All’inizio di questo nuovo capitolo, una tristezza mi prende: bisogna dire addio a Tucidide. Incompiuta, la grande opera storica non va oltre il ventunesimo anno di guerra, l’anno 411. Questa incompiutezza, avvertibile nell’ottavo e ultimo libro in cui si racconta la storia dei Quattrocento, basta a spiegare le contraddizioni che vi si possono rilevare. Ma alcune palesi incongruenze non tolgono niente all’immensità della nostra gratitudine. Come non esser presi d’ammirazione nel contemplare il passo, rapido e sicuro, del genio umano in questo secolo e su questa terra? Avviene per la storia come per la poesia drammatica, per la filosofia, per le arti plastiche: un uomo appare, s’inoltra nella diritta via, non sarà più superato. Non si troverà più una tale densità, dignità, disciplina; una tale grande arte, tali sintesi, tali prospettive, tale precisione vigorosa, degne di Mantegna; tale serenità altera, tale altezza di vedute, tale visione sovrana; tale pienezza. Per quanto, nei nostri cantieri moderni, una massa di storici professionisti allinei con fatica le proprie pietre, questo marmo del Pentelico li umilia. Appollaiati su montagne di schede, per quanto essi si escludano dal mondo vivente per esplorare un passato lontano, come farebbero con una stella morta, e per quanto erigano la loro impassibilità a dogma, Tucidide è là, che scrive la storia del suo tempo, lo possiede, lo domina, e gli conferisce l’immortalità – ĸτῆµα ἐς ἀεί... Quell’uomo fortunato non era stato costretto, per fare opera scientifica, a mendicare qualche prebenda a grassi canonici di Ministero o d’Istituto; questo gran signore, ricco come Creso – o come Rockefeller – aveva le sue miniere d’oro. Egli ebbe il buon senso di metterle al servizio della sua opera, la possibilità e la probità di edificarla su un’inchiesta di tale ampiezza, di tale rigore, da non essere mai stata superata e da restare unica nella storia della Storia.
Un lettore a questo punto mi interrompe: «La sua ammirazione, egli dice, mi sorprende. Lei non ha tratto molto profitto dalle lezioni di Tucidide, se si deve giudicare dai suoi Oligarchi. È da un tale maestro che lei ha appreso questa faziosità che si dispiega senza pudore già dalla copertina dell’opera, questa impudente libertà d’interpretazione che dà al passato il colore del presente, questo linguaggio da libellista più che da storico?».
Rispondo subito col sostenere che anche la faziosità può avere la sua ora e i suoi diritti? Ma no, io mi batto il petto, e passo oltre: «Pazienza, lettore. Abbi la pazienza di aspettare che il colpevole autore degli Oligarchi, preso anche lui da scrupoli – o da rimorsi –, ti presenti la Critica degli Oligarchi, dove tenterà di essere il giudice di se stesso».
La storia di Tucidide ha un seguito: la storia di Senofonte. Dal punto in cui Tucidide si è fermato, da lì parte Senofonte, sulla stessa linea, sulla stessa traccia, come in una corsa a staffetta. Almeno all’apparenza. A seguirlo, questo imitatore diligente si deve lodare per il suo coraggio, riconoscere che ha il respiro corto e che talvolta incespica. Una faglia verticale separa le due opere, la sua a un livello inferiore: per mancanza di genio – la cosa è perdonabile –, ma ancor più per mancanza di una certa equità di cuore e di mente. L’uno e l’altro sono dello stesso sangue: tutti e due Ateniesi aristocratici; ma l’uno, Tucidide, non dimentica mai di essere ateniese; l’altro, Senofonte, di essere aristocratico. L’uno, con uno sforzo costante di onestà, tiene a freno i suoi pregiudizi e i suoi rancori (infatti la sua sola, onorevole, debolezza è la fedeltà al vecchio maestro). L’altro, animato da un inguaribile partito preso, vi si abbandona senza ritegno; la sua durezza verso i suoi compatrioti è eguagliata soltanto dalla sua benevolenza verso i loro nemici spartiati – indizio sicuro che, prima di lasciare Atene per correre l’avventura sulle grandi vie dell’Asia, il giovane Senofonte aveva dovuto fare il suo apprendistato nelle eterie oligarchiche: questo discepolo di Socrate non ha capito, o non ha voluto capire, la prosopopea delle Leggi.
Non è mia intenzione indugiare sugli avvenimenti che seguono la fine deplorevole dei Quattrocento. L’oligarchia, sbriciolata, torna ad essere invisibile e muta per alcuni anni. Intanto, però, dovette subire il contraccolpo della sua disfatta.
Questo contraccolpo non fu immediato, tranne che per i capifila come Antifonte. Perché la restaurazione della democrazia non fu immediata. I rappresentanti più in vista del partito popolare erano allora a Samo, col grosso della flotta, trattenuti dalla difesa dell’Impero. Trovando il campo libero, Teramene ne approfittò per sostituire all’oligarchia dei Quattrocento il regime ideale dei Cinquemila. Questa ingegnosa Costituzione, di tipo censitario – è questa la ragione per cui raccolse i consensi di raffinati intellettuali come Aristotele e, prima di lui, Tucidide, che la definisce «saggia combinazione di oligarchia e democrazia»61 –, aveva tutti i pregi possibili tranne uno: come alla giumenta di Orlando, le mancava il soffio vitale. Eccellente sul piano teorico, era inconsistente nella realtà. Quale uomo politico – fosse Teramene, fosse Alcibiade – sarebbe stato in grado, e in diritto, di ottenere l’abdicazione definitiva di un popolo la cui sola vigilanza aveva sventato i progetti criminali degli oligarchi; il cui nobile slancio di patriottismo aveva salvato la città condotta da quelli sull’orlo del baratro e salvava fino a quel momento perfino l’Impero in pericolo? Una brillante campagna navale, cominciata da Trasillo e Trasibulo, proseguita, col concorso di Teramene, sotto la direzione di Alcibiade, sfociò nei primi bei giorni del 410 nella grande vittoria di Cizico. Questo ritorno di fortuna comportò non la conclusione della pace, come si poté sperare per un breve momento, ma, per conseguenza logica, la restaurazione della democrazia integrale.
A dire il vero, questa è solo un’ipotesi, perché Senofonte, abituato al peccato di omissione, non ne parla affatto; ma un’ipotesi che s’impone, perché, nel corso dell’anno 410, si constata che la democrazia funziona, senza che sia possibile precisare quando e come il regime fantasma dei Cinquemila le abbia ceduto il posto.62 Essa stessa sembra ben viva, ben decisa a difendere la sua pelle contro gli oligarchi. Annullamento di «tutti i giuramenti prestati ad Atene, nell’esercito o altrove, per la rovina della democrazia ateniese», istituzione di un rigoroso giuramento di fedeltà al regime democratico: questo è l’oggetto del decreto-legge di Demofanto, di cui si è conservato il testo, redatto in uno stile giuridico arcaico che gli conferisce maggiore solennità: «Io farò morire – con la parola, con l’azione, col voto, e di mia mano, se posso – chiunque rovescerà la democrazia o, qualora l’abbia rovesciata, eserciterà una carica pubblica... E se c’è un altro che lo uccide, lo stimerò puro davanti agli dèi e alle potenze divine, come se avesse ucciso un nemico pubblico».63 Perché questo formidabile impegno acquistasse tutta la sua forza, il popolo intero, ordinato per tribù e per demi, fu invitato a formularlo pubblicamente. All’unanimità? Non certo, non più ad Atene nel 409 che a Samo poco prima; una minoranza giurò a fior di labbra, con la rabbia nel cuore, giurò ugualmente, vincolata (per un momento) dalla severità del giuramento. Al coraggioso democratico che, anticipando il decreto, aveva ucciso Frinico e dato il segnale della liberazione, fu decretata una prestigiosa ricompensa: la corona d’oro. Ma niente prova che il Demos ateniese, più rispettoso del diritto di quanto non fossero stati i suoi avversari, abbia usato la sovranità riconquistata per esercitare sanguinose rappresaglie.64 I più colpevoli avevano espiato, o si erano da sé inflitti il castigo dell’esilio. Il decreto di Demofanto aveva di mira il futuro, non il passato: non si ebbe la sfrontatezza di dargli un effetto retroattivo. Tutt’al più una atimia limitata colpiva quei cittadini mobilitati come opliti che si erano schierati coi Quattrocento: quelli perdettero il diritto di sedere nel Consiglio e di salire alla tribuna dell’Assemblea. Sanzione benevola. Tutto sommato, gli oligarchi se la cavarono a buon prezzo.
Adesso, a loro, non restava altro che farsi dimenticare; e vi giunsero, all’oblio, perché la Storia non sa niente di loro durante i cinque anni che seguono, dal 410 al 405. Ma la curva stessa che disegnano gli eventi di guerra in questo periodo ci informa sui loro pensieri segreti, se non sulle loro mene sotterranee. Curva ascendente – non senza discese – fin verso la metà dell’anno 407,65 segnata dal rientro trionfale di Alcibiade ad Atene; in seguito, ahimè!, curva discendente – non tuttavia senza un ultimo soprassalto che sarà la vittoria alle Arginuse – fino al disastro finale e alla capitolazione. Trasferitevi adesso nel segreto delle eterie; scrutate i loro cuori; le loro mosse non possono disegnare se non una curva inversa. La costernazione dell’estremista impenitente non nasce soltanto dal suo fallimento, ma anche dal fatto che Atene, la sua patria, in modo imprevisto si sia rimessa in piedi. Ma c’è in lui anche scoramento per l’incredibile inettitudine di Sparta ad afferrare e a sfruttare la sua occasione fortunata; ogni speranza gli sembra preclusa; tutto ciò che rallegra i buoni cittadini lo deprime: a considerare la ripresa dell’attività nei cantieri dell’Acropoli, il completamento dell’Eretteo, e, simbolo adorabile – esecrabile –, la decorazione delle Vittorie alate sulla balaustra del piccolo tempio di Atena, si potrebbe credere di esser tornati ai bei tempi di Pericle. Questo deludente popolo ateniese si comporta come la Fenice: bruciato, rinasce dalle proprie ceneri. Ma, giunti al gradino più basso della disperazione, dello scoramento, ecco che gli oligarchi ritrovano serie ragioni di speranza. La curva di Atene si piega, ricade; la loro subito risale. Nel momento in cui Sparta trova, infine, in Lisandro, l’uomo, il capo che le era finora mancato, l’instabile Atene, sempre pronta sia a disfarsene che a darglisi, adesso ripudia Alcibiade; Atene non lo rivedrà più. Si direbbe che una febbre maligna l’abbia assalita, tanto l’organismo appare all’improvviso squilibrato, logorato: fenomeno di sfinimento patologico, di cui il clan nemico osserva i progressi con gioia crudele. Venticinque anni di guerra, e che guerra! Che anni pesanti! – alternanza di gioie e dolori, trionfi e catastrofi, vertigini di gloria e d’angoscia, invasioni, rivoluzioni, resurrezioni, campi devastati, cuori esaltati, cuori spezzati, avevano indebolito in profondità un popolo ipersensibile. L’inquietante squilibrio di cui soffriva fu pienamente rivelato da uno scandalo inaudito: il processo, la condanna, l’esecuzione dei suoi capi più valorosi, i vincitori delle isole Arginuse (406). A quella vergognosa tragedia, che serve da preludio al disastro finale, si può mai pensare che gli oligarchi fossero stati estranei?
Sul processo degli strateghi si può dire la stessa cosa che per quasi tutti i grandi processi della Storia: i dibattiti restano aperti, per sempre. Vi si osserva il solito miscuglio di illegalità e di iniquità, di passioni partigiane e di volgare bassezza; a distanza, quando ormai le passioni sono spente, gli accusatori e i giudici si ritrovano nel ruolo di accusati. Dopo tutto, nel dramma giudiziario dell’anno 406, il principale accusatore sarebbe potuto diventare, all’istante, il principale accusato: ufficiale, trierarca, combattente delle Arginuse, è per difendersi che egli attacca i suoi capi, è per salvare la sua vita che a ogni costo gli è necessario ottenere la loro morte. Ma noi conosciamo il personaggio, le sue mire, i suoi maneggi, le risorse del suo genio astuto; l’abbiamo visto in scena in una precedente tragedia: è Teramene, lo stesso Teramene che, dopo aver abbattuto la democrazia di concerto con Antifonte, ha abbattuto l’oligarchia di concerto con gli ammutinati del Pireo, e ha spinto Antifonte nel baratro.66 In questo anno 406, il vento della politica soffia in modo tempestoso: cercando appoggio da tutte le parti, Teramene non fece ricorso, anche questa volta, agli oligarchi? Ecco il problema da risolvere, ammesso che possa essere risolto.
Un rapido esame dell’affaire ci aiuterà. Qual era il crimine di cui i vincitori delle Arginuse si vedevano accusati? Dopo una battaglia accanita per la quale – state ben attenti – era stato necessario reclutare dei combattenti in tutte le classi della popolazione, dalla più bassa degli schiavi alla più alta dei cavalieri, gli equipaggi di venticinque triremi ateniesi, duemila uomini, erano miseramente morti in mare, privi di sepoltura, perché non erano stati raccolti in tempo dai loro capi. E che cosa rispondevano gli accusati? «Sì, noi abbiamo abbandonato il campo di battaglia con il grosso della flotta, ma era per un motivo di alta strategia: ultimare la distruzione delle forze nemiche; quanto alle operazioni di salvataggio, lungi da noi il disinteressarcene, ne avevamo affidato l’incarico, fornito i mezzi – quarantasette navi – ai due trierarchi più qualificati; questi due, che facevano funzione di strateghi, si chiamavano Teramene e Trasibulo: se si devono cercare dei responsabili, eccoli. Ma, poiché essi ci accusano, noi non arriveremo a mentire dichiarandoli colpevoli: la verità – il nostro rapporto ne fa fede – è che la sola tempesta, con la sua violenza, ha reso impossibile il salvataggio». La posizione della difesa era forte.67 Come spuntarla? Solo con un colpo a sorpresa, dettato dal fanatismo. E come eseguire questo colpo scellerato? Col concorso degli oligarchi, esperti mestatori. Tutto li riconciliava di nuovo con Teramene e i suoi amici: aristocratici, essi avevano i loro morti da vendicare; nemici della democrazia, una splendida occasione per decapitarla. Dei sei strateghi messi sotto accusa,68 almeno quattro appartenevano all’élite del partito popolare: vi era Trasillo e, con lui, un figlio del grande Pericle. A dar man forte per abbatterli, non mancavano sulla piazza demagoghi pronti a vendersi: queste coalizioni indecenti sono prassi abituale in casi simili. Così dovette organizzarsi, in gran segreto, una trama in cui, dal momento che Teramene aveva giudicato più accorto e più saggio mantenersi sullo sfondo, il ruolo principale fu affidato a un membro del Consiglio di nome Callisseno. Che questo personaggio, assai spregevole, sia stato un oligarca mascherato, non si può affermare con certezza, ma, poiché lo vediamo prendere, subito dopo, la via di Decelea – la via dei traditori –, si è in diritto di presumerlo.
Il processo si svolgeva nell’Assemblea, terreno idoneo di manovra per dei politicanti consumati e scaltri. Che quell’operazione si liquidasse prontamente era possibile: condotta con audacia, si concluse in modo brillante. Bisognava alterare «le leggi umane e divine»: vi si impiegarono tutti gli artifici della procedura, le armi politiche più sleali, i sotterfugi più adatti a seminare scompiglio nelle menti e nei cuori. Sarebbe stato normale che l’Assemblea, riunendosi prima come camera che metteva in stato d’accusa, decidesse nella sua prima seduta se la querela era ammissibile o no: con una manovra la cui accorta perfidia svela il suo autore, le si fece votare alla fine della seduta, al cadere del giorno, nella penombra complice, una mozione con la quale il Consiglio era incaricato di stabilire «la procedura da seguire per il giudizio degli accusati».69 In tal modo, con un abile colpo di mano, la questione preliminare – il mettere sotto processo – era sparita, regolata per omissione: si bruciavano le tappe, si correva, si volava verso l’epilogo. Vi bastava una seduta, una sola: quella dovette essere preparata in modo così metodico – dietro le quinte – come lo era stata un tempo la riunione di Colono, e dalla stessa mano. Per fortuna, o per calcolo, essa cadde un giorno di ottobre nel pieno delle feste Apaturie; era un giorno di festa di famiglia, si trasformò in un giorno dei Morti: raccoltisi da tutte le parti, i membri delle famiglie in lutto, vestiti di nero, la testa rasata a zero, vennero a prendere posto all’Assemblea; insieme giudici e testimoni a carico, il loro numero – e forse se ne erano aggiunti –, la loro presenza, il loro aspetto erano opprimenti per gli accusati. Non si era trascurato di prevedere l’apparizione sulla tribuna, al momento giusto, di un sopravvissuto al naufragio – l’eroe salvato per miracolo –, che i suoi compagni in difficoltà avevano incaricato – diceva lui –, se mai fosse scampato, di andare a dichiarare al popolo, a loro nome, che dopo avere gagliardamente combattuto per la patria, essi erano stati vergognosamente abbandonati dai loro capi! (Profonda commozione nell’uditorio). Ma questa giornata memorabile fu soprattutto la giornata di Callisseno, la sola giornata di tutta la sua vita che la Storia abbia ricordato (che bel giorno per te, Callisseno! Affrettati a gioirne: è il destino dei domani ineluttabili, che una vista corta non riesce a scorgere...); questo cittadino zelante mise, per rovinare gli accusati, una ingegnosità, un ardore, un’abnegazione incredibili, come se avesse voluto assolutamente riservarsene la vergogna più grande. Egli aveva ottenuto dal Consiglio e trasmesso all’Assemblea una proposta di decreto in virtù della quale questa, dopo aver sentito accusa e difesa, doveva pronunciare un verdetto collettivo votando – per tribù – per o contro la colpevolezza degli accusati: «Se essi sono dichiarati colpevoli, la pena sarà la morte, saranno consegnati agli Undici,70 i loro beni confiscati, la decima per la Dea».71 Ci sarebbe stato allora un solo verdetto, una sentenza: in violazione delle leggi in vigore, perfino dei princìpi del diritto ateniese, la mozione di Callisseno vincolava gli accusati gli uni agli altri per mandarli, con assoluta certezza, al supplizio, per sbarazzarsi di loro in un sol colpo! L’audacia non era senza pericolo: essa prestava il fianco all’accusa di illegalità – quest’arma temibile che nel 411 l’oligarchia aveva tentato di spezzare, che nel 410 la democrazia restaurata aveva ripreso in mano. Gli amici degli accusati non esitano a ricorrervi: Euriptolemo, uomo della nobiltà, parente di Pericle e di Alcibiade, è il loro portavoce. Il suo intervento da un canto raccoglie qualche applauso, dall’altro scatena un tumulto infernale. Il fatto che solo una piccola minoranza sembri avere il coraggio della sua opinione sprona gli avversari a raddoppiare la violenza: si domerà l’opposizione col terrore. Nel pieno della gazzarra – «È una vergogna! Voi volete impedire che il popolo eserciti la sua volontà!» –, un complice di Callisseno, Licisco, si avventa alla tribuna: «Se quelli che hanno sottoscritto l’accusa d’illegalità, dice, si ostinano nel loro colpevole disegno di ostacolare la volontà del popolo, ebbene, siano essi stessi giudicati insieme con gli accusati e inglobati nello stesso verdetto!». Si levarono applausi furibondi; sotto la minaccia, Euriptolemo indietreggia, ritira la sua proposta. Intanto, tra i pritani che formano l’ufficio dell’Assemblea, si trovano alcune persone equilibrate che rifiutano di lasciar mettere ai voti una procedura illegale; contro di loro, Callisseno va ad esporsi in prima persona; sostenuto dal fracasso che provocano dei partigiani ben addestrati, egli riprende la manovra di Licisco e fa cadere sugli oppositori una minaccia di morte. Quanti avranno il coraggio di resistervi? Per l’onore dell’umanità, ve n’è uno, Socrate, il solo Socrate, inaccessibile alla paura.72 Fortunata la città che può vantarsi di avere un buon cittadino! Ma poiché tutti gli altri avevano ceduto, si passa oltre: non resta altro che votare. Prima, però, sforzo supremo della difesa, Euriptolemo riprende la parola; con abilità egli oppone alla proposta del Consiglio una controproposta: si applichino agli accusati le leggi rigorose che puniscono i crimini contro il Demos, o i crimini di sacrilegio e tradimento, ma siano giudicati secondo legalità ed equità, uno ad uno, con tutte le garanzie alle quali la difesa ha diritto, puniti quelli che sono colpevoli, prosciolti quelli che sono innocenti: «Rispettate, Ateniesi, la legge, gli dèi, il vostro giuramento; state attenti a non lavorare per gli Spartani quando vi affrettate a mandare a morte i loro vincitori; che cosa temete dunque per avere tutta questa fretta?».73 Per un momento queste sagge parole fanno impressione; il destino è incerto; quando si giunge al voto (a mani alzate) sulle due proposte – di Euriptolemo e di Callisseno –, è la prima, oh sorpresa, che sembra raccogliere la maggioranza dei suffragi. Che cosa successe allora? Lo si intravede attraverso l’oscura brevità del racconto di Senofonte. Probabilmente, un nuovo tumulto, concertato: si alza un tal Menecle, che dice «opposizione con giuramento»; questo basta: il voto è annullato.74 Adesso viene messa ai voti e adottata la proposta del Consiglio – la mozione di Callisseno. I congiurati – perché tutto dimostra che vi fu una congiura – non lasciano all’Assemblea il tempo di mutar parere una volta ancora. Bisogna concludere. Senza indugio, per o contro la colpevolezza. La maggioranza è per la colpevolezza. Gli strateghi sono consegnati agli Undici, mandati a morte. I morti sono vendicati. Anche gli oligarchi.
Mai debolezza colpevole di un popolo libero doveva essere più prontamente, più duramente punita. Come presa da follia, la democrazia era caduta nella trappola in cui i suoi nemici l’avevano attirata; essa ebbe un bel dire di ravvedersi, riprendersi, gettare in prigione, maledire Callisseno e i suoi miserabili accoliti, altri Callisseni spuntavano, tradivano; meno di un anno dopo, il colpo di fulmine di Egospotami abbatteva Atene; sorpresa da Lisandro, l’ultima flotta ateniese veniva annientata senza nemmeno aver combattuto (405). Ben presto ci fu l’assedio, il blocco, la carestia, col dilemma finale: la capitolazione o la morte.
Quale altra fazione se non quella degli oligarchi poteva trarre benefici dalle sventure della patria ateniese? Più grande era la disgrazia, più grandi le loro speranze. Perfino nel 415 dopo il disastro di Sicilia, perfino nel 411 dopo Eretria, mai le circostanze erano state loro così favorevoli, all’interno e all’esterno. Il capo del partito popolare, Cleofonte, era un oratore trascinante, veemente, ma lottava da disperato per una causa persa: i suoi appelli patriottici suonavano a vuoto; era un gioco da bambini screditare la democrazia e i suoi capi facendo ricadere su di loro tutta la responsabilità del disastro. Teramene, che nessun avvenimento riusciva a sorprendere, tanto sembrava esservisi preparato in anticipo, Teramene, la cui influenza cresceva sempre nelle situazioni difficili, Teramene si trovava legato agli oligarchi da un vincolo saldo, benché invisibile, la complicità del crimine; le sue previsioni, i suoi disinganni75 erano per loro garanzia – per un certo tempo almeno – della sua alleanza. E, soprattutto, che cosa non ci si poteva attendere dall’eroe vincitore, Lisandro? Questi non era uno Spartiata della specie comune. Lentezza e scrupoli non erano fatti per lui: dotato di raffinata perfidia preparava minuziosamente le trappole in cui attirava la preda, di cui poi era facile impadronirsi; fu così che in meno di un’ora egli aveva distrutto la potenza navale di Atene; uomo di un’ambizione metodica – senza timore degli dèi né degli uomini –, capace di subordinare in ogni cosa i mezzi al fine, aveva eretto a sistema la pratica della corruzione, del tradimento, del fanatismo, e, in modo del tutto speciale, del fanatismo oligarchico di cui apprezzava la fredda crudeltà come la devozione a Sparta; aveva dappertutto i suoi scherani, scelti di preferenza tra le teste calde dell’oligarchia: a loro, forniti di spade e di lance spartiate, nelle città nemiche o alleate, egli affidava tutto il potere con libertà di disporne a loro piacimento, di sterminare i loro avversari che erano anche quelli di Sparta.76 Il sistema era valido per Atene come per le altre città greche: i nostri tipi vi facevano sicuro affidamento. Parecchi dei loro amici, fuorusciti nel 411, erano della cerchia di Lisandro, in relazioni con loro sicuramente. La loro azione si combinò per condurre Atene assediata alla capitolazione, in seguito alla quale gli oligarchi sarebbero diventati, con la collaborazione del vincitore, i padroni della città.
Questo obiettivo lo raggiunsero in sei mesi, quattro dei quali segnati da una carestia, tale da logorare e spezzare tutte le energie e perfino la forza morale di un patriottismo senza pari. Innanzitutto, da popolo-re, che, pur abbandonato da tutti (tranne che dai fedeli Samii), non accetta di abdicare, il popolo ateniese aveva affrontato il destino. Tante volte, in passato, caduto il più in basso possibile, si era rialzato; non sarebbe stato lo stesso anche questa volta?77 Le arringhe infervorate di Cleofonte lo esaltavano. Come nelle ore esaltanti delle guerre persiane, prima di Salamina, un’ampia amnistia restituiva i diritti civili a tutti coloro che ne erano stati privati, esclusi i traditori e gli omicidi: la salvezza della patria esigeva l’unione dei cuori, l’oblio dei contrasti tra fazioni. Sforzi vani; speranze vane! La disunione, che non aveva smesso di propagarsi in profondità, era la più forte. Trinceratisi nel segreto delle eterie, gli oligarchi mettevano in ridicolo gli inviti fraterni dei loro concittadini: lungi dal voler prodigarsi per la salvezza della patria democratica, con tutto il cuore si adoperavano per la sua rovina. E l’eroismo guerriero degli assediati restava impotente contro le armi della fame, abilmente maneggiate da Lisandro. La loro forza di resistenza diminuiva di giorno in giorno, minata all’esterno e all’interno da un’azione concertata; perché le spade e i cuori meglio temprati si incrinano contro tali coalizioni: chi parla di accordi segreti nella piazzaforte parla di piazzaforte arresa presto o tardi. Dalla metà di dicembre, coi granai svuotati e le famiglie povere che morivano di fame, l’orgoglio ateniese cedette; si inviò un’ambasceria ad Agide: Atene offriva di entrare nella confederazione peloponnesiaca, a condizione di mantenere le sue Lunghe Mura – la sua libertà. Agide indirizzò gli ambasciatori presso gli onnipotenti capi della politica spartiata, gli efori. Questi, senza nemmeno consentire loro di entrare in Laconia, li rimandarono energicamente ad Atene: se gli Ateniesi vogliono la pace, dissero, prendano deliberazioni migliori prima di tornare da noi; smantellamento delle Lunghe Mura per una lunghezza di dieci stadi,78 questa è la condizione preliminare. Lassù, nella città affamata, ci si divide, ci si insulta; i favorevoli alla pace ad ogni costo tentano una prima offensiva, respinta con fermezza: Archestrato, che si è pronunciato nel Consiglio in favore dell’accettazione della proposta spartana, viene gettato in prigione; nell’Assemblea, Cleofonte si scatena e minaccia di colpire con la spada chiunque parlerà di capitolazione. Le sue violenze verbali potevano ancora fare impressione, far uscire il popolo dal suo torpore, fargli ribollire il sangue. Ma quelle violenze ormai non gli bastavano più; esso aspettava, chiedeva altro. Che cosa dunque? Adesso che la fame aveva dissipato tutte le illusioni, che cosa c’era in fondo ai cuori? Un’ossessione tormentosa, l’angoscia del domani, il desiderio febbrile di sapere quale sorte i vincitori riservassero ai vinti; e se questa non era la vergogna e le sventure della schiavitù, le condizioni più dure non sarebbero state preferibili a una lenta agonia? Questo segreto dei cuori solo un uomo molto sottile era in grado di decifrarlo, e sfruttarlo: Teramene, il quale fino ad allora si era tenuto in un prudente riserbo, evitando di compromettersi col prendere posizione in un senso o nell’altro; un istinto infallibile gli diceva che la sua ora era giunta; agli stupidi violenti che erano andati a sbattere contro il patriottismo del popolo, egli intendeva mostrare come si aggira l’ostacolo. Sale alla tribuna, chiede se la cosa più opportuna, in quel momento, non sia sondare il nemico per conoscere le sue intenzioni, sapere quel che si nasconde dietro l’esigenza formulata: volontà di ridurre gli Ateniesi in schiavitù o – cosa più probabile – desiderio di ricevere un pegno: se il popolo accetta di inviare lui, Teramene, non da Agide ma da Lisandro – l’uomo a cui Sparta deve la vittoria –, si fa forte non solo di riferire le informazioni necessarie, ma di essere buon avvocato della causa ateniese, per quanto disperata essa sia. L’offerta lusinghiera è ben accolta, basta a rianimare la speranza, tanto è vero che «la speranza nel cuore degli uomini, dice il vecchio poeta, vive di poco cibo». L’invio della missione a Lisandro è deciso: Teramene parte.
Parte, rendendo grazie agli dèi per questa missione provvidenziale, da cui intende cavare molteplici vantaggi. Lisandro gli sembra un interlocutore alla sua altezza; con la collaborazione di un tale Spartiata e degli espatriati ateniesi del suo seguito, deve essere possibile preparare con prudenza ad Atene un avvenire in cui Teramene avrà il suo posto – il primo. Durante la sua assenza, prolungata il tempo che sarà necessario (e perché affrettarsi? L’auspicata capitolazione deve cogliersi come un frutto maturo), la fame farà la sua opera: buona operaia, essa saprà venire a capo di tutte le intransigenze, democratiche, patriottiche. Cleofonte è un ostacolo: bisogna rovesciarlo per forza, e si può pensare che, prima di lasciare Atene, Teramene non l’abbia affatto dimenticato, ma che altri lo rovescino, che se ne incarichino gli oligarchi, egli vi vede solo guadagno. Di fatto, le sue previsioni si realizzano. Il tempo passa, Teramene non ritorna. Si moriva di fame ad Atene a dicembre, che significano due o tre mesi più tardi? Nel partito della resistenza le defezioni si moltiplicano: a tutto vantaggio degli oligarchi; essi dominano ora nel Consiglio dove un loro sicario, Satiro – che essi faranno diventare un capo degli Undici – impegna un duello senza quartiere con Cleofonte. Per abbattere questo, si trova un buon pretesto: lo si accusa di aver dormito, una notte in cui egli doveva trovarsi nel suo posto di guardia sui bastioni – crimine di alto tradimento, punito con la morte. Cleofonte viene arrestato, tradotto davanti al tribunale popolare, al quale, con una legge fatta ad hoc e per una maggiore sicurezza, è associato il Consiglio stesso; si decide la condanna (giustificata, chi può saperlo? Satiro accusatore costituisce già una presunzione d’innocenza). Cleofonte giustiziato, il partito popolare fuori combattimento, la democrazia agonizzante insieme con la patria, Teramene può tornare. Insieme agli oligarchi suoi alleati ha ormai campo libero.
Essi stanno dunque per capitolare, finalmente capitolare! Certo la situazione disperata di Atene non comportava altro esito. Ma per questi Ateniesi, la capitolazione, lungi dall’essere costrizione mortale, era gioia, speranza; essa rispondeva alle loro attese, ai loro segreti desideri; essi ne avevano il piacere non meno che la volontà. Davanti a un’Assemblea ormai ridotta all’ombra di se stessa, non in condizione di rivelare l’abuso di fiducia di cui essa era vittima, Teramene si giustificò senza difficoltà, anzi, meglio, si fece eleggere con un consenso popolare: poiché, secondo il parere di Lisandro ma anche di Agide, i soli efori erano qualificati a fare trattative, non c’era più da perder tempo, bisognava mandarlo in missione a Sparta, e stavolta con pieni poteri. In aggiunta a lui, gli danno nove colleghi. Atene riponeva ogni sua speranza nel genio astuto di colui nel quale ormai voleva vedere soltanto l’uomo della pace e forse, in quella circostanza, non poteva fare scelta migliore: Teramene aveva alcune qualità che fanno il grande diplomatico, la duttilità, l’ingegnosità, la padronanza di sé, l’arte di leggere nel gioco altrui. La delegazione ateniese comprendeva anche degli oligarchi? È probabile, benché i testi non forniscano alcuna precisa indicazione su questo punto. I fuorusciti in ogni caso furono rappresentati a Sparta dal vecchio stratego Aristotele, notorio traditore, divenuto agente di Lisandro. L’assenza dei democratici aveva lo scopo di ispirare fiducia nei vincitori. Si sa come, dopo un dibattito patetico tra i confederati peloponnesiaci, la sorte dei vinti fu decisa: contro una minoranza rabbiosa di odio fino a reclamare la distruzione totale di Atene, Sparta e la maggioranza rifiutarono la proposta di distruggere e «di ridurre in schiavitù una città greca che si era distinta per tante eccellenti imprese nei momenti dei più grandi pericoli che la Grecia avesse conosciuto».79 Che altre considerazioni, più realistiche, siano intervenute per dettare a Sparta il suo atteggiamento, si può crederlo; essa non veniva meno al suo onore: all’indomani di Egospotami, ricordarsi di Salamina era prova di una rara nobiltà d’animo. Tuttavia gli efori imposero severe condizioni di pace: abbattimento delle Lunghe Mura e delle fortificazioni del Pireo, consegna delle navi ad eccezione di un piccolo numero, evacuazione di tutti i possedimenti esteri, subordinazione totale a Sparta sulla terra e sul mare: era la libertà nella schiavitù. Due altre clausole riguardavano la vita interna della città: la prima – che soddisfaceva i desideri degli oligarchi – era il rientro degli esiliati; la seconda obbligava Atene ad essere governata secondo «la Costituzione degli antenati»,80 formula sicuramente oscura, ma abituale agli oligarchi: si poteva contare su di loro per metterla in chiaro.
Intanto gli Ateniesi assediati, temendo il peggio, attendevano il ritorno di Teramene e dei suoi colleghi, s’immagina con quale impazienza ansiosa... «Non c’era più, dice seccamente Senofonte, tempo da perdere, dato il numero di quanti morivano di fame».81 (Da questo ateniese indifferente e laconico non sapremo trarre nessuna notizia più precisa sulle indicibili sofferenze di Atene). Essi infine arrivano, si sono appena liberati della folla accorsa che li circonda, li interroga, li implora, volendo a qualsiasi costo sapere, uscire da una così atroce incertezza. Le informazioni frammentarie raccolte si propagano di bocca in bocca, di casa in casa. Fin dalla sera, discussioni vivaci si scambiano tra gli ambasciatori e gli strateghi, parecchi dei quali sono leali democratici. L’indomani, davanti all’Assemblea del popolo riunita, Teramene comunica il testo integrale delle condizioni spartane: sebbene siano gravose, egli chiede di accettarle senza riserve, sicuro di avere dalla sua parte la maggioranza della popolazione giunta al livello più basso dello sfinimento, troppo felice di sfuggire all’atroce minaccia della schiavitù, non avendo più che un solo, ossessivo, pensiero: mangiare. Ad alcuni democratici che protestano perché non possono rassegnarsi a vedere andare perdute nel naufragio, con l’indipendenza della patria, le libertà democratiche, egli risponde (secondo Plutarco) con un tono di fredda ironia. Uno di loro, giovane oratore, non ha paura di opporre Temistocle, costruttore delle Lunghe Mura, a Teramene, loro distruttore: «Ragazzo, replica Teramene, dove vedi la differenza tra lui e me? Temistocle edificò le mura per il bene dei cittadini; io, allo stesso modo, è per il bene dei cittadini che vi chiedo di demolirle». D’altronde, aggiunse, molto disinvolto, «se sono le mura che rendono felici le città, compiangiamo la calamità di Sparta che non ne ha».82 Questo è Teramene, a suo agio in tutte le tragedie, purché egli vi interpreti il ruolo di protagonista. L’esito della discussione era fuori dubbio; le condizioni di pace sono accolte; Atene capitola; Lisandro fa al Pireo un’entrata trionfale, probabilmente accompagnato dagli applausi gioiosi dei suoi amici oligarchi.
Lei esagera, dirà qualcuno. Il partito preso le fa perdere la bussola. Ci dia le sue prove. Eccole (per parlare solo dell’anno 404):83 «Allora Lisandro attracca al Pireo; gli esiliati rientrano; si cominciano a demolire le Mura al suono dei flauti, in mezzo a un grande entusiasmo, perché si pensa che quel giorno memorabile segni per la Grecia l’inizio di un’era di libertà».
Chi parla così? Uno Spartiata, un Tebano? Nient’affatto. È l’ateniese Senofonte, che trascina allegramente a terra la sua patria. Egli è, nonostante tutto, uno spirito moderato.84 Attraverso lui giudicate gli altri.