Capitolo sessantunesimo
Devo essere coraggiosa e intelligente
– Non sono un’allucinazione, – ripeté il Commendatore. – Sul fatto che io esista davvero o no, ci sarebbe motivo di discutere, ma in ogni caso non sono un’allucinazione. E sono venuto qui in vostro soccorso. Perché voi avete bisogno di aiuto, vero?
Marie suppose che dicendo «voi» si riferisse a lei. Quindi fece cenno di sí. Parlava in modo strano, quel tipo, però aveva ragione. Ovvio che voleva essere aiutata!
– Ormai è tardi per andare sulla terrazza a prendere le scarpe, – disse il Commendatore. – Meglio rinunciare anche a rimettere il binocolo al suo posto. Ma non vi dovete preoccupare. Cercherò con tutte le mie forze di impedire al signor Menshiki di uscire sulla terrazza. Almeno per un po’. Dopo il calar del sole mi sarà difficile, però. Perché quando si fa sera, lui va sempre a guardare col binocolo la vostra casa dall’altra parte della valle. Lo fa tutti i giorni, è una sua abitudine. Quindi bisogna risolvere il problema prima. Comprendete quello che vi sto dicendo?
Marie semplicemente annuí. Piú o meno capiva.
– Per qualche minuto dovete restare nascosta in questo spogliatoio, – proseguí il Commendatore. – Rannicchiatevi lí e non fatevi assolutamente sentire. Non c’è altra maniera. Quando verrà il momento, ve lo farò sapere. Nel frattempo non vi dovete muovere di qui. Qualsiasi cosa succeda, non dovete fiatare. È chiaro?
Di nuovo Marie fece cenno di sí. Stava sognando? Oppure quell’omino era un mago o qualcosa del genere?
– Non sono un mago e nemmeno un sogno, – disse il Commendatore. – Sono un’idea, e per mia natura non ho sembianze. Però ho preso temporaneamente l’aspetto del Commendatore, altrimenti voi non mi potreste vedere, e sarebbe poco pratico.
Un’idea, il Commendatore… Marie ripeté mentalmente quelle parole. Dicendosi che lui poteva leggerle nel pensiero. A quel punto di colpo ricordò: era un personaggio dipinto nel quadro che aveva visto nella casa di Amada Tomohiko! Un quadro in stile nihonga appeso nel senso della larghezza. Di sicuro era saltato fuori da lí. Per questo era cosí piccolo!
– Esattamente, – disse il Commendatore. – Ho preso le sembianze di un personaggio di quell’opera. Del Commendatore… anche se non capisco bene neanch’io cosa significhi, questo titolo. Comunque per ora mi potete chiamare cosí. Aspettatemi qui in silenzio. Al momento buono, verrò a prendervi. Non abbiate paura. Gli abiti appesi lí vi proteggeranno.
Gli abiti l’avrebbero protetta? Ma cosa stava dicendo? Marie era frastornata. Ai suoi dubbi però non ottenne risposta. L’istante seguente il Commendatore era scomparso, come vapore dissolto nell’aria.
Attenendosi alle sue raccomandazioni, si fece piccola piccola e cercò di muoversi il meno possibile e di non fare il minimo rumore. Menshiki era tornato, era dentro casa. Si sentiva un frusciare di sacchetti di carta − quelli che probabilmente teneva in mano −, quindi doveva aver fatto la spesa. Passò lentamente davanti alla stanza dove lei era nascosta, il rumore dei passi attutito dalle pantofole. Marie trattenne il fiato.
Le veneziane della porta vetrata dello spogliatoio, girate verso il basso, lasciavano filtrare un po’ di luce. Non molta. Fra i listelli delle veneziane scorgeva soltanto la moquette sul pavimento della stanza. Stava calando la sera, fra poco avrebbe fatto buio. L’odore di naftalina era fortissimo. Da quello stanzino senza finestre non c’era modo di scappare. E a Marie era la cosa che faceva piú paura, non avere una via di fuga.
«Al momento buono, verrò a prendervi», le aveva promesso il Commendatore. Doveva per forza crederci, e attendere. Cos’altro poteva fare? E poi le aveva detto che gli abiti l’avrebbero protetta. Quegli abiti lí? Quelle vecchie cose che una donna sconosciuta aveva indossato prima che lei nascesse? Perché mai avrebbero dovuto proteggerla? Tese una mano e toccò l’orlo del vestito a fiori che aveva davanti. Sentí sulle dita la piacevole morbidezza del tessuto rosa. Lo strinse leggermente. Non sapeva perché, ma il contatto con quel vestito la faceva sentire un po’ piú tranquilla.
Volendo, potrei anche metterlo, pensò. Era già alta piú o meno quanto quella donna. La taglia 5 le sarebbe andata quasi bene. Naturalmente avrebbe dovuto inventarsi qualcosa per compensare il seno piatto. Ma se ne avesse avuto voglia, o qualche ragione per farlo, avrebbe potuto indossare quegli abiti. A quel pensiero provò una strana emozione.
Intanto il tempo passava. L’oscurità si faceva piú densa. Marie guardò il suo orologio. Nella penombra non riuscí a vedere le cifre. Schiacciò il pulsante che illuminava il quadrante: quasi le quattro e mezzo. Ormai il sole era tramontato. I giorni erano cortissimi, in quella stagione. E una volta che fosse calata l’oscurità, Menshiki sarebbe uscito sulla terrazza. E si sarebbe accorto immediatamente che qualcuno era entrato in casa. L’unico modo per evitarlo era recuperare le scarpe e rimettere ogni cosa al suo posto.
Sempre piú agitata, attendeva che il Commendatore venisse a prenderla. Invece lui tardava. Forse non riusciva a far andare le cose nel verso giusto. A cogliere Menshiki in un momento di distrazione. Inoltre, persona o «idea» che fosse, quanta forza aveva realmente? Fino a che punto si poteva fare affidamento su di lui? Impossibile saperlo. In quel momento però Marie non aveva nessun altro su cui contare. Seduta sul pavimento dello spogliatoio, le braccia intorno alle ginocchia, guardava la moquette fra un listello e l’altro delle veneziane. Ogni tanto sollevava una mano a stringere l’orlo del vestito rosa. Come fosse la sua ancora di salvezza.
Quando ormai faceva quasi buio, di nuovo sentí dei passi nel corridoio. Passi lenti e attutiti, che si avvicinavano… davanti alla camera dove lei era nascosta, di colpo si fermarono. Come se quella persona (Menshiki, ovviamente, chi altri, se no?) avesse fiutato qualcosa. Poco dopo si udí il rumore della porta che si apriva. La porta della stanza vuota dove si trovava lei, Marie ne era sicura. Aveva il cuore in gola, temeva che smettesse di batterle nel petto da un momento all’altro. Poi l’uomo entrò, chiuse lentamente la porta alle sue spalle. Ci fu un rumore metallico. Lui era lí. Tratteneva il fiato come stava facendo Marie in quel momento, tendeva le orecchie, cercava indizi… la sensazione era palpabile. Aguzzava la vista nella penombra, senza accendere la luce. Perché? Accendere la luce non era la prima cosa che chiunque avrebbe fatto? Cosa significava?
Sempre attraverso i listelli delle veneziane, Marie teneva d’occhio il pavimento della stanza. Se qualcuno si fosse avvicinato, sarebbe apparsa per prima la punta delle scarpe. Per il momento invece non si vedeva niente. La presenza di una persona nella camera però era evidente. La presenza di un uomo. E quell’uomo (non aveva dubbi che fosse Menshiki, perché nella proprietà non entrava mai nessun altro) nella semioscurità osservava la porta dello spogliatoio. Sentiva che c’era qualcosa di strano. Che lí dentro stava succedendo un fatto inspiegabile. Ora aprirà la porta, pensò Marie, sarà la sua prossima mossa, inevitabilmente. E dato che non è chiusa a chiave, per aprirla gli basterà tendere una mano, girare il pomo e tirare. Niente di piú facile.
L’uomo avanzò. Marie cadde in preda al terrore. Sudore freddo le colava dalle ascelle. Non avrei mai dovuto venire qui, si disse, avrei dovuto starmene tranquilla a casa mia, dall’altra parte della valle. Nella mia casa di cui ora ho tanta nostalgia. C’è qualcosa di terribile, in questo posto, qualcosa a cui non avrei dovuto avvicinarmi con tanta noncuranza. Questo posto ha una sua volontà − forse ne fa parte anche il calabrone. Una volontà che agisce e adesso sta per mettere le mani su di me. La punta di un paio di pantofole di pelle marrone apparve fra i listelli delle veneziane. Ma era troppo buio per vedere altro.
D’istinto, Marie alzò il braccio e strinse forte l’orlo del vestito. Il vestito rosa a fiori taglia 5. – Aiutami tu, ti prego, − implorò −, proteggimi tu.
L’uomo rimase a lungo davanti alla porta dello spogliatoio. In perfetto silenzio. Non lo si sentiva nemmeno respirare. Si limitava a studiare la situazione, immobile come una statua di pietra. Silenzio, oscurità sempre piú profonda. Accovacciata sul pavimento, Marie tremava tutta. Udiva il lieve rumore dei suoi denti che battevano. Avrebbe voluto chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie. Cacciare via ogni pensiero. Ma non lo fece. Intuiva che non doveva. Non doveva perdere il controllo, arrendersi alla paura, al terrore. Nemmeno svenire, o smettere di pensare. Quindi teneva occhi e orecchie ben aperti mentre fissava la punta di quei piedi, aggrappata al morbido vestito rosa di cui stringeva spasmodicamente un lembo nella mano.
Questi abiti mi stanno proteggendo, si ripeteva convinta. Sono miei alleati. Tutte queste cose − i vestiti taglia 5, le scarpe numero 23, i reggiseni 65C − mi tutelano avvolgendomi e rendendomi invisibile. Io qui non ci sono. Io qui non ci sono.
A un certo punto − Marie non sapeva quanto tempo fosse passato, il tempo lí non scorreva in modo uniforme − l’uomo tese una mano per aprire la porta dello spogliatoio. Marie lo percepí nettamente. Ed era pronta. La porta si sarebbe aperta, l’uomo l’avrebbe vista. E lei avrebbe visto lui. Cosa sarebbe successo dopo, non riusciva a immaginarlo. E se non era Menshiki? Quell’idea le attraversò la mente per un attimo. Ma chi poteva essere, allora?
Invece, alla fine, l’uomo non aprí. Esitò ancora qualche secondo, poi ritirò la mano e si allontanò. Marie non riusciva a capire perché all’ultimo momento avesse cambiato idea. Forse qualcosa l’aveva dissuaso. L’uomo uscí dalla stanza e richiuse la porta alle proprie spalle. Non era una finta, ne era sicura. In quella camera, a parte lei, non c’era piú nessuno. Non aveva dubbi. Finalmente chiuse gli occhi e piano piano soffiò fuori tutta l’aria che aveva trattenuto nel petto.
Il cuore le batteva ancora forte. «Come una campana a martello», si sarebbe detto in un romanzo. Lei non l’aveva mai sentita, una campana a martello. Ma sapeva di essere stata a un passo dal disastro. Un attimo prima, però, qualcosa l’aveva salvata. In ogni caso, quel posto era troppo pericoloso. Quell’uomo aveva fiutato la sua presenza nella stanza. Non poteva restare indefinitamente nascosta lí. Questa volta se l’era cavata per un pelo. Ma non era detto che la fortuna continuasse ad assisterla.
Attese ancora. Era quasi buio. Eppure Marie non si mosse. Senza fiatare, cercava di superare l’ansia e la paura. Il Commendatore non l’avrebbe di certo dimenticata in quello stanzino. Gliel’aveva promesso, e lei gli credeva. O piuttosto, poteva solo contare su quel piccolo essere umano che parlava in modo strano, non aveva alternative.
Ed ecco che lo vide, era lí!
– Dovete lasciare questo spogliatoio, – le disse il Commendatore bisbigliando. – Ora, è il momento buono. Forza, alzatevi.
Marie esitava. Non riusciva a tirarsi su dal pavimento. Forse cose ancora piú terribili l’aspettavano, fuori di lí, forse sarebbe di nuovo caduta in preda al terrore.
– Il signor Menshiki sta facendo la doccia, – le disse il Commendatore. – Come sapete, è un uomo che tiene molto all’igiene personale. Nella doccia di solito ci resta un bel po’. Non in eterno, però, è ovvio. La vostra sola possibilità di fuga è ora. Forza, svelta!
Facendosi coraggio, Marie si alzò. Aprí la porta dello spogliatoio. Nella stanza buia non c’era nessuno. Prima di uscire si voltò a guardare ancora una volta i vestiti appesi lí, inspirò l’aria che odorava di naftalina. Probabilmente non li avrebbe visti mai piú. Per qualche motivo quei vestiti le mettevano nostalgia, le erano familiari.
– Su, sbrigatevi, – la incitò il Commendatore. – Non c’è da perdere tempo. Andate nel corridoio e prendete a sinistra.
Marie si mise la cartella a tracolla, aprí la porta della stanza e uscí. Nel corridoio prese a sinistra, salí di corsa le scale, entrò in salotto, attraversò la grande stanza e aprí una delle vetrate che davano sulla terrazza. Poteva darsi che il calabrone fosse ancora lí. O forse no, perché le vespe quando cala la notte non escono piú. A meno che quel calabrone non lo temesse, il buio. Ma non aveva il tempo di pensare a lui. Uscí, svitò il binocolo dal treppiede e lo coprí di nuovo col fodero di plastica. Ripiegò il treppiede e lo rimise contro il muro come l’aveva trovato. Per la tensione non riusciva a muovere bene le dita e ci mise piú tempo del previsto. Una volta terminato, prese le scarpe da ginnastica nere che aveva lasciato sul pavimento. Seduto sullo sgabello, il Commendatore la guardava. Il calabrone non c’era. Marie si sentí molto sollevata.
– Benissimo, – disse il Commendatore. – Ora rientrate in casa, chiudete bene la porta-finestra, poi tornate in corridoio e scendete di due piani.
Doveva scendere di due piani? In quel modo si sarebbe inoltrata ancora di piú nella casa. Non doveva invece scappare?
– Adesso non è possibile, – disse il Commendatore scuotendo la testa. Di nuovo le aveva letto nel pensiero. – L’uscita è chiusa, sprangata. Dovete restare nascosta ancora un po’. Fate come vi ho detto, ora, subito!
Marie non poteva fare altro che credergli. Uscí dal salotto e a piedi nudi scese zitta zitta due piani di scale.
Al secondo piano interrato, c’era la camera della domestica. Accanto, la lavanderia, poi un ripostiglio. In fondo al corridoio la palestra con una serie di attrezzi ginnici. Il Commendatore indicò la camera.
– Nascondetevi lí, – le disse. – Il signor Menshiki in quella stanza non ci va mai. Una volta al giorno scende a questo piano per usare la lavatrice e fare ginnastica, ma nient’altro. Quindi se restate lí tranquilla, non vi troverà. La stanza ha il bagno, e c’è anche il frigo. Nel ripostiglio ci sono acqua minerale e scorte di cibo abbondanti, nell’eventualità di un terremoto. Quindi non morirete di fame. Potete passare qualche giorno in relativa sicurezza.
Qualche giorno? si chiese stupefatta Marie, le scarpe in mano, senza però formulare la domanda ad alta voce. Questo significa che dovrò passare qualche giorno in questo posto?
– Ne sono desolato, ma adesso non potete uscire di qui, – le disse il Commendatore scuotendo leggermente la testa. – Questo è un posto rigorosamente sorvegliato. Tutto è sempre tenuto sotto controllo, in tanti sensi. E io non posso farci niente. I poteri di cui è dotata un’idea disgraziatamente sono limitati.
– Quanto tempo pensa che ci vorrà? – chiese Marie con un filo di voce. – Devo tornare a casa prima possibile. Altrimenti mia zia si preoccuperà da morire. Mi darà per dispersa e chiamerà la polizia. E saranno guai.
– Mi dispiace, ma non vi posso aiutare. Dovete per forza restare nascosta qui e aspettare.
– Il signor Menshiki è una persona pericolosa?
– Spiegarvi sarebbe difficile, – disse il Commendatore. Poi prese un’aria pensierosa. – Non è un uomo malvagio. Lo definirei anzi una persona per bene, con un’intelligenza superiore alla media. Ha anche un lato… nobile, diciamo. Al tempo stesso però nel suo spirito c’è come un buco nero, qualcosa che finisce per attirare elementi strani e pericolosi, o rischia di farlo. È questo il suo problema.
«Elementi strani»? Ma cosa significava? Marie non ci capiva niente.
– La persona che poco fa è rimasta ferma in piedi davanti allo spogliatoio, era il signor Menshiki, vero?
– Era lui, e al tempo stesso non lo era.
– E il signor Menshiki se ne rende conto, di tutto questo?
– Probabilmente, – disse il Commendatore. – Probabilmente. Però è qualcosa da cui non riesce ad astenersi.
Qualcosa di strano e pericoloso? Qualcosa che poteva anche assumere la forma della grossa vespa che aveva visto sulla terrazza, allora?
– Esatto. Dovete stare molto attenta anche alle vespe. Le vespe sono un pericolo letale.
– Letale?
– Significa che possono portare la morte, – le spiegò il Commendatore. – Adesso voi dovete assolutamente restare in questa casa senza muovervi. Guai se cercaste di uscire!
«Letale», ripeté mentalmente Marie. Sentiva in quella parola una risonanza sinistra.
Aprí la porta della stanza della domestica ed entrò. Era solo un po’ piú grande dello spogliatoio della camera di Menshiki. Il letto non era fatto, ma nell’armadio c’erano coperte, cuscini, una trapunta. Adiacenti alla camera, un piccolo bagno e un cucinino provvisto di frigorifero, fornello elettrico, un piccolo forno a microonde e un lavabo. Nella stanza c’erano anche un tavolino e una sedia, per sedersi a mangiare qualcosa. Una piccola finestra dava verso valle, che si vedeva da uno spiraglio nelle tende.
– Se non volete essere scoperta, dovete stare qui tranquilla e cercare di non fare rumore, – le raccomandò il Commendatore. – D’accordo?
Marie annuí.
– Voi siete una bambina coraggiosa. Un po’ sconsiderata, ma coraggiosa. Fondamentalmente, è una qualità. Ma finché rimanete qui, dovete essere molto, molto cauta. Mi raccomando, nessuna imprudenza! Perché questo non è un posto come gli altri. Vi aleggiano presenze ostili.
– Aleggiano?
– Si aggirano, vagano…
Marie fece cenno che aveva capito. Avrebbe voluto saperne di piú, su quelle presenze ostili che «aleggiavano» in quel posto che «non era come gli altri», ma fare domande non era facile. Le cose che non capiva erano troppe, e non sapeva da dove cominciare.
– Forse non potrò piú tornare qui, – proseguí il Commendatore come se le rivelasse un segreto. – Adesso devo andare, ho un’altra cosa da fare. Si tratta di una faccenda molto grave. Di conseguenza non credo che vi potrò ancora aiutare, ne sono veramente desolato. Ve la dovrete cavare con le vostre forze.
– Ma come faccio a uscire di qui con le mie sole forze?
Il Commendatore guardò Marie socchiudendo gli occhi.
– Tendete bene le orecchie, aprite bene gli occhi, e state all’erta. Non c’è altro modo. Quando si presenterà la buona occasione, lo capirete: ecco, adesso! Voi siete una bambina coraggiosa e intelligente. Se starete attenta, troverete il momento giusto.
Marie fece cenno di sí col capo. Devo essere coraggiosa e intelligente, pensò.
– Vi auguro ogni bene, – disse il Commendatore come per incoraggiarla. Poi gli venne in mente qualcosa e aggiunse: – Ah, non vi dovete preoccupare! Ben presto anche il seno vi crescerà.
– Avrò la taglia 65C di seno?
Il Commendatore piegò la testa di lato con aria perplessa.
– Non saprei rispondervi, – disse. – Io sono solo una semplice idea, non so nulla di biancheria intima femminile. Comunque il vostro seno diventerà molto piú grosso di adesso. Non vi dovete angustiare. Il tempo risolve ogni cosa. Per ciò che ha una forma, il tempo è importantissimo. Non dura in eterno, ma finché c’è, agisce in modo efficace. Quindi, nell’attesa, pregustatevi pure la gioia.
– La ringrazio davvero, – disse Marie. Be’, per lo meno quella era una bella notizia. Ed era esattamente ciò di cui aveva bisogno per farsi coraggio.
Poi il Commendatore, al suo solito, sparí in un attimo come vapore nell’aria. Scomparso lui, il silenzio del luogo sembrò piú profondo. Rendendosi conto che non l’avrebbe piú rivisto, Marie si sentí triste e sola. Non avrebbe piú potuto fare appello a lui. Si distese sul nudo materasso e guardò il soffitto. Era basso, in pannelli di cartongesso bianco. Nel mezzo c’era una lampada al neon. Marie non l’accese, però. Non poteva accendere la luce, era ovvio.
Quanto tempo avrebbe dovuto passare lí? Era quasi ora di cena. Se entro le sette e mezzo non fosse tornata a casa, la zia avrebbe sicuramente chiamato la scuola di disegno. Dove qualcuno l’avrebbe informata che quel giorno lei non era andata a lezione. A quel pensiero si sentí stringere il cuore. La zia morirà d’apprensione, pensò, immaginerà che mi sia successo chissà cosa! Devo farle sapere che sono sana e salva. Di colpo si ricordò che nella tasca della giacca aveva il cellulare. Spento.
Lo prese e schiacciò il pulsante d’accensione. Sullo schermo apparve la scritta BATTERIA SCARICA. Infatti dopo pochi secondi lo schermo si spense. Era da un sacco di tempo che non lo metteva in carica, le era completamente passato di mente. Non c’era da stupirsene, quell’apparecchio non le interessava, non le piaceva, e lo usava raramente.
Con un sospiro, si disse che ogni tanto doveva ricaricare le batterie. Perché poteva sempre succedere qualcosa. Era tardi per pensarci, però, il cellulare ormai aveva esalato l’ultimo respiro. Lo rimise nella tasca della giacca. Ma lo riprese subito, si era accorta di una cosa: mancava il pinguino di plastica che vi era sempre attaccato! Quello che aveva vinto con i punti in un Mister Donut, e da allora aveva sempre considerato il suo portafortuna. Forse il nastro si era strappato. Ma dove, quando? Non riusciva a immaginarlo. Anche perché non ricordava di aver mai tolto il cellulare dalla tasca.
Aver perso il suo piccolo talismano le sembrò di pessimo auspicio. Poi cambiò idea. Il pinguino non l’aveva piú, d’accordo, ma al suo posto c’erano quei vestiti che l’avevano aiutata nello spogliatoio, erano loro il suo nuovo portafortuna. E quell’omino che parlava in modo strano, il Commendatore che l’aveva guidata fin lí. Era sempre protetta da qualcuno o qualcosa. Quindi non doveva preoccuparsi troppo della perdita del pinguino.
A parte il cellulare, aveva con sé solo il portafoglio con un po’ di spiccioli, il fazzoletto, le chiavi di casa, mezzo chewing-gum alla menta… era tutto. Nella cartella c’erano quaderni, penne e matite, alcuni libri di testo. Nulla che potesse esserle utile.
Marie scivolò in silenzio fuori dalla stanza della domestica e andò a ispezionare il ripostiglio. Come aveva detto il Commendatore, trovò riserve di cibo messe lí nell’eventualità di un terremoto. Su quelle montagne il rischio sismico era relativamente basso, le allerte poco frequenti. Persino durante il grande terremoto del Kantō, nel 1923, sia nella città di Odawara che nella regione circostante c’erano stati pochi danni (studiarne la gravità era stato uno dei compiti delle vacanze estive, quando era alle elementari). Tuttavia era sempre difficile, dopo una catastrofe naturale, procurarsi acqua e cibo. Soprattutto se si abitava sulle alture. Di conseguenza Menshiki non trascurava di tenere a disposizione l’una e l’altro. Da quella persona prudente che era.
Prese dal ripostiglio due bottiglie di acqua minerale, un pacchetto di cracker, delle barrette di cioccolato e tornò nella stanza. Lui non si sarebbe accorto che mancava quella poca roba. Per quanto pignolo, difficile che contasse le bottiglie d’acqua minerale. Invece poteva darsi che sentisse l’acqua del rubinetto scorrere nei tubi, meglio evitare di usarla. Il Commendatore le aveva detto di fare meno rumore possibile. Non doveva commettere la minima imprudenza.
Rientrata nella stanza, girò il nottolino sul pomo della porta. Naturalmente era una precauzione ridicola − figurarsi se Menshiki non aveva la chiave! − ma per lo meno le avrebbe fatto guadagnare un po’ di tempo. O dato quest’illusione.
Non avendo fame, mangiucchiò qualche cracker, tanto per mettere qualcosa nello stomaco e bevve un po’ d’acqua. Normalissima acqua, normalissimi cracker. Per scrupolo controllò l’etichetta, non erano scaduti. Bene, non sarebbe morta di fame lí dentro.
Fuori ormai era scesa la sera. Marie scostò leggermente le tende e guardò l’altro versante della valle. Lí c’era la sua casa. Senza binocolo non poteva vedere all’interno delle stanze, ma in alcune le luci erano accese. Aguzzando la vista riuscí a distinguere l’ombra di una persona. Era di sicuro la zia, in pena perché lei non era ancora tornata. Non c’era modo di telefonarle? Sarebbe bastato che le dicesse due parole − non ti preoccupare, sto bene − e riagganciasse subito. Se fosse stata molto rapida, il signor Menshiki non se ne sarebbe accorto. Peccato che in quella stanza non ci fossero telefoni, e nemmeno nelle vicinanze.
Magari sarebbe potuta scappare durante la notte, approfittando del buio. Trovare da qualche parte una scala, scavalcare il muro di cinta e uscire. Ricordò di aver visto una scala pieghevole nel ripostiglio degli attrezzi, in giardino. Ma le tornarono in mente le parole del Commendatore: «Questo è un posto rigorosamente sorvegliato. Tutto è sempre tenuto sotto controllo, in tanti sensi». E non parlava soltanto del sistema d’allarme installato da un’agenzia di vigilanza.
Faccio meglio a credere a quanto mi ha detto, pensò. Questo non è un posto normale. Vi «aleggiano» presenze ostili. Devo essere molto prudente. E molto paziente. Guai a prendere le cose alla leggera, a forzare la situazione! Devo seguire il consiglio del Commendatore: stare nascosta qui, ferma e zitta, e vedere quel che succede. Aspettando il momento giusto.
«Quando si presenterà la buona occasione, lo capirete: ecco, adesso! Voi siete una bambina coraggiosa e intelligente».
Sí, devo essere coraggiosa e intelligente. Me la caverò, vivrò, e anche il seno mi crescerà.
Ecco cosa pensò Marie distesa sul materasso. Nella stanza l’oscurità si fece sempre piú profonda, finché calarono le tenebre.