Quando la notizia del disastro di Sicilia giunse ad Atene, «la gente si rifiutò a lungo di credere a un disastro così completo... Intanto però fu necessario arrendersi all’evidenza. Allora il popolo si scatenò contro gli oratori che avevano incitato alla spedizione, come se non fosse stato proprio esso ad averla deliberata. Tutto quello che da ogni parte si offriva agli occhi suscitava tristezza, paura, costernazione... La città aveva da rimpiangere tutta quella massa di opliti, quella cavalleria, quella gioventù che era impossibile rimpiazzare. L’aspetto dei cantieri sguarniti, l’esaurimento del tesoro, la mancanza di equipaggio per la flotta, tutto contribuiva a far disperare della salvezza...».45
Così parla Tucidide, storico veridico ma discreto, d’altronde assente da Atene – a causa dell’esilio – dall’anno 424. Meno discreto di lui (per esplicita faziosità), oserò affermare, appoggiandomi sulla testimonianza dei fatti, che, nella città in lutto, la costernazione non era generale. Nessun dubbio che essa non fosse il sentimento dominante nelle eterie oligarchiche. Nessun dubbio che la furia partigiana abbia ogni tipo di spudoratezza: delle sventure della patria se ne ride, purché ne tragga profitto; se occorre, nella sua rabbia, essa le provoca, le disgrazie: un tale comportamento è proprio di tutti i tempi.
Per dei cospiratori che stavano in agguato, nemici giurati della democrazia, il disastro non apriva prospettive piacevoli? «Divina sorpresa», il regime ne era profondamente scosso; screditati, gli abituali consiglieri del popolo, non quelli – i più perfidi – le cui abili manovre avevano provocato la diserzione di Alcibiade, ma quelli che, mediocri emuli di Alcibiade, avevano – sul suo esempio e al suo seguito – vantato il grande progetto siciliano; l’opinione pubblica, scatenata e sconcertata, sembrava pronta a rifiutare tutto, ad accettare tutto. Come primo attacco portato alla Costituzione, veniva istituito una specie di comitato straordinario, un Consiglio di dieci Anziani, incaricato di dare il suo parere preliminare su tutte le misure da prendere – cosa che diminuiva parecchio il ruolo dei Cinquecento, consiglio ordinario e meccanismo essenziale della democrazia. Nel numero di questi Anziani figurava il poeta Sofocle, che aveva superato gli ottant’anni: il nome venerato di un vecchio illustre risulta utile alla facciata di certe iniziative di smantellamento; aiuta a camuffare le pratiche più sospette: anche questo è proprio di tutti i tempi.
Tuttavia, per tutto un anno, le cose si fermarono lì. Ci si può meravigliare che gli oligarchi non abbiano senza tregua spinto più lontano il loro vantaggio. In verità, essi erano rimasti sorpresi proprio dall’eccesso e dalla repentinità del disastro: tutto porta a credere che in questa fine d’estate 413 essi non dovessero esser pronti per un’azione immediata. Ma ciò che li sorprese – e li imbarazzò – ancor più (prima di essere la causa profonda del loro scacco), fu la forza inaudita del sentimento nazionale, come si manifestò nell’Atene ridotta alla disperazione. Perché la rabbia partigiana riesca a mordere, prima di tutto occorre che lo spirito nazionale s’indebolisca o si corrompa. Ora Atene, pur vinta, non si piegava, non pensava a capitolare. Al contrario, concentrata la sua energia, meditava solo di dare fondo a tutte le risorse di cui ancora disponeva e a riprendere la lotta. Trascinato da questa corrente generosa, il nuovo Consiglio si comportava sulle prime da Comitato di Salute Pubblica, di Difesa Nazionale; la guerra aveva il primato sulla politica. Per miracolo, la lentezza e le esitazioni di un nemico senza audacia lasciavano agli Ateniesi il tempo di riprendere fiato, di ricostituire e lanciare in mare nuove squadre, di scongiurare – almeno parzialmente – le defezioni delle città sottomesse. Certo, la situazione restava pericolosa, perfino si aggravava – nell’estate 412 – per l’ignominiosa alleanza che Sparta osava concludere col Gran Re, procurandosi così il vantaggio principale che le mancava: l’oro. E nondimeno, malgrado l’oro persiano, malgrado gli opliti spartiati a Decelea, malgrado la defezione di Chio e di Mileto, il duello continuava incerto, con alternanze di rovesci e di successi. Doveva prolungarsi per otto anni ancora – otto anni: chi avrebbe potuto crederlo all’indomani del disastro siciliano! Questa vitalità di Atene, questa capacità di risurrezione, quali risultati non le avrebbero procurato se forze ostili, agendo dal di dentro, non l’avessero senza tregua e in modo subdolo contrastata?
Tra queste forze, le più malvagie e attive erano incontestabilmente quelle che abbiamo già visto all’opera (più esattamente alla prova): le società segrete in cui si riunivano gli oligarchi. Benché nessuna valida testimonianza ci ragguagli, siamo sicuri che le eterie fecero in quel periodo un grande sforzo di reclutamento e di organizzazione, in vista dell’azione imminente da cui si aspettavano il rovesciamento della democrazia e la presa del potere. Per il loro lavoro preliminare di termiti che si adoperavano a fiaccare l’alto morale del popolo ateniese, gli ausiliari non mancavano: erano le campagne devastate, il Laurion abbandonato, la miseria crescente tra il popolino, il peso schiacciante degli oneri pubblici sul versante dell’aristocrazia, nel focolare domestico l’inevitabile stanchezza della guerra e delle separazioni che essa determina, sfruttate in modo divertente da quel buontempone di Aristofane – che scrive in quel momento la Lisistrata. Per la direzione spirituale e per l’azione imminente, un capo era stato trovato: Antifonte. Giunto tardi alla politica militante – era vicino ai settant’anni – questo professore di eloquenza, di cui è verosimile che Tucidide sia stato discepolo, si presenta davanti alla posterità munito – grazie alle attenzioni che gli dedica il suo illustre allievo – di un brevetto di virtù, di saggezza e di talento che ha fatto generalmente impressione sugli storici: «Uno degli uomini più virtuosi che ci fossero allora ad Atene, profondo pensatore e non meno abile oratore, egli non interveniva volentieri nei dibattiti politici e giudiziari, perché la sua fama di eloquenza predisponeva la moltitudine contro di lui; ma era l’uomo più capace di aiutare coi suoi consigli coloro che avevano una contesa da sostenere nell’Assemblea o nel tribunale».46
Del talento dell’oratore è difficile giudicare dal poco che ci resta: tre orazioni in cui non si manifesta un merito superiore, tre esercizi di scuola di faticosa sottigliezza. Quanto alla sua qualità di spirito, come mezzo per apprezzarlo, a meno di ammettere che Antifonte di Ramnunte – l’oratore – e Antifonte il sofista siano la stessa persona:47 in questo caso, mi schiero dalla parte di Socrate che non la stimava affatto. I suoi consigli? Quelli del maestro di retorica, se lo si giudica attraverso Tucidide, sono stati di buon giovamento; quelli del capo partigiano, si vedrà dove per poco non condussero Atene: in ginocchio davanti a Sparta. Quanto alla virtù di Antifonte, essa rientrava tra quelle temibili virtù categoriche, per capirci, alla Robespierre, peraltro senza arrivare al disinteresse rigoroso di un Robespierre – dal momento che l’oratore (allo stesso modo del sofista) aveva la mano sporca quando fissava i suoi compensi –, senza arrivare a proscrivere i furfanti, come testimoniano i due sfacciati demagoghi che beneficiarono della grazia oligarchica, Pisandro e Frinico, per cui egli li rese suoi accoliti. Il dottrinario inacidito, ancora più severo col passar degli anni, sempre uguale, assoluto, feroce nel suo disprezzo verso il popolo, ammetteva negli altri il piacere delle conversioni e dei rinnegamenti, a patto che ne beneficiasse il suo idolo: l’oligarchia.
«Impresa faticosa», riconosce Tucidide, «strappare la sua libertà a un popolo che ne fruiva da cento anni, dall’espulsione dei tiranni».48 Per quanto gli oligarchi si fossero rafforzati, quell’impresa risultava superiore alle loro forze. Per fortuna, si offriva loro un alleato, da cui si poteva sperare che avrebbe fornito il contributo necessario per abbattere la democrazia, un alleato di buona famiglia: Teramene, figlio di Agnone. Dopo la tragica morte di Nicia in Sicilia, fu a lui che l’aristocrazia lealista dette la sua fiducia: e certo, quanto alle doti personali, egli la meritava molto più di Nicia, molto meno per la rettitudine del carattere. Ambizioso, seducente, duttile e ondeggiante, ci si poteva aspettare molto da lui, anzi, ci si poteva aspettare di tutto. Teramene era tra quei virtuosi della politica, la cui raffinata sensibilità sa valutare gli imponderabili, percepisce le correnti invisibili, segue da presso gli sbalzi di vento, il cui genio è fatto tutto di destrezza, e, all’occorrenza, di prontezza nel cambiare verso: ma allora egli vi aggiungeva tanta serietà, una così salda convinzione, che la più scabrosa operazione, con lui, ridiventava rispettabile. Si ammirerà, strada facendo, l’arte superiore con cui, tradendo i suoi alleati l’uno dopo l’altro, egli riuscì ad uscire, a suo vantaggio, dalle situazioni più delicate, fino al giorno in cui, caduto nella sua stessa trappola, come Luigi XI, ma meno fortunato di lui, vi soccombette, sapendo ancora, in quel momento supremo, dominare il suo vincitore e conquistarsi la posterità con l’eleganza del pensiero, della parola e del gesto.
Ecco dunque l’alleato di Antifonte. Quale contrasto tra i due uomini! L’uno conciliante quanto l’altro è inflessibile, l’uno pronto ai compromessi necessari (o vantaggiosi), quanto l’altro si rinchiude nella più sprezzante intransigenza. Ma almeno le loro dottrine collimavano? Antifonte, settario nell’anima, con la testa rivolta verso un passato lontano, aveva la pretesa di ricondurre Atene al tempo prima di Solone, a questa oligarchia patrizia strettamente delimitata di cui gli importa poco che, crudelmente oppressiva, abbia lasciato un ricordo esecrabile: nei riguardi dei «cattivi» la crudeltà stessa gli sembrava virtù, il dovere era crudeltà; implacabile, era col terrore che egli si preparava a umiliare un popolo turbolento: i suoi sgherri affilavano i pugnali. Teramene – ma il tradire non è che un tentare di includerlo in una formula qualsiasi; non era pronto egli stesso a tradirsi? –, Teramene era piuttosto un uomo di centro, che si situava (e oscillava) tra i due estremi, democrazia egualitaria e stretta oligarchia, situazione vantaggiosa in quanto si prestava a molteplici combinazioni. Il loro rispettivo punto di vista si misura con due cifre: là dove Antifonte dirà 400, Teramene risponderà 5.000. Questi, benché non si lasciasse intralciare da alcuno scrupolo, aborriva la violenza: per tattica, ma anche per temperamento, egli preferiva la legalità all’arbitrio, la seduzione alla costrizione, in possesso com’era per di più di non poca finezza e libertà di spirito per rendersi conto che in Atene la sola forza, se poteva portare al potere, non era capace di conservarlo. Tutto sommato, i due capi andavano d’accordo solo su un punto, ma per il momento questo punto bastava: la volontà di abolire la democrazia, l’urgenza che c’era di giovarsi delle circostanze per raggiungere lo scopo. E questo obiettivo ben lo dissimulava l’ammirevole formula sotto cui ognuno metteva ciò che voleva: «La Costituzione degli antenati, salvezza della città». I loro piani erano fatti, le loro truppe pronte: essi potevano contare sulla maggioranza dei dirigenti in esercizio – strateghi e anziani (Agnone, padre di Teramene, sedeva con Sofocle nel Consiglio recentemente creato). Non restava altro se non cogliere l’occasione, la prima che si offrisse.
Con una svolta imprevista, fu Alcibiade che l’offrì; è da lui, mistificatore impenitente, che venne l’iniziativa rivoluzionaria. Per quanto lontano fosse da Atene, Atene non lo aveva dimenticato, e lui non dimenticava Atene. Verso le proprie patrie è naturale provare sentimenti contrastanti: è possibile rinnegarle, combatterle perfino, sia per eccesso di immoralità, sia per un’esigenza maggiore – quando sono proprio loro a rinnegarvi –, ma ad esse non possiamo impedirci di tornare come a delle amanti adorabili al di là di tutti i tradimenti (i loro e i nostri); accade lo stesso agli uomini – è il caso di Alcibiade – di cui nessun misfatto, nessun tradimento, niente riesce a scalfire il prestigio né il potere di seduzione. Non era bastato che Alcibiade, bandito da Atene, giungesse a Sparta perché Sparta conoscesse dei successi insperati e Atene delle disfatte inimmaginabili? Ancor più che un uomo abile, quest’uomo era dunque un portafortuna! Non ci si meraviglierà affatto che fossero numerosi gli Ateniesi di tutte le opinioni, democratici o aristocratici, a dire in cuor loro: il ritorno di Alcibiade sarebbe il ritorno della fortuna certa per Atene. Ora la cosa non aveva niente d’impossibile. Sparta – graziosamente incarnata in una donna, quella di Agide – per il seduttore era stata solo un capriccio. Ora, perseguitato dall’odio di Agide, guastatosi con Sparta, egli si era rifugiato a Sardi, presso il satrapo Tissaferne. Ma chi poteva pensare che questa nuova tappa di una vita avventurosa – l’eroe greco presso i barbari – fosse l’ultima? Di fatto, Alcibiade, giocando con mano disinvolta la carta dell’amicizia persiana, ordiva mille intrighi ateniesi; a lui importava poco dell’oligarchia o della democrazia, per lui contava solo rimettersi in sella, e quale mezzo più sicuro, per giungervi, di una rivoluzione che, togliendogli di mezzo i suoi nemici, facesse piazza pulita ad Atene? Fu così che egli, entrato nel gioco rivoluzionario, ne prese in mano la direzione.
Gioco di estrema prudenza, partita di una tale complicazione che lo spettatore vi si perde, in cui le cospirazioni, le sedizioni, i tradimenti, i maneggi delle fazioni, gli intrighi ambiziosi, i calcoli diplomatici, le azioni militari si scontrano, s’incrociano in una confusione inestricabile. Chi vuol penetrare in questo labirinto, lo rimando a Tucidide, perché, da parte mia, non intendo prendere in considerazione se non i fatti e le imprese degli oligarchi e quel che è indispensabile conoscere per meglio comprenderli. Quando comincia la partita, al tornante dell’inverno 412-411, quali sono dunque i tratti più salienti della situazione militare in cui essa s’innesta? Atene oppone saldo coraggio a innumerevoli pericoli la cui gravità, lungi dall’attenuarsi, si accresce: come un giavellotto puntato sulla sua gola, l’armata spartiata è là, sul suo territorio, a Decelea; da un’estremità all’altra dell’Impero, dalla Doride al Ponto Eussino, si avvertono inquietanti scricchiolii, la ribellione esplode tanto da una parte, quanto da un’altra, cova dappertutto, fino in Eubea, alle porte di Atene, così minacciata nei suoi elementi vitali di sostentamento e di potere. Solo l’egemonia navale può scongiurare questa minaccia; ora a mala pena le squadre ateniesi mantengono una superiorità aspramente contestata; bisogna che esse si trovino dappertutto nello stesso tempo, che si portino in fretta in tutti i punti dell’Impero da dove partono i segnali di pericolo, sorvegliare, contrastare i movimenti della flotta nemica; col rischio di lottare talvolta uno contro quattro, e di farsi malmenare piuttosto bruscamente, come succede alla squadra di Carmino; che cosa accadrà il giorno in cui i Fenici del Gran Re rafforzeranno la flotta spartana, perché i legami che uniscono Sparta alla Persia, benché allentati per gli astuti consigli di Alcibiade, non sono sciolti? Rispetto a tanti pericoli, presenti e futuri, una ragione di conforto, una sola, ma a che prezzo! Samo. Là, con un’azione preventiva condotta con decisione e prontezza, tutte le velleità di ribellione sono state stroncate, l’aristocrazia decimata, un governo sicuro portato al potere. Samo, da dove trent’anni prima si era sprigionata la rivolta più terribile che avesse minacciato l’Impero di Atene, Samo ne è oggi il più solido bastione; Samo è la base principale della flotta ateniese sulle rive dell’Asia, il pezzo principale dello scacchiere politico e militare: chi vuole avere Atene, nel 411, deve avere Samo. Alcibiade lo capisce e vince; Antifonte lo ignora e perde.
A Samo si rappresenta il prologo del dramma, come vi si rappresenterà l’epilogo. Non siamo sorpresi di ritrovarvi Pisandro protagonista: un demagogo della sua tempra è in dovere di passare da un estremo all’altro; su di lui, se condanna le magagne della democrazia, si può fare affidamento: è esperto. Tra Ateniesi e Samii conservatori la congiura prende corpo, si scambiano i giuramenti: il primo punto è rovesciare la democrazia a Samo, ad Atene e nelle città alleate; il secondo è richiamare Alcibiade e, grazie a lui, ottenere per Atene la preziosa amicizia persiana, l’amicizia dell’oro (che ciascuno sogna). Tra i capi, un solo oppositore risoluto, Frinico, allora stratego, nemico giurato di Alcibiade: difende la democrazia, la città? No, egli difende il suo odio e la sua pelle; arrivando di colpo perfino al tradimento, non fa appello ai suoi concittadini, bensì all’ammiraglio spartiata. Ma Alcibiade sventa agevolmente le sue macchinazioni machiavelliche, Pisandro si dà da fare per destituire il rompiscatole, peraltro senza rancore, e smette, da lì a qualche giorno, di riconciliarsi con lui: rinnegamento e tradimento, i due ladroni son fatti per intendersi.
Pisandro in azione mi diverte. Agitatore e agitato, capo e seguace, egli si affaccia in prima fila, senza essere uomo di prima fila; dietro di lui, nell’ombra, si intravedono, sempre più forti di lui, oggi Alcibiade, domani Antifonte. Pisandro è focoso, brutale, deciso, e di vista corta. Vecchia volpe della Pnice, eccelle nel manipolare il popolo riunito nell’Assemblea, quindi farà a pezzi il solo strumento che egli suona bene. Infaticabile nel suo zelo di neofita, eccolo che, credendo di tenere tutti i fili dell’intrigo, corre da Samo ad Atene, da Atene in Lidia (accanto a Tissaferne), dalla Lidia a Samo, poi di nuovo ad Atene passando per le città alleate. Conduce il gioco a una velocità vertiginosa, felice un giorno, infelice un altro, senza inquietarsene, cambiando le sue carte, seminando dappertutto lo scompiglio, imperturbabile arruffone, senza altro pensiero se non quello dello scopo da conseguire nell’immediato: la caduta del regime al quale deve tutto quello che egli è.
Prima tappa: Atene. Con sfrontatezza, davanti all’Assemblea rumoreggiante, Pisandro prende posizione, parla a voce alta e ferma, riduce gli oppositori al silenzio, strappa un voto favorevole: «Questione di salute pubblica», afferma (salute pubblica, quanti crimini si commettono in tuo nome!). «Nessuna salvezza se non si riesce a spezzare l’alleanza di Sparta con la Persia. Nessuna speranza di spezzarla, se non si adotta un nuovo regime capace di ispirare fiducia al Gran Re, necessità impellente ma probabilmente passeggera, dice quell’abile uomo (più tardi, vedremo...). Per il momento non c’è nessun altro, tranne Alcibiade, in condizioni di condurre a buon fine una tale impresa». Il tiro è giocato, vera prodezza: è il Demos stesso, costretto e rassegnato all’abdicazione, che delega Pisandro presso Alcibiade e Tissaferne. Intanto l’azione pubblica si raddoppia di un’azione occulta: prima della partenza, Pisandro prende contatti con le eterie, allerta tutte le forze coalizzate contro la democrazia, quelle di Teramene e quelle di Antifonte; raccomanda l’unione per il successo dell’azione concertata la cui ora finalmente suona.
Seconda tappa: da qualche parte in Lidia, presso Tissaferne. Sul terreno scivoloso della diplomazia, Pisandro è meno a suo agio che sulla Pnice. Il negoziato si annuncia male. Alcibiade ha confidato troppo nel suo credito oppure fa segretamente voltafaccia. Le condizioni persiane, esorbitanti, sono tali che Pisandro stesso e la delegazione che lo accompagna devono rifiutarle. Tutta la bella impalcatura crolla come un castello di carte.
Terza tappa: Samo. Sulla via del ritorno, Pisandro ha riflettuto (per quanto può). È troppo impegnato per indietreggiare, andrà dunque avanti, senza Alcibiade e – rimpianto più cocente – senza l’oro persiano. La congiura riprende il suo vero volto: essa è ormai solo pura oligarchia. Senza perder tempo, essa decide di passare all’azione in tutte le zone dell’Impero. Dappertutto, là dove si può, i governi popolari sono abbattuti e rimpiazzati con governi oligarchici: dappertutto i «cattivi» rimpiazzati con i «buoni», oh gaudio! oh estasi! Siano rese grazie agli dèi! Ma, nelle città soggette, le oligarchie, appena vi sono al potere, non hanno niente di più urgente che staccarsi da Atene e volgersi a Sparta. In poche settimane, gli oligarchi, andando oltre il disastro, hanno finito per distruggere l’opera di cattivi cittadini come Aristide, Cimone, Pericle: tra le loro mani l’Impero si sfascia. Strano: la rivoluzione delle «persone per bene» non porta che frutti bacati.
Quarta e ultima tappa: Atene. Quando, al termine del suo periplo, Pisandro sbarca al Pireo, una felice sorpresa lo attende: gli oligarchi sono già padroni della città.
Infatti, in sua assenza, la giovane guardia oligarchica, giudicando matura la situazione, aveva agito. Con una foga e con comportamenti tali che l’avversario sorpreso sembra – per il momento – domato. Questa bella gioventù, dorata, profumata,49 aveva fatto dei progressi dal tempo delle Erme: aveva appreso a divertirsi non più col martello sulle facce di pietra, ma col pugnale sui cuori palpitanti. Per la salute pubblica, per la religione degli antenati, a quali sacrifici non bisogna risolversi! L’assassinio diventa un rito espiatorio. La prima vittima immolata fu Androcle; nell’ucciderlo, si prendevano due piccioni con una fava: si decapitava il partito popolare di cui egli era il capo ascoltato, si dava compimento ai desideri di Alcibiade di cui quello era nemico mortale – Alcibiade, che i congiurati di Atene associavano ancora al loro gioco sanguinario. Altre esecuzioni – altri assassinii – seguirono. Come se la giustizia fosse del tutto scomparsa da Atene, i crimini restavano impuniti. Qualcuno osava alzare la voce, protestare, indignarsi: prima o poi, scompariva anche lui. In apparenza, il meccanismo democratico continuava a funzionare, ma si presagiva la sua fine imminente: una dichiarazione dei congiurati aveva fatto sapere che in futuro tutte le funzioni pubbliche, eccettuate quelle militari, sarebbero state gratuite, i diritti politici riservati a cinquemila cittadini, «i più capaci di servire lo Stato con le loro ricchezze e con la loro persona»50 – numero dato in pasto all’opinione pubblica (o a Teramene), perché gli oligarchi puri non calcolavano che per decine, centinaia tutt’al più. Il Consiglio, l’Assemblea tenevano le loro sedute abituali, ma erano i congiurati a dettarvi legge, i soli a parlare, a decidere: chiunque si opponesse, rischiava la morte. Il terrore annichiliva il partito popolare, privato com’era, questo, dei suoi capi, dei suoi membri più attivi, sia che fossero stati colpiti, sia che fossero in servizio di guerra con l’armata e la flotta. La diffidenza reciproca allentava tutti i vincoli, impediva ogni associazione contraria: si vedevano tante sorprendenti conversioni, tanti eccellenti democratici rivaleggiavano in servilismo verso i nuovi padroni al punto che nessuno osava più confidarsi col vicino, con l’amico: e se quelli facevano parte del complotto, anche loro vi aderivano, se quelli si scoprivano, come Pisandro, una vocazione oligarchica? Ciascuno si sprofondava nel suo lutto, nel suo spavento, taceva, credendo di vedere dappertutto dei congiurati. Durante tali tempeste, la reazione umana è dappertutto la stessa: una fioritura istantanea, una splendida fioritura di vigliaccheria.
Le cose erano a quel punto quando ritornò Pisandro, latore di notizie, in prima persona dentro alla foga dell’azione. Ora la democrazia non aveva un avversario più zelante dell’antico demagogo: non vedeva l’ora di concludere l’operazione così felicemente cominciata. Poiché d’altra parte Alcibiade non c’era più, Frinico spalleggiava Pisandro. Dietro di loro Antifonte e Teramene addestravano le loro coorti e spiegavano il testo delle deliberazioni da prendere, delle mozioni da votare. C’era bisogno di questi quattro – il brutale, il retore, l’oracolo, il «coturno»51 – per condurre a buon fine questa operazione sempre pericolosa, ancor più pericolosa di quanto essi non pensassero: spodestare il popolo, confiscare il potere, cancellare la libertà.
All’inizio, nello stato di prostrazione in cui il terrore teneva il popolo, ciò non creò difficoltà. L’Assemblea votò, docilmente, sembra, un primo decreto in virtù del quale i dieci Anziani in precedenza designati – dopo il disastro di Sicilia – cooptavano venti cittadini di età matura: questi trenta avrebbero ricevuto l’incarico di «redigere le proposte che giudicassero le migliori per il bene dello Stato»,52 cioè, senza l’ipocrisia del gergo politico, pieni poteri per distruggere e costruire. Fatto il primo passo, per quanto facile fosse stato, parve saggio prendere severe precauzioni per il giorno decisivo, quello della privazione del potere dell’Assemblea da parte della stessa Assemblea. Si notò che la Pnice era troppo vasta, troppo accessibile; l’Assemblea fu convocata in periferia, dalla parte opposta del Pireo, nel demo di Colono dove c’era un recinto, consacrato al dio Poseidone, le cui ristrette dimensioni si adattavano perfettamente, poiché non poteva contenere, oltre ai congiurati, se non un piccolo numero di cittadini, un numero ragionevole. Così preparata, la giornata di Colono fu perfetta: Pisandro vi fece prodigi; all’appuntamento di questa Saint-Cloud attica, mancava un Bonaparte, ma Antifonte era un Sieyès meno insignificante del vero; non molte erano le armi, ma c’erano; non ci fu alcuna velleità di resistenza, nessun bisogno di ricorrere alle guardie, nessun mantello strappato. Un voto preliminare, di cui s’imponeva la necessità, disinnescò il meccanismo delle accuse d’illegalità,53 salvaguardia della democrazia. Dopo di che tutto sembrò facile: la trasformazione delle magistrature, la soppressione delle indennità per funzioni pubbliche, l’istituzione «conforme alla tradizione degli antenati» di un Consiglio dei Quattrocento,54 oligarchia onnipotente. Quanto al corpo civico dei Cinquemila, rimasto nel limbo delle intenzioni, era un corpo fantasma che il Consiglio sovrano restava libero di far nascere o no.
Antifonte e i suoi oligarchi dovettero rientrare ad Atene molto soddisfatti: lo scopo, così a lungo agognato, era raggiunto. Restava tuttavia un’ultima operazione, l’espulsione dei consiglieri (buleuti) in carica: operazione delicata nella sua brutalità – mettere le persone alla porta di casa loro è affare che richiede non solo l’uso della polizia ma anche di validi appoggi –, resa ancor più delicata dal luogo stesso in cui essa si svolgeva, nel cuore della città, in prossimità dell’Agorà. Ma gli oligarchi, esperti in strategia di guerra civile, se la cavarono non meno brillantemente che a Colono, assecondati dallo strano torpore dell’opinione pubblica. Nel giorno stabilito, gli Ateniesi di guardia, quelli che non erano del complotto, si lasciarono volentieri sostituire e congedare. Gli altri, rafforzati da tutte le truppe sicure che potevano avere sotto mano, furono piazzati in modo da poter intervenire prontamente al primo allarme. Prese queste disposizioni, i Quattrocento – coi pugnali nascosti sotto i vestiti – e la loro giovane guardia – centoventi giovani pronti a tutto – marciarono sul Palazzo del Consiglio. Bastò loro farsi vedere, e insieme sfoderare i pugnali. I Cinquecento, quando si sentirono intimare l’ordine di squagliarsela, lo fecero all’istante, non senza esigere le loro spettanze: infatti, ciascuno ricevette all’uscita, e se lo intascò, l’ammontare dell’indennità che gli era dovuta per la fine della sessione; tra la dracma e il pugnale, questi Ateniesi, gente pratica, non avevano esitato. Vittoria burlesca e di una facilità deludente: il 18 brumaio ateniese si concludeva in farsa.
Conquistato il potere, come usarne? Qui, come accade sovente in casi simili, cominciarono le difficoltà, si scontrarono dolorosamente l’aspra realtà e i princìpi teorici. L’opinione pubblica restava intorpidita – per la paura –, ma che risveglio sarebbe stato il suo? Il popolo era spogliato dei suoi diritti, ma era là, testimone ingombrante, muto, enigmatico, temibile con la sua sola presenza, il suo silenzio. Si affermava la volontà di «restaurare le tradizioni degli antenati», ma che cosa ne sapevano di preciso gli oligarchi, lo stesso Antifonte? Ognuno le definiva a seconda delle sue passioni, o dei suoi pregiudizi. Alle incertezze dei vincitori si aggiungevano le loro divisioni: Antifonte, Pisandro e gli oligarchi, forti del loro successo, agivano da padroni, Teramene e i suoi si accodavano, non senza diffidenza. Perfino Tucidide, dismettendo, cosa insolita, la sua discrezione, lascia immaginare l’imbarazzo che dovettero provare i Quattrocento: «Essi modificarono profondamente la Costituzione democratica», dice, evitando tutta la sua acribia, e, allo stesso modo, subito dopo: «In generale, essi governarono con la violenza; diffidarono di alcuni cittadini che gli davano ombra, ne condannarono altri al carcere e alla deportazione».55 Più chiaro di così! Che cosa bisogna ricordare del nuovo regime? Alcune riforme? No: la violenza, i crimini, le proscrizioni, le manette. Seguendo una china fatale, l’usurpazione va a finire nella repressione; essa vi si aggrappa volentieri, perché è la cosa più facile, e dà a certi eccessi di odio il massimo di soddisfazione. Ma, con o senza contropartita, il sistema repressivo non giustifica niente, non dimostra niente, se non la tara originaria; per un avversario ammazzato o proscritto, ne suscita altri venti, inesorabili, e muore infine – talvolta senza aver capito, stupido – per lo sdegno incontenibile che si è attirato, per il sangue versato.
Del resto, il problema interno passava in seconda fila rispetto ad altri, più urgenti, che si chiamavano Sparta e Samo. Da Sparta i Quattrocento si aspettavano innanzitutto la pace, in seguito garanzie e sostegno; da Samo la riunione della flotta e dell’armata ateniesi, senza la quale la loro stessa esistenza restava precaria.
La sfortuna delle circostanze voleva che Sparta fosse assai vicina, a Decelea, dove comandava Agide. Gli oligarchi si affrettarono a inviargli un’apertura di pace, convinti – diceva il loro messaggio – che «Agide preferisse trattare con loro che con un popolaccio indegno di fiducia».56 In questo, però, essi si facevano illusioni, ragionando da partigiani ateniesi, non da Spartiati. Agide, re soldato, provava solo diffidenza verso questi nemici cordiali, non credeva il popolo ateniese «rassegnato alla perdita della sua antica libertà». Aspettandosi dei disordini, una difesa fiacca, la sua prima mossa fu sfruttare l’occasione che gli si offriva; ammassò le truppe, marciò sulla città. Ma poteva prevedere le sorprendenti reazioni di questo popolo ateniese – la quintessenza dell’instabilità –, ieri inerte, passivo davanti al colpo di Stato, oggi preso da una febbre patriottica, levatosi in armi, che sbarra la strada all’invasore? Il vincitore di Mantinea s’era fatto illusioni, pure lui. Non insisté e tornò a Decelea. Altri, non lui, erano delusi, probabilmente. I Quattrocento rinnovarono le loro offerte di pace e, su consiglio di Agide, diventato più trattabile, mandarono una delegazione a Sparta.
Un’altra delegazione era partita per Samo, ma incaricata di tenervi un altro discorso. Davanti ai cari Spartiati ci si poteva mostrare a viso scoperto; a Samo, di cui non si sapeva niente, più utile appariva una maschera. Là conveniva insistere sull’«interesse generale», sola ragione del cambiamento di regime, sull’istituzione dei Cinquemila, prova evidente del liberalismo oligarchico, nei fatti più democratico della stessa democrazia, perché «si è vista mai qualche assemblea del popolo raggiungere questo numero?».57 Ma l’evento passò attraverso questo doppio gioco. Quando i delegati giunsero a Delo, le informazioni che ricevettero li sconsigliarono di andare più lontano.
Che cosa era accaduto a Samo, dopo la partenza di Pisandro? L’imprevisto. Certo, i congiurati samii si erano mostrati così intraprendenti come quelli di Atene. Come loro, essi avevano debuttato con un gesto esemplare e che li impegnava per sempre: l’omicidio di Iperbolo, questo vecchio capo del partito popolare un tempo bandito da Atene con l’ostracismo; essi avevano proseguito pugnalando alcuni importuni. Ma mentre la resistenza al terrorismo ateniese era stata nulla, quella al terrorismo samio fu immediata, e di un vigore distruttivo. Il fatto è che là, nel campo ateniese, tra i capi e la truppa, c’era un forte gruppo di democratici di provata fede, Trasibulo, Trasillo, Cherea, tutto l’equipaggio della nave Paralo ritenuto puro tra i puri – vera guardia della democrazia. Questi uomini, che la guerra aveva reso rudi combattenti, restavano appassionatamente attaccati alla libertà, nonostante tutti i suoi eccessi: essi la avevano nella carne e nel sangue; per lei, come avevano fatto i loro padri, erano pronti a battersi e morire. Poiché i democratici samii li avevano allertati, «alla prima levata di scudi» i congiurati se li trovarono davanti, lasciarono sul posto una trentina di cadaveri, scomparvero. La democrazia a Samo non solo fu mantenuta, ma allargata.
Fino a qui i due principali settori della lotta politica erano stati senza contatto: né Atene sapeva quel che accadeva a Samo, né Samo ad Atene. Venne il momento in cui il velo cadde, e rivelò un’opposizione irriducibile. Dopo lo scacco degli oligarchi samii, Cherea era partito sulla Paralo per informare Atene: si può immaginare l’accoglienza che vi ricevette. I marinai democratici furono alcuni messi in carcere, altri costretti ad imbarcarsi su un’altra nave; quanto a Cherea, verosimilmente imprigionato, riuscì ad evadere, a ritornare a Samo dove riferì le novità in corso ad Atene, singolarmente esagerate, assicura Tucidide. Egli raccontava che «i cittadini erano percossi con le verghe, nessuno poteva aprire la bocca davanti ai padroni dello Stato, i Quattrocento si preparavano a prendere come ostaggi i familiari di quelli che, nell’armata di Samo, gli erano ostili, violentavano le loro donne e i loro bambini..., e altri dettagli così poco veritieri».58 Ma proprio dal racconto di Tucidide viene fuori che questa accusa di impostura è «singolarmente esagerata» anch’essa. Ammettiamo che Cherea non sia stato indagatore imparziale – poteva esserlo? –, che abbia accolto alcuni «si dice» senza verificarli: il terrore e la dittatura oligarchici erano dei fatti che non ha inventato lui. Soldati e marinai, i più ardenti democratici, pazzi di rabbia davanti a queste notizie, per poco non lapidarono quelli tra i loro che sospettavano del complotto. I loro capi, i loro compagni più moderati li calmarono non senza difficoltà, invocando la gravità del momento: poiché la flotta nemica era creduta nei paraggi, la passione partigiana doveva cedere al sentimento del dovere patriottico. Ma il duplice pericolo, esterno ed interno, esigeva l’accordo assoluto delle volontà: all’appello di Trasibulo e di Trasillo, capi riconosciuti della resistenza, tutti i soldati – e innanzitutto quelli di cui si poteva dubitare –, tutti i Samii in età utile per portare le armi dovettero impegnarsi, con i giuramenti più terribili, a restare uniti, a rifiutare ogni rapporto con l’oligarchia usurpatrice, a mantenere le istituzioni democratiche, a perseguire senza cedimenti la lotta contro il nemico spartiata. L’unione suggellata fu completata dalla deposizione dei generali e degli ufficiali sospetti: i soldati, costituitisi in assemblea del popolo, elessero nuovi strateghi, Trasibulo e Trasillo in testa. Per la seconda volta, scacco agli oligarchi! La democrazia ateniese, questa democrazia che essi affermavano di avere ucciso, abbattuto, resuscitava a Samo più viva che mai. Due governi ateniesi si levavano l’uno contro l’altro: l’uno, ufficialmente investito dal Demos, in effetti creazione dei «conservatori», fondava l’autorità sui diritti della nascita e del patrimonio, patteggiava col nemico, si teneva pronto a capitolare; l’altro, emanazione dei combattenti, dei «rivoluzionari», difendeva la libertà, l’uguaglianza, la legge, l’Impero, faceva la guerra, sosteneva di mantenere la grandezza di Atene: per i buoni cittadini, dove stava il governo legittimo?
E verso quale parte inclinava la fortuna? Guardate le persone scaltre: esse si schierano col probabile vincitore, Alcibiade per primo, acclamato stratego dall’assemblea militare di Samo; poco dopo Teramene..., preoccupato di attuare in tempo una delle sue giravolte di cui solo lui ha il segreto. La costituzione effettiva del corpo dei Cinquemila, che gli stava a cuore, medio termine accolto dai moderati dei due campi – e da Alcibiade –, avrebbe potuto servire da base per una transazione onorevole. Ma gli oligarchi si irrigidirono nella loro intransigenza. Non per cieca testardaggine: almeno i capi – Antifonte, Pisandro, Frinico – erano abbastanza lucidi per valutare il pericolo crescente, avvertire la sorda rivolta dell’opinione pubblica, presagire l’imminente defezione di Teramene, che, nel Consiglio, assumeva il ruolo dell’oppositore. Se perseveravano in una via senza uscita (apparente), è perché, consequenziali con se stessi, si preparavano a giocare un’ultima carta: il tradimento. I loro calcoli, le loro passioni – orgogliose o basse –, il loro destino ve li spingevano. Essi non prevedevano che proprio il tradimento rischiasse d’essere sterile, nei confronti di un nemico di cui l’ottusa diffidenza, le incessanti esitazioni, l’incredibile lentezza riuscivano a mandare in malora le più sottili combinazioni. Già i molteplici tentativi di negoziazione, le ambascerie inviate a Sparta per concludere la pace avevano naufragato l’una dopo l’altra; una di esse, per un gioco o un imprevisto divertente che racconto di passaggio, per imbarcarsi, aveva scelto, l’imprudente!, la stessa nave sulla quale erano stati trasferiti i marinai della Paralo: voleva dire tentare il diavolo... L’equipaggio della Paralo, gente risoluta, si impadronì in mare degli ambasciatori e della nave, consegnò gli uni come ostaggi alla democrazia argiva, poi condusse l’altra a Samo... La sfortuna si ostinava, anch’essa, contro gli oligarchi; i loro giorni erano contati, l’epilogo vicino. Vi era, a nord del Pireo, uno sprone roccioso che sovrastava l’ingresso del porto, Eezionea: su loro ordine, grandi lavori vi furono avviati, portati avanti a ritmo veloce, per farne una possente opera il cui possesso avrebbe reso il Pireo sia inaccessibile che invulnerabile. La presenza di piccoli portici e di passaggi segreti dava a queste fortificazioni una fisionomia inquietante. Le riserve di grano si ammassarono in un magazzino lì attiguo. Era per sostenere un assedio? Per che cosa, per chi, contro chi questi strani preparativi? Tutto sembrava indicarlo: la fazione oligarchica si preparava là un rifugio inespugnabile da dove avrebbe potuto non solo affrontare il popolo, ma anche – questo si cominciava a dire a mezza voce – tendere la mano al nemico. I sospetti – subito diffusi – presero corpo quando si venne a sapere dell’avvicinarsi di una flotta spartana che, penetrata nel golfo di Egina, andò a gettare l’ancora a Epidauro, di fronte al Pireo.
Allora la rabbia trattenuta da gran tempo – quattro mesi dall’Assemblea di Colono – esplose. Tanta ipocrisia, tanta perfidia unite a tanta boria e orgoglio, avevano stancato perfino i più moderati. Atene riacquistò la libertà in un soprassalto di furore patriottico. Il primo colpo andato a segno fu l’uccisione di Frinico, due o tre volte traditore della sua patria: fu ucciso sul colpo in piena Agorà, mentre usciva dal Consiglio, da un giovane ateniese del corpo dei «perìpoli» – le guardie di confine – (lasciarsi indottrinare da Antifonte era un lusso che tutti i giovani non potevano permettersi). Aiutato dalla complicità della gente, l’omicida sfuggì a tutte le ricerche. Un grave malessere pesava sulla città, sul Consiglio in riunione, quando gli giunsero notizie allarmanti: gli opliti del Pireo, impiegati nei lavori di Eezionea, si erano ammutinati, avevano catturato e tenevano prigioniero lo stratego Alessicle, uno degli uomini fidati dell’oligarchia. Tumulto in Consiglio: la maggioranza scatenata inveisce contro Teramene e i suoi amici accusandoli di aver fomentato l’ammutinamento. Quel furbo personaggio, per discolparsi, propone di andare senza indugio a liberare il prigioniero. Ognuno si arma. Si corre al Pireo. Oligarchi e patrioti, cavalieri e opliti, si affrontano, minacciano di venire alle mani: diventa necessario che i più anziani e i più saggi si mettano in mezzo per impedire che scorra il sangue; supplicano che si pensi alla repubblica in pericolo, al nemico vicinissimo. Teramene, sfoderando la sua autorità di stratego, arringa gli opliti, li invita a ritornare al loro dovere, ma i soldati-cittadini, uomini scaltri, che sanno come comportarsi riguardo alle intenzioni dello stratego, lo interrompono e gli chiedono quel che pensi delle fortificazioni di Eezionea: «Niente di buono laggiù, generale, non è meglio demolirlo?». E quel figlio di Ulisse risponde: «Il mio parere sarà il vostro». Immediatamente, opliti e popolo alla rinfusa in massa si avventano contro le fortificazioni con uno slancio tale che ognuno di loro ha il solo pensiero di abbatterle. La Bastiglia ateniese era presa, rovesciata, prima ancora di essere stata costruita.
Vincitore leale, Teramene mantenne la sua promessa: Alessicle fu rilasciato; ma Eezionea era ormai un cumulo di macerie, ed egli finisce per diventare l’eroe del momento. La folla, ebbra per il successo, ritrovava la voce per gridare: «Abbasso i Quattrocento! Viva i Cinquemila!» – vale a dire: «Abbasso l’oligarchia! Viva la democrazia!». Gli opliti del Pireo, che avevano deciso di marciare sulla città, si accampavano ai piedi dell’Acropoli. Intanto, il regime conobbe ancora alcuni giorni di tregua: i Quattrocento, più concilianti, accettavano la convocazione di un’assemblea nel teatro di Dioniso. La situazione restava torbida: fu il nemico a metterla in chiaro. Nel giorno fissato per la seduta dell’Assemblea, allarme! La flotta spartana costeggia Salamina, in direzione del Pireo. Quale prova più evidente dell’intrigo del tradimento! All’unisono, il popolo maledice i traditori, si compiace d’aver abbattuto in tempo Eezionea, non ha più in testa altro se non correre alle armi. Tutte le navi disponibili vengono equipaggiate di combattenti. La sorpresa è venuta meno. Allora, però, Agesandrida, l’ammiraglio spartano, concepisce una manovra che avrebbe potuto essere decisiva: va a collocarsi tra l’Eubea e l’Attica, interrompendo così l’ultima via di approvvigionamento di Atene. L’improvvisata flotta ateniese vuole fronteggiare la minaccia: subisce ad Eretria una disfatta pesantissima (nella quale ebbe una parte il tradimento). L’intera Eubea insorge. La situazione sembra, se possibile, ancor più disperata che all’indomani del disastro di Sicilia. Atene vinta, tradita, senza più risorse, è alla mercede di un nemico audace.
Per fortuna di Atene, l’audacia non era virtù spartana. Una volta di più, Sparta si lasciò sfuggire l’occasione di farla finita. Una volta di più, Atene si riprese. Ma questo popolo di patrioti adesso finalmente riusciva a capire come comportarsi con i suoi padroni, con i suoi traditori: era giunta l’ora di abbattere un governo fellone; riunitasi sulla Pnice, l’Assemblea deliberò la decadenza dei Quattrocento: arresto senza appello, senza pietà, senza nessuna speranza di riabilitazione, perfino davanti alla Storia.
Tale era la forza della corrente che li rigettava, che gli oligarchi giudicarono vana ogni resistenza. Alcuni in silenzio si rintanarono. Altri si mascherarono, meglio che poterono, tra i partigiani di Teramene. I più screditati, primo fra tutti Pisandro, fuggirono per una strada da loro ben conosciuta, quella di Decelea, e passarono tra le file degli spartiati: comportamento certo più schietto. Uno degli strateghi dell’oligarchia, Aristarco, terminò la sua carriera di generale ateniese con un colpo da maestro: avendo fatto credere alla guarnigione di Enoe – posto fortificato sul fronte beotico – che era intervenuto un accordo tra Atene e Sparta, consegnò la piazzaforte ai Beoti che la assediavano; egli, almeno, sapeva tradire. Dei principali capi del movimento, il solo Antifonte, sostenuto dalla sua rigorosa fede oligarchica, affrontò il destino. Accusato di alto tradimento, «presentò, dice Tucidide, la più bella difesa che, a memoria d’uomo, sia mai stata pronunciata».59 Ci crederemo, al fedele discepolo? Niente di convincente nei pochi frammenti che rimangono della sua ultima perorazione. Nessuna difesa poteva salvare Antifonte. Una sentenza rigorosa lo condannò alla pena capitale, resa più severa dalla confisca dei beni, dal divieto di sepoltura e dalla decadenza da tutti i diritti civili – sia lui che i suoi discendenti –; sul posto della sua abitazione rasa al suolo fu collocata una stele che recava questa iscrizione: «Ad Antifonte, il traditore». Tucidide non fa parola del processo né della condanna – una semplice allusione nel celebre ritratto di cui ho parlato60 –; ma, attraverso l’allusione e il silenzio, si sente che sospira: «La morte del giusto». Questo giusto, senza esitare, aveva sacrificato la sua patria a un’ideologia superba e vacua: le seducenti abilità oratorie, una certa fermezza davanti alla morte, faranno forse dimenticare il suo grave fardello di responsabilità in una avventura criminale, cominciata nel sangue, conclusasi nel tradimento?