste manifestatesi nel Friuli, dove alcuni circoli pensavano alla possibilità di staccarsi dall’Italia e aderire come entità autonoma alla Jugoslavia (tendenze per nulla mal viste dal Fronte di liberazione sloveno), resero incandescente l’atmosfera, spingendo quelli della Osoppo a uccidere cinque garibaldini quando fu diffusa la notizia della loro adesione al 9º corpus295. In quest’atmosfera, caratterizzata da doppio o triplo gioco, s’inserì un fatto tragico: il 7 febbraio 1945 un gruppo di garibaldini, guidati dal «gappista»296 Mario Toffanin-Giacca, attaccò la postazione dei «fazzoletti verdi» della Osoppo alle malghe di Topli Vrh (Porzûs) nella Slavia friulana. In quell’occasione furono uccisi il comandante della brigata, Francesco de Gregori, capitano degli Alpini, detto Bolla, il delegato politico, una donna accusata di spionaggio da Radio Londra, e un giovane che, fuggito dal treno sul quale lo portavano in Germania, aveva raggiunto gli osovani. Altri 14 membri della brigata, portati in pianura, vennero uccisi «a rate» nei giorni successivi. L’eccidio di Porzûs, in cui cadde anche il fratello di Pier Paolo Pasolini, avvenne all’insaputa del 9º corpus. L’asilo prestato più tardi a Giacca dagli sloveni contribuì però a rafforzare le voci tendenziose, subito circolate, che la strage fosse stata voluta da loro, per sbarazzarsi di una forza che gli sbarrava la porta verso l’Italia. Visto in questa luce, l’episodio, marginale pur nella sua tragicità, assunse dimensioni sproporzionate, suscitando passioni e polemiche non ancora sopite297. Anche in seguito a esso, nella primavera 1945 il timore della «vendetta slava» si fece di nuovo assai acuto298. Secondo un rapporto del servizio segreto statunitense oss del marzo 1945, nel caso la Venezia Giulia fosse occupata da forze jugoslave, a detta di un «informatore italiano anticomunista e decisamente nazionalista», sarebbero stati ammazzati da 60.000 a 70.000 italiani299.

Trieste, la città più fascista d’Italia (Umberto Saba)

A Trieste intanto spadroneggiavano ancora i tedeschi, anche coll’appoggio della maggioranza della borghesia locale, più che disposta a collaborare, com’è testimoniato dal fatto che fu la Camera degli industriali a proporre come prefetto Bruno Coceani (già Coceancig, recte Kocjančič)300 e come podestà l’avvocato Cesare Pagnini. Ma non si trattava solo della Trieste «bene», decisa a cercare protezione sotto la svastica per difendere i propri interessi301. Anche molta della gente minuta fece la sua parte, come sappiamo dalla testimonianza degli stessi capi della Gestapo che manifestarono «sorpresa» per la grande quantità di delazioni anonime - le più numerose fra le città occupate in Europa - su cui potevano contare. Per non dire del Fascio locale che, secondo la confessione del podestà Pagnini, «per tutta la durata dell’occupazione fece funzionare il proprio ufficio politico quale fucina di denunce firmate ed ufficiali oppure anonime alle SS»302. (Sufficienti per la deportazione in Germania o l’incenerimento nel forno crematorio della Risiera).

La Risiera era una vecchia fabbrica in disuso per la pilatura del riso, sita nel sobborgo di San Sabba, che i tedeschi trasformarono inizialmente in centro di transito per gli ebrei rastrellati e destinati a Auschwitz e altri lager di sterminio. Data la presenza di forti unità partigiane nel Litorale e in Istria, essa si trasformò ben presto in un vero e proprio campo di concentramento, in cui furono uccise come minimo 2.000 persone, fucilate, gassate o eliminate perlopiù con una mazza di ferro, e poi bruciate nel forno crematorio: ostaggi civili, fra cui vecchi, donne e ragazzi, partigiani, politici e renitenti alle leve naziste, in massima parte sloveni e croati303.

I collaborazionisti

Il «Führungsstab für Bandenbekämpfung» (Comando per la guerra antipartigiana) delle SS e della Polizia tedesca poteva contare sulle numerose forze armate collaborazioniste, alcune ereditate dal vecchio regime, altre di nuova istituzione. Tutte al servizio di Reich e di Hitler, cui era previsto prestassero giuramento: la Milizia difesa territoriale (una speciale Landwehr) di cui facevano parte cinque reggimenti della Guardia nazionale repubblicana oltre al battaglione di volontari «Mussolini» e formazioni slovene, la x mas, la Polizia Economica (Wirtschaftspolizei), la Guardia di Finanza, la Guardia Civica, una Compagnia speciale di ordine pubblico e soprattutto l’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia304. Quest’ultimo era stato istituito nell’aprile 1942 dal ministero degli Interni per combattere gli oppositori del regime legati alla Resistenza, distinguendosi subito per la brutalità dei suoi metodi. La sua sede di via Bellosguardo, nota come «Villa Triste», fu teatro di feroci maltrattamenti e torture, che spinsero lo stesso vescovo Santin a rivolgere nel 1943 un’accorata protesta a Roma («ci sono particolari che fanno inorridire») per far cessare le vessazioni. Essa però non servi a nulla305. Le reti e le centrali di spionaggio tedesche si intrecciarono inoltre con quelle fasciste e collaborazioniste coprendo capillarmente tutta la regione. I comandi tedeschi impiegarono direttamente queste forze e istituzioni italiane in rastrellamenti, arresti, torture, esecuzioni, rappresaglie, razzie e attività di spionaggio sotto il Comando SS di Globocnik e la direzione politica di Rainer306.

In questo senso il caso dell’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza è emblematico. Giunti i tedeschi, dopo l’armistizio dell’8 settembre, tale struttura fu sciolta per essere ben presto ricostruita con gli stessi dirigenti di prima. A comandarla fu chiamato l’ispettore generale Giuseppe Gueli, già sorvegliante di Mussolini sul Gran Sasso, coadiuvato da un giovane e ambizioso vicecommissario siciliano, Gaetano Collotti, appena ventottenne307. L’ispettorato, trasferitosi in via Cologna, dipendeva formalmente dal ministero dell’Interno della Repubblica di Salò, ma era posto sotto il controllo delle SS di Trieste, cioè di Globocnik. Fra i suoi uomini, 400 in tutto tra effettivi e ausiliari, divenne famoso per le sue sadiche efferatezze un nucleo di 35 agenti detti della «banda Collotti»308. Con metodi di estrema crudeltà essi s’impegnarono, spesso in collaborazione con elementi della X mas, nella lotta ai «banditi», convinti, per citare un rapporto di Gueli del gennaio 1945, che servendo il padrone germanico stessero difendendo Trieste, «cuore pulsante dell’italianissima Venezia Giulia», per impedire che diventasse una città balcanica. Filosofeggiava l’ispettore generale nel proporre un premio speciale per la squadra diretta dal vicecommissario dottor Collotti:

Ogni rivolgimento politico e lo stato di guerra, specialmente, porta con sé una recrudescenza della criminalità vera e propria. Non vi è dubbio che maggiore recrudescenza si dà nell’attuale gigantesco conflitto che accanto agli eserciti della trincea, ha spinto sulle barricate delle piazze, in una dolorosa lotta fratricida, fazioni politiche e tendenze opposte. E dove più che in questa italianissima Città, ove l’odio secolare della razza slava vorrebbe avere il sopravvento per cancellarvi ogni traccia dell’Italia e di Roma e mettere gli eserciti vincitori di fronte al fatto compiuto della occupazione?309.

La corsa per Trieste

All’occupazione paventata da Gueli il maresciallo Tito pensava da tempo. Pur essendo consapevole dei rischi dell’impresa, in quanto toccava gli interessi degli Alleati occidentali, egli non poteva esimersi dal pianificare un’operazione militare nella Venezia Giulia, anche per non alienarsi i compagni sloveni. La mossa decisiva fu fatta dopo il convegno di Stalin, Churchill e Roosevelt a Jalta, dove i tre grandi, nel definire le rispettive sfere d’influenza in Europa centrale, non avevano avuto il tempo di accordarsi sulla linea di demarcazione fra truppe angloamericane e jugoslave nella Venezia Giulia. Tito colse subito l’opportunità. Sulla base dell’8º corpo d’armata dalmata il 2 marzo 1945 fu costituita a Murtes nei dintorni di Zara la 4ª armata, ai comandi del generale Petar Drapšin, un giovane di appena trent’anni, originario dalla Vojvodina, assistito da un colonnello russo310. Iniziate le operazioni il 20 marzo, alla fine del mese essa contava poco meno di 60.000 uomini, tre quarti dei quali croati, affiancati da rappresentanti di altre etnie jugoslave. Gli sloveni erano 5.300, perlopiù carristi e aviatori, componenti delle brigate d’oltremare, cioè ex soldati italiani presi prigionieri dagli angloamericani in Libia o arruolatisi nell’esercito jugoslavo in Puglia e in altre regioni del Sud.

«Importa soprattutto non guardare alle cose di minor importanza», era l’ordine di Tito nel momento in cui la 4ª armata fu costituita. «Bisogna avanzare anzitutto verso l’Istria e contemporaneamente verso Trieste. Non curarsi dei fianchi»311. Costituito l’esercito che avrebbe dovuto marciare sulla Venezia Giulia, il maresciallo si preoccupò di assicurarsi l’appoggio sovietico. Agli inizi di aprile 1945 egli si recò a Mosca, dove firmò con Stalin un accordo di collaborazione ventennale, che segnava ufficialmente l’inclusione della Jugoslavia nel blocco sovietico. In quest’atmosfera di ostentata amicizia - che mascherava in realtà screzi piuttosto seri manifestatisi negli ultimi mesi - Tito poté dare un’intervista al giornale delle forze armate sovietiche, «Krasnaja zvezda» (Stella rossa), in cui preannunciava l’imminente operazione. Era evidente che aveva ottenuto da Stalin il nullaosta per l’impresa312.

Le settimane successive furono insanguinate dalla strenua resistenza dei reparti tedeschi e ustascia e altri gruppi collaborazionisti, stanziati nella Lika, il Gorski kotar e il Litorale croato all’avanzare della 4ª armata. Il 20 aprile essa raggiunse la vecchia frontiera italo-jugoslava nei dintorni di Fiume. Quest’azione militare s’inseriva nel più ampio contesto della comune offensiva alleata, tesa a spezzare la rimanente forza militare del Terzo Reich. Secondo gli accordi presi fra lo Stato maggiore jugoslavo e quello del maresciallo Alexander, le truppe jugoslave impiegate nella fascia litoranea dell’Adriatico orientale avrebbero dovuto tenervi impegnate quante più forze nemiche possibile, per rendere più agevole agli angloamericani la conquista dell’Italia settentrionale313. Con la propria offensiva, infatti, la 4ª armata bloccò non solo le divisioni che appartenevano al Comando balcanico della Wehrmacht, ma anche il 97º corpus, parte delle armate del gruppo C stanziate in Italia, che però nel corso di aprile era stato assegnato al gruppo di armate E (Jugoslavia)314. Sotto Fiume le forze tedesche combatterono con molto vigore, per cui Tito ordinò il 27 aprile di mettere sotto assedio la città, e insieme di costituire, in seno della 4ª armata un nucleo particolare di divisioni, incaricate di puntare immediatamente su Trieste. A questo scopo vi fu aggiunto anche il 9º corpus dell’Esercito di liberazione sloveno, forte di 5.000 uomini, che operava dal 21 dicembre 1943 nella parte slovena della Venezia Giulia. Con una manovra di accerchiamento la 4ª armata aggirò il Monte Nevoso, conquistando il 28 aprile il centro nevralgico dell’area, Ilirska Bistrica. I tedeschi, che avevano cercato di potenziare il 97º corpus nei dintorni di Fiume con le loro forze migliori, erano in quel momento piuttosto deboli in Istria e nel litorale triestino, dove fra Muggia e Monfalcone potevano disporre solo di alcuni battaglioni di fanteria e alcuni gruppi di artiglieria, soprattutto marittima e contraerea: il grosso della 188ª divisione, il Sichercheitsbataillon 309, la marina (tedesca, italiana e croata), genieri di marina, la 26ª batteria costiera della milizia italiana. Sulla riva destra dell’Isonzo, in Friuli, operavano invece la brigata SS «Karstjäger», nonché divisioni cosacche e caucasiche315.

Il 28 aprile, le forze che lo Stato maggiore della 4ª armata avrebbe impiegato per l’assalto e la liberazione Trieste si trovavano disposte intorno alla città in un’ampia cerchia che andava dal Monte Maggiore in Istria alla Selva di Tarnova (Trnovski gozd) vicino a Gorizia. La forza d’urto principale, la 20ª divisione dalmata - rafforzata da tre battaglioni di carristi e da due gruppi di artiglieria motorizzata - puntò direttamente sulla città. L’ordine impartito al suo comandante, colonnello Bogdan Pecotić era perentorio: «Senza assicurare i vostri fianchi avanzate arditamente verso Trieste. Entrate a Trieste e incominciate la lotta strada per strada»316. Mentre la 29ª divisione erzegovese combatteva sull’ala destra, e la 43ª divisione istriana su quella sinistra, il 90 corpus ebbe il compito di attaccare da nord-ovest. Nel frattempo, il 29 aprile, le forze armate germaniche del gruppo C avevano firmato a Caserta la resa in Italia e dappertutto nella penisola stavano cessando i combattimenti. Tale resa non copriva però - «sfortunatamente» come sta scritto in un memorandum di sir Orme Sargent a Churchill del 30 aprile 1945 - Trieste o la Venezia Giulia. «Se così fosse il maresciallo Alexander avrebbe concluso un accordo con i tedeschi di tenere Trieste finché egli stesso sarebbe stato in grado di prenderne possesso. Cosi invece dovrà prenderla a forza dai tedeschi prima che le forze di Tito, che sono nei sobborghi, vi possano entrare»317.

Le truppe germaniche, non avendo più la necessità di difendere la città dal mare, concentrarono la maggioranza delle proprie truppe sull’altipiano carsico sovrastante la città. Per quanto le riguardava, lottavano ormai solo per rallentare l’avanzata degli jugoslavi, considerati più temibili degli angloamericani che erano già sul Piave. La 20ª divisione dalmata raggiunse il 29 aprile Opicina (Opčine), importante nodo ferroviario, e Basovizza (Bazovica), dove i tedeschi offrirono forte resistenza: la località fu infatti persa e conquistata per ben tre volte. Le brigate della 43ª divisione jugoslava occupavano intanto l’Istria nord-occidentale, isolando 15 batterie di montagna tedesche, diverse unità di marina e fascisti italiani, e costringendo le truppe del 97º corpus germanico, che s’era mosso verso Fiume, a ripiegare su Trieste. La sera del 30 aprile la 4ª armata strinse la città in un semicerchio da Muggia a Barcola, sobborgo di pescatori a pochi chilometri dal centro. Lo Stato maggiore di Drapšin ordinò nel frattempo al 9º corpus di liberare Monfalcone e Gorizia - dov’erano tra l’altro 3.000 cetnici - il che permise il 10 maggio alle organizzazioni del Fronte di liberazione, da anni presenti sul terreno di prendere il potere. Il cln locale si sciolse, mentre le nuove autorità cominciavano a dar la caccia al fascista italiano e al collaborazionista sloveno. Gli arrestati furono in un primo momento concentrati nelle carceri della città, per essere in seguito evacuati nei campi di raccolta di Ajdovščina, Idria e Vipava. Parecchi non vi arrivarono, essendo stati «liquidati» nelle campagne circostanti318.

All’alba del 1º maggio il colonnello Pecotić ordinò a due colonne dotate di carri leggeri di infiltrarsi fra le difese della Wehrmacht a Opicina, e di scendere nel centro di Trieste. «L’immagine dell’armata del maresciallo Tito nella prima settimana di maggio resta qualcosa di indimenticabile, come una stampa tratta da un antico libro di storia», riferisce una testimone britannica, la giornalista Sylvia Sprigge. «I soldati erano tutti a piedi, guerrieri temprati con i segni di grandi patimenti sul volto. Molti erano feriti. Ogni trecento uomini c’era un piccolo carro coperto, trainato da due cavalli; qui si esaurivano i mezzi di trasporto dell’Armata jugoslava ai primi di maggio. Allora a Trieste avevano anche cinque carri armati... »319. Diversa l’impressione di un esponente della borghesia locale, lo scrittore Pier Antonio Quarantotti Gambini, che aveva accettato di dirigere la Biblioteca civica durante l’occupazione tedesca. Egli li vedeva «contadini, boscaioli pastori [...] terribilmente straccioni [...] piccoli, col naso camuso»320. Condivideva il suo sgomento il giornalista triestino Silvio Benco, il quale si chiedeva: «Chi guidava quei morlacchi, quei bosniaci, quei montenegrini, truppe irregolari all’aspetto, soldati con lunghe barbe, e in più in opanche, in babbucce?»321.

Circa 22.000 soldati tedeschi, comandati dal generale Ludwig Kübler, erano circondati intanto nell’area nord-orientale di Fiume, di dove avevano cercato invano di mettersi in salvo dirigendosi verso l’Austria. La stessa sorte toccò a 3.000 tedeschi a Pola, 2.000 a Pisino e 1.000 a Umago322. Nei giorni successivi anche queste sacche di resistenza furono annientate. L’«operazione Trieste» costò alla 4ª armata ben 8.000 uomini tra morti, dispersi e feriti323.Joze

Le rivolte parallele del 30 aprile

Alla fine di aprile si mossero a Trieste le organizzazioni di Resistenza locali, dando però vita a due insurrezioni parallele. Come si è visto, in città s’era costituito un forte nucleo alle dipendenze del Fronte di liberazione (of) che aveva attratto a sé la maggioranza delle masse proletarie. Dopo Jalta esso propugnò, anche per mezzo di volantini e di giornali clandestini, la tesi «che l’assegnazione di Trieste alla Jugoslavia doveva considerarsi come fatto compiuto e che il cln doveva adattarsi alla situazione e aderire al movimento slavo». I partiti «borghesi» del Comitato, costituito da personalità d’orientamento filoitaliano, non erano disposti però ad accettare l’idea di una revisione della frontiera di Rapallo e si richiamavano al sacrificio di 600.000 italiani che erano caduti nella prima guerra mondiale - l’ultimo atto del Risorgimento - per Trento e Trieste. Il Comitato diffidava degli slavi sostenendo che larghi settori del loro movimento partigiano erano animati da sentimenti di sopraffazione nazionale nei confronti della popolazione italiana della Venezia Giulia: «I fatti avvenuti in Istria nel settembre 1943 ne sono una aperta dimostrazione»324. Il massimo che si sentiva di concedere agli sloveni era un’ipotesi di Italia federale in cui la Venezia Giulia avrebbe goduto di particolari autonomie proprio in quanto regione mistilingue325. In extremis, quando ormai la fine della guerra s’avvicinava a gran passi, i suoi capi si dichiararono disposti ad accettare la linea Wilson, proposta alla Conferenza di Parigi del 1919 come frontiera di compromesso fra l’Italia e la Jugoslavia, che avrebbe comunque sottratto agli sloveni buona parte del loro territorio etnico326.

Era ovviamente troppo poco. Per gli sloveni che avevano alle spalle una lunga esperienza di persecuzioni, di lotta antifascista e di sanguinosa resistenza armata, nel cui ambito la frontiera di Rapallo almeno da un anno e mezzo non aveva più senso, simili proposte suonavano oltraggiose e assurde. Prima che sulla carta, la Slovenia unita esisteva già nelle organizzazioni dell’of e nelle forze partigiane, presenti dappertutto sul terreno in una rete di legami fraterni, cementati dalle sofferenze patite e dal sangue versato. Fra of e cln s’instaurò pertanto un rapporto di tensione latente, anzi, d’incomunicabilità, nonostante sporadici tentativi di raggiungere un accordo. Ancora il 13, il 25 e il 30 aprile rappresentanti del Comando città del Fronte di liberazione offrirono al cln di entrare in un Comitato unitario misto italo-sloveno, in cui la maggioranza dei delegati sarebbe stata di nazionalità italiana. Essi rinnovarono ripetutamente l’offerta della presidenza del Comitato a Ercole Miani (Villa) e si dichiararono pronti a riservare ad Antonio de Berti, ex deputato social-riformista istriano, un importante incarico direttivo nell’amministrazione regionale. «L’offerta», scriveva la rivista «Trieste» nel rievocare il «Maggio jugoslavo a Trieste [...] si fondava su criteri di opportunità tattica facilmente comprensibili»: Ercole Miani rappresentava la parte dell’irredentismo confluita nell’antifascismo e nella Resistenza, ed era perciò circondato dall’affetto e dalla stima di molti patrioti; De Berti era esponente di quella classe politica istriana che con il fascismo venne messa in disparte.

Nel momento in cui la maggioranza dei vecchi esponenti del nazionalismo regionale si era largamente compromessa con il fascismo e con l’occupatore nazista, isolandosi dalla popolazione e screditando se stessa, il passaggio dei democratici italiani nel fronte slavo, pur mascherato sotto generiche giustificazioni antifasciste, non avrebbe potuto che determinare uno «choc» psicologico profondo fra gli italiani, creando l’equivoco ed eliminando così l’ultimo ostacolo che disturbava la manovra annessionistica slava327.

È evidente che una barriera psicologica impediva agli antifascisti «borghesi» di collaborare con gli «slavi» per costituire un fronte unico contro i nazisti e impedire uno scontro armato tra le due parti, anche in un momento in cui le forze di liberazione erano alle porte con un esercito e disponevano nella città stessa di 2500 uomini armati e strutturati nell’«Unità operaia». Non è difficile immaginare che, se questa barriera psicologica fosse stata superata, il dominio jugoslavo della città avrebbe assunto caratteristiche diverse, e sarebbero state probabilmente evitate molte perdite umane e sofferenze. Ma così non fu, nonostante il fatto che addirittura il cln Alta Italia arrivasse a condannare i triestini del cln locale per il loro «sciovinismo», interrompendo i rapporti con essi328. L’intransigente affermazione della sovranità italiana sull’intera Venezia Giulia e dell’intangibilità della frontiera di Rapallo fu dovuta soprattutto a Ercole Miani, notevole personaggio triestino, irredentista mazziniano e volontario nella guerra del 1915 (due medaglie d’argento, due di bronzo, proposta di medaglia d’oro). Esponente del Partito d’azione e del locale cln, egli comandò le piccole formazioni di «Giustizia e Libertà» a Trieste contro i nazifascisti nel 1943-45; arrestato e torturato dagli agenti dell’Ispettorato speciale, non parlò; venne rilasciato e riprese la lotta329. A suo merito va anche detto che respinse le proposte del prefetto Coceani, che per incarico di Mussolini, gli aveva prospettato l’idea di un fronte unico degli italiani, fascisti e antifascisti, contro gli «slavi», nella consapevolezza che il cln si sarebbe schierato cosi contro gli Alleati, il governo e la Resistenza italiana330.

Fino al 30 aprile, le formazioni del «Corpo Volontari della Libertà», braccio armato del cln, non furono particolarmente consistenti né attive. Nell’esporre in un rapporto al psi la situazione militare creatasi nella Venezia Giulia, un suo esponente triestino, Carlo Schiffrer scriveva:

I boschi e le montagne della regione erano tenuti dai partigiani slavi e dalle Brigate «Garibaldi» sotto il comando di Tito. [...] Ora i giovani italiani - specialmente i non comunisti - che non si sentivano di operare per un tale programma politico (cioè «per la creazione della “Grande Jugoslavia” estesa fino all’Isonzo»), non potevano darsi alla montagna. Ciò avrebbe voluto dire combattere non tanto per la liberazione dal giogo nazifascista, quanto per una causa che non sentivano affatto: il distacco di Trieste (e della Giulia in genere) dall’unità italiana. Molti che si erano arruolati nelle Brigate «Garibaldi» ritornavano delusi, cosi la gioventù cercò d’imboscarsi in vari organismi locali, mentre i più attivi raggiungevano le bande italiane del Friuli, del Veneto, della Lombardia, depauperando in tal modo le forze locali degli elementi migliori. Mancò insomma al cln giuliano la possibilità di organizzare fuori di città le proprie forze partigiane, di allenarle di lunga mano alla lotta, e soprattutto di armarle convenientemente mediante rifornimenti aerei331.

Questa confessione d’impotenza, in singolare contrasto con la pretesa di conservare la sovranità italiana sull’intera Venezia Giulia, fu confermata da un agente britannico, Tom R. S. Macpherson, presente in quel periodo nella zona. «A Trieste la resistenza militare italiana non poté mostrare o dimostrare alcuna attività durante l’occupazione, a parte molte discussioni, irregolari messaggi di qualche informazione di intelligence o uno o due piccolissimi atti di sabotaggio, compiuti dai ferrovieri»332. Dello stesso avviso era anche Hans Bosgard Schneider, ufficiale del servizio di propaganda delle SS, che non esitò a parlare in un suo scritto sul Bandenkampf (Lotta contro i banditi) dell’indecisione, mollezza e bassa combattività triestina333. Dato però che doveva pur dimostrare di esistere, all’alba del 30 aprile la leadership del cln - cui si aggiunse il capo dei cattolici, monsignor Marzari, liberato dal carcere da un gruppo di seguaci - diede il segnale dell’insurrezione generale. Lo fece, nonostante l’esiguità, la disorganizzazione e impreparazione dei propri reparti, per ragioni squisitamente politiche: per non lasciare l’iniziativa nelle mani delle forze filojugoslave, e nella falsa convinzione che gli angloamericani fossero alle porte334.

Come dice un appunto, stilato dieci anni più tardi da uno dei protagonisti del cln, «fu generoso sforzo di porre gli stranieri e tutti i governi alleati di fronte al fatto compiuto di un’italianità autonoma, spontanea, radicata nelle coscienze dei cittadini, disposta al sacrificio e non all’attendismo inerte e rassegnato»335. In realtà si trattò di un’azione puramente dimostrativa, dato che il grosso delle truppe tedesche era ormai assente dalla città, impegnato a combattere sul Carso, o asserragliato in alcuni capisaldi. Dalle truppe collaborazioniste italiane non c’era nulla da temere, dato che s'erano dissolte nei giorni precedenti, imboscando le armi, o avevano semplicemente cambiato campo. Era il caso di parecchi componenti della Guardia Civica, da tempo infiltrati dal cln e delle Guardie di Finanza, che ricevettero l’ordine di «infilare i bracciali tricolori e trasformarsi in partigiani italiani, o in soldati del cvl. Accettarono senza discutere e combatterono senza tremare»336. Per la verità, le occasioni di combattere, non furono molte; l’operazione organizzata dal cln, che coinvolse così circa 2.000 uomini, costò comunque 38 vite umane, e consistette nell’occupazione temporanea della stazione radio, della prefettura, del municipio e del carcere, da cui furono liberati 378 prigionieri337.

Due giorni prima, il 28 aprile, fu dato l’ordine d’insurrezione anche dal «Comando Città», dipendente dal 9º corpus sloveno, che operava a Trieste dall’estate 1944. I suoi uomini (2.500 circa, cui si aggiunsero 5.000 insorti dell’ultima ora) presero prima le fabbriche nei rioni periferici, spostandosi poi progressivamente verso il centro338. La sera del 30 aprile Trieste era senza padrone. I tedeschi resistettero ancora all’interno di alcuni capisaldi - il castello di San Giusto e il Palazzo di Giustizia - difficilmente espugnabili dagli insorti, privi di armamento pesante. Le due formazioni antifasciste rivali, in contatto fra loro per la presenza di ufficiali di collegamento jugoslavi presso il cln339, ebbero il buon senso di non impegnarsi in scontri reciproci.

Nel presentarsi come gli unici veri interpreti dell’anima di Trieste, gli esponenti del cln esageravano, e non solo perché cittadini di diverso schieramento erano scesi in armi molto più numerosi per liberare la città. All’arrivo delle «rughe» (parola dialettale per bruco), come vennero detti spregiativamente i partigiani per il loro camminare in fila indiana, molte coscienze furono toccate da un improvviso orgoglio. E il caso di una donna slovena, sposata a un artigiano di Trieste, cui era stato proibito dal marito di parlare con i figli nella sua lingua: il 10 maggio, appena i partigiani entrarono in città, senza dire una parola, essa prese la bandiera italiana e la bruciò nella stufa340. Da altri cittadini invece la calata degli «s’ciavi» fu avvertita come un insopportabile oltraggio. Non pochi ebbero il coraggio di bombardare le truppe in marcia con bottiglie colme d’acqua, che potevano essere anche pericolose se scagliate dai piani superiori. I militari non reagirono, limitandosi a disarmare i combattenti del «Corpo Volontari per la libertà», i quali non opposero resistenza, avendo ricevuto l’ordine di evitare scontri con una forza che faceva parte della coalizione alleata: «La maggioranza, vedendo che aria tirava, tornò a casa»341.

L‘arrivo dei neozelandesi

Gli jugoslavi rimasero padroni assoluti di Trieste un solo giorno. Nel pomeriggio del 2 maggio arrivarono infatti anche le truppe della 2ª divisione neozelandese; con esse un’intrepida giornalista britannica, Sylvia Sprigge, che ci ha lasciato un diario prezioso per comprendere la dinamica di quei giorni. I neozelandesi diedero immediatamente una mano agli jugoslavi per prendere il Palazzo di Giustizia e il castello di San Giusto, dove s’era rintanata una guarnigione di 270 soldati tedeschi. Questi ultimi, anzi, si arresero a loro snobbando le truppe di Tito. Come disse con soddisfazione Churchill, nell'apprendere la notizia, gli Occidentali erano riusciti a «infilare un piede nella porta»342. Nonostante potessero proclamarsi co-liberatori della città, i neozelandesi se ne astennero, lasciando agli jugoslavi il compito di amministrarla e approvvigionarla. I tentativi del cln di mettersi in contatto con il generale sir Bernard Freyberg, comandante delle truppe alleate, per convincerlo a prendere il potere in loro nome, caddero nel vuoto343. Solo il porto e il lungomare vennero occupati dalle truppe neozelandesi e dalle unità navali britanniche per garantire le linee di comunicazione fra lo scalo triestino e l’Austria. (Questo il motivo dichiarato della corsa per Trieste). Fra le due zone della città fu tracciata così una linea di demarcazione, non munita però di alcuna postazione di controllo. La presenza delle forze alleate occidentali accese una fiammella di speranza nell’anima di quei triestini che avvertivano quella degli jugoslavi come un’occupazione. Nei giorni successivi molti cercarono protezione presso i neozelandesi per protestare contro i soprusi; ma questi, pur guardando con crescente irritazione quel che avveniva in città, si astennero - almeno ufficialmente - dall’intervenire in attesa che la questione di Trieste fosse risolta a livello diplomatico344.

Nel preparare all’inizio del gennaio 1945 l’operazione Trieste, tre esponenti del Fronte di liberazione (of), triestini di origine, elaborarono un documento, intitolato: Sui problemi relativi all’occupazione del Litorale sloveno. In esso scrivevano tra l’altro:

Attraverso i propri rappresentanti diplomatici e i propri fiduciari a Trieste tutto il mondo osserverà e cercherà di scoprire i nostri possibili sbagli. Bisognerà assolutamente evitarli [...] Il comportamento dei nostri combattenti nella marcia trionfale o nei passaggi necessari attraverso le località mistilingui, deve essere dignitoso e festoso per dimostrare in tale maniera la nostra forza e la nostra consapevolezza di esser arrivati come padroni sul proprio territorio. In genere, del resto, le truppe devono esser consegnate nelle caserme. Per il servizio d’ordine siano coinvolti per quanto è necessario come organi di supporto attivisti del Fronte di liberazione, familiari dei luoghi e della lingua.

E in un altro documento, qualche giorno più tardi, essi sostenevano: «Per quanto sia possibile bisogna coinvolgere i locali, che conoscono bene la situazione. Ma devono essere capaci, onesti e gentili, pronti a comprendere appieno tutte le difficoltà e le necessità della popolazione»345.

I leader jugoslavi non ascoltarono queste sagge parole: consapevoli che era più facile occupare Trieste e Gorizia che conservarle sotto il proprio controllo in quella situazione, decisero fin dall’inizio di reggerle con mano pesante, affidando tale compito, almeno ai vertici, a persone fidate, ma del tutto estranee alla realtà del Litorale. Per comprendere lo stato d’animo di Tito e dei suoi collaboratori più stretti bisogna chiarire che essi erano ancora sotto lo shock degli eventi capitati nel dicembre del 1944 in Grecia, dove i britannici con le proprie forze e con quelle «borghesi» presenti in loco avevano fatto piazza pulita del movimento partigiano d’ispirazione comunista (elas): scenario possibile in Jugoslavia, ma ancor più nella Venezia Giulia, dove nel maggio 1945 la situazione era assai simile a quella greca, e forse ancor più esplosiva. Nella regione erano presenti infatti l’Armata jugoslava e l’esercito angloamericano, ma anche le unità tedesche non del tutto sconfitte, cetnici, ustascia, domobranci, forze collaborazioniste italiane, per non parlare di quelle appartenenti a cln. Il vertice jugoslavo era a conoscenza degli screzi esistenti fra Washington e Londra sulle rispettive politiche in Italia, ma non nutriva alcuna illusione di poterli sfruttare a proprio vantaggio. Sta scritto nel rapporto di un collaboratore dell’Istituto degli studi dell’of, che si firmò con la cifra k.7:

Al di là di questi possibili contrasti dobbiamo essere convinti che gli usa e la Gran Bretagna saranno perfettamente concordi per quanto riguarda l’Italia e i suoi rapporti con la Jugoslavia: l’Italia deve diventare del tutto dipendente da loro sul piano economico e con ciò anche politico e deve essere in qualche maniera una barriera nei confronti della sfera d’influenza orientale, o per dirla con altre parole: l’Italia deve diventare lo scudo dell’Occidente capitalista nei confronti dell’Oriente socialista346.

Della «pulizia» da eseguire a Trieste nel momento della conquista, si parlava da tempo al Quartier generale di Tito e in quello sloveno. Già alla fine di agosto 1944 in una riunione del pcs Kardelj aveva affermato che bisognava preparare un piano per prendere il potere a Trieste, tracciandone le linee guida: insediare organi politici, rafforzare la Polizia, attuare solo liquidazioni «mirate», affinché non si verificasse «un uccidersi reciproco»; ma soprattutto mobilitare le masse per spingerle a chiedere l’annessione alla Jugoslavia347. Appena costituito il suo primo governo «provvisorio», il 7 marzo 1945, il maresciallo inviò al politbureau sloveno una direttiva perentoria: «Gli inglesi sbarcheranno, porranno l’autorità militare, la nostra sarà civile e di polizia [...] In 28 ore [sic], sarà necessario organizzare l’intero apparato - togliere tutti i reazionari e portarli qui, giudicare qui - là non fucilare»348.

Le matrici della violenza jugoslava: «Morte al fascismo – libertà al popolo!»

Tito ben sapeva di che parlasse. Come risulta dai testi di Lenin che, per opportunità politica, non hanno mai visto la luce nell’urss e sono stati pubblicati solo recentemente per i tipi della Yale University Press, il protagonista della rivoluzione russa emanò l’11 agosto 1918 la seguente direttiva: «Impiccate (impiccate senz’altro, affinché la gente veda) non meno di cento kulaki noti, gente sadica, sanguisughe [...] Fatelo in maniera tale, che per centinaia di chilometri intorno la gente veda, tremi, sappia, [...]: essi strangolano e strangoleranno a morte i kulaki, succhiatori di sangue»349. Questa condanna a morte di persone colpevoli solo di appartenere a un determinato ceto (peraltro indefinito) aveva nei propositi di Lenin un duplice scopo: colpire i veri o potenziali nemici della rivoluzione e incutere alle masse popolari, per meglio dominarle, un sacrosanto timore nei confronti del nuovo potere. La lezione fu appresa assai bene da Stalin, e così pure dai comunisti jugoslavi, allevati alla dottrina bolscevica nelle scuole di Mosca. Come tutti i neofiti, essi tendevano addirittura a esagerare, applicando la tattica del terrore anche nei momenti meno opportuni: mentre Stalin, quando l’Unione sovietica fu attaccata dalla Wehrmacht, cercò il consenso popolare per organizzare la più efficace resistenza possibile, mettendo da parte temporaneamente l’ortodossia ideologica, Tito e i suoi, nel periodo stesso in cui prendevano le armi contro le forze d’occupazione tedesche, italiane, ungheresi e bulgare, decisero di realizzare anche la rivoluzione comunista; e dato che, secondo l’esempio russo, doveva esserne parte integrante un’offensiva spietata contri i «kulaki» e la borghesia, nel loro fanatismo non esitarono a scatenarla assieme alle ritorsioni contro i collaborazionisti350.

La fase conclusiva della guerra in Jugoslavia era stata segnata perciò da purghe, compiute o avallate dalle forze di Tito nelle città e nelle regioni strappate al nemico. Nell’ottobre 1944, quando l’Armata Rossa con il concorso dell’Armata jugoslava liberò la Serbia fu messo immediatamente in moto un meccanismo repressivo che ebbe per oggetto la minoranza tedesca del Banato, come pure i collaborazionisti e gli oppositori serbi al nuovo regime. Durante la guerra, i tedeschi che da secoli vivevano nelle ricche pianure danubiane s’erano schierati in gran parte con le forze d’occupazione naziste, arruolandosi nella Wehrmacht e nelle SS, e comportandosi nelle aree d’insediamento da padroni assoluti. Nei loro confronti Tito segui pedissequamente la politica attuata nello stesso periodo da Stalin contro i tartari della Crimea, i tedeschi del Volga e i ceceni (rei di aver collaborato con le unità del Terzo Reich). Come costoro, anche i tedeschi del Banato - almeno quelli che non riuscirono a fuggire con le truppe germaniche - vennero rinchiusi nei campi di concentramento, ammazzati per vendetta dalla popolazione serba, oppure evacuati in Siberia, da dove pochi tornarono. Si trattò di un vero e proprio pogrom che coinvolse almeno 200.000 persone (di cui 69.000 furono trucidate), modificando sostanzialmente la struttura etnica dell’area interessata351. Sorte analoga toccò agli ungheresi della Vojvodina e della Slavonia, rei di aver appoggiato il regime fascista dell’ammiraglio Horthy. Alla «purga dell’elemento straniero» si affiancò, dopo la conquista di Belgrado, la purga di quello indigeno. Le truppe partigiane entrarono nella capitale con l’ordine di fucilare sul posto tutti i collaborazionisti. È chiaro che non guardavano tanto per il sottile, essendo fin troppo facile affibbiare quest’etichetta agli esponenti della borghesia locale, per sbarazzarsi di un elemento sicuramente ostile al nuovo regime. Nei primi giorni dopo la liberazione, Belgrado fu cosi investita da una nuova ondata di terrore, dopo quella dell’occupazione, che aveva anche aspetti propedeutici (per far capire alla gente chi fosse il nuovo padrone), e che, secondo alcune testimonianze, costò la vita a 3.500 persone352. Terribile fu anche la resa dei conti nel Montenegro, dove, per quanto sembri paradossale, ci fu il maggior numero di vittime, rispetto a quello relativamente esiguo della popolazione353. All’inizio del 1945, anche il Kosovo, a sua volta liberato dall’Armata jugoslava, fu teatro di terribili violenze, causate dall’opposizione degli albanesi al ritorno sotto il dominio di Belgrado. In 30.000 essi cercarono di resistere in armi alle forze titoiste, ma la loro rivolta, bollata subito come «controrivoluzionaria», fu ben presto soffocata nel sangue. Data la struttura di clan della società albanese, oltre ai rivoltosi furono coinvolti nel massacro anche numerosi membri delle loro famiglie e del parentado354. Insomma, esser contrari al nuovo regime e appartenere a un gruppo minoritario non allineatosi con la Resistenza era assai pericoloso nella Jugoslavia di Tito355.

A Trieste e a Gorizia, come pure nella parte dell’Istria settentrionale, dove si incontrarono il 9º corpus e la 4ª armata, confluirono fondendosi due generi di repressione: quella metodica e organizzata, e quella segnata spesso da uno spontaneismo senza freni. Per spiegare questa disparità bisogna sottolineare che la Resistenza slovena ebbe, fin dall’inizio, caratteri diversi da quelli sviluppatisi in altre parti del paese: mentre altrove rimaneva un fenomeno organizzato e controllato dal pc, in Slovenia fu il risultato di una coalizione di forze - costituitesi nel Fronte di liberazione (of) - di cui i comunisti rappresentavano solo una parte. Per quanto senza seguito popolare, essi costituivano tuttavia, per fanatismo e capacità organizzativa, ma anche per vigore intellettuale, un nucleo estremamente efficace, in grado d’imporsi ai maggioritari ma meno agguerriti compagni di strada: i cristiano-sociali e i liberali. Nell’ambito del Fronte di liberazione venne costituito fin dall’agosto del 1941 un Servizio di difesa e d’informazione (vos), guidato da una giovane comunista, Zdenka Kidrič. Nel settembre 1941, il vertice del Fronte - autoproclamatosi unica autorità legittima in territorio sloveno - decretò la «liquidazione» di tutti i collaborazionisti, anche potenziali: era il primo atto del genere in tutta la Jugoslavia, dettato dall’acquiescenza con cui vasti circoli borghesi ed ecclesiastici sembravano accettare l’annessione della Provincia Lubiana all’Italia356.

L’ozna, cioè il Dipartimento per la difesa del popolo, ovvero la Polizia segreta jugoslava, in cui confluì il vos, fu organizzata nel maggio 1944 dal Aleksandar Ranković, uno dei più stretti collaboratori di Tito, e da consiglieri sovietici, sul modello del nkvd. Per quanto divisa per regioni essa fu, significamente, la prima istituzione del nuovo potere con una struttura centralizzata. In quanto tale svolse un ruolo di primo piano pure nel maggio del 1945, durante i quaranta giorni in cui le unità jugoslave tennero sotto controllo Trieste, Pola e Gorizia. Per comprendere la mentalità di Tito, può essere utile citare una sua frase, detta al rappresentante britannico presso il suo Quartier generale, il generale brigadiere Fitzroy Maclean, a proposito della politica più opportuna nei confronti degli avversari: «La brutalità non ha senso, finché sei saldo in sella»357. Alla fine della guerra Tito non si sentiva evidentemente abbastanza saldo in sella da praticare una politica di moderazione: preferì ricorrere al terrore, per sbarazzarsi dei veri o potenziali nemici. Di qui, nei primi giorni dell’occupazione jugoslava ma anche nelle settimane successive, un’ondata di arresti e di uccisioni che fra Trieste, Gorizia e Pola vide - secondo calcoli degli angloamericani - la deportazione di circa 3.400 persone, di varia etnia, delle quali più di un migliaio perse la vita in esecuzioni, nei campi di concentramento o nelle prigioni jugoslave358. A queste bisogna aggiungere le vittime provenienti dalle altre zone mistilingui della Dalmazia, dell’Istria, di Fiume e dalle isole del Quarnero, il cui numero è più difficile da quantificare, ma, secondo i calcoli più attendibili, si aggirava intorno a 700-800 persone perlopiù di nazionalità italiana359. Esse finirono in maggioranza nelle carceri di Kočevje, da dove molti detenuti venivano prelevati di notte, portati in luoghi ignoti e trucidati. «Oltre a personaggi notoriamente fascisti e collaborazionisti», scrive lo Scotti, «tra le vittime dell’ozna ci furono gente semplice che certamente non avrebbe meritato la morte, ma anche dirigenti del cln di Fiume e dell’Istria antifascisti, che però si battevano per impedire l’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia». A costoro vanno aggiunti a Fiume alcuni esponenti dell’autonomismo prebellico, emarginati dal fascismo, ma considerati evidentemente pericolosi dalle nuove autorità360.

A differenza di quanto si verificò nell’autunno del 1943 in Istria, dove gli «infoibamenti» di alcune centinaia di italiani (o italianizzati) ebbero il sapore di una vendetta nazionale e sociale perlopiù spontanea «da parte di gruppi irresponsabili» (come riconobbe lo stesso cln di Trieste)361, la repressione del 1945 fu un fenomeno organizzato e pianificato. Essa rientrava nella logica totalitaria della «purga», non già etnica - come risulta in modo esplicito da un telegramma di Kardelj del 30 aprile 1945 - ma ideologica e politica, che nelle settimane successive avrebbe travolto nel suo vortice anche 100.000-150.000 collaborazionisti jugoslavi362.

Nella primavera del 1945 un gran numero di domobranci sloveni, domobrani e ustascia croati, cetnici serbi e montenegrini, che durante la guerra s'erano schierati con gli italiani e i tedeschi, cercarono di sfuggire alla vendetta di Tito seguendo le truppe tedesche nella ritirata verso l’Austria. La maggioranza di costoro fu sconfitta e costretta alla resa verso la metà di maggio, prima ancora di raggiungere la frontiera. Circa 200.000 persone, tra militari e civili, riuscirono però a concentrarsi nei dintorni di Klagenfurt e di Bleiburg, dove cercarono la protezione delle truppe britanniche. I rapporti fra Churchill e Tito erano più tesi che mai, a causa delle pretese di quest’ultimo di occupare e annettere, oltre all’intera Venezia Giulia, anche la Carinzia meridionale. La sua tattica di mettere gli Occidentali davanti al fatto compiuto fu considerata a Londra e a Washington una vera e propria sfida che, se tollerata, avrebbe potuto esser interpretata dai sovietici come segno di debolezza. Era evidente infatti, come scrisse il Foreign Office britannico a Washington, il 4 maggio 1945, che Tito non avrebbe agito né avrebbe preso un atteggiamento così arrogante se non avesse potuto contare sull’appoggio di Stalin363. Si decise pertanto d’impartire al maresciallo jugoslavo - paragonato da Truman e Alexander per la sua voglia annessionista a Hitler, a Mussolini e ai giapponesi - una lezione, a costo di doverlo sloggiare con la forza dai territori contesi364. In previsione di un possibile scontro armato, occorreva però sbarazzarsi dei rifugiati jugoslavi che per il loro numero costituivano un ostacolo alla mobilità delle truppe britanniche365. Soprattutto per questa ragione si decise di riconsegnarli a Tito che, appena saputo ciò, organizzò a Zagabria un incontro segreto coi suoi generali, dei cui esiti non furono informati neppure i vertici del partito. In quest’occasione, sembra, fu deciso di «liquidare» le unità riconsegnate dai britannici, anche per tema che si trattasse di un cavallo di Troia offerto dagli occidentali in vista del probabile attacco. Quando, pertanto, gli sloveni e i croati furono rinviati dai britannici in patria, con la promessa di trasportarli al sicuro in Italia, fatta solo per tenerli tranquilli, vennero invece accolti da truppe speciali dell’Armata jugoslava e, se maggiori di 18 anni, passati per le armi366. La carneficina, in cui furono coinvolti circa 12.000 domobranci sloveni e altrettanti domobrani e ustascia croati, come pure collaborazionisti serbi e montenegrini, costituì del resto solo una parte della grande azione di «pulizia» che coinvolse tutto il territorio jugoslavo alla fine della guerra, protraendosi fino all’inizio degli anni Cinquanta. Non va dimenticato infatti che nel paese restarono alla macchia per anni gruppi piuttosto consistenti di cetnici, e che a costoro, ma anche ad altri nuclei di opposizione al regime, fu data una caccia senza quartiere, conclusasi con il loro completo sterminio367. Lo scopo di questa mattanza di tipo sovietico, che squalificò il regime al potere fin dai suoi primi passi, fu eloquentemente descritto da un suo portavoce in un articolo pubblicato il 25 maggio 1945 sotto il titolo La vendetta è una parola terribile:

Noi siamo i costruttori di tempi nuovi, limpidi, solari; le nostre azioni sono pure, chiare, comprensibili ad ogni persona onesta. Ma se non ci vendicassimo, fra cinque, dieci anni, questi infidi comincerebbero di nuovo a diffondere tra il popolo le proprie malvage parole distruttrici, l’odio e il fratricidio. Solo con la vendetta riusciremmo a impedirglielo!

Il medesimo concetto fu ribadito in modo più spiccio e brutale nel 1946 da Stalin, che, in un colloquio con parlamentari polacchi in visita al Cremlino, disse: «Tito è un ragazzo saggio: lui non ha problemi di nemici: si è liberato di tutti»368.

Dies irae nei quaranta giorni

La spietatezza che segnò l’epopea della guerra di liberazione fu un tratto caratteristico dell’intera vicenda bellica jugoslava. Agendo sotto l’impulso del motto evangelico «chi non è con noi è contro di noi», i comunisti sloveni eliminarono ad esempio a Trieste nel 1944 anche uno dei leader della corrente cristiano-sociale del Litorale, Stanko Vuk, tornato dopo l’8 settembre dalle carceri italiane di Alessandria dove stava scontando una pesante pena detentiva, comminatagli dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato nel dicembre 1941. Egli fu sorpreso in via Rossetti con la moglie Danica e freddato da tre sicari, per quanto la giovane donna fosse sorella dello studente comunista Pinko Tomažič, condannato nella stessa occasione alla pena capitale e fucilato dai fascisti a Opicina. La ragione dell’esecuzione sommaria della coppia, cui va aggiunta una terza persona, capitata in visita nel momento sbagliato, era una sola: i comunisti che avevano ormai sotto controllo il Fronte di liberazione, non desideravano che Vuk si associasse al movimento partigiano, come intendeva fare, affinché non rafforzasse con il suo carisma i loro concorrenti politici interni, potenzialmente pericolosi369.

Oltre all’aspetto rivoluzionario, sicuramente prevalente, il regolamento di conti postbellico ne ebbe però anche un altro, universale, più antico, legato al bisogno catartico di vendicarsi dei responsabili della grande tragedia della seconda guerra mondiale. La vendetta toccò infatti nell’aprile-maggio 1945 tutti paesi europei dove s’era sviluppata una qualche resistenza370. «È difficile concepire le stragi delle foibe», dice Giovanni Miccoli, «senza l’educazione alla violenza di massa compiuta nell’Europa centro-orientale a partire dal 1941, e il generale imbarbarimento dei costumi che ne segui»371. Ecco una testimonianza sulle voci che in quel tempo circolavano a Trieste, relative ad eventi accaduti sull’altipiano carsico:

Non so esattamente dove, prima di infoibare, si organizzarono delle feste cui partecipava la popolazione locale; si suonava l’armonica, si cantava, si ballava per molte ore finché arrivavano i condannati. Sull’orlo della voragine si diceva loro: «Se sei capace di saltare dall’altra parte, sarai salvo». Il poveretto tentava la fortuna, ma appena si sollevava in aria, gli sparavano e cadeva dritto in foiba372.

Ma non esultavano soltanto gli sloveni: anche le masse popolari italiane, schieratesi in maggioranza con i partigiani jugoslavi, si abbandonavano a canti e balli che animavano le tiepide serate di maggio. Diceva il ritornello di una canzonetta, cantata nei vari rioni della città: «Caro Tito, dime sì, sì, sì, sì! che Trieste xe per ti, sì, sì, sì , sì! se i fascisti no vorrà, tutti in foiba i anderà»373.

Trieste, insomma, non fu un’eccezione rispetto a quanto succedeva nel resto dell’Europa liberata; se non per il fatto che diventando il pomo della discordia fra gli angloamericani e Tito, già da mesi considerato da Churchill un tentacolo di quella piovra che a suo dire era Stalin, le violenze degli jugoslavi potevano egregiamente servire per demolirne il mito agli occhi dell’opinione pubblica occidentale374. La tendenza a mettere in cattiva luce l’Armata jugoslava presente nella Venezia Giulia è esplicita in un telegramma spedito il 6 maggio 1945 dal maresciallo Alexander ai capi di Stato maggiore riuniti, cioè al Gotha delle forze armate britanniche e americane: «Gli italiani di ogni condizione a Trieste, eccetto i simpatizzanti jugoslavi, vengono arrestati, dato che tutte le attività sono messe sotto controllo dagli jugoslavi»375. Quest’informazione fu ripresa e ulteriormente sviluppata quattro giorni più tardi in un Memorandum del Dipartimento di Stato, in cui si parlava, già con accenti da guerra fredda, di «familiari tattiche di terrore», che sarebbero state impiegate dagli jugoslavi376. In realtà la situazione non era così allarmante, visto il tentativo degli jugoslavi di attrarre dalla propria parte non solo le masse popolari, ma anche l’élite imprenditoriale di Trieste, non del tutto sorda al canto delle sirene di Lubiana. È vero però che l’ozna e altre forze di repressione da essa dipendenti non si limitarono ad arrestare i militari collaborazionisti, i membri della banda Collotti, cui dava la caccia una particolare unità377, e i fascisti notori - i più importanti riuscirono però a tagliare la corda - ma anche alcuni esponenti del cln378. Lo fecero sulla base di più o meno precise liste di proscrizione dei «nemici del popolo» preparate da tempo, grazie alla collaborazione di confidenti sloveni e italiani379. Già il 2 maggio l’abitazione di Miani-Villa fu visitata da «stelle rosse», come venivano detti i membri della Difesa popolare, e spogliata; inoltre, un comando di settore diede l’ordine di sparagli a vista. L’ordine fu però sottratto dalla caserma di via Conti, sede del comando, e recapitato tramite un tenente inglese alle autorità britanniche con la richiesta che il Villa venisse posto sotto sorveglianza militare alleata o perlomeno autorizzato a portare armi380. Com’è evidente da questo appunto del «Diario triestino», tenuto da Tristano Illesberg, «uno dei principali coadiutori del cln durante l’occupazione jugoslava», tale organizzazione era in contatto (allacciato del resto già in precedenza) con le forze occidentali fin dal loro arrivo. Forte di questo appoggio, il Villa fissò in un’abitazione privata una sede clandestina, cercando già il 3 maggio di organizzare - in risposta a un’imponente dimostrazione filojugoslava di massa - una manifestazione filoitaliana, cui parteciparono membri del cln ed elementi raccogliticci, sfilando per il centro con in testa il tricolore (ovviamente privo della stella rossa). Furono inoltre stampati e distribuiti i primi manifesti clandestini di tono violentemente antijugoslavo. Il 3 maggio il generale Dušan Kveder, governatore militare di Trieste, impose perciò il coprifuoco dalle tre del pomeriggio alle 10 di mattina; nei giorni successivi esso fu abbreviato, pur restando in vigore almeno per le ore centrali della notte fino alla partenza delle truppe jugoslave. Proprio durante il coprifuoco venne effettuata la maggioranza degli arresti381, attuati per gli uomini in divisa dalla Polizia Militare (knoj) e da qualche piccolo reparto della divisione Garibaldi-Trieste, per i civili dalla Difesa popolare e dall’ozna, ma anche dalle «guardie del popolo» più o meno autoproclamate, che diffusero in città un’atmosfera di paura e sospetto382. Come disse il vescovo Santin a Svetozar Rittig, autorevole canonico di Zagabria, che visitò Trieste nell’estate del 1945, l’arrivo della 4ª armata e del 9º corpus era stato salutato con favore dal 75 per cento dei triestini. «Ma quando l’ozna cominciò ad applicare metodi fascisti e i lager, perfino i comunisti di Trieste persero la voglia di aderire alla Jugoslavia»383.

Le autorità militari e politiche jugoslave cercarono di tenere sotto controllo la situazione, ma non sempre ci riuscirono; subivano del resto forti pressioni da quella parte della popolazione che bramava vendetta e voleva ottenerla a qualsiasi costo. Secondo le memorie di Ivan Maček-Matija, il potente capo dell’ozna slovena, che prendeva ordini direttamente da Belgrado, Trieste era piena di cetnici, ustascia, domobranci e fascisti. Le denunzie contro di loro piovevano da ogni parte e bisognava vagliarle attentamente per impedire che si prestassero a un regolamento di conti privati. «Proprio per questo», scrive Maček nelle memorie, «chiesi ai sottoposti di essere rigorosi nelle indagini e di chiudere un occhio per quanto riguardava i giovani e le persone anziane. In quei giorni qualcuno ha sicuramente pagato pur essendo innocente, ma non per colpa nostra»384. La situazione ovviamente non era sotto controllo come cercava di presentarla il capo della Polizia Politica, dato che vi fu anche un’ondata di rapine e saccheggi cui si abbandonarono membri dell’ozna e altri esponenti del regime, nonché criminali comuni travestiti da partigiani385. Come ricorda infatti un rapporto del gennaio 1945 del capo dell’Ispettorato della Polizia Speciale Gueli, la città pullulava dal «fior fiore della delinquenza triestina, cui furono schiusi alla data del vergognoso armistizio i battenti delle prigioni»386. Le retate di militari e civili compiute dagli jugoslavi erano inoltre troppo vaste per non lasciar spazio ad abusi in un caotico e arbitrario clima da «resa dei conti» che fu notato anche dagli osservatori occidentali387. Annotava nel suo diario il vescovo Santin:

Il 2 maggio un partigiano slavo di 20 anni uccise cinicamente di sua mano 17 soldati tedeschi fatti prigionieri e due civili [...] Migliaia e migliaia di cittadini sono stati presi e sono spariti. Fra questi alcuni autentici antifascisti ripetutamente imprigionati dai fascisti e poi dai tedeschi. Sull’intimazione di arresto di qualcuno stava scritto: accusato di sentimenti nazionali388.

Nella massa dei deportati in divisa il gruppo più colpito fu quello delle Guardie di Finanza, che non avevano da scontare solo il loro allineamento con il cln del 30 maggio, ma anche la loro collaborazione coi tedeschi nell’ambito della Polizia annonaria o nel mantenere «libera dai partigiani» le strada Trieste-Fiume389. Un centinaio di essi riuscì a salvarsi grazie all’intercessione a loro favore presso le autorità jugoslave del generale Freyberg e di Rudi Ursini-Uršič, uomo di punta del pcs a Trieste390; circa settanta invece, di stanza nella caserma di Campo Marzio, quartiere periferico di Trieste, non ebbero tale fortuna: non essendo stati informati dai loro superiori che la formazione era stata messa a disposizione del cln, opposero resistenza alla 4ª armata assieme ai militari germanici, accasermati nello stesso edificio. Furono deportati mediante autocarri il 5 maggio nei campi di internamento in Jugoslavia, per la maggior parte in quello di Borovnica, dove parecchi morirono a causa di un’epidemia di tifo391. Il quotidiano «La Libera Stampa» di Roma pubblicò il 26 luglio 1945 in prima pagina un «servizio speciale» da Venezia, intitolato: Piombo croato a San Pietro del Carso - Selvaggio massacro di 150 guardie di finanza392. Diversa la tesi diffusa dal più noto sindaco di Trieste del dopoguerra, Gianni Bartoli. Nel suo Il martirologio delle genti adriatiche scrive infatti: «Della sorte del centinaio di finanzieri [...] non si è saputo mai nulla: “deportati per ignota destinazione” sta scritto sui cartellini anagrafici, ma la voce del popolo commenta: “infoibati”»393.

Il 3 maggio Trieste era invasa da una folla festante: 10.000 abitanti della città e del circondario, in maggioranza sloveni, molti nei variopinti costumi nazionali, celebrarono la vittoria con una grande parata. In testa all’imponente corteo, che inalberava un grande ritratto di Tito incorniciato dall’edera, avanzavano quattro splendide donne, per confutare lo sfottò dei nazionalisti italiani secondo cui le «slave» erano brutte e avevano le gambe storte394. In quell’occasione un esponente del cln tentò, senza successo, un atto di sabotaggio contro Radio Trieste. Per lenire la frustrazione degli italiani antijugoslavi «muti e confusi» e permettergli di restare in contatto con il governo di Roma il tenente Laugham - il tramite fra Miani e gli Alleati - promise loro una radio trasmittente. Da parte loro, questi gli consegnarono l’elenco dei patrioti prelevati dalle «stelle rosse» perché a sua volta lo trasmettesse ai suoi superiori395. Il 5 maggio fu organizzata una contromanifestazione che fini in tragedia. Sul corso apparve una macchina neozelandese in cui sedeva un ufficiale con la bandiera italiana (con lo scudo sabaudo) e quella inglese ai due lati. La macchina si arrestò all’altezza della piazza della Borsa, e allora un soldato jugoslavo staccò violentemente il tricolore «sbagliato», scagliandolo a terra. Il neozelandese scese dalla macchina, raccolse la bandiera, la ricollocò al suo posto e sferrò un pugno allo jugoslavo che se ne andò senza reagire. L’incidente, che era ovviamente una provocazione, non finì li. Ci fu un accorrere di gente, un tafferuglio, una sparatoria da parte jugoslava, che costò la vita a quattro giovani e lasciò sul suolo dieci feriti più o meno gravi; tra essi qualche ex ufficiale dello rsi e parecchi dal nome sloveno o comunque slavo396. «Non intendono la libertà di discussione, il contrapporre idea a idea», commentava sconsolato lo Schiffrer, riferendosi agli jugoslavi, «parlano soltanto dei meriti da loro acquisiti e del conseguente loro diritto di comandare. Essi parlano soltanto il linguaggio della forza»397. Lui e i suoi compagni non si limitarono a queste considerazioni, ma svilupparono sull’«Osservatorio del cln», ciclostilato e diffuso in migliaia di esemplari, una polemica durissima contro i «fascisti slavi», senza preoccuparsi del fatto che questi combattessero ancora con la Wehrmacht a pochi chilometri di distanza398.

Con la manifestazione del 5 maggio il cln aveva comunque raggiunto il suo scopo. Come sta scritto in un documento stilato probabilmente dal Miani, «l’eccidio del 5 maggio 1945 fu considerato un errore fatale dell’amministrazione jugoslava, esso richiamò l’attenzione dei governi alleati, già insoddisfatti dell’occupazione del porto adriatico, e commosse l’opinione pubblica internazionale»399. Non è forse un caso che dal 5 maggio il «Times» avesse un suo corrispondente a Trieste, e che egli ben presto cominciasse a inviare reportage come questo, dedicato alla «quarantena titoista», più vicino alla letteratura di propaganda che al rigore di un servizio giornalistico: «Di notte si sentono passi lenti e cadenzati delle pattuglie jugoslave e talvolta passi più lenti, meno cadenzati, traballanti. Allora sai, che nella pattuglia non ci sono solo soldati jugoslavi, ma che questi portano con sé uomini e donne...»400. La divisione fra buoni e cattivi non era comunque così semplice come si potrebbe desumere da quest’articolo, visto che a metà maggio i repubblichini cercarono di organizzare un’azione armata, alla vigilia di una grande cerimonia in cui il generale Kveder avrebbe trasferito l’amministrazione della città ai comitati di liberazione401. L’insurrezione fu sventata all’ultimo momento da una soffiata al centro dell’informazione militare jugoslava. Gli organizzatori, resisi conto che il loro piano era stato scoperto e mancando la sperata adesione della Chiesa e del ceto medio di Trieste, contrari a ridurre la città a un sanguinoso campo di battaglia, furono costretti a rinunciarvi402.

Dopo il 15 maggio gli arresti indiscriminati e la «pulizia» incontrollata cessarono in gran parte, sebbene violenze compiute dagli jugoslavi o da criminali di origine triestina, infiltratisi tra le loro file, si verificassero anche più tardi. A questo proposito va citata la banda Steffé-Zoll, detta «squadra volante», costituita da malfattori comuni, alcuni dei quali già membri della x mas, che si erano finti partigiani ed erano riusciti a impossessarsi delle carceri dei Gesuiti. Si trattava, secondo indizi da non sottovalutare, di un piano elaborato già nell’ottobre del 1944 da agenti legati alla oss (il servizio segreto americano) per creare disordini e gettare discredito sulle forze della Resistenza403. Per intervento del vescovo Santin presso le autorità jugoslave i componenti della «squadra» furono comunque smascherati e «liquidati», prima che queste ultime abbandonassero Trieste404.

«Giù le mani da Trieste!»

La macchina della propaganda antijugoslava avviata dai tedeschi fu fatta girare senza soluzione di continuità dagli angloamericani, di giorno in giorno più ostili alle pretese di Tito sulla parte occidentale della Venezia Giulia e sempre più preoccupati delle strutture d’amministrazione civile che cominciarono a formarsi nelle città sulla base di elezioni, organizzate dagli jugoslavi per dimostrare l’appoggio popolare di cui godevano. Fu tenuto in non cale, per dirla con Sylvia Sprigge,

[...] il fatto che proprio sotto gli jugoslavi Trieste ebbe la sua prima razione di carne dopo quattro mesi, che gli operai di Trieste ed i contadini della regione per la prima volta dopo molti anni si sentirono personaggi di primo piano in città, personaggi le cui speranze ed aspirazioni si sarebbero finalmente tradotte in realtà; che in seno al movimento, durante l’occupazione, esisteva davvero un senso di fratellanza fra italiani e jugoslavi405.

Tutta l’attenzione fu invece centrata sulle notizie «sugli arresti di italiani effettuati su ampia scala dalle Guardie del Popolo»406. Il messaggio era chiaro: da una parte c’erano i «bolscevichi slavi», dall’altra gli italiani, perseguitati solo in quanto tali. A detta della Sprigge, infatti, le Guardie del popolo arrestavano arbitrariamente per strada uomini dai 17 ai 50 anni che non avevano risposto all’appello, rivolto loro il 3 maggio con manifesti affissi sui muri, di arruolarsi come volontari nell’esercito jugoslavo. Si trattava, nell’interpretazione della giornalista, della prima dimostrazione di un’annessione de facto. Scriveva la corrispondente del «Manchester Guardian»:

Per tutto il mese di maggio sono giunte a Trieste e nel resto del mondo notizie di arresti perpetrati a Capodistria, Pirano, Cittanova, Parenzo, Rovigno, Pola e Fiume, tutte (eccetto Fiume) città della costa istriana con una popolazione esclusivamente italiana. Si è venuto inoltre a sapere che erano stati approntati grandi campi di concentramento jugoslavi a Erpelle Kozina, Ajdovščina, Prestane e Matteria in Istria, e Borovnica, Karlovac e St. Vid. Si stima che nella regione siano stati effettuati circa 12.000 arresti. Le autorità jugoslave stesse hanno successivamente ammesso che non era stata tenuta una registrazione delle persone arrestate407.

La Sprigge, che nell’autunno 1944 aveva lanciato per prima l’allarme sulle richieste territoriali di Tito per quanto riguarda la Venezia Giulia, era una donna influente in quanto corrispondente di uno dei più diffusi giornali britannici e moglie di Cecil Sprigge, capo della sede romana dell’agenzia Reuter. Appena arrivata a Trieste, essa si mise in contatto con il cln locale, sposandone la causa408. In Italia la campagna di stampa sul giornale monarchico «Italia Nuova» e sul democristano «Il Popolo» raggiunse l’acme nella terza settimana di maggio, con titoli come Giù le mani da Trieste, L’insurrezione antitedesca è una pagina di gloria italiana a Trieste, Tradimento comunista e jugoslavo, Terrore jugoslavo a Trieste409. Ciò in corrispondenza con l’arrivo in città del maresciallo Alexander, accompagnato dai suoi principali collaboratori, per impostare un’operazione militare alleata contro gli jugoslavi se questi non avessero accettato l’ingiunzione di Churchill e Truman di abbandonare la parte occidentale della Venezia Giulia. L’8ª armata divenne «operativa», cioè pronta all’azione bellica, anche se la guerra in Europa era terminata già da due settimane410. Si trattava dell’unico serio conflitto nel campo della coalizione antihitleriana scoppiato a guerra finita, che Truman e Churchill pensarono però necessario per bloccare le ambizioni di conquista del blocco sovietico. Nel chiedere al premier neozelandese Frazer l’assenso per un eventuale impiego delle sue truppe nello scontro con gli jugoslavi, lo statista britannico scriveva: «Sento che siamo nel giusto nel serrare i ranghi con gli Stati Uniti in questa faccenda. Essa può ben portare ad uno “showdown” con la Russia per quanto riguarda l’indipendenza e la sovranità di Polonia, Austria, Cecoslovacchia e Jugoslavia»411.

Questo linguaggio della forza fu esplicito quanto convincente: Tito, abbandonato da Stalin che non volle rischiare un confronto con gli angloamericani per una questione tutto sommato di secondaria importanza, dovette cedere. I suoi rappresentanti accettarono il 21 maggio la «linea Morgan» che prese il nome dal generale britannico incaricato delle trattative. Con essa la Venezia Giulia venne divisa in due parti, la più piccola a occidente, con Trieste, Gorizia e l’enclave di Pola, sottoposta al Governo militare alleato (gma); la restante, a quello dell’Armata jugoslava. L’accordo, definito ulteriormente il 9 giugno a Duino, entrò in vigore nei giorni successivi. «Il 10, 11, 12 di giugno le truppe jugoslave si sono ritirate», scriveva la Sprigge, «intonando lugubri canti durante il loro cammino»412.

Prima ancora che gli jugoslavi avessero sgomberato Trieste, le accuse loro rivolte di aver commesso atrocità nelle settimane precedenti si fecero più precise. Il 30 maggio 1945 il «Nostro Avvenire» pubblicò un attacco «contro certi triestini che a Venezia hanno fatto dichiarazioni pessimistiche sulla situazione creatasi nella Venezia Giulia sotto la dominazione jugoslava», parlando di «uccisioni di massa»413. L’«Osservatorio del cln» rispose il 5 giugno con un articolo pregno d’amara ironia, in cui chiedeva al «giornale titino» di voler tranquillizzare l’opinione pubblica sulla sorte di centinaia di patrioti del cln e del Corpo volontari della libertà che con l’avvento del «regime fascista slavo» sarebbero stati imprigionati e deportati. «E nello stesso tempo vi preghiamo di dirci se per caso a Basovizza ed altrove non si siano ripetuti gli orrori delle tragiche foibe istriane come in città si ha ragione di credere»414.

Foibe. Una storia d'Italia
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