Un giorno di ottobre del 1943, verso mezzogiorno, un vecchio vaga sulla strada che collega Riom a Clermont-Ferrand. Indosso non ha che un vestito, quando invece la stagione avrebbe richiesto già il soprabito, e tiene in mano una cartella da professore, stracolma. In tutta evidenza, egli non sa dove andare, e teme d’essere seguito. Se prosegue ancora a lungo il suo tentennamento, rischia di attirare su di sé l’attenzione dei gendarmi, che sono più spesso tedeschi che francesi in quei paraggi. Uscendo infine da questo stato vicino all’ebetudine, il vecchio decide di tornare a Riom, per cercarvi aiuto. I suoi vagabondaggi non sono per questo finiti. Per quasi un anno ancora egli è costretto a nascondersi alla Gestapo, che, quel mattino d’ottobre, ha appena arrestato sua moglie e che, alcuni giorni prima, ma egli ancora lo ignora, ha arrestato uno dei suoi due figli, sua figlia e suo genero, tutti impegnati nella Resistenza. Nella preziosa cartella, riempita fino all’orlo, tutto quello che ha potuto salvare dal disastro: due manoscritti, quello, già terminato ma impresentabile a una casa editrice autorizzata, del libro che vi accingete a leggere, Gli oligarchi, e quello, in fase di lavorazione, del libro che lo renderà universalmente celebre, da Gerusalemme al Vaticano, Gesù e Israele.1 Quando questo libro apparirà, saranno trascorsi cinque anni da Riom. La pagina di dedica reca queste parole: A mia moglie, a mia figlia, martiri uccise dai tedeschi, uccise semplicemente perché si chiamavano Isaac.
Il vecchio vagabondo si chiamava in effetti Isaac, come Laquedem, per uno strano caso della storia che, in fin dei conti, non è affatto un caso. Quattro anni prima di questa scena sconvolgente, raccontata nell’ultimo testo, rimasto incompiuto, che aveva scritto prima di morire,2 egli era una delle personalità più in vista dell’Università francese, direttore della più celebre collezione scolastica, ispettore generale, presidente della giuria del concorso a cattedre di storia. Diciotto anni più tardi, a ottantadue anni suonati, lo stesso uomo, traboccante di energia, è ricevuto da papa Giovanni XXIII e da questa udienza, a lungo preparata, uscirà il grande testo del Vaticano II in cui la Chiesa cattolica abbandonava il discorso antigiudaico che aveva tenuto dai tempi di Paolo di Tarso. Altri vedranno in questi estremi dell’abbandono e della garanzia la parabola di tutto un popolo. Io vi vedo innanzitutto l’immagine della vita del Giusto, come avrebbero detto i vecchi testi. Vi vedo anche, e mi si perdoni, l’immagine ideale della vita di uno storico, quando, con la brutalità che la caratterizza, la Storia viene a bussare alla sua porta, per trasformare una carriera in destino.
Non vi sono due modi di essere storici, ma uno solo. Non vi è una maniera obiettiva e un’altra che non lo sarebbe. Lo storico buono – se ve ne sono di cattivi, è perché ce ne sono di buoni – è uno storico intelligente. E che cos’è dunque l’intelligenza, se non il più preciso modo d’essere generale, il più meticoloso modo d’essere sintetico? Il testo di Isaac ce ne avverte onestamente – con una punta di provocazione – fin dal sottotitolo: è un saggio di storia parziale. Esso raddoppia la precauzione in una breve prefazione e la trasforma in «chiusa» eloquente, degna dei modelli antichi, in extremis: «Mentre sto scrivendo queste ultime righe, da qualche parte in Francia – in quella che fu la Francia –, il sabato diciassette ottobre del millenovecentoquarantadue, i “buoni” sono sempre così malvagi; resta da sapere se i “cattivi” saranno così magnanimi».
E così, nell’intervallo tra questi due proclami di parzialità, un testo si sarà svolto sotto i nostri occhi, come un fiume. Non un fiume lungo, solenne e regolare, alla Luigi XIV, ma uno di quei piccoli fiumi che si snodano tra le rocce delle coste mediterranee, il fiume di una breve storia di undici o dodici anni, minacciosa, sinuosa, sconvolta. Ed è difficile sostenere che, per il fatto che ha la franchezza di darne notizia, un tale testo sia più «parziale» che, per esempio, il Cesare di Jérôme Carcopino, ministro di Vichy e ammiratore degli eroi energici. Carcopino resta un grande storico della Roma antica benché – e indipendentemente dal fatto che – egli abbia pure firmato il secondo Statuto degli ebrei e il loro numero chiuso; Jules Isaac resta un osservatore acuto della democrazia ateniese indipendentemente dal fatto che egli viva e soffra sotto la dittatura di Philippe Pétain e che si rifiuti di guardare la democrazia con gli occhi di un amante separato dalla violenza da colei che egli ama. Dopo tutto, non vi è alcuna ragione di dimenticare che il regime oligarchico che aveva i voti di Jérôme Carcopino ha ucciso (ha lasciato uccidere – che è peggio) la moglie, la figlia e il genero del suo caro collega.
Questo fa pure parte della storia.
Evidentemente, quell’uomo esagera. È troppo esemplare, nel senso che non assomiglia alla maggior parte dei suoi colleghi, i quali, qualunque sia il momento storico, saranno sempre più Carcopino che Isaac, come si addice a dei funzionari seri. Questo nipote di un volontario della Grande armata, questo figlio di un ufficiale troppo presto scomparso, soffre in fondo di un male incurabile, da cui solo la morte lo guarirà: il senso acuto, impolitico, dell’ingiustizia. Così è esso che lo spinge a battersi, all’indomani della Prima guerra mondiale, per l’onore del generale Lanrezac, capro espiatorio dello Stato maggiore del 1914; a battersi con le sue armi, che sono quelle dello studio critico delle testimonianze. Così si giudica costretto a rinunciare, nel 1935, a sostenere una tesi, dal titolo della quale il decano della facoltà di Lettere gli chiede di cancellare per ragioni di convenienza il nome di Poincaré. «Mi sembra ci sia incompatibilità assoluta, gli ribatte Isaac,3 tra le ragioni della convenienza e le esigenze del lavoro scientifico». In breve, quest’uomo è scomodo. È ingombrante. Non sarà mai decano, né rettore, appunto, e molto tardi, grazie al Fronte Popolare, ispettore generale, bastone di generale [cioè, il massimo titolo] che l’istituzione gli ha accordato solo alla vigilia del suo ritiro, che per lui diventerà tutt’uno con la disfatta.
Tutto questo non ne fa uno storico? Sulla scorta della lettera citata or ora si è portati a dire: al contrario. Ma è vero che tutta l’opera storica di Isaac si collega facilmente con un grande fil rouge, che non è quello della maggior parte delle opere colte: è un’opera integralmente scritta alla luce di un’esigenza morale.
Sicuramente, nessuno dubita che sia questa esigenza che egli avverte verso la parte finale della sua vita, la più conosciuta, o la meno dimenticata, quella in cui egli si attivò per il riavvicinamento tra ebrei e cristiani. Quest’ultima battaglia acquista tanto maggiore forza sub specie aeternitatis, per il fatto che, a distanza di sessant’anni, egli riprendeva quell’altra battaglia che aveva svolto, ai suoi esordi di agente morale, accanto al suo primo maestro di pensiero, forse davvero il solo che egli abbia mai avuto tra i viventi, Charles Péguy. Ma questa impresa, coronata da un successo che gli merita l’epiteto di storico, non deve rinchiuderlo nel ruolo di padre conciliare in partibus che gli è stato talvolta conferito. Perché questo libero pensatore, questo laico convinto, che «perfino nelle circostanze [del 1942]» si «rifiuta di giudaizzare»,4 è rimasto innanzitutto il cittadino di un mondo ideale, dove «lo strapotere del popolo» è equilibrato dall’«autorità della Legge».5 Questo mondo non è quello d’Israele, è quello della democrazia ateniese, e certo un poco quello della democrazia francese sotto la Terza Repubblica. Quando Jules Isaac scrive sulla più grave crisi che abbia scosso la prima, sono circa duemila anni che quella non esiste più, ma sono pure – e questo è davvero peggio – già due anni pieni che la seconda è crollata.
Ed ecco perché il militante della verità storica (pro veritate pugnator: la sua divisa), che dedicò tanta energia a far rivedere gli insegnamenti ufficiali della storia quanta egli ve ne aveva dedicato per scriverne, ad uso dei licei e delle scuole medie («Malet-Isaac»), una versione autorizzata, va ad impiegare il suo talento di indagatore e di volgarizzatore in un lavoro di parzialità. Ed ecco perché questo specialista, che da vent’anni scandalizza i suoi contemporanei scegliendo di fare la storia del loro tempo, punta la sua scelta sulla rilettura di un episodio che si è svolto molto precisamente tra il 415 e il 404 prima della nostra era. Vi è di che dubitare dei valori apparentemente più solidi, su cui riposa, si dice, il «mestiere di storico»: il rifiuto del giudizio di valore e il rigetto dell’anacronismo.
Il sottotitolo dovrebbe pertanto fornirci una prima pista: Isaac ha provato ad essere parziale; forse non vi è del tutto riuscito. Riprendiamo la distinzione e la discussione classiche: si pensa che nessuno si aspetti da uno storico che sia obiettivo; la soggettività fa parte del contratto implicito che la società firma con lui, poiché essa gli permette di consegnarsi in pubblico a questa colpevole industria dove il medesimo personaggio gioca su due tavoli, quello dello studioso e quello del narratore. Ma imparziale, sì, gli si chiede di esserlo per tutti e due. Nell’affaire degli oligarchi Isaac non nasconde le sue simpatie. Allora?
«Che cos’è la verità?». È possibile che la questione abbia un aspetto desueto. Ma che essa non sia di moda, non la fa per questo sparire. Essa figura da venti secoli in un posto di rilievo nel cuore di un testo fondamentale, le parole vi sono pronunciate nel momento cruciale del più grave dramma di questi venti secoli, poiché tutti gli altri drammi ne sono derivati, ivi compreso quello di Auschwitz – e, come per un destino, di questa genealogia Isaac diventerà il primo grande storico. Il dramma si chiama la Passione, e colui che ha pronunciato la domanda si chiama Ponzio Pilato.
La verità, signor Prefetto, non è non avere appartenenza politica. Quando il grande Platone e l’utile Senofonte ci parlano di quei partigiani dell’oligarchia e della loro dittatura, non bisogna avere alcuna esitazione a ricordare che essi sono indulgenti verso loro, per compiacenza ideologica. Non si sottrae niente alla forza della filosofia platonica se si ricorda che il suo autore non era indifferente alle lotte civili del suo tempo e che sostenne, per qualche tempo, il dispotismo di questi autoproclamatisi Migliori, che egli tentò pure, in due occasioni, di essere il consigliere del Principe, cioè di due tiranni e che, in fondo, furono due fallimenti, proprio come fu un fallimento il progetto politico degli oligarchi. No, uno storico non perde credibilità per le sue scelte, ma per le loro conseguenze.
A due o tre riprese, la scelta democratica di Isaac gli fa formulare un giudizio severo sugli apprendisti dittatori, ma io non credo di essere a mia volta accecato dal partito preso quando sostengo che questi giudizi sono così chiaramente ostentati da essere separabili dal racconto onesto dei fatti, a cui si riconduce il suo proposito. Vi sarebbe disonestà se vi fosse distorsione ideologica inconfessata o, peggio e più frequente, inconsapevole. Qui l’autore procede a viso scoperto. Padrone, un lettore partigiano di regimi élitisti e autoritari – di fatto, la seconda caratteristica discende naturalmente dalla prima –, di tralasciare gli apprezzamenti e di servirsi dell’analisi a suo vantaggio. No, il limite di Isaac, come di tutti gli storici, è professionale: egli non pensa che la questione oligarchica possa avere una dimensione economica e culturale. Ecco perché un argomento di storia non è mai «esaurito». Ecco perché l’opera di storico di Isaac può ben essere superata, proprio come quella di Jules Michelet o di Lucien Febvre: non per questo è falsa.
La riflessione vale a fortiori per l’anacronismo, anche se essa è più difficile da ammettere. Il piccolo gioco di società al quale l’autore invita, da quando si conosce la storia dell’anteguerra, della disfatta e dell’Occupazione, consiste, lo si vedrà, nel mettere in margine a questo racconto delle reincarnazioni della democrazia ateniese tra il 415 e il 404 i nomi e i fatti che tra, diciamo, il 1933 e il 1942, intrattengono con loro evidenti analogie. D’istinto, quasi si potrebbe provare fastidio del fatto che il parallelo non funzioni a tutti i livelli. Ma, infine, quante sconcertanti similitudini tra un Pericle, questo «Eupatrida fattosi capo della democrazia», e Léon Blum, un Antifonte, questo «dottrinario inacidito», e Charles Maurras, il democratico rinnegato Pisandro e Jacques Doriot, tra la focalizzazione sulle Lunghe Mura e la fiducia nella linea Maginot, tra il processo agli strateghi e quello di Riom, tra «la collaborazione compiacente di qualche giurista esperto» e quella di un Joseph-Barthélemy... Più in fondo, si ritrova «la Rivoluzione nazionale» dietro «la Costituzione degli antenati», la xenofobia e il razzismo ordinari dietro la persecuzione dei «meteci» – questa parola familiare a Maurras, buon conoscitore della storia greca –, o ancora la sostanza degli eterni nuovi diritti dietro la famosa professione di fede di Callicle, nel Gorgia. La finzione storica si squarcia qua e là per lasciare apertamente apparire l’allusione a Pétain, il «vecchio illustre» delle «iniziative di smantellamento», al «paese reale», alla «divina sorpresa», ma non è veramente necessario.
La verità non è rifiutare di vedere l’evidenza che salta agli occhi: che vi sono delle costanti e delle ricorrenze nella storia della nostra specie. Parliamoci chiaro: colui che scrive queste righe ha sempre posto al di sopra della sua opera di storico la famosa formula di Eraclito: «Non ci si bagna due volte nel medesimo fiume». Ma, allo stesso modo, egli ha fatto della funzione dello storico la lotta contro l’amnesia. La soluzione di questa apparente contraddizione è semplice: non perché la storia non si ripete gli esseri umani che la fanno – che sono la storia – non sono spinti da forze straordinariamente simili. I triangoli simili non si sovrappongono ma i loro angoli sono uguali e i loro lati omologhi, proporzionali. Basta che gli uomini si muovano davanti allo sguardo dell’uomo per somigliarsi in modo curioso.
Allora, la storia, eterno ritorno? Speriamo che vi saranno sempre due o tre Isaac per preferire pensare che essa avrebbe piuttosto l’aria di un’eterna incompiutezza.
P. O.
1 Prima edizione Albin Michel, 1948; riedizione Fasquelle, 1959.
2 Pubblicato in Dans l’amitié de Jules Isaac, numero 3 dei «Cahiers de l’Association des amis de Jules Isaac», 1981, pp. 9-11.
3 Cfr. su ciò B. Hemmerdinger, Le «Démosthène» de Clemenceau (et Robert Cohen), «Quaderni di storia» 36, 1992, pp. 146-152.
4 Lettera a suo figlio Daniele, parzialmente inedita.
5 Vedi supra, p. 50.