29

Re Pietro III il Cerimonioso era a Figueras già da sei giorni quando, il 28 luglio del 1343, ordinò alle sue truppe di levare le tende e mettersi in marcia per il Rosellón.

«Dovrai aspettare», disse Francesca ad Aledis, mentre le ragazze smontavano la tenda per seguire l'esercito. « Quando il re ordina di partire, i soldati non possono abbandonare le fila. Forse nel prossimo accampamento...»

Aledis la interrogò con lo sguardo.

«Gli ho già mandato il messaggio», aggiunse Francesca, e poi, come di sfuggita: « Vieni con noi?»

Aledis annuì.

«Allora dacci una mano», le ordinò Francesca.

Mille e duecento uomini a cavallo e più di quattromila a piedi, armati per la guerra e con provviste per otto giorni, si misero in marcia diretti a La Junquera, a poco più di mezza giornata da Figueras. Dietro l'esercito, una carovana di carri, muli e gente d'ogni tipo. Una volta arrivati a La Junquera, il re dispose di accamparsi; un nuovo messaggero del papa, un frate agostiniano, portò un'altra lettera da parte di Giacomo III. Quando Pietro III aveva conquistato Maiorca, re Giacomo si era rivolto al pontefice in cerca di aiuto; frati, vescovi e cardinali avevano inutilmente mediato presso il Cerimonioso.

Proprio come aveva fatto con quanti l'avevano preceduto, il re non diede retta al nuovo messo papale. L'esercito passò la notte a La Junquera. Era quello il momento? si chiese Francesca mentre osservava Aledis che aiutava le altre ragazze a cucinare. No, concluse. Avrebbe avuto tante più possibilità di spuntarla con la ragazza quanto più si fossero allontanate da Barcellona, dalla vecchia vita di Aledis. « Dobbiamo aspettare», le rispose quando la ragazza le chiese di Arnau.

La mattina dopo il re levò di nuovo le tende.

306

«A Panissars! In assetto da combattimento! Quattro gruppi schierati per la battaglia!»

Il comando corse per le fila dell'esercito. Arnau lo sentì mentre si trovava con la guardia privata di Eiximèn d'Esparça, pronta a marciare. A Panissars! Alcuni lo gridavano, altri lo sussurravano appena, ma tutti lo ripetevano con orgoglio e rispetto. La gola di Panissars! Il passo tra i Pirenei che portava dalle terre catalane a quelle del Rosellón. A sola mezza lega di distanza da La Junquera, quella notte attorno a tutti i falò si sentivano narrare le gesta di Panissars.

Erano stati loro, i catalani, i loro padri, i loro nonni, a sconfiggere i francesi. Solo loro, i catalani! Anni prima, re Pietro il Grande era stato scomunicato per aver conquistato la Sicilia senza il permesso del papa. I francesi, al comando di Filippo l'Ardito, avevano dichiarato guerra all'eretico - in nome della cristianità! - e con l'aiuto di alcuni traditori avevano attraversato i Pirenei dal passo della Maçana.

Pietro il Grande era stato costretto a battere in ritirata, i nobili e i cavalieri aragonesi avevano abbandonato il re ed erano tornati con i loro eserciti nelle rispettive terre.

«Eravamo rimasti solo noi!» disse qualcuno nella notte, coprendo persino il crepitio del fuoco.

«E Roger di Llùria!» sbottò un altro.

Il re, con gli eserciti ridotti all'osso, aveva dovuto lasciare che i francesi invadessero la Catalogna mentre aspettava che gli arrivassero i rinforzi dalla Sicilia, guidati dall'ammiraglio Roger di Llùria. Pietro il Grande aveva ordinato al visconte Raimondo Folch di Cardona, difensore di Gerona, di resistere all'assedio dei francesi fino all'arrivo di Roger di Llùria. Il visconte di Cardona aveva obbedito, difendendo eroicamente la città fino a quando il suo re gli aveva permesso di cederla all'invasore.

Alla fine Roger di Llùria era arrivato e aveva sconfitto l'armata francese; nel frattempo, nell'entroterra, l'esercito francese era stato devastato da un'epidemia.

«Hanno profanato il sepolcro di Sant Narcìs con la presa di Gerona», intervenne uno.

A sentire i vecchi del posto, milioni di mosche erano uscite dalla tomba del santo, quando i francesi l'avevano violata. Erano stati quegli insetti a diffondere l'epidemia tra le fila dell'eser307

cito nemico. Sconfitti per mare, ammalati per terra, il loro re Filippo l'Ardito aveva chiesto una tregua per ritirarsi, prima che quell'impresa si trasformasse in una carneficina.

Pietro il Grande gliel'aveva concessa, ma, li aveva avvertiti, solo in nome suo e dei suoi nobili e cavalieri.

Arnau sentì le grida degli almogavari che entravano nella gola di Panissars. Schermandosi gli occhi, guardò in alto, verso le montagne che circondavano il passo, fra cui rimbombavano le grida dei mercenari. Lì, insieme a Roger di Llùria, osservati dall'alto delle cime da Pietro il Grande e dai suoi nobili, i mercenari avevano sterminato l'esercito francese uccidendo migliaia di uomini. Il giorno dopo, a Perpignan, era morto Filippo l'Ardito e la crociata contro la Catalogna era terminata.

Gli almogavari continuarono a gridare lungo tutta la gola, sfidando nemici che non apparvero, probabilmente perché ricordavano i racconti dei loro padri o nonni riguardo alle vicende svoltesi in quei luoghi cinquant'anni prima.

Quegli uomini cenciosi, che quando non guerreggiavano come mercenari vivevano nei boschi e sulle montagne, dedicandosi a saccheggiare e devastare le terre saracene, indifferenti a qualsiasi patto i re cristiani della penisola potessero aver stretto con i capi mori, avanzavano a modo loro. Arnau l'aveva già notato sulla strada da Figueras a La Junquera, e adesso ne aveva la conferma: dei quattro gruppi in cui il re aveva diviso l'esercito, gli altri tre marciavano in formazione, sotto i loro stendardi, mentre quello degli almogavari procedeva disordinatamente a suon di grida, minacce, risa e persino scherzando, sbeffeggiando il nemico che non usciva allo scoperto e quello che in passato, invece, l'aveva fatto.

«Non hanno capi? » chiese Arnau dopo aver visto che gli almogavari li superavano in modo caotico per proseguire il cammino, indifferenti all'ordine di Eiximèn d'Esparça di fare una sosta.

«Non sembrerebbe, vero?» gli rispose un veterano, fermo accanto a lui come tutti i componenti della guardia personale dello scudiero del re.

«No davvero.»

308

«Eppure li hanno, e si guardano bene dal disobbedirgli. Certo, non sono capi come i nostri.» Il veterano gli indicò Eiximèn d'Esparça e, con una smorfia schifata, finse di togliere un insetto immaginario dalla propria scodella e di agitarlo nell'aria. Alcuni soldati si unirono alla risata di Arnau. « Quelli sì che sono capi», proseguì il veterano facendosi improvvisamente serio, «lì non serve essere figli di qualcuno o chiamarsi in questo o quel modo, o essere il protetto del conte tal dei tali. I più importanti sono gli adalils.»

Arnau guardò gli almogavari, che continuavano a sfilargli accanto.

«No, lascia perdere», gli disse il veterano, « tanto non riusciresti a distinguerli. Si vestono tutti nella stessa maniera, ma loro sanno perfettamente chi sono. Per arrivare a essere un adalil, servono quattro qualità: saggezza per guidare i soldati; coraggio, per poter chiederne in egual misura agli uomini che si comandano; doti innate per il comando e, soprattutto, lealtà.»

«Sono le stesse che dicono abbia lui», lo interruppe Arnau indicando lo scudiero del re e ripetendo il gesto che il veterano aveva fatto poco prima con le dita della mano destra.

«Sì, ma a lui nessuno ha mai negato o messo in discussione questo diritto. Per arrivare a essere un adalil degli almogavari bisogna invece che dodici adalils giurino sulla propria vita che l'aspirante risponde ai requisiti che ti ho elencato. Non resterebbe un nobile al mondo se i suoi pari dovessero ripetere lo stesso giuramento... soprattutto riguardo alla lealtà.»

I soldati che ascoltavano la conversazione annuirono sorridendo. Arnau tornò a guardare gli almogavari: come potevano uccidere un cavallo con una semplice lancia, nel bel mezzo della carica?

«Sotto gli adalils», continuò a spiegare il veterano, « ci sono gli almogatens; devono essere esperti nell'arte della guerra, coraggiosi, veloci e leali, e vengono eletti nello stesso modo: dodici almogatens devono giurare che il candidato risponda a tali caratteristiche.»

«Sempre sulla propria vita? » chiese Arnau.

«Sempre», confermò il veterano.

Ma Arnau non poteva nemmeno immaginare che la sfacciataggine di quei guerrieri arrivasse al punto di disobbedire al re.

309

Pietro III ordinò infatti che, una volta attraversata la gola di Panissars, l'esercito puntasse verso Perpignan, la capitale del Rosellón; tuttavia, quando le truppe l'ebbero attraversata, gli almogavari si staccarono dal resto dell'esercito e si diressero verso il castello di Bellaguarda, costruito sulla cima del picco omonimo e situato proprio sopra la gola di Panissars.

Arnau e i soldati dello scudiero reale li videro allontanarsi e risalire la cima. Stavano ancora gridando, come avevano fatto lungo tutto il passo. Eiximèn d'Esparça tornò al punto in cui si trovava il re, che a sua volta li stava guardando.

Eppure Pietro III non fece niente. Come fermare quei mercenari? Diede loro le spalle e proseguì verso Perpignan. Fu il segnale per Eiximèn d'Esparça: il re permetteva l'assalto di Bellaguarda, ma siccome era lui che pagava gli almogavari, se ci fosse stato un bottino il suo scudiero doveva essere presente. Così, mentre il grosso dell'esercito avanzava schierato, Eiximèn d'Esparça e i suoi uomini iniziarono l'ascesa a Bellaguarda, sulle orme degli almogavari.

I catalani assediarono il castello e per tutto il giorno e la notte successivi i mercenari si alternarono al taglio degli alberi che dovevano servire per costruire le macchine d'assedio: scale d'assalto e un grande ariete su ruote, che oscillava mediante corde appese a un tronco superiore, coperto di pelli per proteggere gli uomini che l'avrebbero maneggiato.

Arnau rimase di guardia davanti alle mura della fortezza. Come si assaliva un castello? Loro avrebbero dovuto farlo a petto scoperto, mentre i difensori si sarebbero limitati a colpirli, protetti dai merli. Eccoli lì: li vedeva ogni volta che si affacciavano per tenerli d'occhio. A un certo punto ebbe la sensazione che qualcuno osservasse proprio lui. Apparivano tranquilli, mentre lui tremava sentendosi addosso l'attenzione degli assediati.

«Sembrano molto sicuri di sé », commentò con un veterano poco distante.

«Non farti ingannare», gli rispose quello, « lì dentro se la passano peggio di noi. E poi, hanno visto gli almogavari.»

Gli almogavari, ancora gli almogavari. Arnau si girò a guardarli: lavoravano senza tregua, adesso perfettamente organizzati. Nessuno discuteva o rideva: lavoravano.

310

«Come si fa ad aver paura di loro, protetti da queste mura? » chiese.

Il veterano rise.

«Non li hai mai visti combattere, vero?»

Arnau fece segno di no.

«Allora aspetta e vedrai.»

Aspettò dormicchiando a terra per una notte tesa in cui i mercenari non smisero un attimo di costruire le loro macchine alla luce delle torce che andavano e venivano, incessantemente.

Allo spuntare del giorno, quando il sole cominciava a sorgere all'orizzonte, Eiximèn d'Esparça ordinò alle proprie truppe di disporsi in formazione. Il buio della notte era appena attenuato da quella luce lontana. Arnau cercò gli almogavari. Avevano obbedito e si stavano schierando davanti alle mura di Bellaguarda. Poi scrutò il castello, sulle loro teste. Tutte le luci erano scomparse; nel corso della notte non avevano fatto altro che prepararsi all'assalto. Arnau sentì un brivido. Cosa ci faceva lui, lì? L'alba era fresca eppure le sue mani, strette alla balestra, continuavano a sudare. Il silenzio era assoluto. Poteva morire. Nel corso della giornata, i difensori l'avevano guardato parecchie volte, proprio lui, un semplice bastaix: le facce di quegli uomini, prima perse in lontananza, ora prendevano vita. Erano lì, e l'aspettavano. Vacillò. Cominciarono a tremargli le gambe e dovette fare uno sforzo per non battere i denti. Strinse la balestra al petto perché nessuno potesse notare il tremore alle mani. L'ufficiale gli aveva spiegato che, quando avesse dato l'ordine di attaccare, lui avrebbe dovuto avvicinarsi alle mura e nascondersi dietro alcuni massi per colpire i difensori con la balestra. Il problema era proprio arrivare fino a quei massi: ce l'avrebbe fatta? Arnau non distoglieva gli occhi dal punto in cui sapeva che si trovava il nemico: doveva raggiungere i massi e proteggersi lì dietro, colpire, nascondersi, e colpire di nuovo...

Un grido squarciò il silenzio.

L'ordine! I massi! Arnau fece per correre in quella direzione, ma la mano dell'ufficiale lo trattenne per la spalla.

«Non ancora», gli disse.

«Ma...»

«Non ancora», insistette l'ufficiale. « Guarda.»

Il soldato additò gli almogavari.

311

Dalle loro fila si levò un altro grido: « Destati, ferro!»

Arnau non riusciva a staccare gli occhi dai mercenari. Presto si ritrovarono a gridare tutti, all'unisono.

«Destati, ferro! Destati, ferro!»

Cominciarono a incrociare le lance e le lame fino a quando il suono del metallo non coprì le loro voci.

«Destati, ferro!»

E il ferro cominciò a destarsi: più le armi s'incrociavano e cozzavano le une contro le altre o contro la roccia, più sprigionavano scintille. Il frastuono atterrì Arnau. A poco a poco le scintille, centinaia, migliaia di scintille, squarciarono il buio, e gli almogavari apparvero rischiarati da un'aura luminosa.

Arnau si sorprese a sferzare l'aria con la propria balestra.

«Destati, ferro!» gridava. Non sudava più, e non tremava neanche. « Destati, ferro!»

Guardò verso le mura: sembrava dovessero crollare sotto le grida degli almogavari. Il terreno tremava e la luce delle scintille cresceva tutto attorno a loro. D'un tratto squillò una tromba e le grida si trasformarono in un urlo raggelante: « Sant Jordi! Sant Jordi!»

«Adesso!» gli gridò l'ufficiale spingendolo in avanti, dietro duecento uomini che si lanciavano ferocemente all'assalto.

Arnau corse ad appostarsi dietro i massi ai piedi della fortezza, insieme all'ufficiale e a un corpo di balestrieri. Si concentrò su una delle scale che gli almogavari avevano appoggiato contro le mura e cercò di prendere di mira le figure che dai merli lottavano per impedire l'assalto dei mercenari, i quali, dal canto loro, continuavano a strillare come ossessi. E lo fece. In due occasioni raggiunse i corpi dei difensori, nel punto in cui la cotta di maglia non li proteggeva, e li vide sparire all'impatto con la freccia.

Un gruppo di assaltatori riuscì a superare le mura della fortezza e Arnau si accorse che l'ufficiale gli stava dando pacche sulla spalla cercando di richiamare la sua attenzione perché smettesse di tirar frecce. L'ariete non fu necessario. Quando gli almogavari raggiunsero i merli, le porte del castello si aprirono e vari cavalieri fuggirono al galoppo per non essere presi in ostaggio. Due di loro caddero sotto le balestre catalane; gli altri riuscirono ad allontanarsi. Alcuni degli occupanti, orfani del312

l'autorità, si arresero. Eiximèn d'Esparça e i suoi cavalieri entrarono nel castello con i loro cavalli da guerra e uccisero quanti continuavano a opporsi. Poi, di corsa, entrarono gli uomini a piedi.

Arnau si bloccò appena ebbe varcato le mura, con la balestra appesa alla spalla e il pugnale in mano: ormai non servivano più. Il cortile del castello era pieno di cadaveri e chi non era morto restava fermo, in ginocchio, disarmato e supplicante, tra i cavalieri che scorrazzavano sullo spiazzo con le spade sguainate. Gli almogavari si diedero al saccheggio; alcuni sulla torre, altri frugando tra i cadaveri con un'avidità che costrinse Arnau a distogliere lo sguardo. Uno dei mercenari andò verso di lui e gli porse un pugno di frecce: alcune erano quelle dei colpi non andati a segno, molte erano sporche di sangue, e altre avevano ancora attaccati dei pezzi di carne. Arnau esitò. L'almogavaro, un uomo ormai anziano, secco come le frecce che offriva, se ne stupì, ma poi sorrise mostrando una bocca sdentata e diede le frecce a un altro soldato.

«Cosa fai? » chiese quest'ultimo ad Arnau. « Speri forse che sia Eiximèn a dartene di nuove? Puliscile», gli disse, gettandogliele ai piedi.

Nel giro di poche ore tutto finì. Gli uomini vennero raggruppati e legati per le mani. Quella notte sarebbero stati venduti come schiavi alla carovana che seguiva l'esercito. Le truppe di Eiximèn d'Esparça, trasportando i loro feriti, si rimisero in marcia per raggiungere il re. Si lasciavano dietro diciassette catalani morti e una fortezza in fiamme che non sarebbe mai più servita ai seguaci di re Giacomo III.

30

Eiximèn d'Esparça e i suoi uomini raggiunsero l'esercito reale nei pressi della cittadina di Elna, l'Orgogliosa, a sole due leghe da Perpignan, nella cui periferia il re decise di passare la notte. Lì ricevette la visita di un altro vescovo che, ancora una volta e inutilmente, cercò di mediare a nome di Giacomo di Maiorca.

Benché il sovrano non si fosse opposto alla presa del castello di Bellaguarda da parte di Eixemèn d'Esparca e degli almogavari, cercò di impedire che, lungo il tragitto per Elna, un altro gruppo di cavalieri prendesse con le armi la torre di Nidoleres. Ciò nonostante, quando il sovrano arrivò sul posto, i cavalieri l'avevano già assaltato, uccidendo gli abitanti e dando alle fiamme la fortificazione.

Al contrario, nessuno osò avvicinarsi a Elna e tanto meno infastidire i suoi abitanti.

L'intero esercito si riunì attorno ai fuochi da campo, guardando le luci della città. Le porte erano rimaste aperte, in chiaro segno di provocazione nei confronti dei catalani.

«Perché...?» cominciò a chiedere Arnau seduto accanto al fuoco.

«L'Orgogliosa? » lo interruppe uno dei veterani più anziani.

«Sì. Perché viene rispettata? E perché non chiude le sue porte?»

Il veterano guardò la città prima di rispondere.

«L'Orgogliosa è un peso che abbiamo sulla coscienza... Parlo della coscienza catalana. Sanno che non ci avvicineremo.» Tacque.

Arnau aveva imparato a rispettare il comportamento dei soldati. Sapeva che, se lo avesse incalzato, l'avrebbe trattato con disprezzo e non gli avrebbe più detto niente. A tutti i veterani piaceva coltivare i propri ricordi e le proprie storie, vere o false, esagerate o no che fossero» Mantenere alta la curiosità era una delle loro manie.

314

Alla fine, riprese il discorso: « Nella guerra contro i francesi, quando Elna ancora ci apparteneva, Pietro il Grande promise di difenderla e le mandò un distaccamento di cavalieri catalani. Questi però la tradirono: fuggirono durante la notte e lasciarono la città alla mercé del nemico». Il veterano sputò nel fuoco. « I francesi profanarono le chiese, assassinarono i bambini lanciandoli contro i muri, stuprarono le donne e giustiziarono tutti gli uomini... tranne uno. La carneficina di Elna pesa ancora sulla nostra coscienza. Nessun catalano oserà mai avvicinarsi alla città.»

Arnau guardò di nuovo le porte aperte dell'Orgogliosa. Poi osservò i diversi gruppi che formavano l'accampamento: c'era sempre qualcuno che guardava verso Elna in silenzio.

«Chi venne risparmiato? » chiese poi, infrangendo la regola che si era imposto.

Il veterano lo scrutò attraverso il fuoco. « Un uomo che si chiama Bastard di Rosselló.» Arnau aspettò che l'uomo si decidesse a proseguire.

«Anni dopo, fu lui a guidare le truppe francesi attraverso il passo della Maçana per invadere la Catalogna.»

L'esercito dormì all'ombra delle mura della città di Elna.

E così fecero, appartate, le centinaia di persone che lo seguivano. Francesca guardò Aledis. Era quello il momento giusto? La storia di Elna era circolata per tende e capanne, e nell'accampamento regnava un silenzio inusuale. Lei stessa aveva guardato diverse volte le porte aperte dell'Orgogliosa. Sì, si trovavano in una terra inospitale; nessun catalano sarebbe stato ben accolto a Elna o nei suoi dintorni. Aledis era ormai lontana da casa. Doveva sentirsi sola.

«Il tuo Arnau è morto», le disse dopo averla mandata a chiamare.

La ragazza crollò. Francesca la vide quasi rimpicciolire dentro il vestito verde: si portò le mani al viso e il suo pianto ruppe quello strano silenzio.

«Co... come è successo? » chiese dopo un po'.

«Mi hai mentito», si limitò a risponderle Francesca, freddamente.

315

Aledis la guardò, con gli occhi pieni di lacrime, scossa dai singhiozzi, tremando. Poi abbassò gli occhi.

«Mi hai mentito», ripeté Francesca.

Aledis non ribatté.

«Vuoi sapere com'è successo? L'ha ucciso tuo marito, quello vero, il maestro conciatore.»

Pau? Impossibile! Aledis alzò la testa. Era impossibile che quel vecchio...

«Si è presentato nell'accampamento reale accusando un certo Arnau di averti rapito», proseguì Francesca, interrompendo i pensieri della giovane. Voleva vedere come avrebbe reagito. Arnau le aveva raccontato che aveva paura del marito. « Il ragazzo ha negato e tuo marito l'ha sfidato a duello.»

Aledis cercò di intervenire: come poteva Pau sfidare qualcuno?

«Ha pagato un ufficiale perché combattesse per lui», proseguì Francesca, zittendola. « Non lo sapevi? Quando qualcuno è troppo vecchio per combattere, può assoldare un altro perché lo faccia al posto suo. Il tuo Arnau è morto per difendere il suo onore.»

Aledis fu presa dalla disperazione. Tremava. A poco a poco le cedettero le gambe e cadde in ginocchio, davanti a lei, ma Francesca non si impietosì.

«Mi hanno riferito che tuo marito ti sta cercando.»

Aledis si portò di nuovo le mani al viso.

«Dovrai andartene di qui. Antònia ti ridarà i tuoi vestiti.»

Ecco lo sguardo che sperava di vedere: paura, panico!

Le domande si accalcavano nella testa di Aledis: Cosa avrebbe fatto? Dove poteva andare? Barcellona era all'altro capo del mondo e, in ogni caso, cosa le restava più laggiù? Arnau, morto! Il viaggio da Barcellona a Figueras le passò davanti agli occhi in un lampo e tornò a sentire in tutte le membra l'orrore, l'umiliazione, la vergogna... il dolore. E Pau la stava cercando!

«No...» provò a dire. « Non ce la farei!»

«Non voglio guai», le rispose Francesca con gravità.

«Proteggetemi!» supplicò. « Non so dove andare, non so a chi rivolgermi...» Singhiozzava. S'inginocchiò davanti a Francesca, senza il coraggio di guardarla.

«Non potrei farlo. Sei incinta!»

316

«È un'altra bugia!» gridò la ragazza.

Strisciando, era arrivata fino alle sue gambe. Francesca non si mosse.

«Cosa saresti disposta a fare, in cambio?»

«Quello che vorrete!» gridò Aledis.

Francesca dissimulò un sorriso. Era la promessa che sperava di sentire. Quante volte l'aveva strappata ad altre ragazze come Aledis?

«Quello che vorrete!» ripeté questa. « Proteggetemi, nascondetemi da mio marito e io farò qualsiasi cosa desideriate.»

«Lo sai cosa siamo», insistette la mezzana.

Che importanza aveva? Arnau era morto. Non aveva più niente, non le restava niente... a parte un marito che l'avrebbe lapidata, se mai l'avesse trovata.

«Nascondetemi, ve ne prego. Farò tutto quello che vorrete!» ripeté Aledis.

Francesca ordinò che Aledis non si mescolasse con i soldati: Arnau era conosciuto tra le fila dell'esercito.

«Lavorerai nascosta», le disse il giorno dopo, quando si accingevano a ripartire. «Non vorrei che tuo marito...»

Aledis annuì ancor prima che terminasse la frase.

«Non devi farti vedere finché la guerra non sarà finita.»

Aledis annuì di nuovo.

Quella stessa notte, Francesca mandò un messaggio ad Arnau: « Tutto sistemato. Non ti darà più alcun pensiero».

Il giorno dopo, invece di convergere su Perpignan, dove si trovava re Giacomo di Maiorca, Pietro III decise di proseguire verso il mare, verso la cittadella di Canet, dove Ramon, visconte del luogo, avrebbe dovuto cedergli il castello in virtù del vassallaggio che gli aveva giurato dopo la conquista di Maiorca. Il monarca catalano, dopo la fuga di re Giacomo, gli aveva ridato la libertà in cambio della resa del castello di Bellver.

Così avvenne. Il visconte di Canet consegnò il castello a re Pietro e l'esercito poté riposare e mangiare in abbondanza grazie alla generosità della gente del posto, fiduciosa che i catalani

317

levassero presto le tende per dirigersi a Perpignan. Nello stesso tempo, il re poté approntare una testa di ponte con la sua armata, che approvvigionò immediatamente.

Stabilitosi a Canet, Pietro ricevette un nuovo mediatore: in questo caso si trattava niente meno che di un cardinale, il secondo che intercedeva per Giacomo di Maiorca. Neanche a lui prestò ascolto, lo congedò e cominciò a studiare con i propri consiglieri il modo migliore per assediare la città di Perpignan. Mentre il re aspettava i rifornimenti via mare e li immagazzinava nel castello di Canet, l'esercito catalano rimase sei giorni nella cittadella e, per ingannare l'attesa, prese i castelli e le fortezze che si trovavano tra Canet e Perpignan.

La host di Manresa prese nel nome di re Pietro il castello di Santa Maria del Mar, altre compagnie assaltarono il castello di Castellarnau Sobirà, ed Eiximèn d'Esparça, con i suoi almogavari e altri cavalieri, assediò e prese Castell-Rosselló.

Castell-Rosselló non era una semplice postazione di frontiera come Bellaguarda, ma costituiva uno degli avamposti difensivi della capitale della contea del Rosellón. Si sentirono di nuovo le grida di guerra e il cozzare delle lance degli almogavari, accompagnati stavolta dagli urli di guerra di alcune centinaia di soldati desiderosi di dare battaglia. La fortezza non cadde con la stessa facilità di Bellaguarda; la lotta sulle mura fu accanita e il ricorso agli arieti per abbattere le difese indispensabile.

I balestrieri furono gli ultimi a oltrepassare le porte aperte del castello. La situazione era completamente diversa rispetto all'assalto di Bellaguarda: soldati e civili, comprese donne e bambini, difendevano la piazza con la vita. All'interno, li aspettava un feroce combattimento corpo a corpo.

Mettendo da parte la balestra, Arnau impugnò il coltello. Intorno a lui combattevano centinaia di persone. Fu il sibilo di una spada a introdurlo nella battaglia. Istintivamente si scostò e vide che la lama gli aveva sfiorato il fianco. Con la mano libera, afferrò il polso che impugnava la spada e affondò il pugnale. Lo fece in modo meccanico, come gli aveva spiegato l'ufficiale di Eiximèn d'Esparça nelle sue interminabili lezioni. Gli avevano insegnato a combattere; gli avevano insegnato a uccidere, ma nessuno gli aveva insegnato come affondare un pugnale nell'addome di un uomo. La cotta della maglia del suo nemico resi318

stette alla pugnalata e, benché avesse il polso bloccato, quel difensore fece roteare la spada con forza e ferì Arnau a una spalla.

Fu questione di pochi istanti, quanto bastava perché Arnau capisse di dover uccidere.

Strinse il pugnale con ferocia: la lama trapassò la cotta e affondò nello stomaco del nemico. La spada si indebolì ma continuò a roteare, pericolosa. Arnau spinse in alto il pugnale, e la sua mano sentì il calore delle viscere. Il corpo del nemico si alzò dal suolo, la lama squarciò il ventre, la spada cadde a terra e Arnau si ritrovò la faccia del rivale sulla propria. Quelle labbra così vicine si mossero. Stava cercando di dirgli qualcosa? Malgrado il fragore del combattimento, Arnau sentì i suoi rantoli. Pensava a qualcosa? Vedeva la morte? Gli occhi strabuzzati sembravano volergli dare un avvertimento, e Arnau si girò proprio mentre un altro difensore di Castell-Rosselló si avventava su di lui.

Non esitò. Il suo pugnale fendette l'aria e sgozzò il nuovo avversario. Smise di pensare, e fu lui stesso a cercare ancora la morte. Combatté e gridò. Colpì e affondò l'arma nella carne del nemico, ripetute volte, senza badare ai volti e al dolore.

Uccise.

Quando tutto fu terminato e i difensori di Castell-Rosselló si arresero, Arnau si ritrovò insanguinato e tremante per la fatica.

Si guardò attorno, e i cadaveri gli fecero tornare in mente la battaglia. Non aveva avuto modo di osservare i suoi avversari, non aveva potuto partecipare al loro dolore o aver pietà per le loro anime. Da quel momento in poi, le facce che non aveva visto, accecato dal sangue, cominciarono ad apparirgli, reclamando i loro diritti, gli onori di guerra. In futuro, Arnau avrebbe ricordato spesso l'immagine offuscata dei volti di quanti erano morti sotto il suo pugnale.

A metà agosto l'esercito era ancora accampato tra il castello di Canet e il mare. Arnau aveva preso parte all'assalto di Castell-Rosselló il 4 agosto. Due giorni dopo re Pietro III fece partire le sue truppe e per una settimana, poiché la città di Perpignan non gli aveva reso omaggio, gli eserciti catalani si dedicarono a devastare i dintorni della capitale del Rosellón: Bezolles, Le

319

Vernet, Le Soler, Sant Esteve... L'esercito spiegato per ordine del re distrusse vigne, uliveti e abbatté tutti gli alberi che trovò sulla sua strada, risparmiando solo i fichi, forse per un capriccio del Cerimonioso. Bruciò mulini e raccolti, devastò campi coltivati e borghi, ma non arrivò mai ad assediare la capitale Perpignan, dove re Giacomo si era rifugiato.

15 agosto 1343

Messa solenne da campo

Tutto l'esercito, radunato sulla spiaggia, rendeva omaggio alla Madonna del Mare. Pietro III aveva ceduto alle pressioni del Santo Padre e stretto una tregua con Giacomo di Maiorca. La voce corse fra le truppe. Arnau non ascoltava il sacerdote; del resto erano in pochi a farlo, anche se la maggior parte dei presenti aveva un'espressione contrita. La Madonna non riusciva a consolare Arnau. Aveva ucciso, abbattuto alberi, devastato vigne e campi coltivati sotto gli occhi spaventati dei contadini e dei loro figli, aveva distrutto interi borghi e con essi le case di gente per bene. Re Giacomo aveva ottenuto la sua tregua e re Pietro aveva ceduto. Arnau ricordò le arringhe che aveva ascoltato nella chiesa di Santa Maria del Mar: « La Catalogna ha bisogno di voi! Re Pietro ha bisogno di voi! Andate alla guerra!»

Ma di quale guerra parlavano? Quella era stata solo una grande carneficina, una serie di scaramucce in cui gli unici a rimetterci erano stati uomini umili, soldati leali... e i bambini, che avrebbero patito la fame tutto l'inverno successivo per la mancanza di grano. Di quale guerra parlavano? Quella che aveva risparmiato vescovi e cardinali, intrallazzatori di re scaltri? Il sacerdote proseguiva con l'omelia, ma Arnau non ascoltava più le sue parole. Perché aveva dovuto uccidere? A cosa servivano i suoi morti?

La messa finì, e i soldati si dispersero in piccoli gruppi.

«E il bottino che ci avevano promesso?»

«Perpignan è ricca, ricchissima», sentì Arnau.

«Come farà il re a pagare i suoi soldati, se non poteva farlo neanche prima?»

Arnau deambulava tra i gruppi di uomini. Cosa gliene im320

portava, del bottino? Era lo sguardo dei bambini a preoccuparlo; quello del piccino che, stringendo la mano della sorella, era rimasto a guardare mentre lui e un gruppo di soldati gli devastavano l'orto e sparpagliavano ovunque il grano di cui si sarebbero dovuti cibare durante l'inverno. Perché? gli chiedevano quegli occhi innocenti. Cosa vi abbiamo fatto di male? Probabilmente erano i bambini a badare all'orto, ecco perché erano rimasti lì, con le lacrime che rigavano le loro guance, finché il grande esercito catalano aveva distrutto le poche cose che possedevano. Quando avevano terminato, Arnau non era più riuscito a guardarli.

L'esercito tornava a casa. Le colonne di soldati si riversavano nei campi della Catalogna, accompagnati da biscazzieri, prostitute e mercanti delusi dai guadagni che non avrebbero più realizzato.

Barcellona era sempre più vicina. Le diverse hosts del principato tornavano ai rispettivi luoghi d'origine; altre avrebbero attraversato la città comitale. Arnau notò che i suoi compagni acceleravano l'andatura, proprio come aveva fatto lui. Sulle facce dei soldati tornò il sorriso. Erano di nuovo a casa. Cammin facendo, gli apparve il volto di Maria. « Tutto sistemato», gli avevano mandato a dire. « Aledis non ti darà più alcun pensiero.» Non desiderava altro, era l'unico motivo per cui se n'era andato. Il volto di sua moglie cominciò a sorridergli.

31

Fine di marzo del 1348 Barcellona

Spuntava l'alba. Arnau e i bastaixos, in piedi sulla spiaggia, aspettavano che fosse scaricata una galera maiorchina approdata durante la notte, e i probiviri della confraternita davano disposizioni ai loro uomini. Il mare era calmo e le onde lambivano delicatamente la riva, chiamando i cittadini di Barcellona a una nuova giornata di lavoro. Il sole cominciava a graffiare bagliori colorati là dove le acque si increspavano, e mentre aspettavano l'arrivo dei barcaioli con le merci i bastaixos sì lasciavano rapire dall'incanto del momento, con lo sguardo perso all'orizzonte e lo spirito che danzava insieme al mare.

«Che strano!» si levò dal gruppo, « non scaricano.»

Tutti fissarono la propria attenzione sulla galera. I barcaioli le si erano avvicinati e alcuni di loro tornavano verso la spiaggia senza carico; altri comunicavano gridando con i marinai della coperta, alcuni dei quali si tuffavano in acqua e salivano sulle chiatte. Nessuno però scaricava la merce.

«La peste!» Le grida dei primi barcaioli arrivarono sulla spiaggia molto prima che approdassero le barche. « La peste è arrivata a Maiorca!»

Arnau rabbrividì. Com'era possibile che un mare così bello gli portasse una simile notizia? Se fosse stato un giorno grigio, di tempesta... Ma quella mattina tutto sembrava magico. Per mesi era stato l'argomento di conversazione dei barcellonesi: la peste flagellava il Lontano Oriente, ma da lì si diffondeva verso occidente, devastando intere comunità.

«Può darsi che non arrivi fin qui», dicevano alcuni. « Deve prima attraversare tutto il Mediterraneo.»

«Il mare ci proteggerà », sostenevano altri.

Per mesi la gente aveva cercato di convincersene: la peste non sarebbe mai arrivata a Barcellona.

Maiorca, pensò Arnau. Era arrivata a Maiorca. Quel flagello aveva attraversato leghe e leghe di mare.

322

«La peste!» ripeterono i barcaioli quando furono a riva.

I bastaixos si fecero attorno a loro per ascoltare le notizie che portavano. Su una barca viaggiava il pilota della galera.

«Portatemi dal governatore e dai consiglieri della città », ordinò raggiungendo con un balzo la spiaggia. « Presto!»

I probiviri esaudirono la sua richiesta; gli altri rimasero intorno ai nuovi arrivati. « Muoiono a centinaia», raccontavano questi. « È orribile, nessuno può farci niente. Uomini, donne e bambini, ricchi e poveri, nobili e gente umile... Persino le bestie sono contagiate dalla piaga. I cadaveri si ammucchiano nelle strade e si decompongono, e le autorità non sanno più cosa fare. La gente muore in meno di due giorni tra grida di dolore spaventose.»

Alcuni bastaixos corsero verso la città, urlando e gesticolando. Arnau ascoltava, spaventato. Dicevano che agli appestati venivano grossi bubboni purulenti su collo, ascelle e inguine, che si gonfiavano fino a scoppiare.

La notizia corse per la città e furono in tanti ad avvicinare il gruppo della spiaggia per ascoltare qualcosa e poi tornare di corsa alle proprie case.

Tutta Barcellona cominciò a ribollire di voci: «Quando i bubboni esplodono, ne escono demoni. Gli appestati impazziscono e mordono la gente; è così che si trasmette la malattia. Gli occhi e i genitali si gonfiano fino a scoppiare. Se per sbaglio guardi i bubboni, ne sei contagiato. Bisogna bruciarli prima che muoiano, perché altrimenti la malattia aggredisce altre persone. Io l'ho vista, la peste!»

Chiunque esordisse con queste parole attirava immediatamente l'attenzione generale e la gente gli si accalcava attorno per ascoltare la sua storia; poi, il terrore e la fantasia si moltiplicavano sulla bocca dei cittadini ignari di cosa li aspettasse. La municipalità, come unica precauzione, ordinò massima attenzione all'igiene, e la gente si riversò nei bagni pubblici... oltre che nelle chiese. Messe, rogazioni, processioni: qualsiasi cosa pur di arrestare il pericolo che gravava sulla città comitale. Eppure, dopo un mese di agonia, la peste arrivò a Barcellona.

Il primo fu un calafato che lavorava al cantiere navale. I medici corsero al suo capezzale, ma l'unica cosa che poterono fare fu accertare quanto avevano letto su libri e trattati.

323

«Hanno le dimensioni di piccoli mandarini», disse uno indicando i grandi bubboni che l'uomo presentava sul collo.

«Neri, duri e caldi», aggiunse un altro dopo averli toccati.

«Pezze imbevute di acqua fredda per abbassare la febbre.»

«Bisogna salassarlo. Se lo salassiamo, spariranno gli ematomi attorno ai bubboni.»

«Bisogna incidere i bubboni», consigliò un terzo.

Gli altri medici si allontanarono dall'infermo e guardarono colui che aveva appena parlato.

«I libri dicono di non farlo», ribatté uno.

«In fin dei conti», disse un altro, « è solo un calafato. Controlliamogli inguini e ascelle.»

Anche lì presentava grandi bubboni neri, duri e caldi. Tra grida di dolore, il paziente venne salassato e la poca vita che ancora aveva gli uscì dai tagli che i medici gli praticarono su tutto il corpo.

Quello stesso giorno si registrarono nuovi casi. Il giorno dopo altri, e altri ancora il giorno successivo. I barcellonesi si chiusero nelle loro case, dove alcuni sarebbero morti fra terribili sofferenze; altri, per paura del contagio, venivano abbandonati per strada, dove agonizzavano fino a quando non sopraggiungeva la morte. Le autorità ordinarono di contrassegnare con una croce di calce le porte delle case in cui si era verificato un caso di peste. Insistettero sull'igiene personale, sulla necessità di evitare il contatto con gli appestati, e stabilirono che i cadaveri venissero bruciati in grandi pire. I cittadini si sfregarono la pelle fino a strapparsela, e chi poteva si tenne lontano dai malati. Ciò nonostante, nessuno cercò di prendere le misure adeguate riguardo alle pulci e, di fronte all'incredulità di medici e autorità, il contagio seguitò a diffondersi.

Passavano le settimane, e Arnau e sua moglie, come molte altre persone, si recavano ogni giorno nella chiesa di Santa Maria per reiterare delle preghiere che il cielo non ascoltava. Per colpa dell'epidemia continuavano a perdere amici cari, come il buon padre Albert. La peste s'accanì sui vecchi Pere e Mariona, tra i primi a morire sotto la piaga funesta. Il vescovo organizzò una processione lungo tutto il perimetro della città: sarebbe uscita dalla cattedrale per scendere lungo via del Mar fino a Santa Maria, dove la Madonna del Mare si sarebbe unita al cor324

teo protetta dal baldacchino, per poi proseguire lungo il tragitto previsto.

La Madonna aspettava nella piazza della chiesa, insieme ai bastaixos che l'avrebbero sorretta. Gli uomini si guardavano l'un l'altro, mentre si chiedevano in silenzio dove fossero i compagni assenti. Nessuno rispondeva. Serravano le labbra e abbassavano gli occhi. Arnau ricordò le grandi processioni in cui si portava in giro la patrona e loro facevano a gara per avvicinarsi alla macchina. I probiviri dovevano mettere ordine e stabilire dei turni perché tutti potessero avere l'onore di sorreggere la Vergine, mentre ora... non c'erano neanche abbastanza uomini per darsi il cambio. Erano morti in tanti? Quanto durerà ancora, Signora? si chiese. Il vociare delle preghiere del popolo scese lungo via del Mar. Arnau guardò la testa della processione: la gente camminava a capo chino, trascinando i piedi. Dov'erano i nobili che si univano sempre al vescovo in tutta la loro pompa? Quattro dei cinque consiglieri della città erano morti; tre quarti dei membri del Consiglio dei Cento avevano conosciuto la stessa sorte; gli altri erano fuggiti dalla città. I bastaixos sollevarono in silenzio la loro Madonna, se la caricarono sulle spalle, lasciarono passare il vescovo e si unirono alla processione e alle preghiere. Da Santa Maria proseguirono fino al convento di Santa Clara, passando per la piazza del Born. A Santa Clara, e malgrado l'incenso dei sacerdoti, li investì il fetore della carne bruciata e in molti passarono dalle orazioni al pianto. All'altezza della porta di Sant Daniel svoltarono a sinistra, diretti alla porta Nou e al monastero di Sant Pere de les Puelles; schivarono qualche altro cadavere ed evitarono di guardare gli appestati che aspettavano di morire nei crocevia o davanti alle porte contrassegnate con una croce bianca, porte che non sarebbero mai tornate ad aprirsi per loro. Signora, pensò Arnau con la macchina sulle spalle, perché tanta sciagura? Da Sant Pere proseguirono in preghiera fino alla porta di Santa Anna, dove girarono ancora a sinistra, verso il mare, fino al quartiere del Forn dels Arcs, e poi tornarono verso la cattedrale.

La gente però cominciava a dubitare dell'efficacia della Chiesa e delle sue autorità: pregavano fino allo stremo delle forze, ma la peste continuava a fare strage.

325

«Dicono che sia la fine del mondo», si lamentò un giorno Arnau rientrando in casa. « Tutta Barcellona è impazzita. I flagellanti, così si fanno chiamare.» Maria gli dava le spalle. Lui si sedette aspettando che la moglie gli togliesse le scarpe e continuò a parlare: « Vanno per le strade a centinaia, a torso nudo, e gridano che si avvicina il giorno del giudizio finale, confessano i loro peccati ai quattro venti e si flagellano la schiena con la frusta. Alcuni sono arrivati alla carne viva e continuano...» Arnau accarezzò la fronte di Maria, inginocchiata davanti a lui. Scottava. « Cosa...? » Cercò il mento della moglie con la mano. Non era possibile... Non lei! Maria alzò gli occhi vitrei verso di lui. Sudava e aveva la faccia congestionata. Arnau cercò di sollevarle ancora di più il mento per vederle il collo, ma lei fece una smorfia di dolore.

«Tu no!» esclamò Arnau.

Maria, inginocchiata, con le mani sulle pantofole di sparto del marito, guardò fisso Arnau mentre le lacrime cominciavano a rigarle le guance.

«Dio, tu no! Dio!» Arnau si inginocchiò accanto a lei.

«Vattene, Arnau», balbettò Maria. «Non restare con me.»

Arnau cercò di abbracciarla, ma quando la prese per le spalle Maria ripeté una smorfia di dolore.

«Vieni», le disse, sollevandola quanto più dolcemente poteva, mentre Maria, singhiozzando, insisteva perché se ne andasse. «Come faccio a lasciarti? Sei tutto quello che ho... l'unica cosa che ho! Cosa potrei fare senza di te? Alcuni guariscono, Maria. Tu guarirai. Tu guarirai.» Cercando di consolarla la portò in braccio fino in camera e la sdraiò sul letto. Lì poté vederle il collo, un collo che ricordava bello e che adesso stava cominciando ad annerire. « Un medico!» gridò, spalancando la finestra e affacciandosi al balcone.

Nessuno parve sentirlo. Tuttavia, quella stessa notte, quando i bubboni cominciarono a invadere il collo di Maria, qualcuno gli tracciò una croce di calce sulla porta.

Arnau non poté fare altro che mettere delle pezze bagnate in acqua fredda sulla fronte della moglie. Distesa nel letto, la donna batteva forte i denti. Non riusciva più a muoversi senza provare dolori terribili, e i suoi sordi lamenti facevano accapponare la pelle ad Arnau. Maria teneva gli occhi inchiodati al soffitto, e

326

Arnau vide che le aumentavano i bubboni del collo e la pelle anneriva. Ti amo, Maria, quante volte avrei voluto dirtelo? pensò. Le prese la mano e si inginocchiò accanto al letto. Passò la notte così, tenendo la mano di sua moglie, tremando e sudando insieme a lei, invocando il cielo a ogni spasimo che la scuoteva.

L'avvolse nel lenzuolo più bello che avevano e aspettò che passasse il carro dei morti. Non l'avrebbe lasciata sulla strada, e l'avrebbe consegnata lui stesso ai monatti. E così fece. Quando sentì lo stanco scalpitare degli zoccoli del cavallo, sollevò il cadavere di Maria e lo portò in strada.

«Addio», le disse baciandola sulla fronte.

I due monatti, inguantati e con i volti coperti da spessi panni, guardarono sorpresi Arnau che scopriva il volto di Maria e la baciava. Nessuno voleva avvicinarsi agli appestati, neppure i parenti, che li lasciavano sulla strada o, spesso, chiamavano loro perché li portassero via dai letti in cui erano morti. Arnau consegnò la moglie ai monatti i quali, impressionati, cercarono di deporla con dolcezza sulla decina di cadaveri che trasportavano.

Con le lacrime agli occhi, Arnau guardò il carro che si allontanava fino a perdersi nelle strade di Barcellona. Lui sarebbe stato il prossimo: entrò in casa e si sedette ad aspettare la morte, desideroso di ricongiungersi a Maria. Per tre giorni interi attese l'arrivo della peste, palpandosi continuamente il collo in cerca di un gonfiore che non trovava. I bubboni non apparvero e Arnau si convinse che, per il momento, il Signore non lo avrebbe chiamato a sé, accanto alla moglie.

Allora andò alla spiaggia, scalciando le onde che si avvicinavano alla città maledetta; vagò per Barcellona indifferente alla miseria, ai malati e ai singhiozzi che uscivano dalle finestre delle case. Poi qualcosa lo richiamò verso la chiesa di Santa Maria. I lavori erano stati interrotti, i ponteggi erano vuoti, i massi giacevano a terra, in attesa che qualcuno li intagliasse, ma la gente continuava a recarsi a messa. Entrò. I fedeli si raccoglievano attorno all'incompiuto altare maggiore, in piedi o inginocchiati, pregando. Benché la chiesa fosse ancora scoperta sotto le absidi

327

in costruzione, l'atmosfera era greve dell'incenso bruciato per smorzare gli effluvi di morte che accompagnavano la folla. Quando stava per avvicinarsi alla sua Madonna, sentì un sacerdote che si rivolgeva ai fedeli dall'altare maggiore.

«Sappiate», disse loro, « che il nostro sommo pontefice, papa Clemente VI, ha emanato una bolla in cui nega che gli ebrei possano essere la causa della piaga. La malattia è solo una pestilenza con cui il Signore affligge il popolo cristiano.» Un brusio di disapprovazione si levò dai convenuti. « Pregate», proseguì il sacerdote, « raccomandatevi al Signore...»

Molti di loro lasciarono Santa Maria discutendo animatamente.

Arnau dimenticò il sermone e andò verso la cappella dell'Altissimo. Gli ebrei? E cosa c'entravano gli ebrei con la peste? La sua piccola Madonna lo aspettava nello stesso luogo di sempre, e i ceri dei bastaixos le tenevano ancora compagnia. Chi poteva averli accesi? Eppure, Arnau riusciva a malapena a scorgere sua madre, tanto era densa la nube d'incenso che gli turbinava attorno. Non la vide sorridere. Voleva pregare, ma non ci riuscì. Perché lo permetti, madre? Pianse altre lacrime ricordando Maria, la sua sofferenza, il corpo abbandonato al dolore, i bubboni che l'avevano devastato. Era stato un castigo, ma era lui che lo meritava, era lui che aveva peccato, tradendola con Aledis.

E lì, davanti alla Madonna, giurò che non avrebbe mai più ceduto alla lussuria. Lo doveva a sua moglie. Qualsiasi cosa fosse successa. Mai più.

«Qualcosa non va, figliolo?»

Arnau si girò e si trovò davanti il sacerdote che qualche istante prima si era rivolto ai fedeli.

«Ciao, Arnau», lo salutò quando ebbe visto che era uno dei bastaixos che si votavano alla costruzione della chiesa. « Qualcosa non va? » ripeté.

«Maria.»

Il sacerdote annuì.

«Preghiamo per lei», lo incoraggiò.

«No, padre», rifiutò Arnau, « non ancora.»

«Solo in Dio puoi trovare conforto.»

328

Conforto? Come faceva a trovare conforto in qualcosa? Arnau cercò di vedere la sua Madonna, ma il fumo dell'incenso, ancora una volta, glielo impedì.

«Preghiamo...» insistette il sacerdote.

«Cosa significava quel riferimento agli ebrei? » lo interruppe Arnau in cerca di una scappatoia.

«Tutta Europa è convinta che la peste sia colpa loro.»

Arnau lo interrogò con lo sguardo.

«Dicono che a Ginevra, nel castello di Chillon, alcuni di loro abbiano confessato che la peste è stata diffusa da un ebreo della Savoia che avvelenava i pozzi con un intruglio preparato dai rabbini.»

«Ed è vero? » gli chiese Arnau.

«No. Il papa li ha scagionati, ma la gente cerca comunque dei colpevoli. Preghiamo, adesso?»

«Fatelo voi per me, padre.»

Arnau lasciò la chiesa. Nella piazza si trovò circondato da un gruppo di una ventina di flagellanti. « Pentiti!» gridavano mentre si colpivano spietatamente con la frusta. « È la fine del mondo!» gridarono altri, sputandogli in faccia le parole.

Arnau vide il sangue che colava sulle schiene scarnificate e scendeva sulle gambe, sui fianchi cinti dai cilici. Osservò le loro facce e gli occhi strabuzzati che lo guardavano. Scappò verso via Montcada finché non smise di sentire le loro grida. Lì regnava il silenzio, eppure c'era qualcosa... Le porte! Solo pochi dei grandi portoni d'ingresso ai palazzi di via Montcada mostravano la croce bianca che stimmatizzava la maggior parte degli usci della città. Arnau si ritrovò davanti al palazzo dei Puig. Neanche lì c'era la croce bianca: le finestre erano chiuse e da dentro non arrivava alcun rumore. Si augurò che la peste li trovasse, ovunque si fossero rifugiati, che soffrissero come aveva sofferto la sua Maria. Fuggì di lì ancora più in fretta di quanto fosse scappato dai flagellanti.

Quando arrivò all'incrocio con Carders, s'imbattè di nuovo in una folla esaltata, in questo caso armata di pali, spade e balestre. Sono tutti impazziti, pensò Arnau spostandosi al passaggio della gente. A poco erano serviti i sermoni pronunciati in tutte le chiese della città. La bolla di Clemente VI non aveva rappacificato gli animi di un popolo che aveva bisogno di qual329

cuno su cui scaricare la propria rabbia. « Al quartiere ebraico!» sentì che gridavano. « Eretici! Assassini! Pentitevi!» Erano arrivati anche i flagellanti, e continuavano a frustarsi la schiena, schizzando di sangue la folla intorno, sempre più esaltata.

Arnau si mise dietro l'orda, e tra quanti la seguivano in silenzio poté scorgere qualche appestato. Tutta Barcellona si ritrovò intorno al ghetto e circondò sui quattro lati il quartiere delimitato da una bassa muraglia. Alcuni si misero a nord, accanto al palazzo del vescovo, altri a ovest, di fronte alle antiche mura romane della città; altri si piazzarono nella via del Bisbe, che confinava con il ghetto a est, e il gruppo più numeroso, quello che Arnau aveva seguito, a sud, nella strada della Boqueria e davanti a Castell Nou, dove si trovava l'ingresso del ghetto. Il vocio era assordante. Il popolo reclamava vendetta, anche se, per il momento, si limitava a gridare davanti alle porte, mostrando bastoni e balestre.

Arnau riuscì a prendere posto sulla gremita scalinata della chiesa di Sant Jaume, la stessa da cui lui e Joanet erano stati scacciati nel lontano giorno in cui cercavano una Madonna che facesse loro da madre. Sant Jaume si innalzava proprio davanti alle mura sud del quartiere ebraico, e da quel punto sopraelevato Arnau poté vedere cosa stava accadendo. La guarnigione di soldati reali, capitanata dal governatore, era schierata per difendere il ghetto. Prima di attaccare, una comitiva di cittadini si avvicinò per parlamentare con il governatore, fermo presso il portone socchiuso del ghetto, e convincerlo a ritirarsi con le sue truppe; i flagellanti gridavano e ballavano attorno a loro, e la folla continuava a minacciare gli ebrei, che non si vedevano neppure.

«Non si ritireranno», assicurò una donna.

«Gli ebrei appartengono al re, dipendono solo da lui», ribadì un altro. « Se muoiono gli ebrei, il re ci rimette, con tutte le tasse che gli spreme...»

«E perderebbe anche i crediti che gli concedono quegli usurai...»

«Non solo», intervenne una terza persona, « se assaltano il quartiere ebraico, il re dovrà anche rinunciare a tutti i mobili che gli ebrei cedono a lui e alla sua corte quando viene a Barcellona.»

330

«I signori dovranno dormire per terra», si sentì gridare tra le sghignazzate.

Arnau non poté soffocare un sorriso.

«Il governatore difenderà gli interessi del re», disse la donna.

E così fu. Il governatore non cedette e quando si diede per terminata la trattativa si affrettò a chiudersi all'interno del ghetto con le truppe. Era il segnale che la folla aspettava, e prima che avessero il tempo di chiudere il portone, quelli più vicino vi si scagliarono contro, mentre una gragnola di bastoni, frecce e sassi cominciava a volare sulle mura del quartiere ebraico. L'assalto era cominciato.

Arnau vide una turba di cittadini accecati dall'odio che si lanciava all'impazzata contro le porte e le mura del ghetto. Nessuno comandava; ciò che più assomigliava a un ordine erano le grida dei flagellanti che continuavano a torturarsi accanto alle mura e incitavano gli altri a scalarle per uccidere gli eretici. Molti caddero sotto le spade dei soldati del re appena arrivarono in cima, ma il ghetto stava subendo un assalto di massa su tutti e quattro i lati, e in molti riuscirono a superare i soldati e ad affrontare gli ebrei corpo a corpo.

Arnau rimase sulla scalinata di Sant Jaume per due ore. Le grida di guerra dei combattenti gli ricordarono i suoi giorni da soldato: Bellaguarda e Castell-Rosselló. Le facce di quanti cadevano si confondevano con quelle degli uomini cui un giorno aveva dato la morte; l'odore del sangue lo trasportò nel Rosellón, alla menzogna che l'aveva portato a quella guerra assurda, ad Aledis, a Maria... E a quel punto abbandonò la postazione da dove aveva seguito la carneficina.

Camminò verso il mare pensando a Maria e a quello che l'aveva spinto a cercare rifugio nella guerra, finché le sue riflessioni vennero bruscamente interrotte: era all'altezza del castello di Regomir, bastione delle antiche mura romane, quando delle grida molto vicine lo costrinsero a tornare alla realtà.

«Eretici!»

«Assassini!»

Arnau s'imbatte in una ventina di uomini armati di bastoni e coltelli che occupavano tutta la strada e gridavano verso alcune persone che dovevano essere state immobilizzate contro la facciata di una di quelle case. Perché non si limitavano a pian331

gere i loro morti? Non si fermò. Fece per passare oltre il gruppo di esaltati, per proseguire sulla propria strada, ma mentre si faceva largo a forza di spintoni, posò per un attimo lo sguardo sul punto dove la gente si accalcava: sullo stipite di una porta, uno schiavo moro, insanguinato, cercava di proteggere con il proprio corpo tre bambini vestiti di nero con la rotella gialla sul petto. Improvvisamente, Arnau si ritrovò fra il moro e gli aggressori. Calò il silenzio e i bambini sporsero i loro faccini spaventati. Arnau li osservò: si rammaricava di non aver dato dei figli a Maria. Un sasso volò verso una delle testoline e sfiorò Arnau. Il moro intercettò la traiettoria, la sassata lo colpì allo stomaco facendolo piegare dal dolore. Un faccino guardò Arnau dritto negli occhi. Sua moglie adorava i bambini, e non discriminava tra cristiani, mori ed ebrei. Li seguiva con gli occhi, sulla spiaggia, per le strade... I suoi occhi si perdevano dietro di loro, e poi si posavano di nuovo su di lui...

«Spostati! Levati di lì!» sentì Arnau alle proprie spalle, e poi guardò ancora quegli occhi atterriti.

«Cosa volete fare a questi bambini? » chiese.

Alcuni uomini, armati di coltelli, lo affrontarono.

«Sono ebrei», gli risposero in coro.

«E vorreste ucciderli solo per questo? Non ne avete avuto a sufficienza con i loro genitori?»

«Hanno avvelenato i pozzi», ribatté uno. «Hanno ucciso Gesù. Uccidono i bambini cristiani per i loro riti eretici. Sì, gli strappano il cuore... Rubano le ostie consacrate...»

Arnau non ascoltava. Sentiva ancora l'odore del sangue del ghetto... e quello di Castell-Rosselló. Prese per un braccio l'uomo più vicino a sé e lo colpì in faccia mentre sguainava il coltello e lo mostrava agli altri.

«Nessuno farà del male a dei bambini!»

Gli aggressori videro Arnau che, il coltello stretto in pugno, lo muoveva in cerchio puntandolo verso di loro, gli occhi fissi su di loro.

«Nessuno farà del male a dei bambini», ripeté. «Andate a combattere nel ghetto, contro i soldati, contro altri uomini.»

«Vi uccideranno», sentì che lo avvertiva il moro, rifugiatosi alle sue spalle.

«Eretico!» gli gridarono dal gruppo.

332

«Ebreo!»

Gli avevano insegnato ad attaccare per primo, a prendere il nemico alla sprovvista, a non permettere al proprio rivale di prendere in pugno la situazione, a spaventarlo. Arnau si avventò a coltellate contro i più vicini, al grido di « Sant Jordi!» affondò il pugnale nel ventre del primo e girò su se stesso, costringendo quanti gli si stavano gettando addosso a indietreggiare. Il pugnale ferì di sbieco il petto di più d'uno. Da terra, uno degli aggressori lo pugnalò a un polpaccio. Arnau lo guardò, lo afferrò per i capelli e, dopo avergli tirato indietro la testa, lo sgozzò. Il sangue uscì a fiotti. Tre uomini giacevano ormai a terra e gli altri cominciarono a scostarsi. « Fuggi quando sei in svantaggio», gli avevano insegnato. Arnau fece il gesto di lanciarsi su di loro, e quelli cercarono di allontanarsi, incespicando gli uni negli altri. Con la mano sinistra, senza voltarsi, fece segno al moro di avvicinarsi, e quando sentì i bambini tremanti dietro di sé, cominciò a muoversi verso il mare, camminando all'indietro, per non perdere mai di vista gli aggressori.

«Vi aspettano al ghetto!» gridò agli assalitori, continuando a spingere i bambini.

Raggiunsero l'antica porta del Castello di Regomir e si misero a correre. Arnau, senza tante spiegazioni, impedì ai piccoli di dirigersi verso il ghetto.

Dove poteva nascondere dei bambini? Li guidò fino alla chiesa di Santa Maria e si fermò bruscamente davanti all'ingresso principale. Da dove si trovavano, attraverso il cantiere incompiuto, si riusciva a scorgere l'interno.

«Non... non vorrete portare i bambini in una chiesa cristiana, vero? » gli chiese ansimando lo schiavo.

«No», rispose Arnau. « Ma molto vicino.»

«Perché non ci avete lasciati tornare alle nostre case?» gli chiese a sua volta la bambina che, a giudicare dall'aspetto, era la più grande e dopo la corsa pareva assai più padrona di sé rispetto agli altri.

Arnau si palpò il polpaccio. Perdeva molto sangue.

«Perché le vostre case in questo momento sono assalite dalla folla», le rispose. « Vi incolpano di aver portato la peste, dicono che avete avvelenato i pozzi.» Nessuno disse niente. « Mi dispiace», aggiunse Arnau.

333

Lo schiavo musulmano fu il primo a reagire: « Non possiamo restare qui», disse, costringendo Arnau a smettere di esaminarsi la ferita alla gamba. « Fate ciò che ritenete opportuno, ma nascondete i bambini.»

«E tu? » indagò Arnau.

«Devo scoprire cos'è successo alle loro famiglie. Come farò a ritrovarvi?»

«Non lo farai», rispose Arnau, pensando che non poteva assolutamente mostrargli il passaggio delle tombe romane. « Sarò io a trovare te. Vieni a mezzanotte sulla spiaggia, davanti alla nuova pescheria.» Lo schiavo annuì, e quando ormai stavano per separarsi, Arnau aggiunse: « Se non ti vedrò entro tre notti, ti darò per morto».

Il musulmano annuì di nuovo e guardò Arnau con i suoi grandi occhi neri.

«Grazie», gli disse prima di partire di corsa verso il ghetto.

Il più piccolo dei bambini cercò di seguirlo, ma Arnau lo trattenne per le spalle.

La prima notte il musulmano non si recò all'appuntamento. Arnau lo aspettò per più di un'ora dopo la mezzanotte; ascoltava il rumore lontano dei disordini nel ghetto e scrutava nell'oscurità, rischiarata dalla rossa luce degli incendi. Durante l'attesa ebbe il tempo di pensare a quanto era accaduto in quella lunga giornata. Aveva nascosto tre bambini ebrei in un antico cimitero romano sotto l'altare di Santa Maria, sotto la sua Madonna. L'ingresso alle tombe, che lui e Joanet avevano scoperto tanto tempo prima, non era cambiato rispetto all'ultima volta che c'erano stati loro. Non avevano ancora costruito la scalinata della porta del Born, e il palco di legno gli diede un facile accesso. Tuttavia, le guardie che sorvegliavano il tempio, che fecero la ronda per quasi un'ora in strada, li costrinsero ad aspettare acquattati in silenzio la prima occasione per sgattaiolare sotto l'impalcatura.

I bambini lo seguirono senza fiatare, finché, dopo aver percorso il passaggio, al buio, Arnau disse loro dove si trovavano e li avvertì di non toccare niente, se non volevano avere brutte sorprese. A quel punto tutti e tre si misero a piangere sconsola334

tamente, senza che Arnau sapesse come rispondere a quelle lacrime. Di certo Maria avrebbe saputo come calmarli.

«Sono solo morti», gridò loro, « e non di peste. Cosa preferite: restare qui, vivi, con i morti, o fuori, a farvi uccidere? » Il pianto cessò. «Adesso io uscirò per andare a cercare una candela, dell'acqua e un po' di cibo. D'accordo? D'accordo? » ripeté di fronte al loro silenzio.

«D'accordo», sentì che gli rispondeva la bambina.

«Vediamo di chiarire una cosa: ho rischiato la vita per voi e sarei in pericolo anche ora, se qualcuno dovesse scoprire che nascondo tre bambini ebrei sotto la chiesa di Santa Maria. Ma non sarei disposto a farlo oltre se, quando tornerò, dovessi scoprire che siete spariti. Cosa ne dite? Mi aspetterete qui o uscirete in strada?»

«Aspetteremo», rispose la bambina.

Arnau trovò ad attenderlo una casa vuota. Si lavò e cercò di medicarsi il polpaccio, poi si bendò la ferita. Riempì d'acqua il vecchio otre, prese una lanterna e l'olio per rifornirla, una pagnotta di pane duro e carne salata, e tornò zoppicando a Santa Maria.

I bambini non si erano mossi dall'estremità della galleria in cui li aveva lasciati. Arnau accese la lanterna e vide tre piccoli cerbiatti spaventati che non risposero al sorriso con cui cercava di rassicurarli. La più grande abbracciava gli altri due. Erano tutti e tre bruni, con i capelli lunghi e puliti, sani, i denti bianchi come la neve e belli, soprattutto la bambina.

«Siete fratelli? » fu la prima domanda che venne in mente ad Arnau.

«Noi due siamo fratelli», rispose di nuovo la bambina, indicando il più piccolo. « Lui è un vicino.»

«Be', credo che con tutto quello che abbiamo passato e che dobbiamo ancora passare, ci converrebbe presentarci. Io mi chiamo Arnau.»

Fu la bambina a fare gli onori: lei si chiamava Raquel, suo fratello Jucef e il vicino Saul. Arnau continuò a interrogarli alla luce della lanterna, mentre i bambini lanciavano fugaci occhiate alle tombe. Avevano rispettivamente tredici, sei e undici anni. Erano nati a Barcellona e vivevano con i genitori nel ghetto, dove stavano tornando quando li avevano aggrediti i bruti da

335

cui li aveva difesi Arnau. Lo schiavo, che avevano sempre chiamato Sahat, apparteneva ai genitori di Raquel e Jucef, e se aveva detto che sarebbe andato all'appuntamento sulla spiaggia, l'avrebbe fatto di sicuro: non aveva mai mancato alla parola data.

«Bene», disse Arnau dopo le spiegazioni, « credo che varrà la pena dare un'occhiata a questo posto. È da parecchio tempo, da quando avevo più o meno la vostra età, che non ci vengo più. Anche se non credo che qualcuno possa essersi spostato.» Fu l'unico a ridere della propria battuta. In ginocchioni, si trascinò fino al centro della grotta illuminandone l'interno. I bambini rimasero accucciati dove si trovavano, guardando con terrore le tombe aperte e gli scheletri. « È l'idea migliore che ho avuto», si scusò quando lesse il panico nei loro occhi. « Di sicuro qui nessuno vi verrà a cercare, mentre aspettiamo che si calmino...»

«E cosa succede se hanno ucciso i nostri genitori? » lo interruppe Raquel.

«Non devi pensare questo. Non gli è accaduto niente, stanne certa. Guardate, venite qui. Qui c'è uno spazio senza tombe, ed è abbastanza grande per starci tutti. Forza!» Dovette insistere incoraggiandoli a gesti.

Alla fine riuscì a farli muovere e si infilarono tutti e quattro in un piccolo spazio in cui potevano stare seduti a terra senza toccare tombe. Il vecchio cimitero romano era ancora come Arnau l'aveva visto la prima volta, con i suoi strani sepolcri di terracotta a forma di piramidi allungate e le grandi anfore che racchiudevano i cadaveri. Arnau posò la lanterna su una di quelle e offrì ai bambini l'otre, il pane e la carne salata. I tre bevvero con avidità, ma, quanto a mangiare, assaggiarono solo il pane.

«Non è kasher», si giustificò Raquel indicando la carne salata.

«Kasher?»

Raquel gli spiegò cosa significava quella parola e i riti che i membri della comunità ebraica dovevano osservare per poter mangiare la carne, e poi continuarono a chiacchierare finché i due maschietti non caddero addormentati sul grembo della ragazzina. Allora, sussurrando per non svegliarli, lei chiese ad Arnau: « E tu non credi a quanto si dice?»

«Sarebbe?»

336

«Al fatto che abbiamo avvelenato i pozzi.» Arnau tardò qualche secondo a rispondere. « La peste ha ucciso anche qualche ebreo? » chiese. « Parecchi.»

«In tal caso, no», affermò. « Non ci credo.» Quando Raquel s'addormentò, Arnau scivolò fuori dalla galleria e andò verso la spiaggia.

L'assalto al ghetto durò due giorni, durante i quali le scarse forze del re, insieme ai membri della comunità ebraica, cercarono di difendere il quartiere dai continui attacchi cui li sottoponeva una folla impazzita e infervorata che, nel nome della cristianità, sposava la bandiera del saccheggio e del linciaggio. Alla fine, il re mandò rinforzi sufficienti e la situazione cominciò a tornare sotto controllo.

La terza notte, Sahat, che aveva combattuto insieme ai suoi padroni, riuscì a scappare per raggiungere Arnau sulla spiaggia della città, davanti alla pescheria, come avevano stabilito.

«Sahat!» sentì nella notte.

«Cosa ci fai tu qui? » chiese lo schiavo quando vide Raquel, che si buttò tra le sue braccia.

«Il cristiano è molto ammalato.»

«Non sarà...?»

«No», lo interruppe la ragazza, « non è peste. Non ha bubboni. È la gamba. La ferita gli si è infettata e ha la febbre molto alta. Non si regge in piedi.»

«E gli altri? » chiese lo schiavo.

«Bene, e...?»

«Vi stanno tutti aspettando.»

Raquel guidò il moro fino alla chiesa di Santa Maria, al palco sotto la porta del Born.

«Qui? » chiese lo schiavo quando la ragazza vi si infilò sotto.

«Zitto», gli rispose lei. « Seguimi.»

I due scivolarono lungo la galleria fino al cimitero romano. Dovettero impegnarsi tutti per riuscire a tirare Arnau fuori di lì: Sahat, strisciando all'indietro, lo teneva per le braccia, mentre i bambini lo spingevano dai piedi. Arnau aveva perso conoscenza. I cinque, lo schiavo reggendo Arnau sulle spalle e i bambini

337

con addosso gli abiti da cristiani che aveva portato Sahat, si incamminarono verso il ghetto ebraico, cercando, nonostante tutte quelle precauzioni, di restare nell'ombra. Quando arrivarono alle porte del ghetto, sorvegliate da un folto contingente di soldati del re, Sahat rivelò all'ufficiale di guardia la vera identità dei bambini e il motivo per cui non portavano la rotella gialla. Quanto ad Arnau, sì, era un cristiano febbricitante che aveva bisogno delle cure di un medico, come poteva verificare ed effettivamente fece l'ufficiale, pur allontanandosi immediatamente per paura che fosse un appestato. In ogni caso, ad aprir loro le porte del ghetto fu la generosa borsa che lo schiavo fece cadere nelle mani dell'ufficiale mentre parlava con lui.

32

«Nessuno farà del male a questi bambini. Padre, dove sei? Perché, padre? C'è del grano nel palazzo. Ti amo, Maria...»

Quando Arnau delirava, Sahat faceva uscire i bambini dalla stanza e mandava a chiamare Hasdai, il padre di Raquel e Jucef, perché lo aiutasse a immobilizzare il febbricitante nel caso ricominciassero gli incubi sui combattimenti del Rosellón e gli si riaprisse la ferita alla gamba. Schiavo e padrone lo vegliavano ai piedi del letto mentre un'altra schiava gli metteva pezze bagnate sulla fronte. Andavano avanti così da una settimana, e in quell'arco di tempo Arnau aveva ricevuto le migliori cure da parte dei medici ebrei e l'attenzione costante della famiglia Crescas e dei suoi schiavi, in particolar modo di Sahat, che vegliava il malato giorno e notte.

«La ferita non è così grave», diagnosticarono i dottori, « ma l'infezione s'è estesa a tutto il corpo.»

«Vivrà? » chiese Hasdai.

«È un uomo forte», si limitarono a rispondere gli altri prima di lasciare la casa.

«C'è del grano nel palazzo!» gridò ancora una volta Arnau, sudato per la febbre, qualche istante dopo.

«Se non fosse stato per lui», disse Sahat, «saremmo tutti morti.»

«Lo so», rispose Hasdai, in piedi lì accanto.

«Perché l'avrà fatto? È un cristiano.»

«È una brava persona.»

Di notte, quando Arnau riposava e in casa regnava il silenzio, Sahat si orientava in direzione della Mecca e s'inginocchiava a pregare per il cristiano. Durante il giorno lo costringeva pazientemente a bere acqua e a deglutire le pozioni che gli avevano preparato i dottori. Raquel e Jucef si affacciavano spesso alla sua porta e Sahat li lasciava entrare quando Arnau era tranquillo.

339

«È un guerriero», affermò una volta Jucef, con gli occhi sgranati.

«Lo è stato di sicuro», gli rispose Sahat.

«Ha detto di essere un bastaix», li corresse Raquel.

«Nel cimitero ci ha detto di essere un guerriero. Forse è un bastaix guerriero.»

«L'ha detto per farti stare zitto.»

«Scommetto che è un bastaix», intervenne Hasdai. « Da quello che dice.»

«È un guerriero», insistette il più piccolo dei suoi figli.

«Non lo so, Jucef.» Lo schiavo gli spettinò i capelli neri. « Perché non aspettiamo che guarisca e lo chiediamo direttamente a lui?»

«Guarirà?»

«Certo. Quando mai s'è visto un guerriero morire per una ferita alla gamba?»

Quando i bambini se ne andavano, Sahat si avvicinava ad Arnau e gli toccava la fronte, che trovava sempre bollente. Non sono solo i bambini a doverti la vita, cristiano, gli diceva in silenzio. Perché l'hai fatto? Cosa ti ha spinto a rischiare la pelle per uno schiavo e tre bambini ebrei? Vivi, devi vivere. Voglio parlare con te e ringraziarti. E poi, Hasdai è molto ricco e ti ricompenserà di sicuro.

Qualche giorno dopo, Arnau cominciò a riprendersi. Una mattina Sahat lo trovò sensibilmente meno caldo.

«Allah, sia lodato il suo nome, mi ha ascoltato.»

Hasdai sorrise quando lo constatò di persona.

«Vivrà », s'azzardò ad assicurare ai suoi figli.

«Mi racconterà delle sue battaglie?»

«Figliolo, non credo...»

Ma Jucef cominciò a imitare Arnau che muoveva il pugnale davanti a un gruppo immaginario di aggressori. Proprio quando stava per sgozzare il caduto, sua sorella lo prese per un braccio.

«Jucef!» gli gridò.

Quando si girarono verso il convalescente, incrociarono gli occhi aperti di Arnau, e Jucef arrossì.

«Come ti senti? » gli chiese Hasdai.

340

Arnau cercò di rispondere, ma aveva la bocca secca. Sahat gli porse un bicchiere d'acqua.

«Bene», riuscì a dire dopo aver bevuto. « E i bambini?»

Jucef e Raquel si avvicinarono al suo capezzale, spinti dal padre. Arnau abbozzò un sorriso.

«Ciao», disse Arnau.

«Ciao», gli risposero loro.

«E Saul?»

«Sta bene», gli fece Hasdai, « ma adesso devi riposare. Usciamo, bambini.»

«Quando starai bene, mi racconterai delle tue battaglie? » gli chiese Jucef prima che il padre e la sorella lo trascinassero fuori dalla stanza.

Arnau annuì e cercò di sorridergli.

Nel corso della settimana successiva la febbre sparì del tutto e la ferita cominciò a cicatrizzarsi. Arnau e Sahat conversavano ogni volta che il bastaix si sentiva abbastanza forte per farlo.

«Grazie», fu la prima cosa che gli disse lo schiavo.

«Me l'hai già detto, non ricordi?»

«Perché... Perché l'hai fatto?»

«Gli occhi del bambino... Mia moglie non l'avrebbe mai permesso...»

«Maria? » chiese Sahat ricordando i deliri di Arnau.

«Sì », rispose Arnau.

«Vuoi che l'avvisiamo che ti trovi qui?»

Arnau serrò le labbra e scosse la testa.

«C'è qualcuno che vuoi che avvisiamo? » Lo schiavo non insistette quando vide l'espressione che adombrava la faccia di Arnau.

«Come è finito l'assedio? » gli chiese questi in un'altra occasione.

«Duecento morti fra uomini e donne. Molte case saccheggiate o incendiate.»

«Che disastro!»

«Non tanto», lo corresse Sahat, e continuò, di fronte allo sguardo stupito di Arnau: « Il ghetto di Barcellona è stato fortunato. Da Oriente fino alla Castiglia, gli ebrei sono stati sterminati senza pietà. Più di trecento comunità sono state completamente distrutte. In Germania, l'imperatore Carlo IV in perso341

na ha promesso di concedere la grazia a tutti i criminali che avessero assassinato un ebreo o distrutto un quartiere ebraico. Riesci a immaginare cosa sarebbe successo a Barcellona se il vostro re, invece di proteggerci, avesse perdonato chiunque avesse ucciso un ebreo?»

Arnau chiuse gli occhi e scosse la testa.

«A Magonza hanno mandato al rogo seimila ebrei, e a Strasburgo ne hanno immolati in massa duemila, in un'immensa pira nel cimitero ebraico, donne e bambini compresi. Duemila in una sola volta...»

I bambini potevano entrare nella stanza di Arnau solo quando Hasdai andava a trovare il malato ed era sicuro che non lo disturbassero. Un giorno, quando Arnau cominciava già ad alzarsi dal letto e a muovere i primi passi, Hasdai si presentò da solo. L'ebreo, alto e magro, con i capelli lunghi e dritti, lo sguardo penetrante e il naso adunco, si sedette di fronte a lui.

«Devi sapere...» disse con voce grave, «... immagino saprai», si corresse, « che i tuoi sacerdoti proibiscono la convivenza tra cristiani ed ebrei.»

«Non preoccuparti, Hasdai, appena riuscirò a reggermi in piedi...»

«No», lo interruppe l'ebreo, « non sto dicendo che devi andartene da casa mia. Hai salvato i miei figli da una morte sicura, rischiando la tua vita. Tutto quello che possiedo è tuo e ti sarò riconoscente in eterno. Puoi restare qui per tutto il tempo che desideri. La mia famiglia e io ci sentiremmo molto onorati se lo facessi. Volevo solo informarti, soprattutto nel caso in cui tu decida di restare, che cerchiamo di mantenere il massimo riserbo sulla cosa. Nessuno saprà dalla mia gente, e quando dico 'la mia gente' intendo tutta la comunità ebraica, che tu vivi in casa mia; per cui puoi stare tranquillo. La scelta spetta a te, e insisto che noi saremmo molto onorati e felici se decidessi di fermarti. Cosa rispondi?»

«Chi altri potrebbe raccontare a tuo figlio le mie battaglie?»

Hasdai sorrise e gli tese una mano. Arnau la strinse.

342

Castell-Rosselló era una fortezza impressionante... Il piccolo Jucef si sedeva davanti ad Arnau, per terra, nel giardino sul lato posteriore della casa dei Crescas, con le gambe incrociate e gli occhi sgranati, e assaporava una dopo l'altra le storie di guerra del bastaix, concentrato sull'assedio, nervoso per la battaglia, sorridente per la vittoria.

«I difensori hanno lottato con coraggio», gli diceva, «ma noi soldati di re Pietro li abbiamo battuti...»

Quando finiva, Jucef insisteva perché gli ripetesse una delle sue storie. Arnau gli raccontava tanto fatti veri quanto storie inventate. In realtà io ho attaccato solo due castelli, era stato sul punto di confessargli, negli altri giorni di guerra ci siamo limitati a saccheggiare e a distruggere masserie e raccolti... tranne i fichi.

«Ti piacciono i fichi, Jucef? » gli chiese una volta, ricordando i tronchi contorti che restavano in piedi in mezzo alla distruzione totale.

«Adesso basta, Jucef», l'ammonì suo padre, appena arrivato in giardino, davanti all'insistenza con cui il piccolo chiedeva ad Arnau di raccontargli di un'altra battaglia. «Va' a letto.» Jucef, obbediente, si congedò dal padre e da Arnau. « Perché hai domandato al piccolo se gli piacciono i fichi?»

«È una lunga storia.»

Senza dire una parola, Hasdai si accomodò su una sedia davanti a lui. Raccontamela, gli dissero i suoi occhi.

«Abbiamo distrutto tutto...» confessò Arnau dopo avergli narrato brevemente gli antefatti, « tranne i fichi. Assurdo, vero? Lasciavamo i campi desolati, e, in mezzo, al centro di tanta distruzione, restava una solitaria pianta di fico, che ci guardava chiedendoci cosa mai stessimo facendo.»

Arnau si perse nei suoi ricordi e Hasdai non osò interromperlo.

«E stata una guerra insensata», aggiunse alla fine il bastaix.

«L'anno dopo», disse Hasdai, « il re ha recuperato il Rosellón. Giacomo di Maiorca si è inginocchiato a capo scoperto davanti a lui, arrendendosi con i propri eserciti. Può darsi che quella prima guerra cui hai preso parte sia servita per...»

«Per affamare la gente di campagna, i bambini e i poveri», lo interruppe Arnau. « Può essere servita a togliere all'esercito di

343

Giacomo ogni possibilità di approvvigionarsi, ma per raggiungere lo scopo sono dovuti morire molti poveracci, credimi. Non siamo che dei balocchi nelle mani dei nobili. Decidono delle loro questioni e non gli importa quante morti causano o quanta miseria possono arrecare.»

Hasdai sospirò.

«Se tu sapessi, Arnau... Noi siamo di proprietà del re, gli apparteniamo...»

«Io sono andato in guerra a combattere, e mi sono ritrovato a dar fuoco ai raccolti della povera gente.»

I due uomini restarono immersi nei rispettivi pensieri per alcuni istanti.

«Bene!» esclamò infine Arnau, rompendo il silenzio, « adesso conosci la storia dei fichi.»

Hasdai si alzò e gli diede una pacca sulla spalla. Poi lo invitò a rientrare.

«Si è rinfrescata l'aria», gli disse, guardando il cielo.

Quando Jucef li lasciava soli, Arnau e Raquel amavano conversare nel piccolo giardino dei Crescas. Non parlavano della guerra; Arnau le raccontava della sua vita da bastaix e della chiesa di Santa Maria.

«Noi non crediamo che Gesù Cristo sia il Messia: il Messia non è ancora arrivato e il popolo ebraico aspetta la sua venuta», gli spiegò una volta Raquel.

«Dicono che siete stati voi a ucciderlo.»

«Non è vero!» fece lei, rabbuiandosi. « Quelli che sono sempre stati uccisi e cacciati, ovunque si trovassero, siamo noi!»

«Dicono», insistette Arnau, « che a Pasqua i vostri riti vi impongano di sacrificare un bambino cristiano e di mangiarne il cuore e le membra.»

Raquel negò con decisione.

«È una sciocchezza! Tu hai visto con i tuoi stessi occhi che non mangiamo carne che non sia kasher e che la nostra religione ci impedisce di ingerire il sangue: cosa mai potremmo fare con il cuore di un bambino, con le sue braccia e le sue gambe? Ormai conosci mio padre e il padre di Saul: li credi capaci di una cosa simile?»

344

Arnau rivide davanti a sé la faccia di Hasdai e ricordò le sue sagge parole; rammentò la prudenza e l'affetto che gli illuminavano il volto ogni volta che guardava i propri figli. Come avrebbe potuto un uomo del genere mangiare il cuore di un bambino?

«E le ostie? » chiese. « Dicono anche che le rubate per profanarle e torturare di nuovo Gesù Cristo.»

Raquel negò a gesti.

«Noi ebrei non crediamo nella transus...» Si interruppe con una smorfia contrariata. Tartagliava sempre quando, mentre parlava con suo padre, doveva pronunciare quella parola. « Transustanziazione», ripeté di filato.

«In che cosa?»

«Nella transus... tanziazione. Per voi significa che Gesù Cristo è nell'ostia, che l'ostia è veramente il corpo di Cristo. Noi non ci crediamo. Per gli ebrei la vostra ostia è solo un pezzo di pane. Sarebbe assurdo da parte nostra torturare un semplice tozzo di pane.»

«E allora nessuna delle accuse che vi muovono sarebbe vera?»

«Nessuna.»

Arnau voleva credere a Raquel: la ragazza lo guardava con gli occhi sgranati, implorandolo di scacciare dalla propria mente i pregiudizi con cui i cristiani diffamavano la sua comunità e le sue convinzioni.

«Ma siete usurai. Questo non potete proprio negarlo.»

Raquel stava per rispondere quando udirono la voce di suo padre.

«No. Non siamo usurai», intervenne Hasdai Crescas avvicinandosi e sedendosi accanto alla figlia, « almeno non nel modo che dicono.»

Arnau rimase in silenzio, in attesa di una spiegazione.

«Devi sapere che, fino a poco più di un secolo fa, ancora nel 1230, anche i cristiani prestavano denaro a interesse. Lo facevano tanto gli ebrei quanto i cristiani, finché un decreto del vostro papa Gregorio IX proibì ai cristiani quella pratica e, da quel momento in poi, solo noi ebrei, insieme a qualche comunità come i lombardi, abbiamo continuato a praticarlo. Per mille e duecento anni i cristiani hanno prestato denaro a inte345

resse. Ufficialmente», Hasdai calcò la parola, « sono poco più di cento anni che voi avete smesso di farlo e dunque noi siamo diventati usurai.»

«Ufficialmente?»

«Sì, ufficialmente. Perché sono molti i cristiani che continuano a prestare denaro a interesse per mezzo nostro. E comunque vorrei spiegarti perché lo facciamo. In tutte le epoche e in qualsiasi posto, gli ebrei sono sempre dipesi direttamente dal re. Nel corso della storia, la nostra comunità è stata espulsa da molti Paesi; prima dalla nostra terra, poi dall'Egitto, più tardi, nel 1183, dalla Francia, e pochi anni dopo, nel 1290, dall'Inghilterra. Le comunità ebraiche hanno sempre dovuto emigrare da un Paese all'altro, lasciarsi alle spalle tutto quello che possedevano e implorare presso i re dei Paesi in cui andavano il permesso di stabilirvisi. In risposta i re, come fanno i vostri, di solito assumono il controllo della comunità ebraica e pretendono che essa contribuisca in grande misura alle loro guerre e spese di varia natura. Se non ricavassimo interessi dal nostro denaro non sapremmo come fare fronte alle esorbitanti pretese dei vostri sovrani, e ci caccerebbero di nuovo da qualsiasi posto ci trovassimo.»

«Ma non prestate denaro solo ai re», insistette Arnau.

«No, è vero. E sai perché?»

Arnau scosse la testa.

«Perché i re non ci restituiscono il nostro prestito; al contrario, ce ne chiedono, e continuamente, di nuovi, per sostenere altre guerre e spese. Da qualche parte dobbiamo pur trovare i soldi da prestar loro, se non si tratta addirittura di una gentile concessione...»

«Non potete rifiutarvi?»

«Ci scaccerebbero... Oppure, e sarebbe anche peggio, non ci difenderebbero dai cristiani come hanno fatto qualche giorno fa. Moriremmo tutti.»

Stavolta Arnau annuì in silenzio sotto lo sguardo soddisfatto di Raquel, che constatava come suo padre stesse finalmente convincendo il bastaix. Arnau aveva visto con i propri occhi i barcellonesi furibondi che inveivano contro gli ebrei.

«E comunque, ricorda che prestiamo denaro solo ai cristiani che fanno i mercanti e nella vita si occupano di compravendita.

346

Quasi cent'anni fa il vostro re Giacomo I il Conquistatore emanò un usatge secondo il quale i contratti di commenda o di deposito stipulati da un banchiere ebraico con chiunque non fosse un mercante venivano considerati falsi, e falsificati dagli ebrei, per cui non potremmo mai agire legalmente contro chi non è mercante. In altre parole, non possiamo accettare un contratto di commenda o di deposito da persone che non siano mercanti, perché vorrebbe dire non rivedere più i nostri soldi.»

«E che differenza c'è?»

«Una differenza enorme, Arnau, enorme. Voi cristiani vi vantate di non prestare denaro dietro interesse, nel rispetto degli ordini della vostra Chiesa, e in effetti, almeno all'apparenza, le cose stanno così. In realtà, però, fate esattamente come noi, solo che lo chiamate con un altro nome. Devi sapere che, fino a quando la Chiesa non ha proibito i prestiti dietro interesse fra i cristiani, gli affari tra ebrei e mercanti sono sempre andati come vanno oggi: c'erano cristiani con molti soldi che facevano prestiti ad altri cristiani, mercanti, ai quali costoro restituivano il capitale con gli interessi.»

«Cos'è successo quando è stato proibito?»

«Come sempre, voi cristiani avete ribaltato il precetto della Chiesa. Era evidente che nessun cristiano che avesse dei soldi li avrebbe mai prestati a un altro senza ricavarne un guadagno, come si pretendeva che facesse. Se lo sarebbe tenuto per sé, senza più correre alcun rischio. Allora voi cristiani avete inventato una pratica che si chiama, appunto, commenda: ne hai mai sentito parlare?»

«Sì», ammise Arnau. «Al porto se ne parla spesso quando arriva una nave carica di merci, ma a dire il vero non ho mai capito cosa fosse.»

«E semplicissimo. Non è altro che un prestito a interesse... sebbene meno evidente. C'è un commerciante, il più delle volte un banchiere, che concede denaro a un mercante perché questi possa comprare o vendere una certa mercanzia. Quando il mercante ha portato a termine l'affare, deve restituire al banchiere la stessa somma che ha ricevuto da lui, più una parte dei ricavi ottenuti. È la stessa cosa di un prestito a interesse, solo che si chiama in un altro modo, e cioè commenda. Il cristiano che concede il denaro ottiene un ricavo dai propri soldi, ed è

347

proprio quello che voleva proibire la Chiesa: la realizzazione di guadagni derivati dal denaro e non dal lavoro dell'uomo. Voi cristiani continuate a fare esattamente quello che facevate cent'anni fa, prima che venissero proibiti gli interessi, solo con un altro nome. Ne consegue che se siamo noi a prestare denaro per un affare siamo degli usurai, ma se lo fanno i cristiani attraverso una commenda, non lo sono.»

«Non c'è nessuna differenza?»

«Solo una: nella commenda chi presta il denaro è soggetto agli stessi rischi di chi tratta l'affare; in altre parole, se il mercante non torna o perde la propria mercanzia perché, per esempio, viene assalito dai pirati durante la traversata, il finanziatore perde i suoi soldi. Questo non accadrebbe con un prestito, perché il mercante è comunque tenuto a restituire il denaro con gli interessi, anche se, nella pratica, le cose non cambiano, perché se un mercante perde la propria mercanzia non riesce a pagarci, e alla fine noi ebrei dobbiamo adattarci alle pratiche commerciali vigenti: i mercanti vogliono contratti che li sollevino dai rischi e noi dobbiamo rilasciarglieli perché, diversamente, non otterremmo i guadagni per accontentare il vostro re. Hai capito?»

«Noi cristiani non prestiamo a interesse ma, attraverso la commenda, otteniamo lo stesso risultato», commentò Arnau quasi parlando da solo.