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COSTRUIRE UNA COMUNITÀ PER CAMBIARE IL MONDO
L’antidoto alla disperazione non è solo l’azione ma la comunità
La più grossa menzogna mai raccontata su qualsiasi rivoluzione è l’idea che sia stata opera di un singolo. Per liberarci dai sistemi e dalle leggi che ci opprimono e costruire un mondo migliore serve una comunità. Per spostare l’ago della bilancia verso il cambiamento dobbiamo riunire sul piatto più persone possibile. Forse “comunità” è un termine troppo vago, perciò restringiamo il campo: sto parlando della vostra associazione, del vostro gruppo di quartiere, del movimento in cui lavorate per la giustizia. Mettere in pratica i valori per cui lottate nel contesto della vostra organizzazione conta quanto difenderli all’esterno. Come potremo abbattere i sistemi di oppressione nel mondo se li replichiamo all’interno dei nostri gruppi? Come pretendere una società più inclusiva, giusta, democratica, fraterna e funzionale se le nostre stesse associazioni perpetuano la disfunzionalità della disuguaglianza, dell’esclusione, dell’arbitrio? L’ambiente che coltivate nei vostri spazi d’azione e nel movimento è di un’importanza capitale, e vale sempre la pena di investire tempo e risorse per migliorarlo.
Il primo ostacolo sono le rivalità e le divisioni interne che distruggono la coesione e ci rendono più deboli di fronte agli oppositori. Perché diciamo la verità (e qui prenderò a esempio il movimento per la giustizia climatica): le industrie del petrolio, del gas, dell’agricoltura intensiva e della chimica hanno dalla loro parte i soldi, il potere politico e pressoché ogni tipo di risorsa. Sono letteralmente una macchina bene oliata. Mentre noi attivisti siamo spiantati. Se vogliamo impedire che queste industrie distruggano ogni forma di vita sulla Terra possiamo contare soltanto sulla forza dei numeri. Ma affinché la nostra maggioranza abbia peso servono unità e strategie organizzate, una comunità abbastanza coesa da esercitare una pressione autentica e da adottare tattiche condivise. Se unità e solidarietà si sfaldano, non avremo la minima possibilità di tenere testa alla macchina straricca e organizzatissima dei nostri avversari.
Un movimento rivoluzionario non può permettersi conflitti interni. E non può esigere giustizia, equità, uguaglianza e cambiamento se è esso stesso ingiusto, abusivo o tossico. Lo dico per esperienza. Mi è capitato spesso di vedere organizzazioni (comprese quelle giovanili) talmente ossessionate dal lavoro e dalle pressioni esterne da trascurare la propria manutenzione interna. Se serve una comunità per cambiare il mondo allora costruire comunità giuste è già metà dell’impresa!
I nostri movimenti devono tramutarsi in strepitosi spazi di cambiamento!
Certo, è una parola, perché – siamo onesti – è dura lavorare con gli altri! I movimenti e le associazioni non cedono alle divisioni e alle disfunzionalità interne perché detestiamo il nostro prossimo e ce ne freghiamo della comunità. È che servono impegno, esercizio, apprendimento ed elaborazione emotiva per restare davvero in contatto con i compagni. Prenderci cura gli uni degli altri mentre lottiamo per un mondo migliore significa già vivere concretamente in quel mondo, ma è un’impresa!
Ciascuno di noi ha emozioni e convinzioni proprie che trova difficile comunicare, e spesso il nostro prossimo è una spina nel fianco. Ve lo dico con franchezza: non sempre mi piacciono i miei simili. Gli esseri umani esigono una quantità di attenzioni, per non parlare poi della seccatura di badare alla salute psicologica, all’equilibrio tra vita privata e lavorativa e al rispetto degli spazi personali (che palle!).
Incombe sempre il rischio di equivoci e incomprensioni (soprattutto quando dobbiamo organizzarci in remoto attraverso i dispositivi digitali), di scontri di opinione, o del buon vecchio ego e delle questioni personali irrisolte che si mettono di mezzo.
Se siete alle prese con conflitti interni al vostro gruppo/movimento/associazione o nei rapporti con altri gruppi/movimenti/associazioni, benvenuti nel club! Le persone sono indisponenti e invadenti, ma non c’è verso di aggirarle: per vincere dobbiamo imparare a collaborare.
Perciò se al momento il vostro gruppo si è arenato sulle lotte intestine e/o con gruppi alleati, per prima cosa avete tutta la mia solidarietà: so come ci si sente! Adesso però mettiamo da parte l’autocommiserazione e cerchiamo di risolvere il problema. Qui di seguito trovate i miei metodi più efficaci per affrontare qualsiasi tipo di conflitto nel vostro movimento.
LA GUIDA DEFINITIVA PER COSTRUIRE UNA FAVOLOSA COMUNITÀ/ASSOCIAZIONE IN CUI TUTTI SI SENTONO APPREZZATI E LAVORANO IN ARMONIA
1. Parlatene! Non pretendete che gli altri siano telepatici
È importante non dare mai per scontato che gli altri sappiano come vi sentite o ciò che pensate. A me è capitato spesso che i miei collaboratori avessero rimostranze sul mio stile di leadership, di lavoro o altro, ma le tenessero per sé. Si limitavano alle allusioni, aspettandosi che fossi io a cogliere il sottinteso. E dato che non sono telepatica, i problemi restavano inespressi, creando risentimenti e ostilità che continuavano ad accumularsi finché esplodevano in conflitto aperto.
Ci saremmo tutti evitati un mucchio di guai se ne avessimo discusso per tempo. Morale della storia? Se qualcosa nel vostro ambiente di militanza non vi piace, se avete un problema con un compagno o un’altra organizzazione, parlatene apertamente con gli interessati. Niente lagnanze alle spalle. Niente commenti passivo-aggressivi sui social. Anzi, l’aggressività passiva eliminatela del tutto.
Portate il problema allo scoperto in modo professionale e diretto. E in privato, non davanti a tutti.
Vi intimidisce la prospettiva di una discussione e avete la tendenza a scansare i conflitti invece che affrontarli? Stringete i denti e superate le vostre remore personali, oppure chiedete a un compagno fidato di aiutarvi a impostare il discorso. Ciò detto, sono consapevole che l’ansia e le insicurezze possono rendere molto difficile la comunicazione faccia a faccia, perciò scegliete una modalità adatta a voi: un’email educata e non emotiva (contate sempre fino a dieci e rileggete con attenzione prima dell’invio: i messaggi scritti a caldo sono bombe a orologeria) oppure un incontro gestito da un moderatore.
Se c’è una divario di potere significativo tra voi e il vostro interlocutore (se per esempio siete un lavoratore stipendiato e il problema è con il vostro capo, oppure siete una studentessa di colore e l’altro un insegnante bianco) chiedete a un alleato autorevole di accompagnarvi.
Ecco due esempi di approccio per aprire in modo positivo la conversazione:
- «Sai quanto adoro lavorare insieme a te, ma ultimamente sono emerse piccole incomprensioni e se hai tempo vorrei chiarirle…»
- «Entrambi teniamo moltissimo all’efficacia del nostro movimento, e proprio per questo è importante parlare apertamente del nostro stile di lavoro per continuare a migliorare…»
Ribadisco però che una comunicazione diretta e trasparente con la persona interessata non deve tramutarsi in uno spettacolo pubblico. Se per esempio inviate l’email “per conoscenza” a un mucchio di altri destinatari, la faccenda non resterà più tra voi due: invece di comunicare all’altro la vostra disponibilità a cambiare insieme avrete creato una piazzata, o peggio ancora una sorta di processo. Atteggiarvi a superiori e sparare giudizi dall’alto non è mai utile; al contrario, mette l’interlocutore sulla difensiva, e meno disposto all’ascolto. Insomma, crea solo casini. Fidatevi: io ne ho combinati parecchi in passato.
Usate il buonsenso e provate a immaginarvi nei panni dell’altro: se qualcuno avesse una difficoltà o un problema con voi, come vorreste che ne parlasse? Quale tipo di comunicazione vi renderebbe più ricettivi?
2. Dotatevi di un moderatore e investite in laboratori e corsi di comunicazione
Poter contare su una prospettiva esterna e professionale può avere un’importanza cruciale, non solo nella mediazione dei conflitti ma anche nella gestione ordinaria del vostro gruppo o della vostra organizzazione. Molte associazioni organizzano stage annuali con la partecipazione di professionisti nel campo delle no profit e della giustizia intersezionale che le aiutino a perfezionare le dinamiche di gruppo, le strategie e le comunicazioni interpersonali.
Fate una ricerca online oppure chiedete ad altri organizzatori esperti di suggerirvi il nome di un buon moderatore, capace di portare i rapporti interni al gruppo al livello successivo.
Ciò detto, mi rendo conto che gran parte di noi va ancora a scuola e non sempre ha accesso a certi strumenti.
Se è il vostro caso basterà trovare una persona neutrale e chiederle di prestarsi da moderatore della conversazione tra le parti in causa. Potrà trattarsi di un attivista appartenente a un’altra associazione, di un mentore, oppure di un membro imparziale del vostro gruppo. In ogni caso dovrà essere assolutamente neutrale e non incline a favorire l’una o l’altra delle parti. È un metodo che ho usato spesso, e ogni volta è stato utilissimo per sciogliere i nodi e passare oltre, perciò lo raccomando al cento per cento!
3. Istituite un’infrastruttura che garantisca processi democratici di organizzazione e di voto
Secondo la mia esperienza, gli attivisti si dividono in due categorie: quelli sempre pronti a parlare e a esprimere il proprio parere e quelli che restano zitti e in disparte, lasciando il podio ai compagni più assertivi, senza mai pronunciarsi in proprio.
Sapete invece quale categoria è del tutto introvabile negli spazi della militanza? Le persone che non hanno un’opinione propria. Se qualcuno dichiara che gli va bene tutto è molto probabile che stia imbottigliando contrarietà. Nel caso di una decisione importante tutti avranno un parere ben preciso, e non so dirvi quante volte mi è capitato di lavorare con compagni che restavano in silenzio durante la fase decisionale, salvo poi mettere il muso perché l’esito non era stato quello che avrebbero desiderato.
Ecco perché è cruciale istituire un sistema che costringa tutti a dire la loro, esprimendo in modo chiaro la propria posizione. Dedicate del tempo a creare un’infrastruttura che stabilisca regole chiare e democratiche per il processo decisionale. E accertatevi che il sistema non permetta a nessuno di restare a bordocampo. Garantire la partecipazione è essenziale affinché tutti si sentano coinvolti e inclusi nelle decisioni, creando una cultura di democrazia e trasparenza a garanzia dell’efficacia del vostro lavoro.
Assicuratevi che il gruppo presti un ascolto particolare proprio ai membri più isolati e introversi. Non è ammissibile che siano sempre le stesse persone a parlare e a dettare le regole. Istituire norme e procedure che radichino l’ascolto collettivo come prassi farà di ogni conversazione un’occasione di emancipazione e liberazione collettiva.
E nel caso apparteniate voi stessi alla categoria che alle riunioni tende restare defilata e a tenere per sé la sua opinione… be’, smettetela di pretendere che gli altri vi leggano nel pensiero! Perché non basta istituire sistemi che favoriscono una partecipazione egualitaria e democratica: è anche necessario che i membri del gruppo siano disposti a partecipare, senza addossare agli altri il peso di dover essere telepatici.
4. Esaminate la visione di ciascuno per il movimento/associazione e individuate i punti di conflitto
Ci saranno sempre contrasti all’interno di uno spazio di militanza, ma esistono livelli oltre i quali il conflitto diventa disfunzionale. E un livello molto alto e sostenuto di disfunzionalità può essere il sintomo di un problema più grosso alla base.
I membri del vostro gruppo condividono tutti lo stesso obiettivo e la stessa visione di massima? Ci sono pareri discordanti su importanti questioni strategiche o ideologiche che stanno creando divisioni al vostro interno? Si sono formati schieramenti contrapposti? La direzione intrapresa dalla vostra organizzazione ha accontentato solo una minoranza?
In tutti questi casi una comunicazione e un dibattito aperto sono di importanza vitale. Prendete il coraggio a due mani e siate voi per primi a intavolare il discorso: «Siamo sicuri di avere tutti la stessa visione strategica per il cambiamento? Vogliamo davvero realizzare il progetto cui stiamo lavorando da tanto tempo? Le persone presenti sono davvero convinte di voler restare? La causa per cui stiamo lottando è condivisa alla pari da ogni membro del gruppo?».
Organizzate una riunione o una videoconferenza in cui ciascuno possa esprimere liberamente il proprio pensiero e la propria opinione sulla direzione del movimento. A volte sono le divergenze sulle grandi questioni ideologiche ad alimentare i piccoli dissapori quotidiani.
Lo so perché mi è capitato. Oh, quante discussioni e tensioni ci saremmo risparmiati se tutti avessero parlato chiaro invece che tapparsi la bocca e aspettare che gli altri indovinassero cosa gli passava per la testa… (sigh).
Sono la prima ad ammettere che in alcuni gruppi creati in passato non tutti si sentivano ascoltati o apprezzavano la direzione che avevo impresso al movimento. Il guaio è stato che nessuno mi aveva detto niente. Hanno continuato a covare contrarietà, e quando alla fine si sono decisi a parlare avevano un elenco di lagnanze che abbracciava un anno intero. Io adoro il feedback e le critiche costruttive, e sono più che aperta a imparare e crescere, ma questo è possibile solo se gli altri parlano chiaro!
5. Domandatevi se lo spazio in cui agite è il migliore possibile per il lavoro che vi siete prefissi e se, invece, non sia il caso di cambiare aria
A volte il conflitto sorge dal fatto di trovarvi nel posto sbagliato. Rifletteteci a fondo. Il gruppo in cui operate o che avete organizzato è quello giusto per voi? Vi fa sentire protetti, apprezzati e liberi? Gli attriti durano da molto tempo? Ci sono soluzioni in vista? È possibile rimediare alle incomprensioni o si tratta di divergenze strutturali? Che cosa sarebbe meglio per voi e il movimento: restare e continuare a tenere duro oppure trovare una casa diversa per il vostro lavoro?
Prendetevi qualche settimana per esaminare tutte queste domande e rispondetevi con assoluta franchezza.
6. Non permettete mai ai conflitti interni allo spazio di militanza di fagocitare la vostra vita. A questa regola non esistono eccezioni
È un errore che io ho pagato caro. La mia organizzazione stava attraversando un difficile periodo di transizione, e per circa tre settimane la mia vita è diventata un inferno. Le giornate si trascinavano in un orrendo susseguirsi di alti e bassi emotivi. Mi ero impegnata così tanto e adesso vedevo sfumare davanti agli occhi i frutti del mio duro lavoro. Avevo rinunciato a quasi tutto per dedicarmi alla causa (non un atteggiamento sano per un attivista, tra parentesi), ed era stato per niente. Mi sentivo tradita da persone di cui mi fidavo, e cose prima incise nel marmo di colpo venivano messe in discussione. A scuola avevo gli esami, ma invece di studiare mi buttai a capofitto nel tentativo di risolvere i problemi. E ogni volta che pensavo di esserci riuscita ne saltava fuori un altro, cogliendomi alla sprovvista e costringendomi a ricominciare da capo. Tutto sembrava appeso a un filo.
Per tre settimane filate ignorai la mia famiglia e mi comportai malissimo in casa. Trascurai gli amici, mettendoli da parte e passando più tempo a discutere al telefono che insieme a persone che mi avrebbero amata e apprezzata a prescindere dal destino di Zero Hour. Smisi di avere cura di me. Tralasciai lo studio, ritrovandomi con i voti peggiori della mia carriera scolastica. Permisi alle preoccupazioni relative al mio attivismo di occupare ogni angolo della mia vita.
Alla fine Zero Hour riuscì a superare i suoi problemi interni, e tutti noi ne uscimmo più forti e migliori.
Perché vi ho raccontato questa storia? Per dirvi di non cadere nella stessa trappola. Non abbandonate tutto il resto per salvare il vostro gruppo di militanza. Quali che siano i suoi guai, conflitti o difficoltà, non lasciate che invadano ogni spazio. Non ne vale la pena, e anzi, immergervi completamente nei problemi servirà solo ad aggravarli. Se vivete in apnea, senza mai un attimo di respiro da dedicare alle persone che amate e alle parti della vostra identità che non riguardano la causa, vi ritroverete senza fiato. In mancanza di valvole di sfogo accumulerete rancore e tensioni, e sarete ancora meno in grado di gestire i conflitti all’interno del gruppo.
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E questo è quanto! Adesso conoscete tutti i miei segreti su come gestire le difficoltà della militanza di gruppo.
Ammetto che per me è stata dura, ma affrontare i conflitti interni all’organizzazione mi ha insegnato moltissimo e mi ha resa un’attivista migliore e più giusta. Ci sono voluti anni di tentativi ed errori prima di trovare finalmente un sistema efficace e cominciare a capire le dinamiche del lavoro collettivo. Casini però ne combino anche adesso: sto ancora imparando!
ERRORI CHE HO COMMESSO E CHE VEDO OGNI GIORNO NEGLI ALTRI MOVIMENTI… E COME RIMEDIARE!
1. Dispotismo
All’inizio della mia leadership di Zero Hour, mi comportai come una piccola despota, rendendo piuttosto sgradevole l’esperienza per alcuni dei nostri attivisti. In mancanza di un sistema decisionale democratico ero la sola a esercitare il potere e il mio atteggiamento era: «O fate come dico oppure quella è la porta». Non che mi fossi proposta intenzionalmente di spadroneggiare sugli altri. Volevo solo il meglio per il movimento, e che ci crediate o no non mi resi proprio conto di essermi tramutata in un tiranno e che in parecchi avevano da ridire sul mio atteggiamento. Ero diventata io stessa un ostacolo al cambiamento, e continuai così finché i compagni mi misero seduta e mi dissero chiaro in faccia come stavano le cose. Zero Hour riuscì comunque a superare l’impasse. Io acquisii una consapevolezza maggiore di me stessa e delle esigenze e dei sentimenti altrui; istituimmo un sistema decisionale equo e basato sul consenso, e alla fine l’esperienza fu proficua per tutti.
Si può sempre imparare qualcosa dai propri errori, perciò adesso tocca a voi. Rifletteteci a fondo: il vostro spazio di militanza è equo e democratico? Ci sono una o più persone che esercitano troppo potere e prendono decisioni a nome di tutti?
La soluzione: Riunite il gruppo e parlate apertamente della situazione. Stabilite alcune regole fondamentali per garantire il rispetto e l’ascolto delle opinioni di ciascuno e permettere a tutti di esprimere le proprie obiezioni sulla gestione e l’andamento dell’associazione. Stilate un documento in cui precisate i cambiamenti principali e più urgenti e avviate l’implementazione di prassi più democratiche, che riconoscano il valore e il contributo di tutti. Ispiratevi ad altre organizzazioni, osservatene le strutture e i processi decisionali e adottate quelli più adatti a migliorare la vostra. Siamo giovani e ci stiamo facendo le ossa, perciò se qualcosa non funziona non serve sentirci in colpa o fustigarci. Molto meglio essere aperti all’apprendimento e al cambiamento, affinché il nostro spazio di lotta rispecchi le qualità che vorremmo vedere nel mondo: equità, democrazia, inclusività.
2. Trascurare le dinamiche di gruppo
In passato io tendevo a trascurare gli aspetti sociali e interpersonali dell’organizzazione. Ero sempre restia a destinare tempo e risorse ai corsi di formazione, ai mediatori e ad altri accorgimenti necessari per rendere il nostro ambiente sicuro e accogliente per tutti. Mi sembravano cose superflue: “Perché perdere tempo a preoccuparci delle nostre reazioni emotive? Qui abbiamo un lavoro serio da fare!”. Ma senza strumenti per migliorare le dinamiche collettive e la comunicazione interpersonale gli screzi diventavano conflitti e infine vere e proprie bombe che ci scoppiavano in faccia.
La soluzione: Dedicate tempo e risorse ad approfondire le dinamiche di gruppo e la gestione interna del movimento o dell’associazione. Iscrivetevi a uno stage di formazione o più semplicemente organizzate una riunione con gli altri in cui parlare apertamente di come migliorare il lavoro quotidiano. Quelli che vi circondano sono esseri umani, non robot, e meritano di operare in uno spazio creativo, non alla catena di montaggio. Prestate sempre attenzione agli aspetti relazionali, organizzando anche occasioni di semplice socialità, ritrovi, laboratori di rilassamento e comunicazione, incontri mediati da un moderatore e simili.
3. Delegare responsabilità a persone irresponsabili
Mi è capitato spessissimo di continuare a contare su persone che si erano dimostrate svogliate o non all’altezza. Ho permesso a collaboratori incompetenti, non motivati e irresponsabili di conservare il posto, lasciandomi convincere a non rimpiazzarli. Il mio timore dei conflitti e la paura di offendere qualcuno sono costati al mio movimento moltissimo denaro, tempo e risultati. Lasciare una responsabilità in mano a chi si è già dimostrato incapace di gestirla è un autentico autogol. Delegare incarichi a chi non sa portarli a termine è la ricetta ideale per il disastro. La faccenda è complicata, perché non sempre si riesce a distinguere a colpo d’occhio una persona svogliata da un’altra che ha soltanto uno stile di lavoro diverso dal vostro, oppure che è animata dalle migliori intenzioni ma manca delle competenze giuste.
La soluzione: Affrontate il problema caso per caso e parlatene con la persona interessata, chiedendo la sua versione dei fatti. Cercate soluzioni che funzionino sia per lei sia per il bene dell’organizzazione.
La regola: Quando qualcuno vi ha già dimostrato nei fatti che tipo di persona è, dovete credergli. Non concedete una terza, quarta, quinta, decima, ventesima possibilità a chi ha già dato prova di non essere adeguato.
4. Coinvolgere i genitori
Ultimamente abbiamo assistito a un’ascesa della “mamme da comizio”, ovvero genitori impiccioni che favoriscono l’attivismo dei figli nella speranza che diventino famosi… un’ambizione davvero perversa, perché il nostro obiettivo deve essere il cambiamento, non la celebrità! Se puntate alla fama fate un passo indietro e riflettete sulla vostra scelta: forse la militanza non è il mestiere adatto a voi. La “celebrità” come attivisti è rara e pochissimo premiante, e bisogna sgobbare centinaia di ore per guadagnarsi quindici secondi di ribalta. Perciò se è questo il vostro scopo di vita, provate un’altra strada, per esempio diventare virali in rete con una sparata sui social o un video demenziale.
Comunque, queste mamme da comizio interferiscono nei rapporti interpersonali dei figli e con le loro attività, scatenando rivalità tra compagni e con altri genitori: «Tuo figlio sta monopolizzando i giornalisti! Perché tua figlia è stata intervistata dal “New York Times” e la mia no?!».
Come militanti dovrete non soltanto tenere a bada il vostro ego ma anche quello dei vostri genitori. Volete sapere qual è il livello di coinvolgimento di mia madre nel mio attivismo? Portarmi una macedonia se una videoconferenza si è protratta troppo a lungo, accertarsi che sia al sicuro quando partecipo a una manifestazione e a volte seguirmi nelle conferenze fuori città, per tenermi compagnia e scattare qualche foto. E mio padre? Legge i contratti insieme a me per verificare che non venga sfruttata, mi aiuta a gestire l’agenda, firma i moduli di consenso per le interviste che ho deciso di accettare, si presta per la manovalanza agli eventi di Zero Hour e a volte mi offre un passaggio per quelli più vicini a casa. E questo è quanto. Entrambi hanno chiesto spesso di partecipare di più, ma io non l’ho mai permesso, perché loro non sono militanti e non avendo esperienza potrebbero fare più male che bene.
La soluzione: In linea di massima, il contributo dei genitori alle vostre attività di militanti dovrebbe limitarsi a garantire la vostra protezione: esaminare i contratti e il carico di impegni, occuparsi della logistica per la vostra sicurezza fisica, accertare che nessuno vi stia sfruttando o si approfitti di voi. Devono restare genitori, non improvvisarsi addetti stampa. Vostra madre non può chiamare la mamma di un altro attivista per lamentarsi della sua troppa celebrità. Vostro padre non può intervenire in una videoconferenza per dire la sua.
Ovviamente esistono eccezioni alla regola, per esempio per i ragazzi portatori di disabilità o che vivono in circostanze particolari. Ma resta il fatto che il coinvolgimento eccessivo dei genitori, soprattutto se per motivi egoistici, guasta i movimenti giovanili.
Certo è diverso se i vostri genitori sono attivisti in proprio, se collaborate insieme al lancio di un’associazione o se la vostra famiglia è già impegnata nella causa. In questo caso va benissimo, anzi, le organizzazioni intergenerazionali sono fantastiche e capaci di risultati enormi. Tuttavia non lasciate il microfono a mamma e papà se non hanno esperienza nel campo o se vi accorgete che cominciano a coltivare ambizioni troppo egocentriche.
Mentre vi esorto a evitare tutti questi errori, voglio anche ricordarvi di essere comprensivi con voi stessi, e sempre consapevoli che sbagliare è inevitabile. La vita è complessa e caotica, perciò succede a tutti di dimenticare o trascurare qualcosa.
I perfezionisti che vivono nel terrore di commettere uno sbaglio non vanno mai molto lontano, perché limitano le proprie occasioni di crescita e di sperimentazione. Nella comunità militante abbiamo un problema grave di condanne e boicottaggi reciproci, in cui tendiamo a essere ipercritici nei confronti degli altri, sentendoci in diritto di svergognarli online per ogni caduta di stile. Bisogna smetterla con questo vizio di additare il minimo passo falso. Uno sbaglio non fa di noi cattive persone o militanti falliti: significa solo che dobbiamo impegnarci a migliorare. Un giovane attivista deve giostrarsi tra mille difficoltà: i problemi della sua età, gli impegni della scuola e della politica, la fatica di trovare la sua strada e il suo posto nel mondo, è inevitabile che capiti qualche inciampo. Se dovesse succedere, ammettete il vostro errore, rimediate, e fate tesoro dell’esperienza invece di farne di un dramma. Stiamo ancora imparando, perciò è essenziale concedersi un margine di errore.
IRIS FEN GILLINGHAM, 19 anni, She/Her
Attivista per la giustizia climatica, Growing Wildroots Farm
Jamie: Come sei diventata attivista?
Iris: Il primo incoraggiamento è venuto dalla mia famiglia. I miei genitori sono coltivatori biologici, e mi hanno dato il nome di un fiore. Tutto questo mi ha fatto sentire un legame e un dovere nei confronti della terra. Ero ancora molto piccola quando, nel giro di cinque anni, la nostra fattoria subì tre inondazioni, le due più violente da un secolo e la terza la più catastrofica registrata nell’ultima metà del millennio. L’acqua ha trascinato via tutto l’humus. Ancora oggi siamo autosufficienti e coltiviamo da soli il nostro cibo, ma il raccolto basta solo per noi, perciò abbiamo smesso di vendere i nostri prodotti biologici. Quando avevo otto anni nella nostra regione è arrivata l’industria del fracking, cioè compagnie minerarie che praticano la fratturazione idraulica. Mio padre non ha mai smesso di lottare per impedire che si insediassero e distruggessero la natura che amiamo. E crescendo ho cominciato anch’io a impegnarmi nella lotta. Gli industriali si giustificavano dicendo che cercavano risorse per le nuove generazioni, e intanto ignoravano le mie proteste, malgrado io fossi l’unica rappresentante presente di quelle generazioni. Per un po’ il mio attivismo contro il cambiamento climatico è diventato così esclusivo e ossessivo che ho trascurato tutto il resto. Adesso mi concentro sugli aspetti della cura di sé nel contesto della militanza, sulla riduzione del nostro impatto ambientale e sull’assunzione di responsabilità.
Jamie: Secondo te che cosa dovrebbe cambiare negli ambienti della militanza?
Iris: Spesso ci concentriamo troppo sui risultati perdendo di vista il valore del processo e del viaggio. Molti dei gruppi con cui ho collaborato mettevano in secondo piano la salute, la cura di sé e i rapporti interpersonali. A mio avviso dovremmo sempre considerare prioritaria la comunità, e sostenerci e aiutarci a vicenda.
Jamie: Come si crea una comunità nel contesto dell’attivismo?
Iris: Con il mutuo appoggio. Diventando una famiglia. Schierandoci al fianco dei nostri fratelli e sorelle. Non basta sostenerli con un tweet: bisogna stare in prima con linea con loro.
Dobbiamo ascoltare i compagni di lotta e chiedere direttamente a loro di quale aiuto e alleanza hanno bisogno. E circondarci di persone che ci incoraggiano invece che deprimerci.
Il potere dei giovani è che parliamo dal cuore.
Ciascuno di noi ha i suoi punti di forza, e bisogna lavorare insieme perché la fiaccola non si spenga. Essere parte di una comunità è un’esperienza straordinaria, e possiamo crearla se seguiamo il nostro cuore e amiamo il nostro lavoro.