La mia arditezza apparirà di sicuro sacrilega. Non senza esitazione mi sono deciso a scrivere queste righe, a rischio di passare per dispregiatore degli dèi – come io non sono affatto.
Non mi ispira nessun fanatismo, nessuno zelo iconoclasta mi sprona. Amo invece e ricerco liberamente la verità. Poiché sono stato condotto – per dovere professionale – a considerare il tragico imbroglio in cui l’umanità civilizzata oggi si dibatte, ho voluto conoscerne le cause profonde per meglio capirne il significato reale e l’esito probabile. È per questo che mi vedo costretto a scrivere: «All’inizio, c’è la Scienza...».
Il valore della Scienza, presa in sé, non è dunque qui affatto in causa. Non solo non la contesto, ma le assegno il più alto valore. Certo, non arrivo a prosternarmi davanti alla Scienza come davanti a Dio, ma riconosco che in essa vi è qualcosa di divino e che essa avvicina l’uomo a Dio.
Ahimè! Non l’avvicina anche al Diavolo? Per favore, non sussultate – ecco il problema. Così Gargantua, scrivendo a suo figlio Pantagruele, parla «(delle) impressioni tanto eleganti e corrette in uso, che sono state inventate dal proprio tempo per ispirazione divina come, in senso contrario, l’artiglieria su suggerimento del diavolo...».
In termini più laici, anche più chiari, non volendo esaminare nient’altro che il ruolo storico della Scienza, pongo la questione di sapere se la civiltà moderna, dal momento che è divenuta scientifica e poiché è divenuta scientifica, non corra, per il fatto stesso del progresso scientifico, un pericolo mortale.
Che in primo luogo la Scienza sia diventata l’anima stessa o, se si preferisce, il motore della civiltà moderna, ritengo che sia superfluo dimostrarlo e che nessuno lo contraddirà. Questo salta agli occhi.
Per banale che sia, questa constatazione preliminare merita intanto che ci si soffermi un momento. Dal punto di vista storico, che è il nostro, essa è certo meno banale di quanto non sembri all’enunciato. E perfino la Storia le dà un rilievo sorprendente.
A quando risale l’evento? Senza voler assegnargli una data precisa, gli si può accordare dai sessanta agli ottanta anni d’età tutt’al più – la vita di un uomo. Nella vita di un uomo è stato concesso di assistere alla più incredibile trasformazione che si sia prodotta da quando esistono, sulla faccia della terra, società umane. Vuol dire che la metà dell’ultimo secolo rappresenta nella Storia una linea di demarcazione la cui importanza è senza pari. Risalendo più indietro nel tempo, dai tempi storici più lontani, dai Menes d’Egitto e i Sargon della Caldea fino al re-cittadino Luigi Filippo, la civilizzazione subisce solo variazioni insensibili, tutte di superficie; e questo avviene perché l’uomo dispone di forze e mezzi d’azione limitati, quasi sempre gli stessi. Ma, dopo, lo spettacolo si modifica bruscamente. Trascorrono appena sessant’anni, e la civiltà è diventata irriconoscibile: è cambiata nell’anima, nel volto, nell’abbigliamento. Fa più questa manciata di anni di quanto non abbiano fatto parecchi secoli, parecchi millenni. Che cosa è accaduto, allora? Niente, tranne che, nell’intervallo, è entrata in scena la Scienza, seguita dalla sua figlia primogenita, la Meccanica. Grazie a loro, la forza umana si moltiplica. L’uomo non è già più l’uomo: è il Ciclope, è il Titano.
Probabilmente una lenta e oscura germinazione ha preceduto questa nascita. Della rivoluzione scientifica si può dire la stessa cosa che di tutte le rivoluzioni della Storia: assomigliano a quei fiumi che, dopo un lungo percorso sotterraneo, improvvisamente emergono in superficie, offrendo così, dalla loro sorgente, un fiotto la cui abbondanza sorprende. Ugualmente, nel corso dei secoli, il genio scientifico ha cercato la sua via nell’ombra. Gli è stato necessario penare a lungo e duramente prima di imporsi al mondo, prima di diventare letteralmente il padrone del mondo. Ma non è questo il luogo per descrivere le tappe di questa conquista: ci basta constatare che la conquista è fatta, che, verso la metà del XIX secolo, la Scienza si è installata in qualche modo nel cuore della civiltà e che ha preso il controllo dell’evoluzione umana. Si direbbe un sortilegio e si sarebbe tentati di istruire qualche processo di stregoneria. Nell’ambito della società, niente è sfuggito a questa influenza magica: la vita quotidiana degli uomini, il loro modo di lavorare, il loro commercio, la loro politica, fino alle loro istituzioni e alla loro mentalità, tutto è stato rinnovato o segnato da una nuova impronta. In un batter d’occhio l’uomo civilizzato ha preso possesso del globo improvvisamente rimpicciolitosi. Montagne, oceani, deserti, tutte le barriere che avevano per molto tempo limitato la sua attività sono state facilmente varcate. Dalla terra, l’uomo si è slanciato in pieno cielo.
Che cosa c’è di sorprendente, dopo ciò, nel fatto che gli scienziati non possano trattenere il grido d’orgoglio che sale loro alle labbra: «Che mirabile soggetto di meditazione per la filosofia che ferma un momento il suo pensiero sulle meraviglie realizzate! Quale sentimento di orgoglio lo anima quando misura l’estensione di quel che l’uomo sa e di quel che può!». Orgoglio di dominatori che dispongono dei nostri destini e che lo sanno: «È la scienza che guida oggi il mondo», afferma un illustre scienziato. «In una misura sempre più grande, è essa che orienta i destini degli individui e degli Stati, i quali, più o meno consapevolmente, ma fatalmente, regolano la loro esistenza sui cambiamenti perenni usciti dalle nuove acquisizioni della scienza».127
Ma l’orgoglio scientifico, come ogni orgoglio umano, è condannabile.
Si può immaginare quel che avverrebbe di una persona di salute delicata, dal cuore un tantino fragile, che scambiasse imprudentemente il vecchio cocchiere di famiglia e il tiro pacifico della sua vittoria per qualche re del volante e per una di queste potenti macchine da corsa che divorano lo spazio come bolidi. La sua salute non vi resisterà di sicuro. Del resto, per quanto l’abile autista sia capace di guidare il mezzo, tuttavia s’imbatterà, una volta o l’altra, in un ostacolo anche minimo che provocherà la sterzata mortale.
Tale è tuttavia la situazione che risulta dal patto concluso tra la civiltà moderna e la Scienza. «È la scienza che guida il mondo», proclama lo scienziato con orgoglio. È vero. Ma essa lo guida a una velocità alla quale il mondo non era affatto abituato, velocità crescente senza sosta e che fin da subito dà le vertigini.
Contro questo evidentemente la Scienza è del tutto impotente. Essa non fa che obbedire alla legge del suo sviluppo interno. Il progresso scientifico, che beneficia incessantemente dei risultati acquisiti, si muove ad una velocità incessantemente accelerata. Verità di fatto, che nessuno si sogna di contestare, poiché, tutto al contrario, ognuno crede di dover felicitarsene. Da quando la Scienza è uscita dal suo apprendistato e ha affittato i suoi servigi al capofficina, le scoperte si succedono alle scoperte, le invenzioni alle invenzioni, ogni giorno più numerose, ogni giorno più ingegnose, ogni giorno più feconde, e il campo dell’industria umana si allarga in proporzione. L’una dopo l’altra le forze imprigionate nella materia sono liberate e messe al servizio dell’uomo: ma già gli scienziati ci avvertono che le risorse energetiche in nostro possesso oggi sono solo «delle briciole» strappate agli abbondanti approvvigionamenti che restano da scoprire e da consumare. La macchina a vapore ha fatto la fortuna dei «paesi neri», trasformati in formicai umani; ma mentre si è ancora appena all’inizio dello sfruttamento di tutti gli strati di carbon fossile, ecco che, per l’azione della dinamo, le montagne solitarie si animano e, come castelli d’acqua che scorrono di energia elettrica, forniscono il carbone bianco a nuovi centri industriali. Da un capo all’altro dei continenti un popolo di ferrovieri è occupato a posare binari su cui, disprezzando i vecchi treni «omnibus», il viaggiatore che ha fretta non vuole più circolare se non sull’«espresso» o sul «rapido»: ma il lavoro gigantesco non è ancora finito che, sulle più antiche strade risvegliate dalla loro sonnolenza, le automobili scattano a più di cento chilometri orari. Il telegrafo riduce al minimo le distanze: ma non basta, il telefono le sopprime; ma non basta ancora, la telegrafia e la telefonia senza fili sopprimono tutti gli ostacoli che si frappongono. Impadronitosi della distanza, l’uomo procede all’inventario del suo dominio continentale; le sue rapide navi solcano gli oceani in tutte le direzioni; ma già le terre e la superficie dei mari non gli bastano più; ha bisogno del mistero delle profondità sottomarine; ha bisogno della libertà degli spazi aerei. La meraviglia si realizza: è inventato l’aeroplano; da tutti i petti umani sgorga un grido di ammirazione. Come avviene nelle aste, la gara è al rilancio: i record non hanno il tempo di essere stabiliti che in un baleno vengono battuti: 100, 200, 300 chilometri orari; 1.000, 2.000, 5.000, 10.000 metri d’altezza. Più in alto, sempre più in alto! Più veloce, sempre più veloce! E la corsa vertiginosa riprende.
Corsa verso il progresso o corsa verso l’abisso? Per lo scienziato la questione non si pone; al pensiero che «la scienza, nella sua ascensione continua, ci apre prospettive sempre più vaste», egli si esalta e, dando libero corso alla sua immaginazione, intravede un avvenire pieno di meraviglie. Egli è anche incline a protestare contro «l’incoscienza della moltitudine» che, abituatasi troppo in fretta, non rende giustizia ai meriti degli inventori e all’«incommensurabile» valore della scienza. Tuttavia «la moltitudine» chiede un’unica cosa: di applaudire alle nuove prodezze alla sola condizione che esse siano comprensibili; essa prova nei confronti degli uomini di scienza una specie di rispetto superstizioso; che cosa chiederle di più? Essa ha la fede. Ma, per lo storico, la questione si pone: questa rapidità crescente del progresso scientifico, che è comunemente un soggetto di ammirazione, per lui è un soggetto di inquietudine; questa potenza illimitata delle forze che la Scienza libera e scatena nel mondo senza controllarne l’impiego, gli sembra gravida di minacce. Non è in gioco l’avvenire della Scienza, ma l’avvenire che la Scienza prepara all’umanità.
Consideriamo infatti quella che si chiama Storia Contemporanea. Obbedendo al nuovo impulso che ha ricevuto, essa non ha tardato a prendere un’andatura da film del cinema. Voltiamo la pagina: là, dove il giorno prima c’era solo un pugno di miserabili selvaggi o alcuni forzati relegati ai margini del mondo civilizzato, sorgono Stati del tutto nuovi. Un’altra pagina: e questo popolo giallo dagli occhi a mandorla, così pittorescamente arcaico, subisce, davanti ai nostri occhi, una metamorfosi in un popolo moderno, rivale dei più forti e dei meglio armati tra i bianchi. Ancora un’altra pagina: una data nazione, invecchiata nel lavoro dei campi e di condizione modesta, inforca occhiali d’oro, crea in tutte le forme l’attrezzatura industriale più potente e più perfezionata, e, rapidamente arricchita, ostenta un lusso da villano rifatto. Così lo spettacolo cambia di ora in ora. L’evoluzione storica corre a precipizio: che dico? Non si tratta più di evoluzione, si tratta di scompiglio. Cento popoli affaccendati si scontrano e si urtano su tutti i mercati del mondo. L’Europa, ieri da sola in corsa, scopre all’improvviso di essere stata superata dall’America. I grandi mangiano i piccoli. Ma questo non basta ai più bramosi: scoppia la guerra. È uno sconvolgimento! Il volto dell’Europa è cambiato; passando da un estremo all’altro, la Russia sostituisce la più rigida autocrazia con la più proletaria delle Repubbliche; grandi Imperi crollano giù con grande fracasso; dappertutto rovine e cadaveri. Sulla civiltà è passato un cataclisma, che la lascia in una condizione spaventevole di turbamento e squilibrio.
Non c’è lì come un avvertimento solenne, un Mané-Thécel-Pharès scritto a lettere cubitali di sangue, perché nessuno lo ignori?
Guidare il mondo e guidarlo a una velocità sfrenata, non è tutto. Bisogna ancora, se così mi è permesso di dire, «conoscere il proprio mondo», sapere dove lo si conduce e su quale strada. Il progresso scientifico, intervenuto tardivamente nelle vicende dell’umanità, non ha fatto tabula rasa del passato. La civiltà nel cui seno si è introdotto era formata di elementi diversi. Sugli uni la sua azione è stata più diretta che sugli altri, la sua influenza più profonda: la loro evoluzione è stata dunque più o meno rapida. Da lì, inevitabili disordini. Per rendersene conto è necessario esaminare successivamente quel che è accaduto nell’ambito economico e nell’ambito politico.
Nell’ambito economico, sottomesso immediatamente all’azione del progresso scientifico, le ripercussioni sono state immediate. C’è stato un rinnovamento dell’attrezzatura e dei metodi, una crescita formidabile della produzione, una concentrazione delle imprese, una divisione del lavoro e una specializzazione a oltranza, in seguito un’estensione smisurata degli scambi. Sono fatti conosciuti su cui è inutile insistere. Ma il tratto più notevole di questa evoluzione, quello che bisogna tenere a mente, è la sua tendenza a svolgersi su un nuovo piano, il piano internazionale. Oltrepassando le frontiere, la vita economica si è rapidamente internazionalizzata. Si parla molto di Internazionale socialista – si fanno due o tre esempi –, ma vi sono Internazionali di cui non si parla e che contano molto più nel mondo attuale, l’Internazionale della Finanza, l’Internazionale dei produttori, l’Internazionale dei consumatori. Sia detto senza alcuna intenzione di polemica: si tratta solo di constatare una situazione di fatto. Volenti o nolenti, per il gioco naturale delle relazioni economiche, tutte le nazioni sono diventate più o meno solidali le une con le altre. Legami molteplici, innumerevoli, inestricabili, visibili o invisibili, le uniscono tra loro. E questa rete di maglie fitte non è un velo superficiale che esse possono gettar via impunemente; fa corpo con esse, riguarda la loro carne, il loro sangue, i loro organi vitali. Non vi si può praticare uno strappo senza mettere in pericolo la loro vita stessa. Trasformata dalla Scienza, la struttura economica del mondo è divenuta infinitamente più complessa, perciò più fragile e più caduca.
Ma nell’ambito politico, dove l’azione del progresso scientifico si è fatta sentire solo indirettamente, l’evoluzione, gravata dal peso del passato, non ha potuto marciare con lo stesso passo. Probabilmente, all’interno degli Stati, sotto la spinta delle masse operaie sempre crescenti, il regime rappresentativo si è democratizzato: trasformazione illusoria perché, nello stesso momento, il capitalismo, giunto all’egemonia sociale, ha privato in qualche modo le istituzioni democratiche del loro contenuto. Questo è particolarmente visibile in certi Stati come la Germania del dopoguerra, dove si è impiantato un vero feudalesimo industriale, traduzione moderna del Grande Interregno; ma si può dire che in tutti gli Stati grandi produttori vi sia crescente incompatibilità tra le forme della vita politica e le forme della vita economica. Il fatto più grave è che, contrariamente all’evoluzione economica, l’evoluzione politica ha continuato a svolgersi su un piano quasi esclusivamente nazionale. Alimentate da tradizioni secolari, le passioni nazionali non hanno smesso di giocare un ruolo preponderante nel mondo. Là dove sembravano addormentate o addirittura morte per sempre, esse sono risuscitate per diventare forze attive. Ora chi dice passioni nazionali dice antagonismi nazionali: col risveglio della coscienza nazionale presso tutti i popoli, questi antagonismi non hanno fatto che moltiplicarsi. Il periodo contemporaneo è stato l’età delle guerre nazionali. Anzi, si sarebbe potuto credere che l’evoluzione economica avrebbe attenuato alla lunga queste rivalità nazionali: con una contraddizione sorprendente, essa le ha esasperate. Infatti la sovrapproduzione industriale ha sviluppato presso i popoli produttori lo spirito di concorrenza mercantile: non vi è niente di più brutale. Le guerre nazionali non sono finite, si sono solo allargate in guerre capitalistiche: non ci si tira indietro davanti a niente per schiacciare un concorrente.
Ancora una volta, sono semplici constatazioni di fatto, verità così ben riconosciute che s’insegnano perfino nelle classi e si trovano oggi in tutti i manuali. Ma quel che apprendono i ragazzi, i genitori talvolta l’ignorano. Meglio, si sa, come si sa che si deve morire, senza prestarvi attenzione, in realtà senza crederci. Intanto il nodo del problema è là. Proprio in ragione della rapidità del progresso scientifico che trascina al suo seguito l’evoluzione economica, il ritmo della civilizzazione è disarmonico. Mi si perdoni questo paragone volgare ma giusto: il mondo moderno somiglia a un uomo che non sarebbe padrone dei suoi movimenti e una cui gamba vorrebbe andare a destra e l’altra a sinistra: vi lascio pensare se andrà lontano. Da lì le crisi, da lì le catastrofi. L’evoluzione economica, avvicinando tutti i popoli, tende a creare una civiltà di forma internazionale; l’evoluzione politica fortifica le nazionalità e le oppone l’una all’altra. La civiltà, diventata internazionale, non può sussistere che grazie alla pace; gli antagonismi nazionali e la concorrenza mercantile generano la guerra.
Eccoci dunque arrivati a parlare proprio della guerra, su cui il progresso scientifico ha messo anche il suo marchio. È un soggetto che è, lo so, buona educazione non affrontare, non affrontare più. I vecchi combattenti lo evitano, per una sorta di pudore. I non combattenti si mostrano solleciti a «magnificare l’eroismo dei morti» (espressione ormai consacrata), ma non si curano di chiedere il loro parere ai sopravvissuti. Tuttavia, poiché ho trovato la guerra sul mio cammino – prima sul cammino della mia vita, poi sul cammino del mio pensiero –, non posso lasciarmi turbare né fermare dal suo volto di Medusa. Nel suo stesso orrore, essa ha qualcosa di luminoso che ci rischiara.
Bisogna dirlo a voce alta: la parola «guerra» non ha più, oggi, lo stesso significato che aveva appena otto anni fa. Quando i fanatici della guerra, sforzandosi di legittimarla, vogliono farci credere che essa abbia un’essenza divina e quindi eterna, ragionano su una certa idea astratta che essi hanno della guerra, ma non tengono conto della realtà, che forse conoscono male. Poiché non sono un filosofo né un uomo di parte, io non li seguirò su questo terreno. Il nostro terreno è la realtà storica, l’oscena realtà storica. Ora essa ci insegna che non vi è alcuna possibilità di confronto tra l’ultima guerra e tutte quelle che l’hanno preceduta. Noi abbiamo or ora fatto, per la prima volta, l’esperienza di quella che è la guerra scientifica.
C’è una data, dichiara l’illustre scienziato che ho citato in precedenza, c’è una data che ha «segnato, per la moltitudine, l’entrata in scena della Scienza nel grande conflitto mondiale. Il 22 aprile 1915, verso le cinque di sera, una spessa nube di vapori pesanti, di un verde giallastro, usciva dalle trincee tedesche, tra Bixchoote e Langemarck, e, spinta dalla brezza, arrivava sulle linee alleate, seguita dai contingenti nemici... Un’intera divisione francese fu colpita... La Germania aveva allora inaugurato la guerra dei gas...». Infatti, niente di più impressionante nella sua subitaneità che l’apparizione della Chimica128 sul campo di battaglia in cui tre anni più tardi doveva giocare il ruolo principale, inserita in milioni di mortai con la croce verde, con la croce gialla o con la croce blu. Quante persone oggi muoiono lentamente, con gli organi consumati per aver contemplato questo nuovo volto della guerra. D’altra parte, sarebbe ingiusto che la chimica fosse messa essa sola sotto accusa: tutte le scienze sono intervenute nella miscela, alla maniera delle divinità omeriche. Dietro lo scontro dei loro campioni, scienziati e tecnici furono occupati senza posa a perfezionare le innumerevoli macchine per uccidere, a inventarne di nuove, più potenti, più micidiali, a più grande raggio d’azione. A questo scopo avvenne il primo impiego dell’aeroplano e del sottomarino, queste scoperte di cui l’ingegno umano s’inorgoglisce: ma era per questo che esso le aveva create?
Probabilmente, anche per questo. «Che cos’è un aereo da bombardamento? È – scrive un teorico della guerra (professionista) – una macchina che può portare un proiettile a centinaia di chilometri. E che proiettili! Al momento in cui è stato firmato l’armistizio, i Francesi erano in possesso di una bomba di 500 chilogrammi, una ventina soltanto delle quali potrebbe annientare un intero quartiere di una grande città, e di cui una sola, esplodendo in un raggio di 30 metri da una corazzata, l’affonderebbe infallibilmente».129 In verità è stupefacente il potere della Scienza.
Ora, come non vi è alcun termine di confronto tra l’ultima guerra e tutte le precedenti – l’ultima, infatti, è stata la prima a meritarsi il nome di scientifica – allo stesso modo e per la stessa ragione i suoi effetti sono stati incomparabili. Io non pretendo di attenuare la responsabilità del Cesare imbecille che, con un minimo impulso, ha scatenato la guerra. Ma, se la guerra si è mutata in catastrofe, è evidente che non si saprebbe accusarne Guglielmo II (o Nicola II):130 sarebbe fare troppo onore al povero re. Per essere giusti, è con la Scienza che bisogna prendersela, e con essa sola. Solo per colpa sua la capacità omicida e distruttiva della guerra si è trovata decuplicata, centuplicata: chi farà il conto dei lutti, delle infermità visibili e segrete – queste ultime talvolta sono le peggiori –, delle miserie, delle rovine accumulate in questi quattro anni? Per colpa sua la guerra è diventata il più nocivo dei flagelli, nello stesso tempo in cui, grazie ad essa, la civiltà era divenuta il più fragile degli organismi. Così si spiega l’inestricabile garbuglio in cui ci troviamo oggi. Tutti gli ingranaggi di questo complesso meccanismo che era la vita economica sono stati falsati, e adesso, del tutto scassati, si vedono girare come ruote impazzite. Si arriverà a rimetterli a posto? Chi lo sa? Le consultazioni si succedono alle consultazioni senza risultati apprezzabili. Ognuno avverte che vi è solo un rimedio: l’intesa internazionale, in una forma o in un’altra. Ma l’egoismo nazionale continua a imperversare e, dappertutto, è il più forte. Situazione sconcertante e di dimensioni del tutto inedite. Il dibattito sulle riparazioni sfocia in un circolo vizioso in cui ci siamo rinchiusi: tutto coperto di ferite, il vincitore non può guarire senza l’aiuto del vinto, ma se si tende la mano al vinto e se egli si risolleva, chi può garantire che non ne approfitterà di nuovo per tentare di ferire il suo vincitore?
Ne conosco molti che ne sposano disinvoltamente la causa e che già discutono sulla prossima guerra. Costoro non sono soltanto dei professionisti, perché adesso è apparso chiaro che «buoni laboratori equivalgono a divisioni, grandi chimici equivalgono a grandi generali», e che, in ogni esercito moderno, lo Stato maggiore militare dovrà essere affiancato in futuro da uno Stato maggiore scientifico. Gli scienziati sono dunque autorizzati, essi stessi, a studiare il problema della guerra futura. Non dubitiamo che in questo momento, al di qua e al di là delle frontiere (al di là soprattutto), gli uomini di scienza siano numerosi nei laboratori che cercano formule inedite di combinazioni esplosive o asfissianti, o capaci di uccidere in ogni altra maniera. Non saremmo capaci di biasimarli: essi obbediscono a un dovere patriottico. In certi Stati che sono annoverati tra i più moderni, essi sono stati già irreggimentati: una grande Repubblica, che detesta il militarismo, possiede il suo Servizio di guerra chimica indipendente, a fianco delle sue direzioni di fanteria e di artiglieria. Uno specialista inglese molto qualificato, il maggiore Lefébure, ci ricorda che «tutti i paesi... devono considerare seriamente la questione dell’istituzione di un programma di guerra chimica definito, complesso, studiato con cura».
Noi lo esaminiamo seriamente, maggiore Lefébure, ma, bisogna ben dirlo, queste prospettive ci sgomentano. Noi siamo convinti che l’ultima guerra, per quanto scientifica e catastrofica sia stata, sembrerà un gioco quasi indolore rispetto a quella che ci riserva l’avvenire, qualunque essa sia, meccanica, chimica, elettrica, batteriologica, e tutto questo probabilmente insieme, e tante altre cose ancora. Con una strada così bella davanti, pensate che la Scienza si fermi? Prevedendo il giorno in cui essa avrà catturato le riserve energetiche imprigionate nell’atomo, il nostro scienziato profetizza che queste nuove forze supereranno tutte quelle che oggi conosciamo «con la stessa enorme distanza che le separa dalle risorse naturali dell’uomo selvaggio». «Non si deve considerare un’assurdità, dice, che l’uomo allora solleverà le montagne, soggiogherà i mari, asservirà le forze atmosferiche...». Allora è altrettanto permesso di immaginare in qual modo l’uomo tratterà il suo simile: in meno tempo di quanto ne occorse al vulcano risvegliato, egli annienterà sotto qualche «nube infuocata» le città nemiche. Sì, l’immaginazione inorridita può tentare di intravedere quel che sarà la guerra futura, la sua potenza micidiale di distruzione. Ma la ragione si rifiuta di ammettere che la civiltà, già così profondamente scossa dalla prima guerra scientifica, possa sopravvivere a una ricaduta.
Questo sta a significare, in ultima analisi, una sola cosa: che il progresso scientifico, che è infinitamente rapido, non ha avuto conseguenze sul progresso morale, che è infinitamente lento. La Scienza ha potuto rivoluzionare il mondo; un solo dominio le resta inaccessibile: il cuore umano.
È vero che gli scienziati non esitano ad affermare il contrario, probabilmente per mettere la loro coscienza a posto e, come si dice, per salvare la faccia: «Più profonda sarà la rivoluzione scientifica, più completa sarà la rivoluzione economica e sociale» (d’accordo), «più necessario e più certo il regno della moralità» (su, andiamo!) «e più grande infine la somma di felicità di cui godrà l’uomo, divenuto con la sua intelligenza un onnipotente re della natura» (perfino...). Questo virtuoso ottimismo non mi rassicura, non più dell’annuncio di Pierre Hamp (per il quale la macchina è Dio e P. Hamp il suo profeta): «Verrà il tempo in cui il fuoco sotterraneo, la potenza dell’Oceano, l’elettricità della tempesta, saranno dei servitori sotto l’intelligenza umana infine giunta al dominio delle forze della terra e del cielo, e al culto della bontà».131
Non solo non è provato che la rivoluzione scientifica debba comportare necessariamente il regno della moralità, né è provato che l’uomo perverrà con lo stesso slancio al dominio delle forze naturali e al culto della bontà, ma è la proposizione inversa che ogni giorno è provata, in modo del tutto ineccepibile, dagli avvenimenti, che è provata dalla Storia, che è provata dall’ultima guerra, dal momento che essa ne è stata sotto tutti gli aspetti la dimostrazione più lampante. Lo stesso Pierre Hamp, due pagine più sopra, lo constata in una formula meglio scandita: «L’infelicità non è nell’invenzione meccanica. Essa piuttosto dipende da questo: che, mentre procedevamo ad inventare la meccanica, non abbiamo inventato la giustizia». Ben detto. Ma voi aggiungete: bisogna inventare la giustizia, e noi la inventeremo. Non precorriamo i tempi, per piacere, e temiamo di pascerci di parole. Non serve a nulla fare atto di fede nella bontà e nella giustizia (future) degli uomini. Oggi constatiamo che la malvagità umana esiste e che è così capace di utilizzare il progresso scientifico, perché, nella lotta che si persegue senza limiti sulla terra tra il Bene e il Male, la Scienza è neutra – ecco la grande parola trascurata.
Questa neutralità, non esito a dirlo, è un crimine. E credo di aver dimostrato che essa mette la civiltà in pericolo di morte. La Scienza si assume, da questo punto di vista, una responsabilità capitale. Che essa non sembri sospettarlo, è per me un incessante motivo di meraviglia. Mi ricordo di averlo detto una volta a un famoso membro dell’Istituto, confinato nello studio delle matematiche. Quest’uomo eminente, che è anche un galantuomo, parve sorpreso. Ma è la sua sorpresa che mi sorprende. A parte il rispetto che gli devo, la sua difesa valeva poco meno di quella del Kaiser, il pietoso «Io non ho voluto questo!».
Il documento trovato nel vestito di Pascal dopo la sua morte, e sul quale egli aveva voluto fissare il grido della sua anima in estasi, quel documento prezioso recava queste parole:
Dio di Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe,
non dei filosofi e degli scienziati.
E io leggo nei Pensieri questa semplice nota gettata su un foglietto: «Una lettera della follia della scienza umana e della filosofia». Ma, ancor più della rinuncia cristiana di un Pascal, devo evocare qui la prescienza quasi divina di un Leonardo, ostinato a sottrarre al pubblico il segreto delle sue più sorprendenti scoperte: «Come e perché io non scriva la mia maniera di andare sott’acqua così a lungo che posso restare senza mangiare: se non la pubblico né la divulgo, è a causa della malvagità degli uomini che se ne servirebbero per assassinare nel fondo dei mari, fracassando le navi e sommergendole col loro equipaggio...». Gli scienziati moderni non hanno conosciuto gli scrupoli del da Vinci: voi potete testimoniarlo, morti del Lusitania.
Il nodo della questione non è scoprire nuove sorgenti energetiche, scatenare per il mondo delle forze «per sollevare delle montagne» che diventeranno nelle mani dell’uomo le armi più crudeli, ma vigilare sull’uso che egli ne farà, almeno fino a quando abbia raggiunto l’età della ragione, da cui si vorrà certo concedermi che egli è ancora parecchio lontano. Altrimenti, non si è in diritto di dire che la Scienza se ne serva nei confronti dell’umanità esattamente come dei genitori incoscienti che lasciassero alla portata del loro bambino un revolver carico, senza pensare affatto a mettere la sicura per bloccare il grilletto? Il bambino lo tocca, ovviamente: il colpo parte; ed eccolo giacere morto. Si dirà che solo il bambino è responsabile e che i suoi genitori non lo sono?
Il cuore del problema non è sottrarre agli dèi la scintilla magica per consegnarla agli uomini. Per paura che gli uomini ne facessero l’uso più detestabile, sarebbe stato necessario prima cambiare gli uomini in dèi. I poeti vogliono farci credere che Prometeo sia stato vittima di un errore giudiziario. Non è vero: gli dèi hanno giudicato bene.
Le angosciose constatazioni precedenti impongono, crediamo, certe regole di condotta. Queste regole vorrei, per concludere, indicarle, sia con chiarezza sia con franchezza, per quanto è possibile. Nel momento in cui viviamo, non è più tempo di giocare d’astuzia: bisogna essere franchi con gli altri e con se stessi. E discutere non basta: bisogna agire, prontamente.
Le possibilità d’azione sono limitate. Si vede facilmente ciò che possiamo e ciò che non possiamo fare.
Non possiamo fare che la civiltà non sia e non divenga sempre più scientifica.
Non possiamo fare che il progresso scientifico non sia e non divenga sempre più rapido.
Non possiamo fare che l’economia sociale non tenda ad assumere una forma internazionale, e questo sempre più rapidamente.
Non possiamo fare (né desiderare) che il passato storico e le nazioni siano abolite, dall’oggi al domani.
Non possiamo fare che gli uomini siano o diventino, dall’oggi al domani, angeli di bontà.
Non possiamo fare che una nuova guerra scientifica non sia mortale per la civiltà.
Allora, che cosa possiamo fare?
Possiamo fare che le nazioni prendano coscienza della loro solidarietà e che le istituzioni internazionali siano rafforzate.
Possiamo fare che gli scienziati prendano coscienza delle loro responsabilità e che l’applicazione delle scoperte scientifiche sia controllata.
Possiamo fare che tutte le forze pacifiche, che sono numerose nel mondo, si coalizzino in una specie di «Fascio» per prevenire il pericolo mortale di una nuova guerra.
E, poiché lo possiamo, lo dobbiamo: è un imperativo categorico.
Agli uni, non dubito che questo programma appaia troppo esile, agli altri troppo ambizioso. In verità, esso è l’uno e l’altro insieme. Sarebbe stato diverso se lo avessi fatto a modo mio: ma io che cosa posso? Esso si svincola da solo dalla realtà, esso è nella logica dei fatti.
Accetto di attenermi al più stretto nazionalismo, se mi si dimostra che l’evoluzione economica non si svolga sul piano internazionale. Ma non lo si dimostrerà, non più che le questioni economiche possano essere per un solo istante eliminate dalla vita politica. Ho dunque ragioni fondate per dire, da uomo libero da ogni preoccupazione di parte, che, nel momento attuale dell’evoluzione umana, non è più possibile attenersi esclusivamente al punto di vista nazionale. La realtà non vi si presta più. Che si voglia o no, bisogna fare un passo più avanti. In una parola, e in una misura che resta da definire, bisogna essere internazionalisti.
Parola sconveniente, lo so, che ferisce certe orecchie. Stiano tranquille: non ho nessun coltello tra i denti. Dio guardi se io voglio distruggere quel che altri prima di noi hanno costruito con così grande difficoltà, con un così bello sforzo. Poiché la mia sola guida è la realtà, come potrei disconoscere la mia patria, che è una realtà, certo una delle più preziose? Essere francese non è un’opinione, come essere realista o socialista, è un fatto. Essere patriota francese non è più un’opinione, è avere chiaramente coscienza di questo fatto; è essere nutriti di tutta la ricca sostanza storica, geografica, intellettuale, che è contenuta in questa piccola parola: Francia. E allo stesso modo essere internazionalista, come lo intendo io, non è un’opinione, non è un sistema: è avere la chiara consapevolezza delle realtà internazionali che ci cingono strettamente da tutte le parti. Il mio internazionalismo non nega la nazione: al contrario si appoggia su di essa. Ma, poiché si sono constatati l’interdipendenza delle nazioni, la fragilità dell’economia internazionale, il pericolo degli antagonismi nazionali, se ne deduce che il tempo del nazionalismo esclusivo è passato, che è venuto il tempo dell’organizzazione internazionale, nella pace e per la pace.
Quel che deve essere o piuttosto, tenendo conto delle realtà immediate, quel che può essere l’organizzazione internazionale, non ho la pretesa di indicarlo in pochi tratti, alla fine di questo articolo. Occorre un nuovo studio, intrapreso, come questo, senza intenzioni sistematiche. Intese più o meno ristrette, federazioni, patti di garanzia, Società delle Nazioni, tutti i mezzi devono essere impiegati, tutti i mezzi sono buoni, purché tendano a questo fine: salvaguardare la pace del mondo.
Io non posso, non più, pensare a tracciare il piano del «Fascio» di cui desidero la formazione con lo stesso intento: assicurare, per il mantenimento della pace, la salvezza della civiltà. Se i gruppi di vecchi combattenti fossero abbastanza vivaci, se comprendessero il loro dovere, non dovrebbero proporsi altro compito. Ma forse saranno necessarie forze più reali.132
Resta il punto capitale e che, tuttavia, non è stato mai discusso: il ruolo della Scienza. La Scienza è sovrana assoluta dei destini del mondo. È dunque assurdo volere risolvere senza di essa il problema della pace. È impossibile concepire un’organizzazione internazionale efficace se essa non vi interviene. Confesso che a impegnarsi in questa via si va a sbattere contro incredibili difficoltà. Come conciliare il dovere nazionale degli scienziati col loro dovere internazionale? Praticamente, come realizzare l’intesa degli scienziati per la pace? Come organizzare un controllo del lavoro scientifico, quando l’idea stessa di questo controllo è chimerica?133 Non si può dimenticare, infine, che la Scienza e l’Industria hanno legami molto stretti; come sorvegliare le molteplici uscite di questo labirinto e impedire che il demone della guerra se ne scappi?
A tutte queste questioni, riconosco onestamente che non sono in grado di rispondere. Non sono nemmeno qualificato per rispondere. Ma le questioni non risultano per questo meno poste ed io ho il diritto di dire che, dalla risposta che esse riceveranno, dipende l’avvenire umano.