Si era in pieno inverno, un inverno tutto flagellato da cattivo tempo, come se lo stesso cielo fosse ostile. Improvvisamente la notizia corse, volò di bocca in bocca: in pochi momenti tutta Atene seppe che Trasibulo era a File.
Come i calcoli dei Trenta e di Lisandro avevano potuto subire un così rapido fallimento? File, la fortezza del Parnete, dominava la strada da Tebe ad Atene. Era dunque da Tebe che Trasibulo era partito.
Sparta ne faceva l’esperienza: c’erano in Grecia almeno alcune città dal temperamento abbastanza indipendente da rifiutare le sue offensive intimazioni, dei Greci piuttosto rispettosi degli dèi e tanto consapevoli della loro dignità da mantenere il diritto d’asilo contro certe pretese tiranniche. Era il caso di Argo e di Tebe. Agli ambasciatori spartani venuti per presentare queste intimazioni inaudite, i magistrati di Argo si limitarono a rispondere che essi avrebbero dovuto squagliarsela prima del tramonto del sole, dopodiché sarebbero stati trattati da nemici. Tebe fece meglio: pentitasi del suo accanimento contro Atene, non poteva andarle bene che la vicina Attica diventasse un feudo di Sparta; «essa decretò che ogni tebano, sotto pena di una forte ammenda, dovesse portare soccorso ai profughi in pericolo; se qualcuno fosse venuto ad attraversare la Beozia per attaccare i tiranni di Atene, nessuno avrebbe dovuto vederlo né sentirlo».116 Trasibulo, proscritto e rifugiato a Tebe, ebbe in tal modo tutte le agevolazioni possibili per preparare un colpo di mano. Egli non disponeva che di un pugno di uomini risoluti, seicento circa; ma, in prossimità del confine, la fortezza di File, che dominava i passi del Parnete, appollaiata come un nido d’aquila sulla falesia calcarea, era un’eccellente posizione di attesa e di sorveglianza. Un mattino brumoso d’inverno, dopo una rapida marcia seguita da una scalata, egli se ne impadronì; il brutto tempo gli risparmiò ogni possibile cattivo incontro. Il vecchio stratego meritava la sua reputazione di capo di guerra: il suo colpo di mano era un colpo da maestro.
Di estrema temerarietà, è vero. Seicento uomini, per quanto ottimi democratici e bravi guerrieri fossero, erano sempre pochi per strappare Atene e l’Attica agli oligarchi: trenta tiranni (esattamente ventinove), trecento guardie, settecento Spartiati, tremila privilegiati, cavalieri e opliti. Trasibulo aveva sperato che il suo piccolo manipolo s’ingrossasse rapidamente; non successe niente. La prudenza opportunistica è una virtù più comune del coraggio del rischio; molti esitavano a unirsi a lui, aspettando di vedere da quale parte il vento favorevole avrebbe soffiato. Gli emigrati erano partiti in seicento: passati i primi giorni, quando si rese necessario cominciare a battersi, essi non erano ancora che un centinaio. Per fortuna di Trasibulo, egli aveva il sostegno assicurato delle rocce e delle mura; e, per fortuna, vi si aggiunse il brutto tempo.
Crizia e i suoi colleghi avevano deciso di attaccare senza indugio. File non era posizione da sacrificarsi impunemente: la pianura abitata e coltivata era vicina, Atene a una distanza di soli cento stadi;117 d’altra parte, Trasibulo non era un avversario trascurabile: bisognava batterlo prima che avesse il tempo di organizzarsi e di ricongiungere a sé la massa degli scontenti. I tiranni marciarono dunque su File, alla testa dei Tremila, all’avanguardia i cavalieri, fiore scelto della gioventù aristocratica, truppa d’élite dell’oligarchia. Arrivati per primi, questi giovani, che ascoltano soltanto la loro foga, e confidano nel loro sangue nobile e nel ritorno del bel tempo che nasconde loro i pericoli, pieni di disprezzo per gli avversari di cui conoscono il numero esiguo, scendono da cavallo e, in pieno assetto di guerra, si lanciano all’assalto. Trafitti e sbaragliati, ruzzolano giù in uno stato pietoso, più velocemente di quanto non fossero saliti, avendo appreso a loro spese che la guerra non è un gioco e che i giavellotti, anche quelli democratici, possono procurare ferite dolorose. Questo scacco, l’altezza delle mura, le difficoltà della scalata danno da pensare ai Trenta; rinunciando all’attacco di forza, si accingono ad assediare la piazzaforte e a domarla per fame tagliando tutte le vie di rifornimento di viveri. Ma avevano appena dato l’avvio alle operazioni di blocco, che il tempo cambiò di nuovo: si scatena una tempesta di neve spessa, che cade tutta la notte e il giorno successivo. Bisogna risolversi a battere in ritirata, rientrare in città, intirizziti e ammaccati. L’operazione si chiudeva con un certo numero di cavalieri feriti, molto materiale bellico e molti uomini della spedizione caduti nelle mani del nemico.
In sé lo scacco non era grave: lo diventò per le sue ripercussioni. Quel che il colpo di mano su File non aveva sulle prime potuto determinare, lo ottenne il successo imprevisto del primo scontro: nei cuori zampillò la speranza, ricacciando indietro, anzi spazzando via ogni prudenza; emigrati, proscritti, vittime dei Trenta a qualunque titolo lo fossero, affluirono a File, dove il numero dei combattenti crebbe ben presto a settecento. Tra loro, alcuni terameniani di spicco, tali Anito e Archino, ai quali Trasibulo fece la migliore accoglienza e affidò dei posti di comando: in tal modo la tirannide degli oligarchi risuscitava la coalizione dei moderati e dei democratici; i Mani di Teramene dovettero esultarne di gioia. Nel numero di quelli che giunsero a File c’erano pure alcuni individui equivoci – specificamente Agorato, con la speranza che una conversione tanto pronta quanto impudente gli avrebbe evitato le rappresaglie –; meno bene accolti costoro, duramente malmenati, perché gli emigrati esercitavano giustizia sommaria, senza riguardi per ogni specie di malandrini. Agorato sfuggì alla morte solo per un pelo, per l’intervento di Anito; nell’attesa di un regolare processo, lo si mise in disparte, mentre gli altri che furono riconosciuti come criminali, furono giustiziati.118
Intanto, Trasibulo restava sulla difensiva, organizzando saldamente la sua piccola armata, moltiplicando le razzie nella campagna, osservando attentamente le mosse dell’avversario. Ma l’avversario, anch’egli, più prudente di quanto fosse conveniente, restava sulla difensiva: non fece niente se non inviare gli Spartani di Callibio, affiancati da due plotoni di cavalieri, stabilire un servizio di guardia contro le incursioni in pianura; si piazzarono in una folta macchia, a rispettosa distanza da File – due chilometri e mezzo circa. Questa prudenza tradiva un certo smarrimento, un’esitazione di cattivo augurio nei piani dell’oligarchia, nel cuore e nella mente del suo capo, Crizia. Ve ne sono altre prove: due decisioni singolari che devono essere, a quel che pare, riferite a questo periodo. Una era l’espulsione di tutti gli Ateniesi «esclusi» che si trovavano ancora in città; li si relegò al Pireo, sotto la sorveglianza dei Dieci, come se la loro presenza comportasse, per la tirannide, meno fastidi al Pireo che ad Atene, al Pireo dove certo i Dieci non mancavano di elementi sovversivi da sorvegliare e contenere: erano forse disarmati, ma per quanto tempo? Spade, lance e scudi sono presto distribuiti. L’altra decisione era ancor più sorprendente: sotto l’apparenza di negoziare con Trasibulo la liberazione dei prigionieri, gli si inviarono in fretta degli emissari incaricati di fargli in segreto, da parte dei Trenta, le proposte seguenti: a condizione di congedare l’armata degli esiliati, egli avrebbe ricevuto nel governo il posto, rimasto vacante, di Teramene; inoltre avrebbe avuto la facoltà di ricondurre, con sé, ad Atene, altri dieci emigrati, a sua scelta.119 Per quanto Trasibulo fosse conciliante e poco portato agli eccessi, significava attribuirgli senza alcun fondamento più candore che convinzioni; uomo onesto, l’apostasia di un Pisandro o di un Caricle non gli apparteneva affatto; egli rispose seccamente che preferiva restare un esiliato che diventare uno dei Trenta, che del resto era deciso a non porre fine alla lotta prima che tutti gli esiliati non fossero rientrati nella loro patria e che il popolo ateniese non avesse riacquistato la Costituzione dei suoi padri. Il negoziato non andò più lontano.
Gli oligarchi non sembravano affatto aver fretta di combattere, Trasibulo ne concluse che egli aveva tutte le possibilità di batterli e che era giunta l’ora di agire. Il suo primo obiettivo fu il blocco che i Trenta avevano organizzato davanti a File, allo sbocco della strada sulla piana di Acarne. Rassicurati dalla prolungata immobilità del nemico, opliti spartani e cavalieri ateniesi vi conducevano la bella vita di guarnigione. Si avvicinava la primavera: questo accampamento in piena natura aveva il suo fascino, nei più letterati ispirava reminiscenze poetiche. Ma la scampagnata finì male. Durante una notte senza luna, in grande silenzio, Trasibulo e i suoi uomini scendono da File, vanno ad appostarsi in un luogo coperto, a circa quattrocento metri dal campo. Sul far del giorno, mentre gli Spartani se ne vanno in cerca di viveri, ciascuno per conto proprio, senza armi, mentre gli stallieri, con grande schiamazzo, strigliano i cavalli – e i loro giovani padroni sono ancora a letto –, all’improvviso, dato un segnale, i settecento si lanciano alla carica. La sorpresa è completa: si trovano nell’accampamento prima che gli altri abbiano il tempo di equipaggiarsi e di raccogliersi. Centoventi opliti si fanno coraggiosamente uccidere, tre cavalieri sono sgozzati nel letto; il resto fu sbaragliato, e gli assalitori alle loro calcagna. Ma Trasibulo, tanto prudente quanto audace, ferma l’inseguimento, dà ai suoi l’ordine di rientrare a File dopo avere raccolto il ricco bottino – armi e materiale d’accampamento – e innalzato un trofeo in segno di vittoria. Quando la cavalleria di rinforzo inviata da Atene in gran fretta giunse sul campo di battaglia, non vi trovò più nessuno, solo i morti.
Davanti a questa batosta, per la prima volta, i Trenta conobbero l’angoscia. La schiacciante superiorità di mezzi di cui ancora disponevano non bastava a nascondere loro la superiorità tattica e morale dell’avversario. Niente rivela che Crizia si fosse mai segnalato per un comando dall’esito felice: in battaglia, il suo prestigio era inferiore a quello di un Trasibulo. Ma, come tiranno e capo dei tiranni, egli restava senza eguali. Il pericolo minaccioso gli ispirò un piano la cui atrocità era senza precedenti: con un provvedimento di preveggenza e nello stesso tempo di diffidenza verso Atene, egli indusse i Trenta a cercare rifugio ad Eleusi; la città era ben fortificata, ben situata in riva al mare e sulla strada dell’Istmo, in prossimità dell’isola di Salamina, altro rifugio possibile; ma, per prima cosa, si imponeva un’azione di pulizia: eliminare tutti gli esclusi in grado di portare le armi. A questo scopo, i Trenta, scortati dalla cavalleria, raggiungono Eleusi. Obbligano gli Eleusini validi a sfilare davanti a loro, a farsi registrare uno ad uno, poi ad uscire per una porta secondaria dietro la quale delle guardie armate li attendono, li assalgono e li incatenano. Il comandante della cavalleria, Lisimaco, conduce tutti i prigionieri ad Atene e li consegna nelle mani degli Undici. La stessa operazione a Salamina. In virtù dei poteri discrezionali che i Trenta si erano concessi, la condanna a morte poteva essere immediata. Ma il piano di Crizia aggiungeva alla crudeltà un calcolo atroce. Per l’indomani, i Tremila sono convocati nell’Odeon: giunti là senza armi e senza diffidenza, vi sono raggiunti da tutta la guarnigione spartana, questa ben armata. Allora, cinicamente, Crizia fa loro sapere quel che egli si aspetta da loro, la solidarietà nel crimine e nell’infamia: «Come partecipate agli onori, bisogna che partecipiate pure ai pericoli. Voi confermerete dunque col vostro voto la condanna dei cittadini di Eleusi. In questo modo, tra voi e noi, uguale sarà la parte di speranze e paure».120 Che fare? Il voto è pubblico, Crizia inesorabile, la lama delle spade ben affilata. Anche se fra i Tremila c’era qualche persona onesta disgustata, nessuno di loro era un Socrate, incapace di rinnegare se stesso davanti alla morte; essi votarono con gli altri, condannando per paura d’esser condannati. Satiro procedette all’esecuzione in massa (della quale Senofonte, per pudore, preferisce non parlare). Ma stavolta la misura era colma, il misfatto più insensato ancorché criminale; esso causò non solo odi inespiabili, ma agitazione e discordia fra i Tremila, e perfino fra i Trenta. Scossa da se stessa, l’oligarchia vacillava alla base, e questo alla vigilia di un nuovo choc, forse decisivo.
Infatti, mentre i tiranni, assorbiti dai loro crimini, pensavano meno a fare la guerra che a tiranneggiare, Trasibulo, lui, agiva con una prontezza e un’audacia accresciute dall’incredibile inazione del nemico. Disponeva adesso di un migliaio di uomini. Cinque giorni dopo la sorpresa riuscita di Acarne, tre giorni dopo l’agguato di Eleusi, egli entrava di notte al Pireo. Si può immaginare l’accoglienza che la popolazione, svegliatasi – marinai, rifugiati, meteci, tutti ardenti democratici –, fece all’armata democratica. Ma a domani i festeggiamenti, oggi battaglia! Reagendo infine con vigore, i Trenta raccolgono tutte le loro forze, cavalieri, opliti, Spartani, e si precipitano al Pireo. Troppo inferiore di numero, Trasibulo deve rinunciare a sbarrare loro la strada, ripiega per non essere sopraffatto, e va ad occupare, a est del porto, la forte posizione di Munichia, altura rocciosa da dove dominerà l’avversario. La fanteria dei Trenta sale all’assalto in ranghi serrati – cinquanta in profondità. Ma dietro le sue linee meno folte – dieci ranghi di opliti – Trasibulo ha disposto una truppa improvvisata di lanciatori di pietre e di giavellotti. Quando l’assalitore arriva a portata di tiro, viene crivellato di proiettili, obbligato a parare i colpi con lo scudo, fiaccato, accecato. Questo fu il momento che il capo avveduto scelse per intonare il peana e lanciare i suoi alla carica: essi scendono giù a precipizio con uno slancio reso irresistibile tanto dal ricordo delle iniquità subite, dalla visione del focolare recuperato, dalla sete di libertà e di rivincita, quanto dal vantaggio della posizione e dal suo forte pendio. In preda allo smarrimento, le prime file degli oligarchi vengono sfondate, travolte, decimate; le altre fanno dietrofront e fuggono via, inseguite fino alla piana. Circa seicento morti giacevano sul campo di battaglia. Morto il bel Carmide, governatore del Pireo; morto Ippomaco, uno dei Trenta; morto il genio cattivo del clan e il suo capo, Crizia: da solo, questo cadavere era una vittoria democratica.
La morte dei prodi (se Crizia fu colpito al petto): quale altro argomento si potrebbe trovare in favore di quest’uomo, quale altro contrappeso a un cumulo di crimini raccapriccianti? Egli almeno li ha pagati con la sua vita, non con la vita degli altri. Crizia rimane e merita di rimanere nella memoria degli uomini come il più crudele nemico del popolo. Si racconta che la tomba in cui fu seppellito con i morti dell’armata sconfitta portava questa iscrizione: «Questa è la tomba degli uomini onesti che, per qualche tempo, repressero le offese del popolo esecrabile di Atene». L’iscrizione, se è autentica, attesta che niente può intaccare questa roccia: l’orgoglio di casta, niente, nemmeno la magnanimità del popolo.
Si poteva sperare che l’oligarchia non sarebbe sopravvissuta alla morte del suo capo. Queste speranze restarono deluse. Tra i fuorusciti e i Tremila, vittime e beneficiari – talvolta complici – della tirannide, si era scavato un fossato profondo, difficile da colmare. Tale era la violenza degli odi che la guerra civile fu sul punto di diventare lo stato normale della città ateniese.
Fatto paradossale ma non sorprendente: gli oppressi, vincitori, si mostrarono, in ogni occasione, più concilianti, più accessibili all’antica fratellanza di quanto non fossero gli oppressori, vinti, che in gran numero restarono barricati sia nella loro alterigia sia nella loro cattiva coscienza, murati nel ricordo dei misfatti che avevano commesso o consentito di commettere. Subito dopo la vittoria, Trasibulo offrì le sue proposte: vietò che i morti, spogliati delle loro armi, lo fossero anche dei loro vestiti; accettò di concludere una tregua per il recupero dei cadaveri; durante la tregua, mentre si erano avviati colloqui tra i combattenti delle due parti, egli fece rivolgere loro, con la bella, grave voce di Cleocrito, l’araldo sacro dei Misteri, un patetico appello all’unione: «In nome degli dèi dei nostri padri e delle nostre madri, ricordatevi dei vostri legami di parentela, di alleanza, di amicizia, dei vostri doveri religiosi e umani, risparmiate finalmente la vostra patria, smettete di obbedire a questi Trenta che, nella loro empietà, nella loro ambizione egoistica, hanno fatto morire in otto mesi forse più Ateniesi che tutti i Peloponnesiaci in dieci anni di guerra. Essi sono quelli che ci hanno gettato gli uni contro gli altri in questa guerra sacrilega. E intanto sapete bene che, tra quelli che solo da poco tempo sono caduti sotto i nostri colpi, ce ne sono alcuni compianti non solo da voi, ma anche da noi». Queste nobili parole trovarono un’eco? Ci fu qualche titubanza tra i vinti, qualche voglia di diserzione? Forse. Il fatto è che i capi oligarchi, temendo per i loro uomini, affrettarono la partenza, e che furono seguiti. Prontamente, l’armata dei Trenta ritornò ad Atene.
Ma in quale stato di demoralizzazione e di scompiglio... I Trenta, o quel che ne restava – il denaro di Crizia –, avevano perduto tutta la loro sicurezza, la loro impudenza, quasi tutti i loro fautori; ora se ne stavano quatti quatti, πάνυ δὴ ταπεινοὶ καὶ ἔρημοι, dice Senofonte, «del tutto umili e soli». Quanto ai Tremila, profondamente divisi tra loro, essi esitavano sul partito da prendere; dovunque il servizio di guardia li chiamasse, divampavano discussioni appassionate. «Non cediamo alla gente del Pireo, non commettiamo questa bassezza!», dicevano gli uni, quelli che non avevano la coscienza tranquilla. «Finiamola con i Trenta! Non hanno saputo condurci che alla disfatta e alla vergogna!», dicevano gli altri, quelli che si mostravano impazienti di liberare la loro coscienza, poiché certi ricordi – soprattutto quello del voto all’Odeon – erano pungenti come una bruciatura. Finalmente ci si mise d’accordo per eleggere un nuovo governo di dieci membri, uno per tribù. I Trenta si lasciarono deporre senza opporre resistenza, troppo felici che gli si permettesse di lasciare con tale libertà Atene e di raggiungere il rifugio previsto di Eleusi, dove probabilmente li avrebbero seguiti le loro guardie del corpo e un pugno di partigiani, i più compromessi. Alcuni di quelli che avevano eletto i Dieci si auguravano l’intesa col Pireo? Quel che avvenne fu tutto il contrario. I Dieci d’accordo con i capi della cavalleria – il loro principale sostegno – decisero la ripresa della lotta. Di conseguenza, la vittoria democratica di Munichia ebbe come risultato non di sopprimere l’oligarchia, ma di raddoppiarla. L’Attica si trovò divisa fra tre governi nemici: i Dieci ad Atene, i Trenta ad Eleusi, Trasibulo al Pireo. I Trenta erano momentaneamente fuori combattimento. La guerra civile continuò tra il Pireo e Atene.
Piccola guerra di pattugliamenti, di saccheggi, di colpi di mano, e intanto atroce – come tutte le guerre civili –, meno per la quantità di sangue versato che per una persistente furia omicida da una sola parte, sempre la stessa. Uno degli eroi di Eleusi, il comandante della cavalleria Lisimaco, vi dispiegò tanto vigore e altrettanto attivismo; gli uomini di Trasibulo, sorpresi nei loro propri campi dove andavano a rifornirsi di viveri, li fece ammazzare tutti, malgrado le loro suppliche. Come rappresaglia, alcuni cavalieri, fatti prigionieri, subirono la stessa sorte. Le campagne erano razziate, le messi distrutte, le abitazioni saccheggiate e bruciate. Ma in questo gioco come nell’altro, Trasibulo era il più forte. Nonostante la cavalleria ateniese, la guerra tornava a suo vantaggio. Di giorno in giorno, gli arrivavano nuove reclute: proscritti o seguaci, democratici o terameniani, uomini della città o della campagna, anche molti stranieri, di tutte le condizioni, attirati dalla promessa dell’isotelia – l’uguaglianza fiscale. Ognuno si equipaggiò subito come poté: in mancanza di meglio, ci si ridusse a fare scudi di legno o di vimini intrecciati, che si dipingevano di bianco. I finanziamenti raccolti permisero di migliorare a poco a poco l’equipaggiamento: i ricchi meteci, i democratici di Elide, i Tebani fornirono grosse somme di denaro; Lisia – che voleva vendicare la morte di suo fratello e nello stesso tempo assicurare il proprio avvenire – inviò duemila dracme, duecento scudi, trecento mercenari. Sotto l’energica autorità di Trasibulo, tutti questi elementi disparati furono prontamente amalgamati, disciplinati. L’armata del Pireo si trovò in condizione di fare non più una guerriglia, ma una guerra di occupazione e di assedio, tanto che accostò le sue macchine fin sotto le mura di Atene.
Intanto l’oligarchia ridotta allo stremo non aveva detto la sua ultima parola: Sparta. Nessuna considerazione, nessuno scrupolo poteva distoglierla. «Risparmiate finalmente la vostra patria!», aveva supplicato Cleocrito. Ma la patria, che cos’era, per questi fanatici? La loro casta, gli Ateniesi ben nati, ben pensanti, ben forniti di ricchezze, il «paese reale», loro stessi, i loro interessi, i loro beni, i loro privilegi, per la salvaguardia dei quali erano pronti a pagare non importa quale prezzo, ad adattarsi a qualsiasi schiavitù. Il Demos incatenato, lo Spartiata sull’Acropoli, questa era la loro formula patriottica. Sotto questo aspetto, Atene non differiva da Eleusi; le due oligarchie lavoravano, ognuna per sé, ma nella stessa direzione, con la stessa bassezza ossequiosa. L’una e l’altra inviarono a Sparta un’ambasceria incaricata di ottenere, ciascuna a proprio vantaggio, l’intervento dell’esercito e della flotta peloponnesiaci: i democratici – questo le due ambascerie dovevano dire – avevano violato il trattato di pace, rotto l’alleanza imposta, fatto accordi con Tebe; la situazione era chiara; l’interesse di Sparta esigeva che essa sostenesse con tutte le sue forze l’oligarchia, sola fedele.
A Sparta, le opinioni erano discordi. Gli oligarchi ateniesi, in ragione sia dei loro eccessi tirannici, sia della loro incapacità militare, non avevano più grande credito. Ma il loro protettore Lisandro ne aveva ancora: gli sembrava facile domare il Pireo bloccandolo per terra e per mare, vantaggioso mantenere al potere un governo ateniese che gli doveva o gli avrebbe dovuto tutto, e non avrebbe potuto restare in piedi che col suo aiuto. Il Consiglio di Sparta, senza arrivare all’intervento diretto di tutte le forze peloponnesiache, accettò una forma d’intervento che aveva il vantaggio di essere più onerosa per i richiedenti che per il Consiglio stesso: concesse loro un prestito di cento talenti, destinati a reclutare un esercito di mercenari il cui comando sarebbe stato assunto da Lisandro, mentre suo fratello Libys avrebbe sorvegliato il mare con quaranta navi. Lisandro voleva dire vittoria assicurata; e cento talenti non erano un costo troppo elevato. L’illustre spartano entrò subito in azione; stabilì il suo quartier generale nella città dei Trenta, Eleusi, dove il suo prestigio fece affluire i soldati. Libys vietò l’ingresso del porto alle navi che portavano viveri. Che cosa poteva Trasibulo contro una tale tattica e un tale tattico? In poco tempo, la situazione fu del tutto capovolta: gli oligarchi di Atene e di Eleusi ripresero il gusto di vivere; viceversa, la gente del Pireo, bloccata e senza risorse, si vide costretta a una resistenza disperata.
Ma si era detto che questa storia sarebbe stata ricca di colpi di scena. Il capovolgimento finale non ne fu il meno sorprendente. Nel momento in cui l’iniziativa democratica sembrava condannata senza rimedio, fu proprio allora che essa, per un nuova e improvvisa svolta, raggiunse il suo scopo, e questo per l’entrata in scena di un personaggio sull’appoggio del quale nessun ateniese democratico avrebbe certo pensato di poter mai contare, perché questo deus ex machina fu uno Spartiata, uno dei due re di Sparta, Pausania. Ebbene! Sparta non aveva poco prima deciso di inviare il suo glorioso capitano in soccorso degli oligarchi? Certo! Lisandro presente, aveva ottenuto il consenso all’invio; Lisandro lontano, le cose andarono diversamente. Il clan avverso, il cui capo era Pausania, si fece ascoltare meglio: egli mostrò su quali vie avventurose e personali Lisandro stesse impegnando la politica spartana; parlò di ragione e tradizione, linguaggio abile, il più adatto a convincere, in quella circostanza. Dal fatto che Lisandro, diceva, si adopera per far trionfare le sue creature, si capisce chiaramente il vantaggio che ne trarrà – per se stesso: egli terrà l’Attica nelle sue mani, come essi la terranno nelle proprie; egli ne sarà il padrone, più di loro, e più di noi. Quanto al profitto che la patria ne trarrà, si capisce con minor chiarezza; mantenere con la paura una tirannide esecrabile che il popolo ateniese non accetterà mai di buon grado, non significa smentire la tradizione di saggezza, d’equità, di moderazione nell’esercizio del potere, su cui Sparta ha costruito la sua reputazione e il suo onore? Stiamo attenti a non angustiare i nostri alleati, non imitiamo gli errori che furono quelli di Atene egemone dell’Impero, non permettiamo a Lisandro di trasformare una supremazia liberamente accettata in un’egemonia imposta e detestata: la violenza tirannica ha conosciuto solo trionfi effimeri. Si dirà che la protezione accordata da Tebe ai fuorusciti ateniesi è una minaccia per noi, che è importante prevenire un riavvicinamento fra Tebe e Atene? In verità, questo è importante. Ma in che modo? O, come vuole Lisandro, puntellare un’oligarchia vacillante e dimostrare in tal modo alla massa del popolo ateniese che Tebe è il solo aiuto; oppure, ed è la soluzione che i nostri padri avrebbero adottato, proporre, imporre piuttosto, un arbitrato imparziale, far rientrare noi stessi i fuorusciti nella città in cui essi hanno diritto di rientrare, e ristabilire, nell’alleanza spartana, la pace ateniese.
Che nel cuore del re Pausania si fosse insinuato un certo cruccio per la posizione di secondo piano in cui l’aveva retrocesso il vincitore di Egospotami, è probabile, che la squillante vittoria di Lisandro gli ispirasse gelosia, è pure probabile. Il linguaggio usato restava sempre quello di un politico saggio e di una persona per bene. La cosa più sorprendente è che fu ben accolto. Una rondine non fa primavera: inchiniamoci al passaggio. Tre efori su cinque diedero il loro consenso, e Pausania partì per l’Attica, alla testa dell’esercito confederale, da cui mancavano solo i contingenti tebani e corinzi.
Da quando il re era penetrato in territorio ateniese, divenne oggetto di molteplici sollecitazioni, da parte dei governi e dei singoli cittadini. Una delle prime udienze che egli accordò fu al nipote e ai discendenti di Nicia, presentati da un loro parente, Diogneto; una tradizione di amicizia, di stima e di ospitalità reciproche univa la famiglia di Nicia a quella di Pausania; Nicia era stato ad Atene il prosseno121 di Sparta; col concorso del padre di Pausania, il re Plistoanatte, egli aveva concluso nel 421 la pace bianca di cinquant’anni (ahimè! Non era durata più di sette anni!). Ora Diogneto veniva a chiedere giustizia e protezione per i suoi, vittime della tirannide oligarchica: un fratello e il figlio di Nicia avevano dovuto bere la cicuta; i loro figli erano minacciati di esser privati dei beni. Pausania ascoltò la richiesta con benevolenza e forse con segreto sdegno: tra l’aristocrazia moderata e lealista, di cui Nicia era il perfetto rappresentante, e i settari dell’oligarchia, fanatici della violenza e del tradimento, uno Spartiata di buona stirpe non poteva esitare. Senza essere determinante, l’intervento di Diogneto confermò il re nei suoi disegni; rafforzò l’avversione che egli provava per i Trenta, creature di Lisandro, tiranni decaduti e senza grandezza. Non contento di respingere i loro doni, le loro offerte di servigi, il re prese le distanze da loro in modo manifesto, passò davanti ad Eleusi senza fermarvisi e venne ad accamparsi in prossimità del Pireo, nel luogo detto Alipedo. Le sue intenzioni nei confronti di Atene erano più concilianti: instaurò rapporti di collaborazione con i Tremila, tranne con i Dieci già screditati, e accettò l’aiuto della cavalleria ateniese.
Infatti, ufficialmente, lo scopo della missione di Pausania sembrava essere lo stesso di quella di Lisandro: domare il Pireo. Era proprio così che la pensavano i difensori del Pireo, il cui ardore combattivo non era affatto intaccato da tutto quel dispiegamento di forze. La cosa difficile era imporre a questi uomini risoluti il negoziato e l’arbitrato. I fatti se ne incaricarono di farlo.
Prima di cominciare l’azione diplomatica, il re, che temeva d’esser tacciato di debolezza, decise di dare prova, davanti a tutti, della potenza di Sparta. Ordinò all’esercito democratico di disperdersi, poi, dal momento che l’ordine era rimasto senza risposta, procedette a dimostrazioni militari nei dintorni del Pireo. La prima volta, tutto si svolse senza incidenti; la seconda, vi fu, per iniziativa di uomini del Pireo, uno scontro; opliti lacedemoni e cavalleria ateniese, incalzati dalla fanteria leggera, la affrontarono e, caricando con impeto, inseguirono i loro nemici fino al teatro del Pireo. Era un’imboscata preparata? Essi vi si scontrano col grosso dell’esercito democratico, subiscono gravi perdite; due generali spartani vengono uccisi. Trasibulo prende l’offensiva, mentre Pausania indietreggia per dare al resto del suo esercito il tempo di riunirsi: venuto il momento, egli li affronta a sua volta; si combatte una battaglia accanita; la falange particolarmente profonda della fanteria spartana costringe a un ripiegamento le truppe di Trasibulo, che battono in ritirata, lasciando sul terreno circa centocinquanta dei loro. Pausania innalza il trofeo della vittoria e si ritira, senza sfruttare ulteriormente il suo vantaggio.
Per un capovolgimento imprevisto, ma anche per la ferma volontà di Pausania, da quell’aspra battaglia viene fuori la pace. Trasibulo aveva perduto la speranza di vincere: avvertito in segreto delle disposizioni del re, le accetta senza negoziare. In un’Atene divisa, gli emissari spartani sfruttano accortamente il turbamento degli animi; fanno pressione sui più moderati, li staccano dai Dieci e ottengono che, analogamente a Trasibulo, essi inviino loro delegati nel campo di Pausania. Questi li riceve, circondato da due efori, secondo la regola spartana. I delegati del Pireo e di Atene, gli uni e gli altri debitamente ammaestrati, dichiarano di «desiderare la fine della guerra civile, la riconciliazione, e il mantenimento dell’amicizia lacedemone».122 Che cosa chiedere di più? Gli interessi di Sparta sono salvi, il pericolo tebano allontanato. D’accordo con il re, gli efori decidono di far partire per Sparta le due delegazioni. Quando apprendono ciò, e furiosi di esser messi in disparte, gli irriducibili tentano un’ultima condotta, che finirà per essere – secondo la tradizione oligarchica – solo un estremo tradimento: da parte loro, spediscono in fretta ambasciatori a Sparta, offrendo di rimettere se stessi, le loro proprie persone e le loro fortificazioni alla discrezione dei Lacedemoni; giungono a tal punto di perfidia da chiedere che gli uomini del Pireo, come prova della loro sincerità, facciano altrettanto. Gli Spartani ascoltano, rifiutano la loro offerta maggiore e danno ragione a Pausania, associandogli tuttavia, per condurre a buon porto l’arbitrato, una commissione di quindici cittadini.
Delle difficoltà con cui si scontrò l’arbitrato, non sappiamo niente e possiamo sospettare soltanto che furono grandi. Per superarle, ci fu bisogno nientemeno che della fermezza degli arbitri, della moderazione poco comune di cui diedero prova alcuni uomini di buona volontà – Trasibulo e Archino per il Pireo, Rinone e Faillo per Atene –, dell’autorità che questi uomini si erano acquistata e di cui si servirono per tenere a freno le passioni ancora calde. La pace fu conclusa alle seguenti condizioni: diritto per tutti gli Ateniesi di rientrare nelle loro case e di recuperare i loro beni – almeno quelli che non erano stati alienati; amnistia piena e intera, sotto il vincolo del giuramento, eccezion fatta per i capi responsabili, i Trenta, gli Undici, i Dieci del Pireo e i Dieci di Atene, che non potranno beneficiarne se non dopo rendiconto davanti ai giudici; libertà, per tutti coloro che ne esprimeranno il desiderio in un tempo stabilito, di ritirarsi ad Eleusi, con la salvaguardia assoluta dei loro diritti civili e dei loro beni; mantenimento di Eleusi nella condizione di enclave oligarchica autonoma, dove gli Ateniesi avranno accesso solo durante la celebrazione dei Misteri, tregua sacra; obbligo per ciascuna fazione di pagare separatamente i propri debiti di guerra. Bisogna riconoscere l’imparzialità di un tale arbitrato: non vi erano né vincitori né vinti; Sparta aveva tenuto la bilancia uguale tra i due campi; non soltanto venivano vietate le rappresaglie, ma a quanti avevano qualche ragione di temerle si dava il modo di mettersi al riparo. Non era affatto possibile andare più lontano nella via della riconciliazione e della calma generale.
Conclusa la pace, Pausania, arbitro leale e affidabile, ritirò subito la guarnigione spartana dall’Acropoli e l’esercito spartano dall’Attica. Gli Ateniesi furono lasciati a se stessi. Ore di angoscia: la patria, così crudelmente dilaniata dagli odi, avrebbe potuto ricostruirsi, riprendere il corso normale dei suoi destini? I cuori avrebbero potuto cessare di odiarsi? Quando le truppe di Trasibulo, in buon ordine e in armi, si presentarono alle porte di Atene, l’emozione fu pungente: se da parte del popolo l’allegria si sfogava liberamente, dall’altra parte, quanti volti pallidi di paura! Nessuna garanzia bastava a rassicurare quanti, per codardia o cupidigia, si erano ridotti a servitori dei tiranni o, per fellonia, ad agenti di Sparta. Tale era tuttavia la disciplina di questo esercito di fuorusciti che nessun grave incidente, nessuna violenza turbarono la solennità dell’ora; essi salirono all’Acropoli per sacrificare alla dea, in segno di pia gratitudine, e di devozione alla città ritrovata. Soltanto allora le armi furono deposte e tutti i cittadini convocati in assemblea generale alla Pnice: là, in conformità col trattato, essi giurarono di rispettare gli impegni presi. Poi Trasibulo pronunciò un breve discorso; in alcune frasi, improntate a spirito vendicativo, condannò la condotta degli oligarchi, le cui orgogliose pretese non potevano esser giustificate da nulla, nemmeno dal valore guerriero: «Ditemi dunque su che cosa voi fondate la vostra superiorità, voi che, con le vostre mura, le vostre armi, il vostro denaro, i vostri alleati del Peloponneso, vi siete fatti battere da uomini che non avevano, essi, niente di tutto questo? Forse fondavate sui Lacedemoni le vostre idee di grandezza? E vedete: come si fa con un cane che morde, essi vi hanno messo la museruola, essi vi hanno rimesso nelle mani di questo popolo che avete così ingiustamente trattato».123 Ma il popolo vale molto di più di voi; dimentico del male che gli avete fatto, saprà mantener fede al suo giuramento: «A voi cittadini io lo domando, aggiungete anche questo a tutti i vostri meriti: mostratevi leali e rispettosi»; nessuna agitazione, nessuno scompiglio: è nella calma, concluse Trasibulo, che dev’essere restaurata la sovranità del Demos e quella della Legge. Allora l’Assemblea si disperse, gli uni silenziosi e frementi per la vergogna, gli altri dominando a stento la collera che ribolliva dentro di loro. E questo fu tutto per quel primo giorno di pace civile, un giorno di settembre del 403: la tirannide oligarchica era durata giusto un anno.
Che sarebbe avvenuto l’indomani? Malgrado l’accordo concluso, la lealtà giurata, le esortazioni dei capi, l’incertezza era grande, le passioni ancora brucianti. Si poté temere un’emigrazione massiccia verso Eleusi: per impedirla, Archino, con una decisione improvvisa, fece abbreviare i tempi prescritti. I giorni passano; la vita riprende, nel quadro dell’antica Costituzione democratica; si nomina una commissione incaricata di procedere a una revisione generale delle leggi, mentre vengono annullati tutti gli atti varati dal governo dei Trenta; ma nessuna violenza contro le persone; a poco a poco, bisogna convincersene: il popolo resta fedele ai suoi impegni.124 Se vi fu qualche velleità di rappresaglia, fu repressa con un rigore esemplare: «Appena uno dei vecchi fuorusciti, racconta Aristotele,125 tentò di risvegliare i rancori, Archino lo trascinò davanti al Consiglio e persuase questa assemblea a metterlo a morte senza processo: “Ecco il momento, dice, di mostrare se volete salvare la democrazia e restare fedeli ai vostri giuramenti: se rilascerete quest’uomo, incoraggerete gli altri; se lo condannerete a morte, il suo esempio servirà per tutti”. E questo di fatto avvenne; morto quello, nessuno in seguito osò parlare di rappresaglie». I capi diedero l’esempio: Trasibulo e Anito, spogliati di una parte dei loro beni, non fecero niente per ottenerne la restituzione. Lo Stato democratico spinse la propria generosità fino al punto di accollarsi i gravi debiti che l’oligarchia aveva contratto con Sparta. Gli Antichi, perfino Senofonte, malgrado i pregiudizi, sono concordi nel rendere omaggio alla lealtà con cui l’amnistia giurata fu rispettata. La Storia offre pochi esempi di una tale grandezza d’animo da parte non di un solo individuo, ma di un popolo intero.
Quando escono di scena gli oligarchi, allora il nostro racconto deve fermarsi. L’esecrabile governo dei Trenta sussisteva ancora ad Eleusi, come una sfida alla democrazia restaurata. Ma questa sopravvivenza fu breve, un anno o due al massimo. Da una parte e dall’altra ci si sorvegliava, con diffidenza e insieme con disprezzo. Alla notizia che i Trenta reclutavano un esercito di mercenari, Atene decretò la leva in massa; la guerra civile ricominciò; fu troncata di netto quasi subito con l’uccisione dei Trenta,126 attirati con la scusa di un colloquio e caduti in un tranello. Nessuno si sognò di biasimare gli assassini né di compiangere le vittime. Poiché l’amnistia era stata generosamente estesa a tutti gli esuli di Eleusi, la città ateniese si trovò ricostituita nella sua integrità.
La fazione oligarchica aveva giocato la sua ultima partita, e l’aveva perduta; non si risollevò mai più. La sua arrogante inconsistenza, la sua velenosa mediocrità non meritano un’orazione funebre. La si giudichi dai suoi atti: grande fu soltanto la sua capacità di nuocere. In fin dei conti, in questa storia sconcertante, la malvagità degli uni – i «buoni» – sarà stata superata solo dalla clemenza degli altri – i «cattivi». Da allora, sono trascorsi duemilatrecentoquarantaquattro anni. Mentre sto scrivendo queste ultime righe, da qualche parte in Francia – in quella che fu la Francia –, il sabato diciassette ottobre del millenovecentoquarantadue, i «buoni» sono sempre così malvagi; resta da sapere se i «cattivi» saranno così magnanimi.