Ildefonso Falcones

La Cattedrale Del Mare

La catedral del mar © 2006

I edizione gennaio 2007

XIII edizione settembre 2007

A Carmen

PARTE PRIMA

SERVI DELLA GLEBA

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Anno 1320

Masseria di Bernat Estanyol

Navarcles, principato di Catalogna

Approfittando di un attimo di disattenzione dei presenti, Bernat alzò gli occhi verso il cielo azzurro e terso. Il tenue sole di fine settembre accarezzava i volti dei suoi invitati. Aveva dedicato così tante ore e sforzi ai preparativi della festa che solo un tempo inclemente avrebbe potuto rovinarla. Bernat sorrise al cielo autunnale e, quando abbassò lo sguardo, l'espressione dipinta sul suo volto si accentuò di fronte all'allegria che regnava sullo spiazzo di pietra davanti alla porta delle stalle, al pianterreno della masseria.

Gli invitati, una trentina, erano entusiasti: la vendemmia, quell'anno, era stata ottima. Tutti, uomini, donne e bambini, avevano lavorato dall'alba al tramonto, prima per raccogliere l'uva e poi per pigiarla, senza concedersi un momento di riposo.

Solo quando il mosto era ormai a fermentare nelle botti e le vinacce riposte per essere poi distillate nelle tediose giornate invernali, i contadini celebravano le feste di settembre. E Bernat Estanyol aveva deciso di sposarsi proprio in quell'occasione.

Osservò i suoi invitati: si erano dovuti svegliare all'alba per coprire a piedi la distanza, in alcuni casi assai rilevante, che separava la loro masseria da quella degli Estanyol. Chiacchieravano animatamente, delle nozze, del raccolto o di entrambe le cose; alcuni, come il gruppo in cui si trovavano i cugini Estanyol e i Puig, la famiglia di suo cognato, scoppiarono a ridere e gli rivolsero un'occhiata maliziosa. Bernat si accorse che stava arrossendo e preferì ignorarli: non voleva neppure immaginare il motivo della loro ilarità. Sparpagliati sullo spiazzo della masseria scorse i Fontanìes, i Vila e gli Joaniquet oltre, naturalmente, ai parenti della sposa: gli Esteve.

Bernat guardò di sottecchi il suocero, Pere Esteve, che portava instancabilmente in giro la sua immensa pancia, sorridendo agli uni e rivolgendo la parola agli altri. Pere girò la faccia allegra verso di lui e Bernat si sentì obbligato a salutarlo ancora una

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volta, poi cercò con lo sguardo i suoi cognati e li trovò mescolati agli altri. Fin dal primo momento l'avevano trattato con una certa diffidenza, malgrado gli sforzi con cui aveva cercato di ingraziarseli.

Alzò di nuovo gli occhi al cielo. Il raccolto e il tempo avevano deciso di partecipare alla sua festa. Guardò la masseria e poi ancora la gente, e strinse appena le labbra. D'un tratto, malgrado tutta quella confusione, si sentì solo. Suo padre era morto appena un anno prima; quanto alla sorella Guiamona, che si era stabilita a Barcellona subito dopo essersi sposata, non aveva mai risposto ai messaggi che le aveva inviato. L'avrebbe rivista volentieri, gli restava soltanto lei dopo la morte del padre...

Una morte che aveva attirato sulla masseria degli Estanyol l'interesse dell'intera regione: mezzane di matrimoni e padri di figlie nubili avevano sfilato senza sosta fino a casa sua. E dire che prima nessuno andava mai a fargli visita, ma alla morte del padre, che per il suo carattere ribelle e impetuoso si era meritato il soprannome di Estanyol il Pazzo, Bernat aveva rinverdito le speranze di quanti desideravano accasare la propria figlia con il contadino più ricco della regione.

«Ormai sei grande abbastanza per sposarti», gli dicevano. « Quanti anni hai?»

«Ventisette, credo», rispondeva lui.

«Alla tua età, dovresti quasi avere dei nipoti», lo rimproveravano. « Cosa farai tutto solo in questa masseria? Ti serve una moglie.»

Bernat ascoltava pazientemente quei consigli, sapendo che ogni volta sarebbero terminati con la menzione di una candidata piena di virtù, più forte di un bue e più bella del più incredibile dei tramonti.

Non era una novità. Già Estanyol il Pazzo, rimasto vedovo dopo la nascita di Guiamona, aveva provato ad ammogliarlo, ma tutti i padri di ragazze in età da marito erano usciti dalla masseria imprecando: nessuno poteva assecondare le pretese di Estanyol il Pazzo in merito alla dote della futura nuora. E così l'interesse per Bernat era progressivamente scemato. Con l'età, il vecchio era addirittura peggiorato e i suoi accessi si erano trasformati in un vero e proprio delirio. Bernat si era riversato sul11

la cura della terra e del padre finché, a ventisette anni, si era ritrovato all'improvviso solo e assediato.

Eppure, la prima visita che aveva ricevuto, ancor prima che avesse avuto tempo di seppellire il defunto genitore, era stata quella dell'ufficiale di giustizia del signore di Navarcles, il signore del suo feudo. Mio padre aveva proprio ragione! aveva pensato Bernat vedendo arrivare quel figuro insieme ad alcuni soldati a cavallo.

«Quando morirò », gli ripeteva fino alla noia il vecchio nei momenti in cui tornava in sé, «loro verranno: allora dovrai mostrargli il testamento.» E gli indicava con un cenno la pietra sotto la quale, avvolto nel cuoio, si trovava il documento che raccoglieva le ultime volontà di Estanyol il Pazzo.

«Perché, padre? » gli aveva chiesto Bernat la prima volta che si era sentito ammaestrare in tal senso.

«Come ben sai», gli aveva risposto il padre, « possediamo queste terre in enfiteusi, ma io sono vedovo, e se non ci fosse un testamento, alla mia morte il signore avrebbe diritto di prendersi la metà di tutti i nostri beni mobili e gli animali. Questo diritto è detto intestia; ce ne sono molti altri che avvantaggiano i signori, e tu devi conoscerli tutti. Verranno, Bernat: verranno a prendersi quello che ci appartiene, e solo se gli mostrerai il testamento potrai liberarti di loro.»

«E se dovessero strapparmelo? » gli aveva domandato Bernat. « Lo sapete come sono fatti...»

«Anche se fosse, è stato registrato.»

La notizia dell'ira dell'ufficiale e del signore era corsa in tutta la regione, rendendo ancora più interessante la situazione dell'orfano, erede di tutti i beni del Pazzo.

Bernat ricordava perfettamente la visita che gli aveva fatto il futuro suocero, prima dell'inizio della vendemmia. Cinque soldi, un materasso e una camicia di lino bianca: quella era la dote che avrebbe dato a sua figlia Francesca.

«E perché dovrei desiderare una camicia bianca di lino?» aveva chiesto Bernat, senza smettere di trafficare con la paglia.

«Guarda», aveva risposto Pere Esteve.

Appoggiandosi alla forca, Bernat aveva guardato nella direzione che Pere Esteve gli indicava, verso l'ingresso della stalla. E la forca gli era caduta sulla paglia. In controluce gli era apparsa

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Francesca, con addosso la sua camicia bianca di lino... che lasciava vedere tutto quello che c'era sotto!

Un brivido era corso lungo la schiena di Bernat, e Pere Esteve aveva sorriso.

Bernat aveva accettato la proposta. Lo aveva fatto proprio lì, nel pagliaio, senza neanche avvicinarsi alla ragazza, e senza mai toglierle gli occhi di dosso.

Era stata una decisione affrettata, Bernat ne era consapevole, ma non poteva dire di essersene pentito: Francesca era lì, giovane, bella e forte. Il cuore cominciò a battergli all'impazzata. Oggi stesso... si disse. Chissà a cosa stava pensando la ragazza... Forse provava le medesime emozioni? Francesca non prendeva parte all'allegra conversazione delle donne; restava in silenzio accanto alla madre, seria, unendosi alle loro risate e alle battute con qualche sorriso forzato. Per un attimo, i loro sguardi si incrociarono. Lei arrossì e abbassò gli occhi, ma Bernat notò che il movimento del suo seno tradiva nervosismo. La camicia bianca di lino tornò di nuovo ad allearsi alle fantasie e ai desideri del giovane.

«Mi congratulo!» sentì dire dietro di sé, mentre qualcuno gli dava una forte pacca sulle spalle. Il suocero gli si era avvicinato. « Trattamela bene!» aggiunse seguendo lo sguardo di Bernat e indicando la ragazza, che ormai non sapeva più dove nascondersi. «Anche se la vita che le offrirai sarà come questa festa... Il migliore banchetto che io abbia mai visto. Scommetto che il signore di Navarcles certi manicaretti non se li sogna nemmeno!»

Per far onore ai suoi ospiti, Bernat aveva preparato quarantasette pagnotte dorate di farina di grano; aveva evitato l'orzo, la segale e il farro, più comuni nella dieta dei contadini. Farina di frumento raffinata, bianca come la camicia della sua sposa! Carico delle pagnotte, si era recato al castello di Navarcles per cuocerle nel forno del signore pensando che, come al solito, sarebbero bastati i soliti due pani di tributo. Ma alla vista di tutto quel pane di frumento il fornaio aveva sgranato gli occhi, poi li aveva stretti in due imperscrutabili fessure, e aveva preteso che lo ripagasse con ben sette pagnotte. Più tardi, Bernat se n'era andato dal castello imprecando contro una legge che gli impe13

diva di avere un forno per cuocere il pane a casa propria... così come una fucina e una selleria...

«Certo», rispose al suocero, scacciando dalla mente quel ricordo sgradevole.

Entrambi osservarono la gente raccolta sullo spiazzo. Probabilmente gli aveva rubato una parte del suo pane, pensò Bernat, ma non il vino che stavano bevendo i suoi invitati - il migliore, quello travasato da suo padre, che avevano lasciato invecchiare per anni - e neanche la carne di maiale salata, né il bollito di gallina con le verdure, e neppure, ovviamente, i quattro agnelli che, squartati e infilzati agli spiedi, arrostivano lentamente sulle braci, sfrigolando ed emanando un profumo irresistibile.

Di colpo le donne si misero in moto. Il bollito era ormai pronto e le scodelle che gli invitati si erano portati da casa cominciarono a essere riempite. Pere e Bernat presero posto all'unico tavolo che avevano disposto nell'aia, e le donne accorsero a servirli. Nessuno si accomodò sulle quattro sedie che restavano.

La gente, in piedi, seduta su tronchi o per terra, cominciò a banchettare, e con un occhio rivolto agli agnelli, che le donne non perdevano di vista nemmeno per un attimo, beveva vino, chiacchierava, schiamazzava e rideva.

«Una gran festa, sissignore», sentenziò Pere Esteve tra una cucchiaiata e l'altra.

Qualcuno brindò agli sposi, e tutti si unirono immediatamente alla libagione.

«Francesca!» gridò il padre, il bicchiere levato alla sposa, che rimaneva in mezzo alle donne, vicino agli agnelli.

Bernat guardò la ragazza, che nascose nuovamente il viso.

«È nervosa», la giustificò Pere facendogli l'occhiolino. « Francesca, figlia!» gridò ancora. « Brinda con noi! Approfittane, perché tra poco ce ne andremo... quasi tutti.»

Le risate turbarono ancora di più la ragazza. Levò a mezz'aria un bicchiere che le avevano messo in mano e, senza bere e dando le spalle alle risate, tornò a occuparsi degli agnelli.

Pere Esteve fece tintinnare il suo bicchiere contro quello di Bernat, rovesciando un po' di vino. Gli invitati lo imitarono.

«Ci penserai tu a farle vincere la timidezza», gli disse con voce possente, perché tutti i presenti potessero sentirlo.

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Si levarono altre risate, accompagnate da commenti maliziosi cui Bernat preferì non prestare attenzione.

Tra frizzi e lazzi, si buttarono tutti su vino, maiale e bollito. Le donne stavano per togliere l'agnello dagli spiedi quando alcuni degli invitati tacquero rivolgendo lo sguardo al bosco di Bernat, oltre i vasti campi di grano, ai piedi di una dolce collina dove cresceva parte dei vitigni da cui gli Estanyol ricavavano il loro ottimo vino.

Nel giro di qualche istante il silenzio calò su tutti.

Fra gli alberi erano apparsi tre cavalieri, seguiti da diversi uomini a piedi, in uniforme.

«Cosa è venuto a fare? » chiese in un sussurro Pere Esteve.

Bernat seguì con lo sguardo gli uomini che si avvicinavano aggirando i campi, mentre gli invitati mormoravano tra loro.

«Non lo so», disse infine, anche lui con un filo di voce. « Non era mai passato di qui. Non è sulla strada per il castello.»

«Questa visita non mi piace per niente», aggiunse Pere Esteve.

La comitiva si muoveva lentamente. Man mano che le figure si avvicinavano, le risate e i commenti dei cavalieri andavano a rimpiazzare il vocio che fino a poco prima regnava sullo spiazzo. Tutti potevano sentirli. Bernat osservò i suoi invitati: alcuni avevano già smesso di seguire la scena e se ne stavano fermi, a capo chino. Cercò Francesca, in mezzo alle donne. Il vocione del signore di Navarcles arrivava sino a loro. Bernat si sentì assalire dall'ira.

«Bernat! Bernat!» esclamò Pere Esteve, scuotendolo per un braccio. « Cosa ci fai ancora qui? Corri ad accoglierlo!»

Bernat si alzò con un balzo e corse a ricevere il suo signore.

«Siate il benvenuto in casa vostra», lo salutò, ansimante, appena gli fu davanti.

Llorenç di Bellera, signore di Navarcles, tirò le redini del cavallo e si fermò davanti a Bernat.

«Tu sei Estanyol, il figlio del Pazzo? » indagò bruscamente.

«Sissignore.»

«Siamo andati a caccia e, di ritorno al castello, ci siamo imbattuti nella vostra festa. A cosa si deve?»

Tra i cavalli, Bernat riuscì a scorgere i soldati, carichi di diverse prede: conigli, lepri e galli cedroni. È la vostra visita che

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necessita di una spiegazione, avrebbe voluto rispondergli. Non sarà che il fornaio vi ha informato del pane bianco?

Persino i mansueti cavalli, con i grandi occhi rotondi fissi su di lui, sembravano aspettare una risposta.

«Le mie nozze, signore.»

«Con chi ti sei sposato?»

«Con la figlia di Pere Esteve, signore.»

Llorenç di Bellera rimase in silenzio, scrutando Bernat dall'alto del cavallo. Gli animali scalpitarono rumorosamente.

«Dunque? » sbraitò il signore.

«Mia moglie e io», disse Bernat cercando di nascondere la propria contrarietà, « ci sentiremmo molto onorati se vostra signoria e la sua scorta volessero unirsi a noi.»

«Abbiamo sete, Estanyol», ribatté il signore di Bellera per tutta risposta.

I cavalli si mossero senza che i cavalieri dovessero spronarli. Bernat, a capo chino, si diresse verso la masseria al fianco del suo signore. Tutti gli invitati si erano raccolti alla fine del sentiero per accoglierlo, le donne abbassando lo sguardo, gli uomini levandosi il cappello. Quando Llorenç di Bellera si fermò davanti a loro, si alzò un brusio confuso.

«Suvvia, suvvia», ordinò questi scendendo da cavallo, « tornate a festeggiare.»

La gente obbedì e tornarono in silenzio dov'erano prima. Alcuni soldati si avvicinarono ai cavalli e li presero in consegna. Bernat scortò i nuovi ospiti al tavolo al quale si erano seduti lui e Pere. Tanto le scodelle come i bicchieri, nel frattempo, erano spariti.

Il signore di Bellera e i suoi due accompagnatori si sedettero. Bernat indietreggiò di alcuni passi mentre quelli cominciavano a chiacchierare. Le donne corsero a portare brocche di vino, bicchieri, pagnotte, scodelle di brodo di gallina, piatti di maiale salato e l'agnello appena arrostito. Bernat cercò con lo sguardo Francesca, ma non la trovò: non era in mezzo alle altre donne. Incrociò lo sguardo del suocero, che aveva già raggiunto gli altri invitati, e con il mento gli fece un cenno in direzione delle donne. Con un movimento quasi impercettibile, Pere Esteve scosse la testa e gli diede le spalle.

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«Riprendete la vostra festa!» gridò Llorenç di Bellera con un cosciotto d'agnello in mano. «Avanti, su, continuate!»

In silenzio, gli invitati presero ad avviarsi verso il fuoco dove avevano arrostito gli agnelli. Solo un gruppo rimase immobile, al riparo dalle occhiate del signore e dei suoi amici: si trattava di Pere Esteve e dei suoi figli, con qualche altro invitato. Bernat scorse il bianco della camicia di lino tra loro e si avvicinò.

«Va' via di qui, idiota», gli sibilò il suocero.

Prima che potesse dire una parola, la madre di Francesca gli mise un piatto d'agnello in mano e gli bisbigliò: « Occupati del signore e non avvicinarti a mia figlia».

I contadini cominciarono a mangiare l'agnello, in silenzio, guardando verso il tavolo con la coda dell'occhio. Sullo spiazzo si sentivano solo le sghignazzate e gli strepiti del signore di Navarcles e dei suoi due amici. I soldati riposavano, in disparte.

«Prima vi si sentiva ridere», gridò il signore di Bellera, « tanto che ci avete addirittura fatto scappare la cacciagione. Ridete, maledizione!»

Nessuno obbedì.

«Bestie selvatiche», disse ai suoi accompagnatori, che accolsero il commento con le risate.

I tre saziarono il loro appetito con l'agnello e il pane bianco, mentre il maiale salato e le scodelle di bollito rimasero ai bordi del tavolo. Bernat mangiò in piedi, appartato, guardando di sguincio il gruppo di donne tra le quali si nascondeva Francesca.

«Altro vino!» ordinò il signore di Bellera, alzando il bicchiere. « Estanyol!» gridò poi rivolto al gruppo di invitati, « la prossima volta che paghi il censo delle mie terre, dovrai portarmi del vino come questo, non la brodaglia con cui tuo padre mi ha turlupinato sino a oggi.»

Bernat lo sentiva dietro di sé. La madre di Francesca corse da lui con la brocca.

«Estanyol, dove sei?»

Il cavaliere diede un pugno sul tavolo proprio mentre la donna si avvicinava con la brocca, e qualche goccia di vino schizzò gli abiti di Llorenç di Bellera.

Bernat nel frattempo l'aveva raggiunto. Gli amici del signo17

rotto ridevano della scena, e Pere Esteve si era portato le mani al volto.

«Vecchia stupida! Come osi rovesciare il vino?»

La donna chinò la testa in segno di sottomissione, e quando il nobile fece per schiaffeggiarla indietreggiò e cadde. Llorenç di Bellera si girò verso gli amici e scoppiò a ridere alla vista della donna che si allontanava gattonando. Ma poi tornò serio e si rivolse a Bernat: « Eccoti qui, Estanyol. Hai visto cosa combinano le vecchie maldestre? Non vorrai offendere il tuo signore, mi auguro. Sei così ignorante da non sapere che è la padrona di casa a dover servire gli invitati illustri? Dov'è tua moglie? » chiese scorrendo lo spiazzo con gli occhi. « Dov'è la sposa? » gridò di fronte al suo silenzio.

Pere Esteve prese Francesca per il braccio e si avvicinò al tavolo per affidarla a Bernat. La ragazza tremava.

«Signore», disse Bernat, « vi presento mia moglie, Francesca.»

«Così va meglio», commentò Llorenç, scrutandola da capo a piedi senza alcun pudore. « Così va meglio. D'ora in avanti ci servirai tu.»

Il signore di Navarcles tornò a sedersi e si rivolse alla ragazza levando il bicchiere. Francesca cercò una brocca e corse a servirlo, ma la mano le tremò mentre cercava di versare il vino. Llorenç di Bellera le afferrò il polso e glielo tenne fermo mentre il bicchiere si riempiva, poi la fece chinare per servire i suoi due accompagnatori, costringendola a sfiorargli il volto con il seno.

«Ecco come va servito il vino!» gridò il signore di Navarcles mentre Bernat, al suo fianco, serrava i pugni e digrignava i denti.

Llorenç di Bellera e i suoi amici continuarono a bere e a reclamare a gran voce la presenza di Francesca per ripetere, una volta dopo l'altra, la stessa scena.

I soldati si unirono ai lazzi del signore e dei suoi amici ogni volta che la ragazza veniva costretta a chinarsi sul tavolo per versare il vino. Francesca soffocava a stento le lacrime e Bernat sentiva il sangue pulsargli nei palmi delle mani, che serrava fino a conficcarsi le unghie nella carne. Gli invitati, in silenzio, distoglievano lo sguardo ogni volta che la giovane doveva servire il signore.

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«Estanyol!» gridò Llorenç di Bellera alzandosi in piedi, mentre teneva Francesca stretta per un polso. « In virtù del diritto che, come tuo signore, mi spetta, ho deciso di giacere con tua moglie nella sua prima notte di nozze.»

Gli accompagnatori del signore di Bellera accolsero con un applauso fragoroso l'annuncio dell'amico. Bernat balzò verso il tavolo ma, prima che potesse raggiungerlo, i due, che sembravano ubriachi, si alzarono in piedi portando la mano alla spada. Bernat si bloccò di colpo. Llorenç di Bellera lo guardò, sorrise e poi rise forte. La ragazza inchiodò gli occhi su Bernat, supplicando il suo aiuto.

Bernat fece un passo in avanti, ma si trovò la spada di uno degli amici del nobile puntata allo stomaco. Impotente, si fermò di nuovo. Francesca non gli staccò gli occhi di dosso mentre veniva trascinata verso la scala esterna della masseria. Quando il signore di quelle terre la prese per la cintura e se la caricò sulle spalle, la ragazza cominciò a urlare.

Gli amici del signore di Navarcles tornarono a sedersi e ripresero a bere e a ridere, mentre i soldati si appostavano ai piedi della scala, bloccando l'accesso a Bernat.

Fermo davanti a loro, Bernat non sentiva le sghignazzate degli amici del signore di Bellera e neanche i singhiozzi delle donne. Non piombò nel silenzio degli invitati e non badò neanche alle battute dei soldati, che si producevano in gesti osceni indicando la casa: ascoltava solo i lamenti di dolore che provenivano dalla finestra del primo piano.

E il cielo era sempre azzurro e nitido.

Dopo un arco di tempo che a Bernat parve interminabile, Llorenç di Bellera apparve in cima alla scala, sudato, legandosi la giubba da caccia.

«Estanyol!» gridò con voce tonante mentre passava accanto a Bernat e si avvicinava al tavolo, «adesso tocca a te. Donna Caterina», aggiunse a beneficio dei suoi accompagnatori, riferendosi alla sua giovane sposa, « ormai è stanca di veder spuntar fuori i miei bastardi... e io non sopporto più i suoi piagnistei. Fa' il tuo dovere di bravo sposo cristiano!» lo spronò rivolgendosi nuovamente a lui.

Bernat chinò la testa e, sotto lo sguardo attento di tutti, salì lentamente la scala. Entrò al primo piano, nell'ampia stanza

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che fungeva da cucina e sala da pranzo, dove, sul grande focolare addossato alla parete, riposava un'impressionante struttura di ferro battuto a mo' di camino. Bernat ascoltò il rumore dei propri passi sulle assi mentre si dirigeva verso la scala a mano che portava al secondo piano, destinato a camera da letto e a granaio. Sporse la testa oltre la botola di accesso al piano superiore e guardò dentro senza avere il coraggio di salire ancora. Di sopra regnava il silenzio.

Con il mento all'altezza del pavimento, vide gli abiti di Francesca sparpagliati ovunque: la bianca camicia di lino, orgoglio della famiglia, era in un angolo, tutta strappata. Alla fine si decise e salì.

Trovò Francesca raggomitolata in posizione fetale, lo sguardo perso, nuda sul pagliericcio nuovo, che adesso era macchiato di sangue. Il suo corpo, sudato, coperto di graffi e di lividi in diversi punti, era del tutto immobile.

«Estanyol », Bernat sentì la voce di Llorenç di Bellera provenire da sotto, « il tuo signore sta aspettando.»

Scosso dai conati, Bernat vomitò sulle scorte di grano finché non sentì che stavano per uscirgli di gola anche le budella. Francesca non si muoveva, e lui uscì di corsa dalla stanza. Quando arrivò di sotto, pallido, nella sua testa c'era un vortice di sensazioni, una più ripugnante dell'altra. Accecato, si ritrovò faccia a faccia con Llorenç di Bellera, che si ergeva in tutta la sua altezza ai piedi della scala.

«A quanto pare il maritino non ha consumato il matrimonio», disse il nobile ai suoi compari.

Bernat dovette alzare la testa per affrontare il signore di Navarcles.

«Non... non ho potuto, signore», balbettò.

Llorenç di Bellera rimase in silenzio per alcuni istanti.

«Be', se tu non hai potuto, sono sicuro che uno dei miei amici... o dei miei soldati potrà eccome. Come ti ho detto, non voglio altri bastardi.»

«Non avete il diritto...»

I contadini che seguivano la scena rabbrividirono al pensiero delle conseguenze di un tale affronto. Con una sola mano, il signore di Navarcles afferrò Bernat per il collo e strinse con forza mentre lui boccheggiava, cercando di respirare.

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«Come osi...? Pretendi forse di approfittare del diritto del tuo signore di giacere con tua moglie per venire poi a reclamare con un bastardo in braccio? » Llorenç scosse Bernat in aria prima di rimetterlo giù. « È questo che vuoi? I diritti del vassallaggio li stabilisco io e soltanto io, hai capito? Dimentichi che posso punirti come e quando voglio? » e schiaffeggiò Bernat con una forza tale da gettarlo a terra. « La mia frusta!» gridò poi, incollerito.

La frusta! Bernat era solo un bambino quando, come tanti altri, era stato costretto ad assistere, insieme ai genitori, al pubblico castigo inflitto dal signore di Bellera a un povero disgraziato, del quale nessuno avrebbe mai saputo con certezza di quale colpa si fosse macchiato. Il ricordo dello schioccare del cuoio sulla schiena dell'uomo gli risuonò nelle orecchie proprio come era stato in quel giorno lontano, e nelle notti successive, per buona parte della sua infanzia. Nessuno dei presenti aveva osato muoversi allora, come non osò muoversi adesso. Bernat cominciò a strisciare e alzò gli occhi verso il suo signore: era in piedi, imponente come una roccia, la mano tesa aspettando che un servitore gli porgesse la frusta. Ricordò la carne viva della schiena di quel disgraziato: una massa sanguinante da cui l'odio del nobile era riuscito a strappare tutta la carne. Bernat si trascinò a quattro zampe fino alla scala, strabuzzando gli occhi e tremando come quando, da bambino, aveva gli incubi. Nessuno si mosse. Nessuno parlò. E il sole continuava a splendere.

«Mi spiace, Francesca», balbettò quando le fu accanto, dopo aver salito penosamente la scala scortato da un soldato.

Si abbassò la calzamaglia e si raggomitolò accanto alla moglie. La ragazza non si era mossa. Bernat osservò il proprio pene flaccido e si chiese come avrebbe fatto ad adempiere agli ordini del suo signore. Con un solo dito accarezzò dolcemente il torso nudo di Francesca.

Lei non rispose.

«Devo... dobbiamo farlo», la spronò, afferrandole un polso per farla voltare verso di lui.

«Non toccarmi!» gridò lei, tornando per un attimo alla realtà.

«Mi scuoierà!» Bernat girò con violenza la moglie, scoprendone il corpo nudo.

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«Lasciami!»

Si divincolò, ma alla fine Bernat riuscì a prenderla per entrambi i polsi e a farla sollevare. Malgrado tutto, la giovane riusciva a resistergli.

«Verrà un altro!» le sussurrò. « Sarà un altro a... violentarti!»

La ragazza tornò in sé e sgranò gli occhi, accusatori.

«Mi scuoierà, mi scuoierà...» disse lui a mo' di scusa.

Francesca non smise un attimo di lottare, finché Bernat non si gettò su di lei. Le lacrime della ragazza non furono sufficienti a spegnere il desiderio che Bernat aveva sentito nascere a contatto con il corpo della giovane, e la penetrò mentre lei gridava contro il mondo intero.

Il soldato che aveva scortato Bernat e che, senza alcun pudore, seguiva la scena sporgendo di mezzo busto dalla botola del pavimento, dovette ritenere soddisfacenti quei lamenti.

Bernat era ancora dentro di lei quando Francesca smise di opporre resistenza, e poco alla volta le sue urla diventarono singhiozzi. Fu dunque il pianto di sua moglie ad accompagnare l'orgasmo di Bernat.

Llorenç di Bellera aveva sentito le grida disperate provenienti dalla finestra del secondo piano, e quando la spia gli confermò che il matrimonio era stato consumato, chiese i cavalli e se ne andò con la sua sinistra compagnia. La maggior parte degli invitati, abbattuti, lo imitò.

Il silenzio scese sulla stanza. Bernat, ancora sopra la moglie, non sapeva cosa fare. Si accorse solo in quel momento che la stava ancora stringendo con violenza per le spalle: per liberarla spostò le mani sul pagliericcio, ai lati della testa di lei, ma ricadde sul suo corpo inerte. D'istinto si risollevò immediatamente, reggendosi sulle braccia tese, e incrociò lo sguardo di Francesca, che lo fissava senza vederlo. Da come era messo, qualunque suo movimento lo avrebbe costretto a toccare ancora il corpo della moglie. Voleva evitarlo a tutti i costi, e non sapeva come, senza farle di nuovo del male. Avrebbe dato qualunque cosa per poter levitare e staccarsi da Francesca senza toccarla più.

Alla fine, dopo qualche istante di indecisione che gli parve eterno, si scostò da lei e le si inginocchiò accanto. Neanche adesso però sapeva cosa fare: se alzarsi, sdraiarsi al suo fianco, lasciare la stanza o provare a giustificarsi... Distolse gli occhi dal

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corpo di Francesca, supino, oscenamente esposto. Cercò il suo viso, a meno di due spanne da lui, ma non riuscì a trovarlo. Chinò gli occhi, e la vista del proprio membro nudo, di colpo, lo riempì di vergogna.

«Mi dispia...»

Francesca lo sorprese con un movimento inaspettato, voltandosi verso di lui. Bernat sperava di cogliere comprensione nel suo sguardo, ma lo trovò completamente vuoto.

«Mi dispiace», insistette.

Francesca continuava a guardarlo senza il minimo cenno di reazione.

«Mi dispiace, mi dispiace. Mi... mi avrebbe scuoiato», balbettò.

Bernat ripensò al signore di Navarcles, in piedi, la mano tesa verso la frusta. Interrogò ancora una volta lo sguardo vuoto di Francesca. Cercò una risposta negli occhi della ragazza, ed ebbe paura: gridavano in silenzio, gridavano come aveva gridato lei.

D'istinto, come se volesse farle intendere che la capiva, come se fosse solo una bambina, Bernat tese la mano per accarezzarle una guancia.

«Io...» provò a dire.

Ma non arrivò a toccarla. Quando fu sul punto di sfiorarla, tutti i muscoli di Francesca s'irrigidirono. Bernat scostò la mano, se la portò al viso e scoppiò in lacrime.

Francesca era ancora immobile, lo sguardo vuoto.

Alla fine Bernat smise di piangere, si alzò, si risollevò la calzamaglia e sparì dalla botola che portava di sotto. Quando non sentì più i suoi passi, Francesca si alzò e si avvicinò al baule, l'unico mobilio della stanza da letto, per prendere le proprie cose. Una volta vestita, raccolse delicatamente gli indumenti strappati, tra cui la preziosa camicia di lino bianco; la ripiegò con cura, cercando di far combaciare i brandelli, e la ripose nel baule.

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Francesca vagava per la masseria come un'anima in pena. Sbrigava i lavori domestici, ma sempre nel silenzio più assoluto, trasmettendo una tristezza che presto contagiò la casa degli Estanyol fin nel suo angolo più remoto.

In numerose occasioni Bernat aveva provato a giustificarsi per l'accaduto. Man mano che si allontanava l'orrore del giorno delle sue nozze, Bernat riusciva a formulare spiegazioni più articolate: la paura per la crudeltà del signore, le conseguenze, tanto per lui quanto per lei, cui sarebbero andati incontro se si fosse rifiutato di obbedire. Furono migliaia le scuse che pronunciò davanti a Francesca, che lo guardava e ascoltava muta le sue parole, come se aspettasse solo il momento in cui la spiegazione di Bernat, come ogni volta, sarebbe arrivata allo stesso argomento cruciale: « Sarebbe salito un altro. Se non l'avessi fatto io...» Perché quando Bernat arrivava a quel punto, poi taceva; qualsiasi giustificazione crollava e lo stupro tornava a stagliarsi tra loro come una barriera insormontabile. I « mi dispiace», le scuse e i silenzi di risposta chiusero la ferita che Bernat cercava di curare nella moglie, e il suo rimorso si diluì con il passare dei giorni nelle faccende quotidiane, finché Bernat non si rassegnò all'indifferenza di lei.

Tutte le mattine, all'alba, quando si alzava per dedicarsi ai duri lavori della campagna, si affacciava dalla finestra della camera da letto. Lo faceva sempre anche con suo padre, persino negli ultimi tempi: si appoggiavano al grosso davanzale di pietra, scrutavano il cielo per prevedere che tempo avrebbe fatto. Guardavano le proprie terre, fertili, dove si distinguevano chiaramente le diverse coltivazioni in esse praticate, che si estendevano nell'immensa valle ai piedi della masseria. Osservavano gli uccelli e ascoltavano attentamente i versi degli animali della stalla al piano terra. Erano attimi di profonda comunione tra padre e figlio e tra loro e la terra, rari momenti in cui il vecchio

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sembrava tornare in sé. Bernat aveva sognato di poter condividere quegli istanti con la moglie, invece di viverli da solo, mentre lei si affaccendava al piano di sotto, e di poterle riferire tutto quello che lui aveva sentito dalla bocca di suo padre e questi dal suo, e così via, per generazioni e generazioni.

Aveva sognato di poterle raccontare che quelle belle terre un tempo erano allodiali, di proprietà degli Estanyol, e che i suoi antenati le avevano lavorate con gioia e amore ricevendone i frutti, senza bisogno di pagare tasse o imposte e rendere omaggio a signori superbi e ingiusti. Aveva sognato di poter condividere con lei, sua moglie, la futura madre degli eredi di quei campi, la stessa tristezza che suo padre aveva spartito con lui quando gli aveva rivelato le ragioni per cui adesso, trecento anni dopo, i figli da lei partoriti sarebbero diventati servi di un'altra persona. Gli sarebbe piaciuto poterle dire con orgoglio, come suo padre aveva fatto con lui, che trecento anni prima gli Estanyol, e molti altri come loro, tenevano le armi in casa, da quegli uomini liberi che erano, per poter accorrere, agli ordini del conte Raimondo Borrell e di suo fratello Ermengol d'Urgell, a difendere la Vecchia Catalogna dalle razzie dei saraceni: avrebbe voluto dirle come, agli ordini del conte, vari Estanyol avevano fatto parte del vittorioso esercito che aveva sconfitto i saraceni del califfato di Cordova ad Albesa, oltre Balaguer, nella piana di Urgell. Suo padre glielo raccontava commosso nei momenti di riposo, ma la commozione diventava malinconia quando narrava della morte del conte Raimondo Borrell, nell'anno 1017. Secondo lui, era stato quel decesso la causa del loro asservimento: il figlio del conte Borrell, quindicenne, era successo al padre; sua madre, Ermisenda di Carcassonne, era diventata reggente e i baroni della Catalogna - gli stessi che avevano lottato gomito a gomito con i contadini - una volta assicurate le frontiere del principato avevano approfittato del vuoto di potere per estorcere i terreni ai contadini, uccidere quelli che non si arrendevano e ottenere la proprietà delle terre, concedendo in cambio a chi prima le possedeva di coltivarle versando parte dei ricavi al signore. Gli Estanyol avevano ceduto, come tanti altri, ma molte famiglie del contado erano state brutalmente e crudelmente assassinate.

«Da uomini liberi che eravamo», gli diceva suo padre, « noi

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contadini lottavamo al fianco dei cavalieri, a piedi, ovviamente, contro i mori, ma non abbiamo mai potuto lottare contro i nobili, e quando i successivi conti di Barcellona vollero riprendersi le redini del principato catalano si imbatterono in una nobiltà ricca e potente, con cui dovettero scendere a patti, e sempre a danno nostro. All'inizio si presero le nostre terre, quelle della Vecchia Catalogna, poi la libertà, la vita stessa... l'onore. Furono i tuoi nonni», gli raccontava con voce tremante, senza staccare gli occhi dalla terra, « a perdere la libertà. Venne loro proibito di abbandonare i campi, furono trasformati in servi, uomini incatenati ai loro fondi, cui restavano legati anche i figli, come me, e i figli dei figli, come te. La nostra vita.... La tua vita è nelle mani del tuo signore che amministra la giustizia e ha il diritto di maltrattarci e di calpestare il nostro onore. Non possiamo neanche difenderci! Se qualcuno ti offende, dovrai rivolgerti al tuo signore perché sia lui a chiedere ammenda e, se la ottiene, potrà tenersi metà del risarcimento.»

Poi, ogni volta, gli recitava i molti diritti del signore, che alla fine si erano impressi nella memoria di Bernat, il quale non si era mai azzardato a interrompere l'adirato monologo del padre. Il signore poteva in qualsiasi momento pretendere un giuramento dal suo servo. Aveva il diritto di privarlo di una parte dei suoi beni, se il servo moriva senza lasciare testamento o quando chi ereditava era il figlio; se era sterile; se la moglie commetteva adulterio; se gli si incendiava la masseria; se la ipotecava; se si univa in matrimonio al vassallo di un altro signore e, naturalmente, se cercava di abbandonarlo. Il signore poteva giacere con la moglie del vassallo la prima notte di nozze, poteva costringere le donne dei vassalli a fare da balie ai suoi figli e le figlie a lavorare come serve a palazzo. I servi erano costretti a lavorare gratuitamente le terre del castello e a contribuire alla sua difesa, a versare al signore parte dei ricavi dei poderi, a ospitare lui o i suoi messi nella propria casa e a nutrirli per tutto il tempo che si fermavano, a pagare per l'uso del bosco e dei pascoli, a utilizzare, previo pagamento, la fucina, il forno e il mulino del signore, e a mandargli regali per Natale e le altre festività.

E cosa dire della Chiesa? Quando suo padre si poneva questa domanda si arrabbiava ancora di più.

«Monaci, frati, sacerdoti, diaconi, arcidiaconi, canonici,

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abati e vescovi», recitava, « sono tutti uguali ai signori feudali che ci opprimono! Hanno persino proibito a noi contadini di prendere i voti per impedirci di sfuggire alla terra, perpetuando così la nostra schiavitù.

«Bernat», lo ammoniva seriamente nelle occasioni in cui la Chiesa diventava il bersaglio della sua ira, « non ti fidare mai di chi dice di servire Dio. Ti parleranno con serenità e buone parole, così colte che non riuscirai a capirle. Cercheranno di convincerti con argomentazioni che solo loro sanno imbastire per catturare la tua ragione e la tua coscienza. Ti si presenteranno come uomini buoni e affermeranno di volerci salvare dal male e dalla tentazione, ma in realtà la loro opinione sul nostro conto è scritta e tutti loro, come i soldati di Cristo che sono, seguono fedelmente quanto trovano nei libri. Le loro parole sono scuse e le loro ragioni identiche a quelle che tu potresti dare a un moccioso.»

«Padre», ricordava di avergli chiesto una volta Bernat, « cosa dicono i loro libri di noi contadini?»

Il padre aveva guardato i campi, fin dove si confondevano con l'orizzonte, proprio lì, perché non voleva guardare in alto, verso il punto del cui nome si riempivano la bocca frati e suore.

«Dicono che siamo bestie, bruti, e che non siamo in grado di capire il significato della cortesia. Dicono che siamo orribili, villani e abominevoli, svergognati e ignoranti. Dicono che siamo crudeli e testardi, che non meritiamo alcun onore perché non sappiamo apprezzarlo, e che siamo capaci di capire le cose solo con la forza. Dicono che...»* [* Le parole sono tratte da Lo crestià, di Francesc Eiximenis, severo trattato di morale medievale. (N.d.A.)]

«Padre, siamo davvero tutte queste cose?»

«Figlio, sono loro che vorrebbero farci diventare così.»

«Ma voi pregate tutti i giorni, e quando mia madre è morta...»

«La Madonna, figlio, prego la Madonna. La Santa Vergine non ha niente a che vedere con frati e sacerdoti. A lei possiamo continuare a credere.»

A Bernat Estanyol sarebbe piaciuto poter continuare ad appoggiarsi al davanzale della finestra, la mattina, e parlare con la

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giovane moglie: raccontarle quello che le aveva detto suo padre e guardare i campi insieme a lei.

In quello che restava di settembre e per tutto il mese di ottobre, Bernat preparò i buoi e arò i campi, rompendo e dissodando la dura crosta che li copriva perché il sole, l'aria e il concime rinnovassero la terra. Poi, con l'aiuto di Francesca, seminò il grano: lei, con una sporta, gettava i semi, e lui, con la coppia di buoi, prima arava e poi spianava la terra seminata con una pesante lastra di ferro. Lavoravano in silenzio, un silenzio rotto solo dalle grida che Bernat lanciava ai buoi e che risuonavano in tutta la vallata. Lui sperava che lavorando insieme si sarebbero avvicinati, ma non accadde: Francesca restava trincerata nella sua indifferenza, prendeva la sporta e gettava i semi senza degnarlo di un'occhiata.

Arrivò novembre e Bernat si dedicò ai tipici lavori autunnali: portava i maiali al pascolo per prepararli alla macellazione, raccoglieva la legna per la masseria e concime per la terra, preparava l'orto e i campi che avrebbero seminato in primavera e potava e innestava le viti. Quando tornava alla masseria, Francesca si era già occupata dei lavori domestici, dell'orto, delle galline e dei conigli. Sera dopo sera, gli serviva la cena in silenzio e se ne andava a dormire; la mattina si alzava prima di lui e quando Bernat scendeva trovava la colazione in tavola e la bisaccia pronta con il pranzo. Mentre faceva colazione la sentiva nella stalla, che si occupava degli animali.

Il Natale volò e in gennaio portò a termine la raccolta delle olive. Bernat non aveva moltissimi ulivi, solo quelli necessari a coprire i bisogni della masseria e a pagare le rendite al signore.

Poi dovette macellare il maiale. Quando suo padre era in vita, i vicini, che in genere non si facevano quasi mai vedere alla masseria degli Estanyol, non mancavano mai quando si macellava. Bernat ricordava quelle giornate come vere e proprie feste: si ammazzavano i maiali e poi si mangiava e si beveva mentre le donne cucinavano la carne.

Una mattina si presentarono gli Esteve, padre, madre e due dei fratelli. Bernat li accolse sullo spiazzo della masseria, con Francesca che aspettava dietro di lui.

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«Come stai, figlia? » le chiese la madre.

Francesca non rispose, ma si lasciò abbracciare. Bernat osservò la scena: la madre, ansiosa, stringeva la figlia sperando che le buttasse le braccia al collo. Ma non lo fece, rimase immobile. Bernat distolse gli occhi per posarli sul suocero.

«Francesca», si limitò a dire Pere Esteve con lo sguardo perso oltre la ragazza.

I fratelli la salutarono con un cenno della mano.

Francesca andò nel porcile a prendere il maiale; gli altri restarono sullo spiazzo. Nessuno fiatò; solo un singhiozzo soffocato della madre ruppe il silenzio. Bernat era tentato di consolarla, ma si trattenne, vedendo che né il marito né i figli lo facevano.

Francesca apparve trascinando il maiale, restio a seguirla come se intuisse quale destino lo aspettava, e lo consegnò al marito con il solito mutismo. Bernat e i due fratelli di Francesca sdraiarono il maiale a terra e vi si sedettero sopra, mentre gli strilli acuti della bestia risuonavano per tutta la valle degli Estanyol. Pere Esteve lo sgozzò con un colpo esperto e tutti aspettarono in silenzio mentre il sangue dell'animale cadeva nei catini che le donne cambiavano man mano che si riempivano. Nessuno guardava gli altri in faccia.

Non bevvero neanche un bicchiere di vino mentre madre e figlia si affaccendavano attorno al maiale, dopo che era stato squartato.

All'imbrunire, terminato il lavoro, la madre cercò di nuovo di abbracciare la figlia. Bernat le osservava, sperando in una reazione di Francesca, che non ci fu. Il padre e i fratelli si congedarono da lei con gli occhi bassi, e la madre si avvicinò a Bernat.

«Quando pensi che il bambino stia per nascere», gli disse prendendolo in disparte, «mandami a chiamare. Non credo che lei lo farà.»

Gli Esteve si incamminarono verso casa. Quella sera, quando Francesca salì la scala verso la camera, Bernat non riuscì a smettere di guardarle il ventre.

Alla fine di maggio, il primo giorno di mietitura, Bernat contemplò i suoi campi con la falce sulla spalla. Come avrebbe fatto

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a mietere da solo tutto quel grano? Da una quindicina di giorni aveva vietato a Francesca di fare qualsiasi sforzo, perché era già svenuta un paio di volte. Lei aveva ascoltato i suoi ordini in silenzio e aveva obbedito. Perché, poi? Bernat tornò a guardare i campi immensi che lo aspettavano. In fin dei conti, si chiedeva, se il figlio non fosse stato suo? Le donne partorivano nei campi mentre lavoravano, ma dopo che l'aveva vista cadere una volta e poi un'altra, non poteva fare a meno di preoccuparsi.

Bernat impugnò la falce e cominciò a tagliare con rabbia. Le spighe volavano in aria. Il sole raggiunse il mezzogiorno, ma Bernat non si fermò neanche per mangiare. Il campo era immenso. Aveva sempre mietuto insieme a suo padre, persino quando questi stava già male, ma il grano sembrava farlo rivivere. «Dai, figliolo!» lo incoraggiava, «non aspettiamo che un temporale o la grandine ce lo rovini.» E falciavano. Quando uno era stanco, si appoggiava all'altro. Mangiavano all'ombra e bevevano buon vino invecchiato, quello che faceva suo padre, e chiacchieravano, ridevano e... Adesso invece sentiva solo il sibilo della falce che fendeva l'aria e colpiva la spiga: nient'altro, la falce, la falce, la falce, che sembrava sollevare nell'aria gli interrogativi sulla paternità di quel bambino la cui nascita era ormai imminente.

Nelle giornate seguenti, Bernat rimase a mietere fino al tramonto; qualche volta lavorò anche alla luce della luna. Quando tornava alla masseria, trovava la cena sul tavolo. Si lavava nel bacile e mangiava svogliatamente, finché, una sera, la culla che aveva intagliato durante l'inverno, quando la gravidanza della moglie era ormai evidente, si mosse. Bernat lo notò con la coda dell'occhio, ma continuò a sorbire la minestra. Francesca dormiva al piano di sopra. Guardò di nuovo la culla. Una cucchiaiata, due, tre... La culla tornò a muoversi. Bernat rimase a osservarla con la quarta cucchiaiata di minestra ferma a mezz'aria. Scrutò nel resto della stanza, cercando una traccia della presenza della suocera... Ma niente. L'aveva partorito da sola... Ed era andata a dormire.

Posò il cucchiaio e si alzò, ma prima di arrivare alla culla si fermò, si voltò e tornò a sedersi. I dubbi su quel figlio gli piombarono addosso, più forti che mai. «Tutti gli Estanyol hanno un neo vicino all'occhio destro», gli aveva detto suo padre. Lui

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l'aveva, e suo padre anche. « Ce l'aveva anche tuo nonno», gli aveva assicurato, « e il padre di tuo nonno...»

Bernat era sfinito: aveva lavorato dall'alba al tramonto, e andava avanti così da giorni. Lanciò un'altra occhiata alla culla.

Si alzò di nuovo e si avvicinò alla creatura. Dormiva placidamente, con le manine aperte, coperta da un lenzuolo fatto con i brandelli di una camicia di lino bianco. Bernat girò il bambino per guardarlo in volto.

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Francesca non guardava neanche il bambino. Si attaccava il piccolo - che avevano chiamato Arnau - prima a un seno e poi all'altro, senza mai guardarlo. Bernat aveva visto allattare le contadine e, dalla più agiata alla più umile, accennavano un sorriso, abbassavano le palpebre o accarezzavano i loro figli mentre li nutrivano. Francesca no. Lo puliva, lo allattava, ma nei due mesi da quando il bambino era nato Bernat non l'aveva mai sentita rivolgersi a lui con dolcezza, non l'aveva mai vista giocare con lui, prendergli le manine, mordicchiargliele, baciarlo o, semplicemente, accarezzarlo. Che colpa ne ha lui, Francesca? pensava Bernat quando prendeva Arnau in braccio. Allora lo portava lontano dalla madre, dove potesse parlargli e accarezzarlo al riparo dalla freddezza di lei.

Perché il bambino era suo. Tutti gli Estanyol ce l'hanno, si diceva Bernat quando baciava il neo che Arnau aveva sotto il sopracciglio destro. « Ce l'abbiamo tutti, padre», ripeteva poi alzando il bambino al cielo.

Quel neo ben presto diventò qualcosa di più di un semplice motivo di tranquillità per Bernat. Quando Francesca andava al castello a cuocere il pane, le donne scostavano la copertina che copriva Arnau per guardarlo. Francesca le lasciava fare, mentre quelle si lanciavano un'occhiata sorridente davanti al fornaio e ai soldati. E quando Bernat andava a lavorare le terre del suo signore, i contadini gli davano pacche sulle spalle e si congratulavano con lui davanti allo sgherro preposto a sorvegliarli.

Molti erano i figli bastardi di Llorenç di Bellera, sebbene non ci fossero mai stati reclami ufficiali; la sua parola valeva molto più di quella di una qualsiasi contadina ignorante, anche se poi, con gli amici, non faceva che vantare la propria virilità. Ma era evidente che Arnau Estanyol non fosse figlio suo, e il signore di Navarcles cominciò a notare i sorrisetti maliziosi delle contadine che venivano al castello. Dalle sue stanze le vedeva

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bisbigliare tra loro, e persino con i suoi soldati, quando incontravano la moglie di Estanyol. La voce si diffuse oltre la cerchia dei contadini, e Llorenç di Bellera diventò il bersaglio delle battute dei suoi pari.

«Mangia, Bellera», gli disse, sorridente, un barone in visita al suo castello. « Mi è giunta voce che hai bisogno di rimetterti in forze.»

I commensali ospiti del signore di Navarcles rimarcarono la battuta con un coro di risate.

«Nelle mie terre», commentò un altro, «non permetto a nessun contadino di mettere in dubbio la mia virilità.»

«Hai forse bandito i nei? » replicò il primo, ormai sotto gli effetti del vino, provocando un'ondata di risate fragorose, cui Llorenç di Bellera rispose con un sorriso forzato.

Accadde all'inizio di agosto. Arnau dormiva nella culla all'ombra di un fico, nel cortile davanti alla masseria; sua madre sbrigava le faccende tra l'orto e le stalle e suo padre, senza perdere d'occhio la culla di legno, costringeva i buoi a calpestare senza sosta il frumento che aveva sparso per il cortile perché le spighe liberassero il prezioso chicco che li avrebbe nutriti per tutto l'anno.

Non li sentirono arrivare. Tre cavalieri irruppero al galoppo nella masseria: l'ufficiale di giustizia di Llorenç di Bellera e altri due uomini, armati e in sella a tre animali imponenti. Bernat notò che i cavalli non erano bardati come per le cavalcate ordinate dal suo signore. Probabilmente non l'avevano ritenuto necessario per intimidire un semplice contadino. L'ufficiale rimase un po' in disparte, mentre gli altri due, al passo, spronarono le loro cavalcature verso Bernat. I cavalli, addestrati per la guerra, non esitarono un attimo e si scagliarono contro di lui. Bernat indietreggiò incespicando e cadde a terra, vicinissimo agli zoccoli delle bestie irrequiete. Solo allora i cavalieri li fermarono.

«Il tuo signore», gridò l'ufficiale di giustizia, «Llorenç di Bellera, reclama i servigi di tua moglie come balia per allattare don Jaume, il figlio della tua signora, donna Caterina.»

Bernat fece per alzarsi, ma uno dei cavalieri spronò ancora il cavallo.

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L'ufficiale andò verso Francesca: « Prendi tuo figlio e vieni con noi!» le ordinò.

Francesca prese Arnau dalla culla e s'incamminò, a capo chino, dietro il cavallo dell'ufficiale. Bernat gridò e cercò di rialzarsi, ma prima di poterlo fare uno dei cavalieri gli aizzò contro il cavallo e lo fece ripiombare a terra. Ci riprovò ancora, ma fu inutile: i due cavalieri giocavano a inseguirlo e a farlo cadere, tra le risate. Alla fine, ansimante e malconcio, rimase disteso a terra, ai piedi degli animali, che continuavano a mordere il freno. Una volta che l'ufficiale si fu perso in lontananza, i soldati si girarono e spronarono i cavalli.

Quando tornò il silenzio nella masseria, Bernat guardò il polverone sollevato dai cavalieri che si allontanavano e posò gli occhi sui buoi: stavano mangiando le spighe calpestate.

Da quel giorno Bernat badò meccanicamente agli animali e ai campi, senza mai smettere di pensare a suo figlio. La notte vagava per la masseria, ricordando il sussurro infantile che parlava della vita e del futuro, il cigolio del legno della culla quando Arnau si muoveva, il pianto acuto con cui chiedeva da mangiare. Cercava di ritrovare, sui muri della casa, in un cantone qualsiasi, l'odore d'innocenza del bambino. Dove dormiva, adesso? La sua culla, quella che lui aveva fatto con le proprie mani, era lì. Quando riusciva a prendere sonno, era il silenzio a svegliarlo. Allora si rannicchiava sul pagliericcio e lasciava passare le ore, con i versi degli animali da cortile come unica compagnia. Bernat si recava regolarmente al castello di Llorenç di Bellera per cuocere il pane, compito di cui non si poteva più occupare Francesca, prigioniera e a disposizione di donna Caterina e del capriccioso appetito di suo figlio. Il castello - come gli aveva raccontato suo padre quando ci erano dovuti andare insieme -all'inizio non era che una torre di vedetta in cima a un'altura. Gli antenati di Llorenç di Bellera avevano approfittato del vuoto di potere seguito alla morte del conte Raimondo Borrell per fortificarla, costringendo i contadini dei loro sempre più estesi possedimenti a lavorarci gratuitamente. Intorno alla torre maestra erano stati costruiti, senza ordine né progetto, il forno, una fucina, nuove scuderie, granai, cucine e stanze da letto.

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Il castello di Llorenç di Bellera distava più di una lega dalla masseria degli Estanyol. All'inizio non riuscì ad avere notizie di suo figlio. A chiunque chiedesse, la risposta era sempre la stessa: sua moglie e il bambino si trovavano nelle stanze private di donna Caterina. L'unica differenza era che, nel rispondergli, alcuni ridevano cinicamente, altri abbassavano gli occhi come se non volessero affrontare il padre della creatura. Bernat sopportò quelle scuse per un mese intero, finché un giorno, mentre usciva dal forno con le due pagnotte di farina di fave, si imbatté in uno dei miseri garzoni della fucina che già in altre occasioni aveva interrogato circa il destino del piccolo.

«Cosa sai del mio Arnau? » gli chiese.

In giro non c'era nessuno. Il ragazzo cercò di evitarlo fingendo di non aver sentito, ma Bernat lo prese per un braccio.

«Ti ho chiesto cosa sai del mio Arnau.»

«Tua moglie e tuo figlio...» esordì l'altro tenendo gli occhi bassi.

«So già dove si trova», lo interruppe Bernat. « Quello che ti sto chiedendo è se Arnau sta bene.»

Il ragazzo, sempre con gli occhi bassi, giocherellò con i piedi sulla sabbia del terreno. Bernat lo scosse.

«Sta bene?»

Il garzone non alzava lo sguardo, e Bernat aumentò la violenza della presa.

«No!» gridò il ragazzo. Bernat lo lasciò subito andare e lo guardò dritto negli occhi. «No», ripeté l'altro davanti allo sguardo interrogativo del padre.

«Cosa sta succedendo al mio bambino?»

«Non posso... Abbiamo avuto ordine di non dirti...» La voce del ragazzo s'incrinò.

Bernat lo strattonò ancora con forza e alzò la voce senza preoccuparsi di richiamare l'attenzione della guardia.

«Cosa sta succedendo a mio figlio? Cosa? Rispondi!»

«Non posso. Non possiamo...»

«Questo ti farebbe cambiare idea? » gli chiese, porgendogli una forma di pane.

Gli occhi del garzone si spalancarono. Senza rispondere, strappò il pane di mano a Bernat e lo addentò come se non

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mangiasse da giorni. Bernat lo trascinò al riparo da sguardi inopportuni.

«Che ne è stato del mio Arnau? » indagò ancora con ansia.

Il ragazzo lo guardò con la bocca piena e gli fece segno di seguirlo. Avanzarono con circospezione, rasente i muri, sino alla fucina. Ne varcarono la soglia e andarono nel retro. Il ragazzo aprì la porticina di una stamberga annessa al locale, in cui venivano riposti materiali e attrezzi ed entrò, seguito da Bernat. Appena fu dentro, il ragazzo si sedette per terra e divorò la pagnotta. Bernat scrutò l'interno della stanza. Faceva un caldo soffocante, e non vide niente che potesse spiegargli perché il garzone l'avesse portato lì: in quel posto c'erano solo attrezzi e ferri vecchi.

Bernat interrogò il ragazzo con lo sguardo. Costui, masticando con un'espressione di godimento, gli rispose indicandogli un angolo del tugurio e, sempre a gesti, lo spinse ad andare in quella direzione.

Sopra un mucchio di assi, abbandonato e denutrito, in una rozza cesta di sparto, c'era il bambino, che aspettava solo di morire. La camicia di lino bianca era ridotta a uno straccio sporco. Bernat non poté soffocare il grido che gli salì da dentro, un grido sordo, un singhiozzo che non aveva più granché di umano. Prese in braccio Arnau e lo strinse a sé. La creatura rispose con un verso infinitamente flebile, ma rispose.

«Il signore ha ordinato che tuo figlio restasse qui», sentì dire al garzone. «All'inizio tua moglie veniva diverse volte al giorno e quando lo allattava si calmava.»

Bernat, con le lacrime agli occhi, si stringeva al petto il corpicino, cercando di infondergli vita.

«Prima è venuto l'ufficiale di giustizia», proseguì il ragazzo. «Tua moglie ha lottato e gridato... L'ho vista io, ero nella fucina.» E indicò una fessura tra le assi di legno della parete. « Ma l'ufficiale è un uomo forte... Quando ha finito lui, è entrato il signore, accompagnato da alcuni soldati. Tua moglie giaceva per terra e il signore ha cominciato a ridere di lei. Poi hanno riso tutti. Da quel giorno, ogni volta che tua moglie scendeva per allattare il bambino, i soldati l'aspettavano alla porta. Lei non poteva resistere. Da alcuni giorni ormai non viene più. I soldati... tutti, senza eccezione, la pigliano non appena esce dalle

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stanze di donna Caterina. E così non ha nemmeno il tempo di arrivare qui. A volte il signore li vede, ma si limita a riderci sopra.»

Senza pensarci due volte, Bernat si sollevò la camicia e vi infilò sotto il corpicino del figlio; poi celò la sagoma sotto la stoffa con la pagnotta di pane che gli restava. Il piccolo non si mosse neanche. Il garzone si alzò bruscamente quando vide che lui si avvicinava alla porta.

«Il signore l'ha proibito. Non puoi...!»

«Lasciami, ragazzo!»

L'altro cercò di anticiparlo, ma Bernat non esitò un attimo, e reggendo con una sola mano la pagnotta e il piccolo Arnau, afferrò con l'altra una sbarra di ferro appesa alla parete e si girò con una mossa disperata. La sbarra colpì il ragazzo alla testa proprio quando stava per uscire dalla stamberga. Cadde a terra senza il tempo di dire una parola. Bernat non lo degnò di un'occhiata, si limitò ad andarsene chiudendosi la porta alle spalle.

Non ebbe nessun problema a uscire dal castello di Llorenç di Bellera. Nessuno avrebbe mai immaginato che, sotto la pagnotta, nascondesse il corpicino malconcio del figlio. Solo quando ebbe varcato la porta del castello pensò a Francesca e ai soldati. Indignato, la incolpò mentalmente per non aver mai cercato di mettersi in contatto con lui, per non averlo avvertito del pericolo che correva il figlio, per non aver lottato per Arnau... Bernat strinse a sé il corpicino del piccolo e pensò alla madre, violentata dai soldati mentre Arnau aspettava solo di morire su un mucchio di luride assi.

Quanto tempo ci avrebbero messo a scoprire il ragazzo ferito? E se l'aveva ucciso? Aveva chiuso la porta della stamberga? Sulla via del ritorno la testa di Bernat era affollata di domande. Sì, l'aveva chiusa. Ricordava vagamente di averlo fatto.

Appena svoltò oltre la prima curva del sentiero serpeggiante che portava al castello e questo sparì momentaneamente dalla sua vista, Bernat liberò il figlioletto: gli occhi, spenti, sembravano smarriti. Pesava meno della pagnotta! Le braccine e le gambette... Gli si rivoltò lo stomaco e sentì un nodo alla gola. Le la37

crime cominciarono a scorrere, ma si disse subito che non era il momento. Sapeva che l'avrebbero inseguito, che gli avrebbero lanciato addosso i cani, eppure... che senso aveva fuggire se il bambino non sopravviveva? Bernat si allontanò dal sentiero e si nascose dietro ad alcuni cespugli. Si inginocchiò, posò la pagnotta a terra e prese Arnau con entrambe le mani, sollevandolo davanti ai propri occhi. Il bambino rimase inerte, con la testina piegata, penzolante.

«Arnau!» sussurrò Bernat. Lo scosse delicatamente per diversi istanti, senza arrendersi. Gli occhietti del piccolo si mossero per guardarlo. Con la faccia bagnata dalle lacrime, Bernat si rese conto che il piccino non aveva neanche la forza di piangere. Se lo adagiò su un braccio. Sminuzzò un po' di mollica di pane, che bagnò con la saliva e avvicinò alla bocca del piccolo. Arnau non reagì ma Bernat insistette finché non riuscì a infilargliela in bocca. Aspettò. « Mandala giù, figliolo», lo supplicò. Le labbra di Bernat tremarono davanti a un'impercettibile contrazione della gola di Arnau. Sbriciolò altro pane e ripeté frettolosamente l'operazione. Arnau deglutì ancora, altre sette volte.

«Ce la faremo», gli disse Bernat. « Te lo prometto.»

Tornò sul sentiero: sembrava tutto calmo. Non dovevano avere scoperto il ragazzo, non ancora, almeno, perché in caso contrario in giro ci sarebbe stata un bel po' di agitazione. Per un attimo pensò a Llorenç di Bellera: crudele, malvagio, implacabile. Con quanta soddisfazione avrebbe dato la caccia a un Estanyol!

«Ce la faremo, Arnau», ripeté mettendosi a correre verso la masseria.

Coprì tutta la distanza senza guardarsi indietro. Neppure quando fu arrivato si concesse un attimo di riposo: posò Arnau nella culla, prese un sacco e lo riempì di grano macinato e legumi secchi, un otre di acqua, uno di latte, carne salata, una scodella, un cucchiaio e degli abiti, i pochi soldi che aveva nascosto, un coltello da caccia e la sua balestra... Com'era orgoglioso mio padre di questa balestra! pensò mentre la soppesava tra le mani. Aveva lottato al fianco del conte Raimondo Borrell quando gli Estanyol erano uomini liberi, gli ripeteva ogni volta che gli insegnava a usarla. Liberi! Bernat si legò il bambino al

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petto e si caricò in spalla il resto. Sarebbe stato sempre un servo, a meno che...

«Per il momento vivremo come fuggiaschi», disse al bambino prima di darsi alla macchia. « Nessuno conosce questi monti meglio degli Estanyol », gli assicurò quando furono fra i boschi. «Siamo sempre andati a caccia in queste terre, sai?» Bernat camminò tra le frasche sino a un ruscello, ci entrò e con l'acqua alle ginocchia cominciò a risalirne il corso. Arnau aveva chiuso gli occhi e dormiva, ma Bernat continuò a parlargli: « I cani del signore non sono poi così furbi, li hanno troppo maltrattati. Arriveremo fino in cima, dove la vegetazione si fa più fitta ed è difficile proseguire a cavallo. I signori cacciano solo in sella, non si spingono mai oltre quel punto, si rovinerebbero gli abiti. E i soldati... perché dovrebbero venire a caccia lì? A loro basta togliere il cibo di bocca alla gente come noi. Ci nasconderemo, Arnau. Nessuno riuscirà a scovarci, te lo giuro». Bernat accarezzò la testa del figlio mentre risaliva la corrente.

A metà pomeriggio fece una sosta. Il bosco si era così infittito che gli alberi invadevano le rive del ruscello e coprivano completamente il cielo. Si sedette su una roccia e si guardò le gambe, bianche e grinzose per il contatto con l'acqua. Solo allora sentì il dolore, ma non gli importò. Si liberò del bagaglio e sciolse Arnau. Il bambino aveva aperto gli occhi. Diluì il latte nell'acqua, ci aggiunse un po' di grano macinato, mescolò la pappetta e avvicinò la scodella alle labbra del piccolo. Arnau rifiutò il cibo con una smorfia. Bernat si lavò un dito nel ruscello, lo intinse nella pappa e riprovò. Dopo diversi tentativi, Arnau rispose e permise a suo padre di alimentarlo; poi chiuse gli occhi e si addormentò. Bernat mangiò solo un pezzetto di carne salata. Avrebbe voluto riposare, ma gli restava ancora parecchia strada.

La grotta degli Estanyol, così la chiamava suo padre. Vi arrivarono quando era ormai scesa la notte, dopo aver fatto un'altra sosta per dare da mangiare ad Arnau. Vi si entrava da una stretta fenditura nella roccia che suo padre, e prima ancora suo nonno, chiudeva dall'interno con dei rami per dormire al riparo dalle intemperie e dagli animali selvatici quando andava a caccia.

Accese un fuoco all'ingresso della grotta ed entrò con una

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torcia per verificare che non vi si nascondesse qualche bestia; quindi sistemò Arnau su un pagliericcio improvvisato con la sacca e alcuni rami secchi e gli diede ancora da mangiare. Il piccolo accettò la pappa e cadde in un sonno profondo, proprio come Bernat, che non riuscì neanche a finire la carne salata. Lì sarebbero stati al sicuro dal signore, pensò, prima di chiudere gli occhi e seguire il ritmo del respiro di suo figlio.

Llorenç di Bellera uscì al galoppo insieme ai suoi uomini quando il maestro fabbro trovò il garzone, morto, in una pozza di sangue. La sparizione di Arnau e il fatto che suo padre fosse stato visto al castello additavano direttamente Bernat. Il signore di Navarcles, che aspettava in sella davanti alla porta della masseria degli Estanyol, sorrise quando i suoi uomini gli dissero che all'interno la casa era sottosopra e che, a quanto pareva, Bernat era fuggito con il figlio.

«Quando è morto tuo padre te la sei cavata», borbottò, « ma adesso sarà tutto mio. Cercatelo!» gridò poi ai suoi uomini. Quindi si rivolse all'ufficiale di giustizia: « Prendi nota di tutti i beni, utensili e animali di questa proprietà e vedi di non dimenticare neanche una libbra di grano. Poi cerca Bernat ».

Alcuni giorni dopo, l'ufficiale si presentò al cospetto del suo signore, nella torre maestra del castello: «Abbiamo cercato nelle altre masserie, nei boschi e nei campi. Non c'è traccia di Estanyol. Sarà fuggito in qualche città, forse a Manresa o...»

Llorenç di Bellera lo fece tacere con un cenno.

«Lo prenderemo. Manda un bando agli altri signori e ai nostri uomini in città. Informali che un servo è fuggito dalle mie terre e dev'essere catturato.» In quel mentre apparvero Francesca e donna Caterina, con Jaume, suo figlio, tra le braccia della prima. Llorenç di Bellera la osservò e storse la faccia; quella donna ormai non gli serviva più. « Signora», disse alla moglie, « non capisco perché permettiate a una sgualdrina di allattare mio figlio.»

Donna Caterina sobbalzò.

«Forse non sapete che la vostra balia è la puttana di tutta la soldatesca?»

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Donna Caterina strappò il bambino dalle braccia della giovane.

Quando Francesca seppe che Bernat era fuggito con Arnau, si chiese cosa ne sarebbe stato di suo figlio. Le terre e le proprietà degli Estanyol adesso appartenevano al signore di Bellera. Non sapeva da chi andare e, intanto, i soldati continuavano ad approfittare di lei. Un tozzo di pane duro, qualche verdura marcia, a volte un osso da rosicchiare: questo era il prezzo che pagavano per il suo corpo.

Nessuno dei numerosi contadini che si recavano al castello la degnò più di uno sguardo. Francesca provò ad avvicinarne qualcuno, ma venne sempre respinta. Non aveva il coraggio di tornare a casa dei genitori, sua madre l'aveva ripudiata pubblicamente, davanti al forno, e così si vide costretta a restare nei dintorni del castello, come uno dei tanti accattoni che si avvicinavano alle mura per frugare tra i rifiuti. Sembrava destinata a passare da un soldato all'altro in cambio degli avanzi del rancio di chi l'avrebbe scelta quel giorno.

Arrivò settembre. Bernat ormai vedeva suo figlio sorridere e gattonare dentro e fuori dalla grotta. Ma le scorte cominciavano a scarseggiare e l'inverno era alle porte. Era arrivato il momento di partire.

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La città si estendeva ai suoi piedi.

«Guarda, Arnau», disse Bernat al figlio che dormiva placidamente sul suo petto. « Barcellona. Qui saremo liberi.»

Da quando era fuggito con Arnau, non aveva smesso un attimo di pensare a quella città, la grande speranza di tutti i servi della gleba. Ne aveva sentito parlare quando andavano a lavorare la terra del signore, a riparare le mura del castello o a fare qualsiasi altro lavoro di cui il signore di Bellera avesse bisogno. Badando sempre a non farsi sentire dall'ufficiale o dai soldati, fino a quel momento quei sussurri si erano limitati a risvegliare la sua curiosità. Lui era felice nella sua terra e non avrebbe mai potuto abbandonare il padre. E fuggire insieme a lui sarebbe stato impossibile. Adesso invece, da quando aveva perso le proprie terre, quando di notte nella grotta degli Estanyol guardava suo figlio dormire, certe suggestioni prendevano vita e riecheggiavano all'interno della caverna.

«Se riesci a viverci un anno e un giorno senza venire catturato dal signore», ricordava di aver sentito, « puoi avere la cittadinanza e ottenere la libertà.» In quell'occasione tutti i servi erano rimasti in silenzio. Bernat li aveva guardati: alcuni tenevano gli occhi chiusi e serravano le labbra, altri scuotevano la testa, increduli, altri ancora sorridevano, alzando gli occhi al cielo.

«E basta vivere in città? » Il silenzio era stato rotto da un ragazzo, uno di quelli che avevano guardato il cielo, sognando sicuramente di spezzare le catene che lo tenevano legato alla terra. « Perché a Barcellona ci si può conquistare la libertà?»

L'anziano gli rispose tranquillamente: «Sì, non serve altro. Solo viverci per quel lasso di tempo».

Il ragazzo, con gli occhi scintillanti, lo spronò a continuare.

«Barcellona è ricchissima. Per molti anni, da Giacomo il Conquistatore a Pietro il Grande, i re avevano chiesto alla città il denaro per mantenere le loro guerre e le loro corti. Per lo stes42

so tempo i cittadini di Barcellona avevano pagato questi soldi in cambio di privilegi particolari, fino a quando lo stesso Pietro il Grande, nella guerra contro la Sicilia, li mise per iscritto in un codice...» L'anziano esitò. « Se non sbaglio, si chiama Recognoverunt proceres. È lì che dice che possiamo ottenere la libertà. Barcellona ha bisogno di lavoratori, di uomini liberi.»

Il giorno dopo quel ragazzo non si era recato al lavoro all'ora indicata dal signore. E neanche il seguente. Suo padre, invece, continuava a lavorare in silenzio. Tre mesi dopo, lo avevano riportato indietro, incatenato, e fatto frustare: eppure, a tutti era sembrato di vedere nei suoi occhi un lampo d'orgoglio.

Dall'alto della serra di Collserola, sull'antica strada romana che univa Ampurias a Tarragona, Bernat contemplò la libertà e... il mare! Non aveva mai né visto né immaginato una tale, sconfinata immensità. Sapeva che oltre quel mare esistevano altre terre catalane, lo dicevano i mercanti, eppure... Era la prima volta che si trovava davanti a qualcosa di cui non riusciva a scorgere la fine. Dietro la montagna, oltre il fiume... Prima era sempre riuscito a segnalare un certo luogo, a indicare un punto al forestiero che lo interrogava... Scrutò l'orizzonte che si perdeva nell'acqua. Rimase per qualche istante con lo sguardo perso in lontananza mentre accarezzava la testolina di Arnau, i capelli ribelli che gli erano cresciuti sui monti.

Poi guardò verso il punto in cui il mare si ricongiungeva alla terra. A riva, vicino all'isolotto di Maians, si scorgevano cinque imbarcazioni. Fino a quel giorno Bernat le navi le aveva viste solo disegnate. Alla sua destra si ergeva la montagna del Montjuìc, che scendeva fino a lambire il mare; ai suoi piedi, campi e piane e, in fondo, Barcellona. Dal centro della città, dove si stagliava il piccolo promontorio del mons Taber, crescevano centinaia di costruzioni: alcune basse, soffocate da quelle intorno, e altre maestose: palazzi, chiese, monasteri... Bernat si chiedeva quanta gente potesse viverci. Perché d'un tratto Barcellona finiva. Era come un alveare circondato da mura, tranne che dal lato rivolto al mare, e oltre le mura c'erano solo campi. Quarantamila persone, aveva sentito dire.

«Come faranno a trovarci, fra quarantamila persone? » mormorò guardando Arnau. « Tu sarai libero, figlio mio.»

Lì sarebbero riusciti a nascondersi, avrebbe cercato sua sorel43

la. Ma Bernat sapeva che prima doveva varcare le porte. E se il signore di Bellera avesse già divulgato la sua descrizione? Quel neo... Ci aveva pensato durante le tre notti di cammino per scendere dalla montagna. Si sedette per terra e afferrò una lepre che aveva cacciato con la balestra. La sgozzò e lasciò che il sangue gli cadesse sul palmo della mano, dove aveva raccolto un mucchietto di sabbia. Mescolò sangue e sabbia, e quando l'impiastro cominciò a rapprendersi se lo applicò sull'occhio destro. Poi ripose la lepre nella sacca.

Quando sentì che la pasta si era indurita e che non riusciva più ad aprire l'occhio, cominciò a scendere verso la porta di Santa Anna, sul lato più settentrionale delle mura occidentali. La gente faceva la coda sulla strada che immetteva in città. Bernat si unì alla folla trascinando i piedi, senza farsi notare, e continuando ad accarezzare il bambino, che era già sveglio. Un contadino scalzo e ingobbito sotto un enorme sacco di rape si girò a guardarlo. Bernat gli sorrise.

«Lebbra!» gridò il contadino, lasciando cadere il sacco e allontanandosi con un balzo dalla strada.

Bernat vide la coda di gente, fino alla porta, ritrarsi ai margini della strada, un po' da una parte e un po' dall'altra; si allontanarono tutti da lui e lasciarono l'accesso alla città disseminato di oggetti e cibo, alcune carrette e qualche mulo. E in mezzo a tutto ciò, i ciechi che andavano solitamente a chiedere l'elemosina alla porta di Santa Anna si agitavano e gridavano.

Arnau scoppiò a piangere e Bernat vide che i soldati sguainavano le spade e sbarravano le porte.

«Va' al lebbrosario!» gli gridò qualcuno da lontano.

«Non è lebbra!» protestò Bernat. « Mi sono infilato un ramo in un occhio. Guardate!» Bernat alzò le mani e le mosse. Poi, posò Arnau a terra e cominciò a spogliarsi. « Guardate!» ripeté scoprendosi tutto il corpo, forte, sano e senza macchie, senza una piaga o un segno. « Guardate! Sono solo un contadino, ma ho bisogno di un medico che mi curi l'occhio; altrimenti non potrò più lavorare.»

Uno dei soldati gli si avvicinò, spinto da un ufficiale. Si fermò a qualche passo di distanza da Bernat e lo osservò.

«Girati», gli ordinò con un movimento rotatorio del dito.

Bernat obbedì. Il soldato si rivolse all'ufficiale e gli fece se44

gno di no con la testa. Dalla porta, con una spada, gli indicarono la sagoma ai suoi piedi.

«E il bambino?»

Bernat si chinò per raccogliere Arnau. Lo spogliò tenendosi il lato destro del faccino schiacciato al petto e lo mostrò disteso in orizzontale, quasi fosse una vittima sacrificale, tenendolo per la testa, mentre con le dita gli copriva il neo.

Il soldato fece un altro segno negativo all'ufficiale sulla porta.

«Copriti la ferita, contadino», disse; « in caso contrario non riuscirai a fare un passo in città.»

La gente tornò sulla strada. Le porte di Santa Anna si riaprirono e il contadino con le rape raccolse il suo sacco senza guardare Bernat.

Questi varcò la porta coprendosi l'occhio destro con uno degli indumenti di Arnau. I soldati lo seguirono con lo sguardo, ma adesso come poteva non attirare l'attenzione, con una magliettina che gli copriva mezza faccia? Lasciò la collegiata di Santa Anna alla sua sinistra e proseguì fra la gente che si addentrava in città. Girando a destra, arrivò in piazza Santa Anna. Camminava a capo chino... I contadini cominciarono a disperdersi per la città; i piedi scalzi, le ciabatte di corda e di sparto sparirono e Bernat si ritrovò a guardare due gambe coperte da una calzamaglia di seta rosso fuoco. Queste andavano a infilarsi in un paio di scarpe verdi di tela fine, senza suola, che si adattavano perfettamente ai piedi e finivano a punta, una punta lunghissima da cui usciva una catenina d'oro allacciata alla caviglia.

Senza pensarci, alzò gli occhi e si ritrovò davanti un uomo con un gran cappello in testa. Indossava un abito nero, ricamato con fili d'oro e d'argento, una cintura anch'essa orlata in oro e finimenti di perle e pietre preziose. Bernat rimase a fissarlo a bocca aperta. L'uomo si girò verso il giovane ma poi guardò oltre, come se lui nemmeno fosse lì.

Bernat esitò, abbassò ancora lo sguardo e sospirò sollevato vedendo che non gli aveva prestato la minima attenzione. Percorse tutta la strada fino alla cattedrale, ancora in costruzione, e pian piano cominciò a risollevare la testa. Nessuno lo guardava. Per un bel pezzo rimase a osservare i manovali al lavoro: tagliavano pietre, si spostavano sugli alti ponteggi che circondavano

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la basilica, sollevavano enormi blocchi di pietra con le pulegge... Arnau reclamò la sua attenzione scoppiando a piangere.

«Buon uomo», chiese a un manovale che gli passava davanti, « come faccio a trovare il quartiere dei vasai? » Sua sorella Guiamona aveva infatti sposato uno di loro.

«Prosegui lungo questa strada», gli rispose l'uomo, di fretta, « finché non arrivi alla prossima piazza, quella di Sant Jaume. Lì troverai una fontana; gira a destra e continua fino alle nuove mura, alla porta della Boqueria, ma non uscire nel Raval. Cammina costeggiando le mura verso il mare fino alla porta successiva, quella di Trentaclaus. E lì il quartiere dei vasai.»

Bernat cercò invano di fissare tutti quei nomi, ma quando stava per fargli un'altra domanda l'uomo era già sparito.

«Prosegui per questa strada fino a piazza Sant Jaume», ripeté ad Arnau. « Questo me lo ricordo. E quando saremo lì, dovremo girare a destra, anche questo ce lo ricordiamo, non è vero, figlio mio?»

Arnau smetteva sempre di piangere quando sentiva la voce di suo padre.

«E adesso? » disse ad alta voce. Si trovava in una nuova piazza, quella di Sant Miquel. « Quell'uomo ha nominato una sola piazza, ma non possiamo esserci sbagliati.» Bernat provò a chiedere a un paio di persone, ma nessuna si fermò a rispondergli. « Hanno tutti fretta», stava spiegando ad Arnau, quando vide un uomo fermo davanti all'entrata di un... castello? « Quell'uomo non sembra avere fretta. Forse... Buon uomo...» lo chiamò da dietro toccandogli il mantello nero.

Persino Arnau, stretto al suo petto, fece un salto quando l'uomo si girò, tale fu lo spavento di Bernat.

Il vecchio ebreo scosse lentamente la testa. Ecco quale risultato sortivano le prediche infuocate dei sacerdoti cristiani.

«Dimmi», gli fece.

Bernat non poté staccare gli occhi dalla rotella rossa e gialla che copriva il petto dell'anziano. Poi guardò all'interno di quello che gli era sembrato un castello fortificato. Tutte le persone che entravano e uscivano di lì erano ebrei! Portavano tutti quel contrassegno. Era lecito parlare con loro?

«Desideravi qualcosa? » insistette l'anziano.

«Co... come si arriva al quartiere dei vasai?»

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«Va' dritto per questa strada», gli indicò il vecchio con la mano, « e arriverai alla porta della Boqueria. Una volta lì, segui le mura verso il mare, e quando arriverai alla porta successiva troverai il quartiere che cerchi.»

In fin dei conti, i preti avevano solo specificato che non si doveva avere relazioni carnali con gli ebrei; ecco perché la Chiesa li costringeva a portare la rotella, perché chiunque si fosse imbattuto in uno di loro capisse con chi aveva a che fare, senza possibilità di fraintendimenti. I preti ne parlavano sempre con grande enfasi, eppure quell'anziano...

«Grazie, buon uomo», rispose Bernat abbozzando un sorriso.

«Grazie a te», gli fece l'altro. « Ma d'ora in avanti ti consiglio di evitare di farti vedere con uno di noi... e, peggio ancora, di sorriderci», aggiunse storcendo la bocca in una smorfia triste.

Alla porta della Boqueria, Bernat incappò in un folto gruppo di donne che compravano carne: rigaglie e montone. Per qualche istante le guardò mentre controllavano la merce e discutevano con i bottegai.

«Questa è la carne che crea tanti problemi al nostro signore», disse al bambino. Poi scoppiò a ridere pensando a Llorenç di Bellera. Quante volte l'aveva visto tentare di spaventare i pastori e gli allevatori che rifornivano di carne la città comitale. Ma non andava mai oltre, si limitava a metter loro paura con i cavalli e i soldati: chiunque portasse il bestiame a Barcellona, dove potevano entrare solo animali vivi, aveva il diritto di far pascolare i suoi capi in tutto il principato.

Bernat aggirò il mercato e scese verso Trentaclaus. Le strade erano più larghe e, più si avvicinava alla porta, notò che davanti alle case erano stati messi ad asciugare al sole decine di oggetti di ceramica: piatti, scodelle, tegami, brocche o piastrelle.

«Cerco la casa di Grau Puig», disse a uno dei soldati che montavano la guardia alla porta.

I Puig erano stati vicini di casa degli Estanyol. Bernat ricordava Grau, il quarto di otto famelici fratelli che non trovavano nelle loro poche terre il necessario per sfamarsi tutti. Sua madre li

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stimava molto, perché la madre dei Puig l'aveva aiutata a partorire lo stesso Bernat e sua sorella. Grau era il più sveglio e volenteroso degli otto; per questo, quando Josep Puig ottenne che un parente prendesse uno dei suoi figli come apprendista vasaio a Barcellona, fu lui, che aveva solo dieci anni, il prescelto.

Ma se Josep Puig non riusciva a sfamare la famiglia, difficilmente avrebbe potuto pagare le due cuarteras* [* Misura catalana corrispondente a 70 litri. (N.d.T.)] di grano bianco e i dieci soldi che il parente chiedeva per mantenere Grau durante i cinque anni di apprendistato. A questo bisognava aggiungere i due soldi che Llorenç di Bellera aveva chiesto per liberare uno dei suoi servi e i vestiti cui Grau doveva provvedere da sé nei primi due anni; nel contratto da apprendista, il maestro si impegnava a vestirlo solo per gli ultimi tre.

Per questo, Puig padre si era recato nella masseria degli Estanyol accompagnato dal figlio Grau, di poco maggiore rispetto a Bernat e a sua sorella. Estanyol il Pazzo aveva ascoltato la proposta di Josep Puig con attenzione: se avesse dato in dote a sua figlia la somma che gli serviva, anticipandola a Grau, suo figlio avrebbe sposato Guiamona al compimento dei diciotto anni d'età, quando ormai sarebbe stato un garzone. Estanyol il Pazzo aveva guardato Grau: a volte, quando la famiglia del ragazzo non aveva più niente da mangiare, l'aveva mandato ad aiutare il vicino nei campi. Non aveva mai chiesto niente, ma era sempre tornato a casa con un po' di verdura o di grano. Estanyol si fidava di lui. E aveva accettato.

Dopo cinque anni di duro lavoro come apprendista, Grau era diventato garzone. Era rimasto alle dipendenze del suo maestro che, soddisfatto di lui, aveva cominciato a dargli una paga. A diciotto anni aveva mantenuto la sua promessa e sposato Guiamona.

«Figliolo», aveva detto il padre a Bernat, « ho deciso di dare un'altra dote a Guiamona. Noi siamo in due e abbiamo le migliori terre della regione, le più vaste e fertili. A loro questi soldi possono servire.»

«Padre», l'aveva interrotto Bernat, « perché mi date spiegazioni?»

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«Perché tua sorella ha già avuto la sua dote e tu sei il mio erede. Questo denaro ti appartiene.»

«Fate quello che ritenete più opportuno.»

Quattro anni dopo, a ventidue, Grau si presentò all'esame pubblico che si teneva alla presenza di quattro consoli della confraternita. Realizzò i suoi primi lavori: una brocca, due piatti e una scodella, sotto lo sguardo attento di quegli uomini, i quali gli concessero quel titolo di maestro che gli avrebbe permesso di aprire una sua bottega a Barcellona e, ovviamente, usare il sigillo di riconoscimento che andava impresso, per prevenire possibili reclami, su tutti gli oggetti di ceramica che uscivano dal suo laboratorio. Grau, in onore al suo cognome, scelse come marchio il disegno di una montagna.

Grau e Guiamona, che era incinta, si sistemarono in una piccola casa a un solo piano nel quartiere dei vasai, situato, per decreto reale, nell'estremità occidentale di Barcellona, nelle terre che si estendevano tra le mura costruite da re Giacomo I e l'antico confine fortificato della città. Per comprare la casa avevano usato i soldi della dote di Guiamona che avevano risparmiato, felici, in attesa di quel giorno.

Vivevano negli stessi spazi della bottega e dormivano accanto al forno per la cottura delle ceramiche, e lì Grau iniziò la sua attività di maestro in un momento in cui l'espansione commerciale catalana stava rivoluzionando l'attività dei vasai e richiedeva una specializzazione che molti di loro, ancorati alla tradizione, rifiutavano.

«Ci dedicheremo a brocche e giare», decise Grau, «solo brocche e giare.»

Guiamona posò lo sguardo sui quattro esemplari realizzati da suo marito.

«Ho visto molti commercianti», proseguì lui, « elemosinare giare per commerciare olio, miele o vino, e ho visto maestri ceramisti congedarli senza troppi riguardi perché avevano tutti i forni occupati dalle complicate piastrelle di una casa nuova, i piatti policromi del servizio di un nobile o le boccette di un farmacista.»

Guiamona passò le dita sui campioni. Com'erano lisci al tatto! Quando Grau, esultante, glieli aveva regalati dopo aver superato l'esame, lei aveva immaginato che la sua casa sarebbe

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sempre stata piena di pezzi del genere. Persino i consoli della confraternita si erano congratulati. Con quei quattro lavori Grau aveva dimostrato a tutti i maestri la sua abilità nel mestiere: la brocca, i due piatti e la scodella, decorati con linee a zig-zag, foglie di palma, rosette e gigli, combinavano, su uno strato bianco di stagno previamente applicato, tutti i colori: il verde rame, tipico di Barcellona, che doveva sempre apparire nei lavori di un maestro della città comitale, il porpora o il viola del manganese, il nero del ferro, il blu del cobalto o il giallo dell'antimonio. Tutte le linee e i disegni erano di un colore diverso. Guiamona fremeva nell'attesa, mentre quei pezzi cuocevano, temendo che si spaccassero. Alla fine, Grau vi aveva applicato una mano trasparente di vernice di piombo vetrificato che li impermeabilizzava completamente. Guiamona accarezzò di nuovo le superfici lisce degli oggetti con i polpastrelli. E adesso... voleva dedicarsi solo alle giare.

Grau si avvicinò alla moglie.

«Non preoccuparti», la tranquillizzò, « per te continuerò a fabbricare pezzi come questi.»

Grau aveva avuto successo. Aveva riempito l'essiccatoio della sua bottega di brocche e giare e presto tra i commercianti si era sparsa la voce che nel laboratorio di Grau Puig avrebbero potuto trovare, in qualsiasi momento, tutto quello che desideravano. Nessuno avrebbe più dovuto supplicare maestri boriosi. Ecco perché l'abitazione davanti alla quale si fermarono Bernat e il piccolo Arnau, che si era svegliato e reclamava la pappa, era molto diversa dalla loro prima casa-bottega. Quello che Bernat poté vedere con l'occhio sinistro era un grande palazzo di tre piani. Al piano terra, che si apriva sulla strada, si trovava la bottega, e nei due piani superiori viveva il maestro con la famiglia. Accanto alla casa c'erano un orto e un giardino, sull'altro lato costruzioni ausiliarie che comunicavano con i forni e un grande spiazzo in cui giacevano al sole un'infinità di brocche e giare di ogni tipo, dimensione e colore. Dietro la casa, come richiedevano le ordinanze municipali, si apriva uno spazio destinato a scarico e magazzino dell'argilla e degli altri materiali di lavorazione. Vi si gettavano anche le ceneri e gli scarti di cottura che i vasai non potevano disperdere per le strade della città.

Nel laboratorio, visibile dalla strada, c'erano dieci persone

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che lavoravano freneticamente. A giudicare dall'aspetto, nessuno di loro era Grau. Accanto alla porta d'ingresso, di fianco a un carro di buoi carico di giare nuove, Bernat vide due uomini che si stavano salutando. Uno montò sul carro e partì. L'altro era vestito bene e, prima che rientrasse nell'officina, Bernat lo chiamò.

«Aspettate!» L'altro lo guardò mentre si avvicinava. «Sto cercando Grau Puig», gli disse.

L'uomo lo scrutò dall'alto in basso: « Se cerchi lavoro, non abbiamo bisogno di nessuno. Il maestro non ha tempo da perdere», ribatté in malo modo, « e io neanche», aggiunse facendo per dargli le spalle.

«Sono un parente del maestro.»

L'uomo si bloccò, prima di voltarsi bruscamente.

«Non ti ha forse già pagato a sufficienza? Perché continui a insistere? » borbottò tra i denti, spingendo via Bernat. Arnau cominciò a piangere. «Ti avevamo detto che se tornavi ti avremmo denunciato. Grau Puig è un uomo importante, sai?»

Bernat indietreggiò incalzato dall'uomo, senza sapere di cosa stesse parlando.

«Sentite...» si difese, « io...»

Arnau strillava.

«Non mi sono spiegato? » gridò l'uomo, coprendo il pianto del bambino.

Fu allora che da una delle finestre del piano superiore uscirono urla ancora più forti.

«Bernat! Bernat!»

Alzando gli occhi, Bernat e l'altro videro una donna che, sporgendosi con tutto il busto, agitava le braccia.

«Guiamona!» urlò Bernat ricambiando il saluto.

La donna sparì all'interno e Bernat si girò verso l'uomo socchiudendo gli occhi.

«Tu conosci la signora Guiamona? » gli chiese quello.

«E mia sorella», rispose seccamente Bernat, « e per tua informazione nessuno mi ha mai pagato per qualcosa!»

«Mi dispiace», si scusò l'altro, adesso confuso. « Mi riferivo ai fratelli del maestro: prima uno, poi un altro e un altro e un altro ancora...»

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Quando vide uscire sua sorella, Bernat gli voltò le spalle e corse ad abbracciarla.

«E Grau? » le chiese Bernat quando si furono accomodati. Si era già lavato l'occhio, aveva affidato Arnau alla schiava mora che si prendeva cura dei piccoli figli di Guiamona e lo aveva visto divorare una scodella di latte con i cereali. « Vorrei abbracciarlo.»

Guiamona cambiò espressione.

«Qualcosa non va? » si stupì Bernat.

«Grau è molto cambiato. Adesso è un uomo ricco e importante.» Guiamona indicò i numerosi bauli accostati alle pareti, un armadio, un mobile che Bernat non aveva mai visto sul quale c'erano alcuni libri e oggetti di ceramica, i tappeti che ornavano il pavimento e gli arazzi e le tende che pendevano dalle finestre e dal soffitto. « Ormai non si occupa quasi più della bottega e del sigillo: l'ha passato al suo garzone, Jaume, l'uomo in cui ti sei imbattuto poco fa. Grau si dedica al commercio: imbarcazioni, vino e olio. E diventato console della confraternita, pertanto, secondo gli Usatges, un proboviro e un cavaliere, ed è in attesa di essere nominato membro del Consiglio dei Cento della città.» Guiamona lasciò che il suo sguardo corresse per tutta la stanza. « Non è più lo stesso.»

«Anche tu sei cambiata molto», la interruppe Bernat.

Guiamona guardò il proprio corpo da matrona e annuì sorridendo.

«Quel Jaume», proseguì Bernat, « mi ha detto qualcosa sui parenti di Grau. Cosa intendeva?»

Guiamona scosse la testa prima di rispondere. « Si riferiva al fatto che, appena hanno saputo che il fratello era diventato ricco, tutti, fratelli, cugini e nipoti, hanno cominciato a presentarsi qui in bottega. Scappavano dalle loro terre per venire a chiedere l'aiuto di Grau.» Guiamona non poté evitare di cogliere la strana espressione di suo fratello. «Anche tu?...»

Bernat annuì.

«Ma... se avevi delle terre bellissime!»

Guiamona non poté trattenere le lacrime quando sentì la

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storia di Bernat. Quando questi le parlò del garzone della fucina, si alzò e si inginocchiò accanto alla sedia del fratello.

«Questo non raccontarlo a nessuno», gli consigliò. Poi continuò ad ascoltarlo, la testa sulle sue gambe. « Non preoccuparti», singhiozzò quando Bernat terminò il suo racconto, « ti aiuteremo.»

«Sorella», le disse Bernat accarezzandole il capo, «come farai, se Grau non ha nemmeno voluto aiutare i suoi fratelli?»

«Perché mio fratello è diverso!» gridò Guiamona facendo indietreggiare Grau di un passo.

Era già notte quando suo marito era rincasato. Il piccolo e magro Grau, ridotto a un fascio di nervi, aveva salito la scala imprecando a bassa voce. Guiamona lo aspettava e lo sentì arrivare. Jaume lo aveva già informato della situazione: «Vostro cognato dorme nel pagliaio insieme agli apprendisti e il bambino... con i vostri figli».

Grau si avventò sulla moglie non appena se la trovò davanti.

«Come hai osato? » le gridò dopo aver ascoltato le sue prime spiegazioni. « È un servo fuggiasco! Sai cosa succederebbe se lo trovassero in casa nostra? Sarebbe la mia rovina! La mia rovina!»

Guiamona lo ascoltò senza intervenire, mentre lui andava avanti e indietro e gesticolava attorno a lei, che lo sovrastava di tutta la testa.

«Tu sei pazza! Ho fatto imbarcare i miei stessi fratelli per l'estero. Ho dato una dote alle donne della mia famiglia perché si sposassero con gente di fuori, tutto perché nessuno potesse tacciare questa famiglia di qualcosa, e adesso tu... Perché dovrei comportarmi diversamente con tuo fratello?»

«Perché mio fratello è diverso!» gli gridò Guiamona, con sua grande sorpresa.

Grau vacillò: « Cosa... Cosa intendi dire?»

«Lo sai perfettamente. Non credo di dovertelo ricordare.»

Grau abbassò gli occhi. « Proprio oggi», mormorò, « ho incontrato uno dei cinque consiglieri della città perché, nella mia qualità di console della confraternita, mi eleggano membro del Consiglio dei Cento. A quanto pare, sono già riuscito a tirare

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dalla mia parte tre dei cinque consiglieri e mi restano ancora il balivo e il governatore. Ti immagini cosa direbbero i miei nemici se venissero a sapere che ho dato rifugio a un servo fuggiasco?»

Guiamona si rivolse al marito con dolcezza: «Dobbiamo tutto a lui».

«Sono solo un artigiano, Guiamona. Ricco, ma pur sempre artigiano. I nobili mi disprezzano e i mercanti mi odiano, anche se fanno affari con me. Se sapessero che abbiamo dato rifugio a un fuggiasco... Sai cosa direbbero i nobili che hanno le terre?»

«Dobbiamo tutto a lui», ripeté Guiamona.

«Bene, allora diamogli dei soldi perché possa andare via.»

«E della libertà che ha bisogno. Un anno e un giorno.»

Grau riprese a camminare nervosamente per la stanza. Poi si portò le mani alla faccia.

«Non possiamo», disse tra le dita. « Non possiamo, Guiamona», ripeté guardandola. « T'immagini...?»

«T'immagini! T'immagini...» lo interruppe lei alzando di nuovo la voce. «Allora immaginati cosa accadrebbe se noi lo cacciassimo di qui e gli sgherri di Bellera o i tuoi nemici lo arrestassero e venissero a sapere che devi tutto a lui, a un servo fuggiasco che ti ha concesso una dote che non ti spettava...»

«Mi stai minacciando?»

«No, Grau, no. Ma era destino. Tutto quello che accade è destino. Se non vuoi farlo per gratitudine, fallo per te stesso. Ti conviene tenerlo d'occhio. Bernat non lascerà Barcellona, vuole la libertà. Se non lo accogli tu, avrai un fuggiasco e un bambino, entrambi con un neo sull'occhio destro - come me! - che vagano per Barcellona a disposizione di quei nemici che dici di temere tanto.»

Grau Puig fissò a lungo la moglie. Stava per rispondere, ma poi fece solo un cenno con la mano. Uscì dalla stanza e Guiamona lo sentì salire la scala che portava in camera da letto.

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«Tuo figlio resterà nella casa padronale; se ne occuperà donna Guiamona. Quando sarà grande abbastanza, entrerà nella bottega come apprendista.»

Bernat smise di ascoltare le parole di Jaume. Il garzone si era presentato nello stanzone all'alba. Schiavi e apprendisti erano balzati su dal loro pagliericcio come se fosse entrato il diavolo ed erano usciti spingendosi gli uni con gli altri. Bernat tornò a prestargli attenzione, e si disse che Arnau avrebbe avuto ogni cura e sarebbe diventato un apprendista, un uomo libero con un mestiere.

«Hai capito? » gli chiese l'altro.

Davanti al silenzio di Bernat, Jaume lanciò un'imprecazione: « Maledetti contadini!»

Bernat stava per reagire con violenza, ma il sorriso che apparve sulla faccia di Jaume lo fermò.

«Tu provaci», lo aizzò. «Provaci e tua sorella non avrà più niente cui appigliarsi. Ti ripeterò quello che importa, contadino: lavorerai dall'alba al tramonto, come tutti, in cambio di vitto, alloggio e abiti... e delle cure che donna Guiamona prodigherà a tuo figlio. Ti è proibito entrare in casa; non potrai farlo per nessun motivo. Ti è anche proibito uscire dalla bottega prima che sia trascorso l'anno e il giorno di cui hai bisogno per ottenere la libertà, e ogni volta che entrerà un estraneo dovrai nasconderti. Non devi raccontare a nessuno della tua situazione, neanche alle persone che sono qui dentro, anche se con quel neo...» Jaume scosse la testa. « Questo è l'accordo al quale è giunto il maestro con donna Guiamona. Ti sta bene?»

«Quando potrò vedere mio figlio? » chiese Bernat.

«Questo non mi riguarda.»

Bernat chiuse gli occhi. Quando avevano visto per la prima volta Barcellona aveva promesso ad Arnau la libertà. Suo figlio non avrebbe mai avuto un padrone.

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«Cosa devo fare? » disse alla fine.

Portare la legna. Trasportare tronchi su tronchi, centinaia di tronchi, migliaia di tronchi, quanti ne servivano per far funzionare i forni. Trasportare argilla e pulire, pulire il fango, la polvere d'argilla e la cenere dei forni. Senza sosta, sudando e spostando la cenere e la polvere sul retro della casa. Quando tornava, coperto di polvere e cenere, il laboratorio era di nuovo sporco e doveva ricominciare daccapo. Portare poi i pezzi al sole, aiutato da altri schiavi e sotto l'attento sguardo di Jaume, che controllava continuamente la situazione, passando tra loro, gridando, prendendo a schiaffi i giovani apprendisti e maltrattando gli schiavi, contro i quali non esitava a usare la frusta se qualcosa non era di suo gradimento.

Una volta, mentre lo portavano al sole, un grande vaso sfuggì di mano a un gruppo di schiavi e rotolò per terra, e Jaume prese a frustate i responsabili. Il vaso non si era neanche rotto ma lui, urlando come un ossesso, sferzava senza pietà i tre che avevano trasportato l'oggetto, e a un certo punto si ritrovò ad alzare la frusta contro Bernat.

«Fallo e io ti ammazzo», lo minacciò questi, immobile davanti a lui.

Jaume vacillò, poi arrossì e fece schioccare la frusta addosso agli altri, che intanto avevano pensato bene di allontanarsi di qualche passo. Jaume li rincorse, e quando Bernat lo vide allontanarsi, tirò un profondo sospiro di sollievo.

Malgrado tutto, Bernat continuò a lavorare duramente senza che nessuno dovesse spronarlo. Mangiava quanto gli mettevano davanti. Gli sarebbe piaciuto dire alla grassona che li serviva che i suoi cani erano stati nutriti meglio, ma nel vedere gli apprendisti e gli schiavi che si buttavano con avidità sulle scodelle preferì tacere. Dormiva nello stanzone comune, su un pagliericcio, sotto il quale conservava quel poco che possedeva e i soldi che era riuscito a prendere con sé. Tuttavia, il suo scontro con Jaume sembrava avergli fatto guadagnare il rispetto degli schiavi e degli apprendisti, oltre a quello degli altri lavoranti, ragione per cui Bernat dormiva sonni tranquilli, malgrado le pulci, il tanfo di sudore e il russare.

E sopportava tutto per le due volte alla settimana che la schiava mora, quando Guiamona non aveva più bisogno dei

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suoi servigi, gli portava giù in bottega Arnau, solitamente addormentato. Bernat lo prendeva in braccio e annusava il suo profumo, quello della biancheria pulita, degli unguenti per bambini. Poi, facendo attenzione a non svegliarlo, lo spogliava per guardargli le gambe e le braccia, e la pancia soddisfatta. Cresceva e ingrassava. Bernat cullava suo figlio e si rivolgeva a Habiba, la giovane mora, supplicandola con lunghi sguardi. A volte cercava di accarezzarlo, ma le sue mani rugose graffiavano la pelle del bambino e Habiba glielo toglieva senza troppi riguardi. Con il passare dei giorni, arrivò a un tacito accordo con la mora - che non apriva mai bocca - e accarezzava le guance rosee del piccolo con il dorso delle dita, un contatto che gli faceva venire i brividi. Quando a un certo punto la ragazza gli indicava a gesti di restituirle il bambino, Bernat lo baciava sulla fronte prima di ridarglielo.

Con il passare dei mesi, Jaume si rese conto che Bernat poteva svolgere un lavoro più redditizio per il laboratorio. Avevano imparato a rispettarsi a vicenda.

«Gli schiavi sono incorreggibili», disse una volta a Grau Puig, « lavorano solo per paura di essere frustati, e non ci mettono nessun impegno. Vostro cognato, però...»