Capitolo sessantunesimo
Devo essere coraggiosa e intelligente
– Non sono un’allucinazione, – ripeté il
Commendatore. – Sul fatto che io esista davvero o no, ci sarebbe
motivo di discutere, ma in ogni caso non sono un’allucinazione. E
sono venuto qui in vostro soccorso. Perché voi avete bisogno di
aiuto, vero?
Marie suppose che dicendo «voi» si riferisse a
lei. Quindi fece cenno di sí. Parlava in modo strano, quel tipo,
però aveva ragione. Ovvio che voleva essere aiutata!
– Ormai è tardi per andare sulla terrazza a
prendere le scarpe, – disse il Commendatore. – Meglio rinunciare
anche a rimettere il binocolo al suo posto. Ma non vi dovete
preoccupare. Cercherò con tutte le mie forze di impedire al signor
Menshiki di uscire sulla terrazza. Almeno per un po’. Dopo il calar
del sole mi sarà difficile, però. Perché quando si fa sera, lui va
sempre a guardare col binocolo la vostra casa dall’altra parte
della valle. Lo fa tutti i giorni, è una sua abitudine. Quindi
bisogna risolvere il problema prima. Comprendete quello che vi sto
dicendo?
Marie semplicemente annuí. Piú o meno
capiva.
– Per qualche minuto dovete restare nascosta
in questo spogliatoio, – proseguí il Commendatore. – Rannicchiatevi
lí e non fatevi assolutamente sentire. Non c’è altra maniera.
Quando verrà il momento, ve lo farò sapere. Nel frattempo non vi
dovete muovere di qui. Qualsiasi cosa succeda, non dovete fiatare.
È chiaro?
Di nuovo Marie fece cenno di sí. Stava
sognando? Oppure quell’omino era un mago o qualcosa del
genere?
– Non sono un mago e nemmeno un sogno, – disse
il Commendatore. – Sono un’idea, e per mia natura non ho sembianze.
Però ho preso temporaneamente l’aspetto del Commendatore,
altrimenti voi non mi potreste vedere, e sarebbe poco
pratico.
Un’idea, il Commendatore… Marie ripeté
mentalmente quelle parole. Dicendosi che lui poteva leggerle nel
pensiero. A quel punto di colpo ricordò: era un personaggio dipinto
nel quadro che aveva visto nella casa di Amada Tomohiko! Un quadro
in stile nihonga appeso nel senso
della larghezza. Di sicuro era saltato fuori da lí. Per questo era
cosí piccolo!
– Esattamente, – disse il Commendatore. – Ho
preso le sembianze di un personaggio di quell’opera. Del
Commendatore… anche se non capisco bene neanch’io cosa significhi,
questo titolo. Comunque per ora mi potete chiamare cosí.
Aspettatemi qui in silenzio. Al momento buono, verrò a prendervi.
Non abbiate paura. Gli abiti appesi lí vi proteggeranno.
Gli abiti l’avrebbero protetta? Ma cosa stava
dicendo? Marie era frastornata. Ai suoi dubbi però non ottenne
risposta. L’istante seguente il Commendatore era scomparso, come
vapore dissolto nell’aria.
Attenendosi alle sue raccomandazioni, si fece
piccola piccola e cercò di muoversi il meno possibile e di non fare
il minimo rumore. Menshiki era tornato, era dentro casa. Si sentiva
un frusciare di sacchetti di carta − quelli che probabilmente
teneva in mano −, quindi doveva aver fatto la spesa. Passò
lentamente davanti alla stanza dove lei era nascosta, il rumore dei
passi attutito dalle pantofole. Marie trattenne il fiato.
Le veneziane della porta vetrata dello
spogliatoio, girate verso il basso, lasciavano filtrare un po’ di
luce. Non molta. Fra i listelli delle veneziane scorgeva soltanto
la moquette sul pavimento della stanza. Stava calando la sera, fra
poco avrebbe fatto buio. L’odore di naftalina era fortissimo. Da
quello stanzino senza finestre non c’era modo di scappare. E a
Marie era la cosa che faceva piú paura, non avere una via di
fuga.
«Al momento buono, verrò a prendervi», le
aveva promesso il Commendatore. Doveva per forza crederci, e
attendere. Cos’altro poteva fare? E poi le aveva detto che gli
abiti l’avrebbero protetta. Quegli abiti lí? Quelle vecchie cose
che una donna sconosciuta aveva indossato prima che lei nascesse?
Perché mai avrebbero dovuto proteggerla? Tese una mano e toccò
l’orlo del vestito a fiori che aveva davanti. Sentí sulle dita la
piacevole morbidezza del tessuto rosa. Lo strinse leggermente. Non
sapeva perché, ma il contatto con quel vestito la faceva sentire un
po’ piú tranquilla.
Volendo, potrei anche metterlo, pensò. Era già
alta piú o meno quanto quella donna. La taglia 5 le sarebbe andata
quasi bene. Naturalmente avrebbe dovuto inventarsi qualcosa per
compensare il seno piatto. Ma se ne avesse avuto voglia, o qualche
ragione per farlo, avrebbe potuto indossare quegli abiti. A quel
pensiero provò una strana emozione.
Intanto il tempo passava. L’oscurità si faceva
piú densa. Marie guardò il suo orologio. Nella penombra non riuscí
a vedere le cifre. Schiacciò il pulsante che illuminava il
quadrante: quasi le quattro e mezzo. Ormai il sole era tramontato.
I giorni erano cortissimi, in quella stagione. E una volta che
fosse calata l’oscurità, Menshiki sarebbe uscito sulla terrazza. E
si sarebbe accorto immediatamente che qualcuno era entrato in casa.
L’unico modo per evitarlo era recuperare le scarpe e rimettere ogni
cosa al suo posto.
Sempre piú agitata, attendeva che il
Commendatore venisse a prenderla. Invece lui tardava. Forse non
riusciva a far andare le cose nel verso giusto. A cogliere Menshiki
in un momento di distrazione. Inoltre, persona o «idea» che fosse,
quanta forza aveva realmente? Fino a che punto si poteva fare
affidamento su di lui? Impossibile saperlo. In quel momento però
Marie non aveva nessun altro su cui contare. Seduta sul pavimento
dello spogliatoio, le braccia intorno alle ginocchia, guardava la
moquette fra un listello e l’altro delle veneziane. Ogni tanto
sollevava una mano a stringere l’orlo del vestito rosa. Come fosse
la sua ancora di salvezza.
Quando ormai faceva quasi buio, di nuovo sentí
dei passi nel corridoio. Passi lenti e attutiti, che si
avvicinavano… davanti alla camera dove lei era nascosta, di colpo
si fermarono. Come se quella persona (Menshiki, ovviamente, chi
altri, se no?) avesse fiutato qualcosa. Poco dopo si udí il rumore
della porta che si apriva. La porta della stanza vuota dove si
trovava lei, Marie ne era sicura. Aveva il cuore in gola, temeva
che smettesse di batterle nel petto da un momento all’altro. Poi
l’uomo entrò, chiuse lentamente la porta alle sue spalle. Ci fu un
rumore metallico. Lui era lí. Tratteneva il fiato come stava
facendo Marie in quel momento, tendeva le orecchie, cercava indizi…
la sensazione era palpabile. Aguzzava la vista nella penombra,
senza accendere la luce. Perché? Accendere la luce non era la prima
cosa che chiunque avrebbe fatto? Cosa significava?
Sempre attraverso i listelli delle veneziane,
Marie teneva d’occhio il pavimento della stanza. Se qualcuno si
fosse avvicinato, sarebbe apparsa per prima la punta delle scarpe.
Per il momento invece non si vedeva niente. La presenza di una
persona nella camera però era evidente. La presenza di un uomo. E
quell’uomo (non aveva dubbi che fosse Menshiki, perché nella
proprietà non entrava mai nessun altro) nella semioscurità
osservava la porta dello spogliatoio. Sentiva che c’era qualcosa di
strano. Che lí dentro stava succedendo un fatto inspiegabile. Ora
aprirà la porta, pensò Marie, sarà la sua prossima mossa,
inevitabilmente. E dato che non è chiusa a chiave, per aprirla gli
basterà tendere una mano, girare il pomo e tirare. Niente di piú
facile.
L’uomo avanzò. Marie cadde in preda al
terrore. Sudore freddo le colava dalle ascelle. Non avrei mai
dovuto venire qui, si disse, avrei dovuto starmene tranquilla a
casa mia, dall’altra parte della valle. Nella mia casa di cui ora
ho tanta nostalgia. C’è qualcosa di terribile, in questo posto,
qualcosa a cui non avrei dovuto avvicinarmi con tanta noncuranza.
Questo posto ha una sua volontà − forse ne fa parte anche il
calabrone. Una volontà che agisce e adesso sta per mettere le mani
su di me. La punta di un paio di pantofole di pelle marrone apparve
fra i listelli delle veneziane. Ma era troppo buio per vedere
altro.
D’istinto, Marie alzò il braccio e strinse
forte l’orlo del vestito. Il vestito rosa a fiori taglia 5. –
Aiutami tu, ti prego, − implorò −, proteggimi tu.
L’uomo rimase a lungo davanti alla porta dello
spogliatoio. In perfetto silenzio. Non lo si sentiva nemmeno
respirare. Si limitava a studiare la situazione, immobile come una
statua di pietra. Silenzio, oscurità sempre piú profonda.
Accovacciata sul pavimento, Marie tremava tutta. Udiva il lieve
rumore dei suoi denti che battevano. Avrebbe voluto chiudere gli
occhi e tapparsi le orecchie. Cacciare via ogni pensiero. Ma non lo
fece. Intuiva che non doveva. Non doveva perdere il controllo,
arrendersi alla paura, al terrore. Nemmeno svenire, o smettere di
pensare. Quindi teneva occhi e orecchie ben aperti mentre fissava
la punta di quei piedi, aggrappata al morbido vestito rosa di cui
stringeva spasmodicamente un lembo nella mano.
Questi abiti mi stanno proteggendo, si
ripeteva convinta. Sono miei alleati. Tutte queste cose − i vestiti
taglia 5, le scarpe numero 23, i reggiseni 65C − mi tutelano
avvolgendomi e rendendomi invisibile. Io qui non ci sono. Io qui
non ci sono.
A un certo punto − Marie non sapeva quanto
tempo fosse passato, il tempo lí non scorreva in modo uniforme −
l’uomo tese una mano per aprire la porta dello spogliatoio. Marie
lo percepí nettamente. Ed era pronta. La porta si sarebbe aperta,
l’uomo l’avrebbe vista. E lei avrebbe visto lui. Cosa sarebbe
successo dopo, non riusciva a immaginarlo. E se non era Menshiki?
Quell’idea le attraversò la mente per un attimo. Ma chi poteva
essere, allora?
Invece, alla fine, l’uomo non aprí. Esitò
ancora qualche secondo, poi ritirò la mano e si allontanò. Marie
non riusciva a capire perché all’ultimo momento avesse cambiato
idea. Forse qualcosa l’aveva dissuaso. L’uomo uscí dalla stanza e
richiuse la porta alle proprie spalle. Non era una finta, ne era
sicura. In quella camera, a parte lei, non c’era piú nessuno. Non
aveva dubbi. Finalmente chiuse gli occhi e piano piano soffiò fuori
tutta l’aria che aveva trattenuto nel petto.
Il cuore le batteva ancora forte. «Come una
campana a martello», si sarebbe detto in un romanzo. Lei non
l’aveva mai sentita, una campana a martello. Ma sapeva di essere
stata a un passo dal disastro. Un attimo prima, però, qualcosa
l’aveva salvata. In ogni caso, quel posto era troppo pericoloso.
Quell’uomo aveva fiutato la sua presenza nella stanza. Non poteva
restare indefinitamente nascosta lí. Questa volta se l’era cavata
per un pelo. Ma non era detto che la fortuna continuasse ad
assisterla.
Attese ancora. Era quasi buio. Eppure Marie
non si mosse. Senza fiatare, cercava di superare l’ansia e la
paura. Il Commendatore non l’avrebbe di certo dimenticata in quello
stanzino. Gliel’aveva promesso, e lei gli credeva. O piuttosto,
poteva solo contare su quel piccolo essere umano che parlava in
modo strano, non aveva alternative.
Ed ecco che lo vide, era lí!
– Dovete lasciare questo spogliatoio, – le
disse il Commendatore bisbigliando. – Ora, è il momento buono.
Forza, alzatevi.
Marie esitava. Non riusciva a tirarsi su dal
pavimento. Forse cose ancora piú terribili l’aspettavano, fuori di
lí, forse sarebbe di nuovo caduta in preda al terrore.
– Il signor Menshiki sta facendo la doccia, –
le disse il Commendatore. – Come sapete, è un uomo che tiene molto
all’igiene personale. Nella doccia di solito ci resta un bel po’.
Non in eterno, però, è ovvio. La vostra sola possibilità di fuga è
ora. Forza, svelta!
Facendosi coraggio, Marie si alzò. Aprí la
porta dello spogliatoio. Nella stanza buia non c’era nessuno. Prima
di uscire si voltò a guardare ancora una volta i vestiti appesi lí,
inspirò l’aria che odorava di naftalina. Probabilmente non li
avrebbe visti mai piú. Per qualche motivo quei vestiti le mettevano
nostalgia, le erano familiari.
– Su, sbrigatevi, – la incitò il Commendatore.
– Non c’è da perdere tempo. Andate nel corridoio e prendete a
sinistra.
Marie si mise la cartella a tracolla, aprí la
porta della stanza e uscí. Nel corridoio prese a sinistra, salí di
corsa le scale, entrò in salotto, attraversò la grande stanza e
aprí una delle vetrate che davano sulla terrazza. Poteva darsi che
il calabrone fosse ancora lí. O forse no, perché le vespe quando
cala la notte non escono piú. A meno che quel calabrone non lo
temesse, il buio. Ma non aveva il tempo di pensare a lui. Uscí,
svitò il binocolo dal treppiede e lo coprí di nuovo col fodero di
plastica. Ripiegò il treppiede e lo rimise contro il muro come
l’aveva trovato. Per la tensione non riusciva a muovere bene le
dita e ci mise piú tempo del previsto. Una volta terminato, prese
le scarpe da ginnastica nere che aveva lasciato sul pavimento.
Seduto sullo sgabello, il Commendatore la guardava. Il calabrone
non c’era. Marie si sentí molto sollevata.
– Benissimo, – disse il Commendatore. – Ora
rientrate in casa, chiudete bene la porta-finestra, poi tornate in
corridoio e scendete di due piani.
Doveva scendere di due piani? In quel modo si
sarebbe inoltrata ancora di piú nella casa. Non doveva invece
scappare?
– Adesso non è possibile, – disse il
Commendatore scuotendo la testa. Di nuovo le aveva letto nel
pensiero. – L’uscita è chiusa, sprangata. Dovete restare nascosta
ancora un po’. Fate come vi ho detto, ora, subito!
Marie non poteva fare altro che credergli.
Uscí dal salotto e a piedi nudi scese zitta zitta due piani di
scale.
Al secondo piano interrato, c’era la camera
della domestica. Accanto, la lavanderia, poi un ripostiglio. In
fondo al corridoio la palestra con una serie di attrezzi ginnici.
Il Commendatore indicò la camera.
– Nascondetevi lí, – le disse. – Il signor
Menshiki in quella stanza non ci va mai. Una volta al giorno scende
a questo piano per usare la lavatrice e fare ginnastica, ma
nient’altro. Quindi se restate lí tranquilla, non vi troverà. La
stanza ha il bagno, e c’è anche il frigo. Nel ripostiglio ci sono
acqua minerale e scorte di cibo abbondanti, nell’eventualità di un
terremoto. Quindi non morirete di fame. Potete passare qualche
giorno in relativa sicurezza.
Qualche giorno? si chiese stupefatta Marie, le
scarpe in mano, senza però formulare la domanda ad alta voce.
Questo significa che dovrò passare qualche giorno in questo
posto?
– Ne sono desolato, ma adesso non potete
uscire di qui, – le disse il Commendatore scuotendo leggermente la
testa. – Questo è un posto rigorosamente sorvegliato. Tutto è
sempre tenuto sotto controllo, in tanti sensi. E io non posso farci
niente. I poteri di cui è dotata un’idea disgraziatamente sono
limitati.
– Quanto tempo pensa che ci vorrà? – chiese
Marie con un filo di voce. – Devo tornare a casa prima possibile.
Altrimenti mia zia si preoccuperà da morire. Mi darà per dispersa e
chiamerà la polizia. E saranno guai.
– Mi dispiace, ma non vi posso aiutare. Dovete
per forza restare nascosta qui e aspettare.
– Il signor Menshiki è una persona
pericolosa?
– Spiegarvi sarebbe difficile, – disse il
Commendatore. Poi prese un’aria pensierosa. – Non è un uomo
malvagio. Lo definirei anzi una persona per bene, con
un’intelligenza superiore alla media. Ha anche un lato… nobile,
diciamo. Al tempo stesso però nel suo spirito c’è come un buco
nero, qualcosa che finisce per attirare elementi strani e
pericolosi, o rischia di farlo. È questo il suo problema.
«Elementi strani»? Ma cosa significava? Marie
non ci capiva niente.
– La persona che poco fa è rimasta ferma in
piedi davanti allo spogliatoio, era il signor Menshiki, vero?
– Era lui, e al tempo stesso non lo era.
– E il signor Menshiki se ne rende conto, di
tutto questo?
– Probabilmente, – disse il Commendatore. –
Probabilmente. Però è qualcosa da cui non riesce ad
astenersi.
Qualcosa di strano e pericoloso? Qualcosa che
poteva anche assumere la forma della grossa vespa che aveva visto
sulla terrazza, allora?
– Esatto. Dovete stare molto attenta anche
alle vespe. Le vespe sono un pericolo letale.
– Letale?
– Significa che possono portare la morte, – le
spiegò il Commendatore. – Adesso voi dovete assolutamente restare
in questa casa senza muovervi. Guai se cercaste di uscire!
«Letale», ripeté mentalmente Marie. Sentiva in
quella parola una risonanza sinistra.
Aprí la porta della stanza della domestica ed
entrò. Era solo un po’ piú grande dello spogliatoio della camera di
Menshiki. Il letto non era fatto, ma nell’armadio c’erano coperte,
cuscini, una trapunta. Adiacenti alla camera, un piccolo bagno e un
cucinino provvisto di frigorifero, fornello elettrico, un piccolo
forno a microonde e un lavabo. Nella stanza c’erano anche un
tavolino e una sedia, per sedersi a mangiare qualcosa. Una piccola
finestra dava verso valle, che si vedeva da uno spiraglio nelle
tende.
– Se non volete essere scoperta, dovete stare
qui tranquilla e cercare di non fare rumore, – le raccomandò il
Commendatore. – D’accordo?
Marie annuí.
– Voi siete una bambina coraggiosa. Un po’
sconsiderata, ma coraggiosa. Fondamentalmente, è una qualità. Ma
finché rimanete qui, dovete essere molto, molto cauta. Mi
raccomando, nessuna imprudenza! Perché questo non è un posto come
gli altri. Vi aleggiano presenze ostili.
– Aleggiano?
– Si aggirano, vagano…
Marie fece cenno che aveva capito. Avrebbe
voluto saperne di piú, su quelle presenze ostili che «aleggiavano»
in quel posto che «non era come gli altri», ma fare domande non era
facile. Le cose che non capiva erano troppe, e non sapeva da dove
cominciare.
– Forse non potrò piú tornare qui, – proseguí
il Commendatore come se le rivelasse un segreto. – Adesso devo
andare, ho un’altra cosa da fare. Si tratta di una faccenda molto
grave. Di conseguenza non credo che vi potrò ancora aiutare, ne
sono veramente desolato. Ve la dovrete cavare con le vostre
forze.
– Ma come faccio a uscire di qui con le mie
sole forze?
Il Commendatore guardò Marie socchiudendo gli
occhi.
– Tendete bene le orecchie, aprite bene gli
occhi, e state all’erta. Non c’è altro modo. Quando si presenterà
la buona occasione, lo capirete: ecco, adesso! Voi siete una
bambina coraggiosa e intelligente. Se starete attenta, troverete il
momento giusto.
Marie fece cenno di sí col capo. Devo essere
coraggiosa e intelligente, pensò.
– Vi auguro ogni bene, – disse il Commendatore
come per incoraggiarla. Poi gli venne in mente qualcosa e aggiunse:
– Ah, non vi dovete preoccupare! Ben presto anche il seno vi
crescerà.
– Avrò la taglia 65C di seno?
Il Commendatore piegò la testa di lato con
aria perplessa.
– Non saprei rispondervi, – disse. – Io sono
solo una semplice idea, non so nulla di biancheria intima
femminile. Comunque il vostro seno diventerà molto piú grosso di
adesso. Non vi dovete angustiare. Il tempo risolve ogni cosa. Per
ciò che ha una forma, il tempo è importantissimo. Non dura in
eterno, ma finché c’è, agisce in modo efficace. Quindi,
nell’attesa, pregustatevi pure la gioia.
– La ringrazio davvero, – disse Marie. Be’,
per lo meno quella era una bella notizia. Ed era esattamente ciò di
cui aveva bisogno per farsi coraggio.
Poi il Commendatore, al suo solito, sparí in
un attimo come vapore nell’aria. Scomparso lui, il silenzio del
luogo sembrò piú profondo. Rendendosi conto che non l’avrebbe piú
rivisto, Marie si sentí triste e sola. Non avrebbe piú potuto fare
appello a lui. Si distese sul nudo materasso e guardò il soffitto.
Era basso, in pannelli di cartongesso bianco. Nel mezzo c’era una
lampada al neon. Marie non l’accese, però. Non poteva accendere la
luce, era ovvio.
Quanto tempo avrebbe dovuto passare lí? Era
quasi ora di cena. Se entro le sette e mezzo non fosse tornata a
casa, la zia avrebbe sicuramente chiamato la scuola di disegno.
Dove qualcuno l’avrebbe informata che quel giorno lei non era
andata a lezione. A quel pensiero si sentí stringere il cuore. La
zia morirà d’apprensione, pensò, immaginerà che mi sia successo
chissà cosa! Devo farle sapere che sono sana e salva. Di colpo si
ricordò che nella tasca della giacca aveva il cellulare.
Spento.
Lo prese e schiacciò il pulsante d’accensione.
Sullo schermo apparve la scritta BATTERIA
SCARICA. Infatti dopo pochi secondi lo schermo si spense.
Era da un sacco di tempo che non lo metteva in carica, le era
completamente passato di mente. Non c’era da stupirsene,
quell’apparecchio non le interessava, non le piaceva, e lo usava
raramente.
Con un sospiro, si disse che ogni tanto doveva
ricaricare le batterie. Perché poteva sempre succedere qualcosa.
Era tardi per pensarci, però, il cellulare ormai aveva esalato
l’ultimo respiro. Lo rimise nella tasca della giacca. Ma lo riprese
subito, si era accorta di una cosa: mancava il pinguino di plastica
che vi era sempre attaccato! Quello che aveva vinto con i punti in
un Mister Donut, e da allora aveva sempre considerato il suo
portafortuna. Forse il nastro si era strappato. Ma dove, quando?
Non riusciva a immaginarlo. Anche perché non ricordava di aver mai
tolto il cellulare dalla tasca.
Aver perso il suo piccolo talismano le sembrò
di pessimo auspicio. Poi cambiò idea. Il pinguino non l’aveva piú,
d’accordo, ma al suo posto c’erano quei vestiti che l’avevano
aiutata nello spogliatoio, erano loro il suo nuovo portafortuna. E
quell’omino che parlava in modo strano, il Commendatore che l’aveva
guidata fin lí. Era sempre protetta da qualcuno o qualcosa. Quindi
non doveva preoccuparsi troppo della perdita del pinguino.
A parte il cellulare, aveva con sé solo il
portafoglio con un po’ di spiccioli, il fazzoletto, le chiavi di
casa, mezzo chewing-gum alla menta… era tutto. Nella cartella
c’erano quaderni, penne e matite, alcuni libri di testo. Nulla che
potesse esserle utile.
Marie scivolò in silenzio fuori dalla stanza
della domestica e andò a ispezionare il ripostiglio. Come aveva
detto il Commendatore, trovò riserve di cibo messe lí
nell’eventualità di un terremoto. Su quelle montagne il rischio
sismico era relativamente basso, le allerte poco frequenti. Persino
durante il grande terremoto del Kantō, nel 1923, sia nella città di
Odawara che nella regione circostante c’erano stati pochi danni
(studiarne la gravità era stato uno dei compiti delle vacanze
estive, quando era alle elementari). Tuttavia era sempre difficile,
dopo una catastrofe naturale, procurarsi acqua e cibo. Soprattutto
se si abitava sulle alture. Di conseguenza Menshiki non trascurava
di tenere a disposizione l’una e l’altro. Da quella persona
prudente che era.
Prese dal ripostiglio due bottiglie di acqua
minerale, un pacchetto di cracker, delle barrette di cioccolato e
tornò nella stanza. Lui non si sarebbe accorto che mancava quella
poca roba. Per quanto pignolo, difficile che contasse le bottiglie
d’acqua minerale. Invece poteva darsi che sentisse l’acqua del
rubinetto scorrere nei tubi, meglio evitare di usarla. Il
Commendatore le aveva detto di fare meno rumore possibile. Non
doveva commettere la minima imprudenza.
Rientrata nella stanza, girò il nottolino sul
pomo della porta. Naturalmente era una precauzione ridicola −
figurarsi se Menshiki non aveva la chiave! − ma per lo meno le
avrebbe fatto guadagnare un po’ di tempo. O dato
quest’illusione.
Non avendo fame, mangiucchiò qualche cracker,
tanto per mettere qualcosa nello stomaco e bevve un po’ d’acqua.
Normalissima acqua, normalissimi cracker. Per scrupolo controllò
l’etichetta, non erano scaduti. Bene, non sarebbe morta di fame lí
dentro.
Fuori ormai era scesa la sera. Marie scostò
leggermente le tende e guardò l’altro versante della valle. Lí
c’era la sua casa. Senza binocolo non poteva vedere all’interno
delle stanze, ma in alcune le luci erano accese. Aguzzando la vista
riuscí a distinguere l’ombra di una persona. Era di sicuro la zia,
in pena perché lei non era ancora tornata. Non c’era modo di
telefonarle? Sarebbe bastato che le dicesse due parole − non ti
preoccupare, sto bene − e riagganciasse subito. Se fosse stata
molto rapida, il signor Menshiki non se ne sarebbe accorto. Peccato
che in quella stanza non ci fossero telefoni, e nemmeno nelle
vicinanze.
Magari sarebbe potuta scappare durante la
notte, approfittando del buio. Trovare da qualche parte una scala,
scavalcare il muro di cinta e uscire. Ricordò di aver visto una
scala pieghevole nel ripostiglio degli attrezzi, in giardino. Ma le
tornarono in mente le parole del Commendatore: «Questo è un posto
rigorosamente sorvegliato. Tutto è sempre tenuto sotto controllo,
in tanti sensi». E non parlava soltanto del sistema d’allarme
installato da un’agenzia di vigilanza.
Faccio meglio a credere a quanto mi ha detto,
pensò. Questo non è un posto normale. Vi «aleggiano» presenze
ostili. Devo essere molto prudente. E molto paziente. Guai a
prendere le cose alla leggera, a forzare la situazione! Devo
seguire il consiglio del Commendatore: stare nascosta qui, ferma e
zitta, e vedere quel che succede. Aspettando il momento
giusto.
«Quando si presenterà la buona occasione, lo
capirete: ecco, adesso! Voi siete una bambina coraggiosa e
intelligente».
Sí, devo essere coraggiosa e intelligente. Me
la caverò, vivrò, e anche il seno mi crescerà.
Ecco cosa pensò Marie distesa sul materasso.
Nella stanza l’oscurità si fece sempre piú profonda, finché
calarono le tenebre.