Capitolo quarantaquattresimo
L’insieme delle caratteristiche che fanno di
una persona quella che è
Quel giorno Marie non aprí bocca. Seduta sulla
sua sedia, posava con grande impegno e intanto mi fissava, come se
contemplasse un paesaggio lontano. Dato che la sedia del tavolo da
pranzo era un po’ piú bassa dello sgabello, doveva sollevare
leggermente lo sguardo. Neanch’io le rivolsi la parola, non mi
veniva in mente nulla da dirle e non sentivo il bisogno di
parlarle. Mi limitavo a muovere in silenzio i pennelli sulla
tela.
Naturalmente quella che ritraevo era Marie, ma
al tempo stesso avevo l’impressione che fosse anche Komi, la mia
sorellina morta, e la mia ex moglie Yuzu. Non era un effetto
voluto, mi veniva naturale, era piú forte di me. Forse cercavo in
quella ragazzina, in Marie, le due donne che avevo amato, e perso,
nel corso della mia esistenza. Non sapevo giudicare se fosse una
cosa sana o meno. In quel momento però non riuscivo a dipingere in
altro modo. Anzi, non solo in quel momento. A pensarci bene, mi
pareva di aver sempre dipinto cosí, fin dall’inizio. Facevo
emergere nelle mie opere ciò che non riuscivo a trovare nella
realtà. Era come un segno implicito, segreto, incomprensibile a
chiunque tranne che a me.
Comunque fosse, ero di fronte alla tela e
portavo avanti il lavoro. Poco per volta, con regolarità, andavo
componendo il ritratto di Akikawa Marie. In un movimento che mi
ricordava l’acqua di un fiume, che fa delle deviazioni seguendo la
configurazione del terreno, ristagna qua e là formando dei laghi,
poco per volta aumenta di regime mentre scorre verso l’estuario e
finalmente sfocia nel mare. Potevo avvertire quel flusso creativo
dentro di me, come lo scorrere del sangue nel mio corpo.
– Dopo non le dispiace se vengo a trovarla… –
mi disse Marie sottovoce quando avevamo quasi finito. Le sue parole
non avevano un’intonazione interrogativa, ma erano molto
chiaramente una domanda: voleva sapere se poteva tornare a casa mia
piú tardi.
– Passando dal tuo sentiero segreto,
cioè?
– Sí.
– Per me va bene, ma a che ora verresti?
– Ancora non lo so.
– È meglio che tu non venga quando fa già
buio. Non si sa mai che incontri si possono fare, la notte, sui
monti.
Da quelle parti, nelle tenebre, si aggiravano
diverse creature assurde: il Commendatore, Faccialunga, l’uomo con
la Subaru Forester bianca, lo spettro vivente di Amada Tomohiko. E
probabilmente anche quella parte di me che si trasformava in un
orco assatanato. Perché la notte, in certe occasioni, potevo
diventare un essere malefico. A quel pensiero mi venivano i
brividi.
– Cercherò di venire il prima possibile, –
disse Marie. – C’è qualcosa di cui le vorrei parlare, professore. A
quattr’occhi, cioè.
– D’accordo. Ti aspetto.
Quando il suono del carillon annunciò che era
mezzogiorno, posai i pennelli.
Shōko come le altre volte leggeva assorta il
suo libro, sprofondata nel divano. Era quasi arrivata alla fine
dello spesso volume nero. Si tolse gli occhiali, mise il segno fra
le pagine e alzò il viso a guardarmi.
– Il lavoro procede bene, – le dissi. – Basta
che veniate ancora una volta o due, e avrò terminato. Mi spiace
averle rubato tanto tempo.
Shōko sorrise. Un sorriso molto
affabile.
– Ma per carità, non deve farsi di questi
scrupoli. A Marie posare piace moltissimo, e anch’io non vedo l’ora
di ammirare il quadro finito. E poi si sta cosí bene, a leggere su
questo divano, che aspettando non mi annoio! Oltretutto uscire un
po’ di casa, cambiare atmosfera, mi fa bene.
A quel punto avrei voluto chiederle che idea
si fosse fatta, la domenica precedente, quando insieme a Marie era
andata a casa di Menshiki. Che impressione avesse avuto di quella
splendida villa bianca. Che genere di persona le sembrasse lui. Ma
sarebbe stato indiscreto porle quel genere di domande, a meno che
non fosse lei a entrare in argomento.
Anche quel giorno Shōko si era vestita con
molta cura: una gonna di lana cammello perfettamente stirata, una
bella blusa di seta bianca con un gran fiocco, una giacca
grigio-cenere… non esattamente quello che una donna mette la
domenica mattina per andare a trovare i vicini. Sul risvolto della
giacca aveva appuntato una barretta d’oro con una pietra preziosa
incastonata, un diamante che aveva tutta l’aria di essere vero. Un
abbigliamento un po’ troppo elegante, a mio avviso, per mettersi al
volante di una Toyota Prius. Comunque erano considerazioni
superflue. A parte il fatto che un rappresentante della Toyota non
sarebbe stato d’accordo.
Quanto a Marie, anche lei era vestita grosso
modo come le altre volte: spessa felpa, jeans strappati, scarpe da
ginnastica bianche dal calcagno quasi consumato, molto piú sporche
delle scarpe che metteva di solito.
Prima di andarsene, già all’ingresso, Marie mi
fece con gli occhi un cenno incomprensibile alla zia. Un messaggio
segreto per dirmi: «A piú tardi». Risposi con un leggero
sorriso.
Dopo averle salutate, tornai nel soggiorno e
mi sdraiai sul divano a fare un sonnellino. Non avevo fame e saltai
il pranzo. Dormii profondamente per una mezz’ora, senza fare sogni.
Cosa di cui fui davvero grato. Ciò che avrei potuto fare in sogno,
e ancora di piú ciò che sarei potuto diventare, mi faceva
paura.
Quella domenica pomeriggio la passai in
maniera sconclusionata, fui d’umore uggioso come il tempo. Una
giornata grigia, senza vento, il cielo coperto da nuvole sottili.
Lessi un po’, ascoltai un po’ di musica, cucinai qualcosa, ma non
riuscivo a concentrarmi su nulla. Qualsiasi cosa iniziassi a fare,
lasciavo perdere a metà, era un pomeriggio cosí. Rassegnato,
scaldai l’acqua nella vasca e ci rimasi immerso a lungo. Provai a
ricordare il nome di tutti i personaggi che comparivano nei
Demoni di Dostoevskij, uno per uno. Ne
ricordavo sette, Kirillov incluso. Non so perché, ma al liceo ero
bravissimo a memorizzare i nomi dei personaggi dei vecchi romanzi
russi. Forse avrei dovuto rileggere I
demoni. Ero libero di fare quello che volevo, avevo tempo a
disposizione e nessuna incombenza particolare da svolgere. E mi
trovavo nell’ambiente ideale per leggere i russi.
Poi pensai di nuovo a Yuzu. Se era incinta di
sette mesi, ormai la pancia si doveva notare. Provai a immaginarla
col pancione. Cosa stava facendo, in quel momento? A cosa stava
pensando? Era felice? Naturalmente non avevo modo di saperlo.
Forse aveva ragione Masahiko. Forse anch’io,
come un intellettuale russo del diciannovesimo secolo, per provare
di essere una persona libera avrei dovuto fare qualche follia. Sí,
ma cosa? Ad esempio… ad esempio chiudermi per un’ora in fondo a una
buca profonda e buia! Ecco l’idea che mi venne in mente tutt’a un
tratto. A farlo sul serio, però, non era stato Menshiki? Il suo
gesto non era stato una specie di follia? Anche definendolo in
termini prudenti, in ultima analisi era qualcosa che andava ben
oltre i limiti della ragione.
Marie arrivò poco dopo le quattro. Quando
sentii suonare il campanello andai ad aprire, e me la trovai
davanti. Si infilò dentro casa svelta svelta, sgusciando attraverso
lo stipite e il battente della porta appena la socchiusi. Come in
uno spiraglio fra le nuvole. Poi si guardò attentamente
attorno.
– Non c’è nessuno.
– No, nessuno, – la rassicurai.
– Ieri però c’era qualcuno.
Era una domanda.
– Sí. È venuta a trovarmi una persona, si è
fermata a dormire qui.
– Un uomo.
– Sí, un uomo. Un mio amico. Ma tu come fai a
sapere che c’era qualcuno?
– Perché una macchina nera che non avevo mai
visto era parcheggiata qui davanti. Una macchina vecchia, dalla
forma quadrata, sembrava una scatola.
Era la Volvo Station Wagon, che Masahiko
chiamava «la cassa svedese». Molto pratica per trasportare le renne
morte.
– Ieri gironzolavi da queste parti?
Marie annuí in silenzio. Pensai che forse,
quando aveva tempo, veniva a controllare la situazione passando dal
sentiero segreto. Oppure aveva l’abitudine di bighellonare e
curiosare in quella zona già prima che ci venissi ad abitare io.
Magari la considerava la sua «riserva di caccia». E io per
combinazione mi ero trasferito proprio lí. In tal caso, però,
chissà se aveva mai incontrato Amada Tomohiko, che viveva in quella
casa prima di me? Un giorno avrei dovuto domandarglielo.
Feci passare Marie nel soggiorno. Ci sedemmo,
lei sul divano, io su una poltrona. Le chiesi se volesse qualcosa
da bere, mi rispose di no.
– È venuto a trovarmi un amico dei tempi
dell’università, – le spiegai.
– Un suo caro amico?
– Sí. Forse è l’unica persona al mondo cui
sono legato da vera amicizia.
Masahiko aveva presentato a Yuzu quel suo
collega, era a conoscenza della loro relazione − relazione che
aveva poi portato al mio recente divorzio − e non mi aveva detto
nulla… eppure tutto questo non era sufficiente a gettare un’ombra
sul nostro rapporto. A tal punto ci volevamo bene. Definirci amici
non offendeva la verità.
– E tu? Hai delle buone amiche?
Marie non rispose. Restò impassibile, senza
sollevare nemmeno un sopracciglio, come se non mi avesse sentito.
Forse non era la cosa giusta da chiederle.
– Il signor Menshiki non è un caro amico per
lei, professore, – disse. Il punto interrogativo non c’era, ma di
nuovo si trattava di una domanda. Provavo veramente amicizia, per
Menshiki? Era quello che voleva sapere.
– Come ti ho detto l’altra volta, non conosco
il signor Menshiki abbastanza da poterlo considerare un amico. L’ho
conosciuto poco dopo essermi trasferito qui, cioè neanche sei mesi
fa. Ci vuole tempo, prima che due persone diventino amiche. Però
penso che il signor Menshiki sia un uomo molto interessante, questo
sí.
– Interessante?
– Come spiegarti… credo che abbia una
personalità non banale. Diciamo pure molto originale. Non facile da
comprendere, insomma.
– … personalità?
– Sí, l’insieme delle caratteristiche che
fanno di una persona quella che è.
Marie mi fissò per qualche secondo, come se
stesse scegliendo con cura le parole.
– Dalla terrazza della villa del signor
Menshiki, si può vedere casa mia, è proprio di fronte.
Lasciai passare qualche secondo.
– È vero, – risposi. – La configurazione del
terreno fa sí che si trovi davanti, dall’altra parte della valle.
Ma si vede bene anche questa casa qui. Non solo la tua.
– Sí, ma penso che lui guardi la mia.
– Guardi? Cioè?
– Su quella terrazza ha un binocolo di
precisione, lo tiene coperto con un cappuccio perché nessuno lo
veda. È montato su una specie di treppiede. Con quello, sono sicura
che riesce a vedere tutto, in casa mia, nei minimi dettagli.
Questa ragazzina l’ha scoperto, pensai. Il suo
acuto spirito d’osservazione è sempre all’erta. Le cose importanti
non se le lascia sfuggire.
– Insomma, stai dicendo che il signor
Menshiki, servendosi di quel binocolo, tiene d’occhio casa
tua?
Marie semplicemente annuí.
Inspirai a fondo l’aria, la buttai
fuori.
– Ma non sarà solo una tua supposizione? –
dissi poi. – Il fatto che abbia sulla terrazza un binocolo di
precisione, non significa che guardi la tua casa. Magari guarda le
stelle, la luna.
Lo sguardo di Marie non vacillò.
– Sí, ma io ho sempre la sensazione di essere
osservata, – disse. – Già da un po’ di tempo. Però non capivo da
chi, da dove. Adesso lo so. Da quell’uomo, ne sono sicura.
Di nuovo feci un lento respiro. Il sospetto di
Marie era giusto. A controllare con un binocolo militare, giorno
dopo giorno, la casa degli Akikawa era proprio Menshiki. Ma per
quanto ne sapevo io − non che volessi prendere le sue difese! −,
non lo faceva con cattive intenzioni. Voleva solo vedere quella
ragazzina. Se aveva comprato quella grande villa dall’altra parte
della valle, se aveva cacciato via con mezzi non proprio corretti
la famiglia che ci viveva prima, era per vedere quella bella
tredicenne che poteva essere sua figlia − soltanto a questo scopo.
Tutte cose che non potevo dire a Marie lí, in quel momento,
però.
– Se le cose stanno come dici tu, perché lo
fa, secondo te? Perché tanto interesse?
– Non lo so. Magari gli piace mia zia.
– Pensi che gli piaccia tua zia?
Marie aggrottò un poco le sopracciglia.
Non sembrava sospettare di essere lei stessa,
la persona osservata di continuo. Forse non immaginava ancora di
poter essere oggetto del desiderio maschile. Mi parve un po’
strano, ma mi guardai bene dal contraddirla. Se era quello che
pensava, tanto meglio.
– Credo che il signor Menshiki nasconda
qualcosa, – aggiunse Marie.
– Uhm? Cosa, ad esempio?
Ci pensò su. Poi, come se mi desse una notizia
grave, annunciò: – Questa settimana, la zia l’ha già incontrato due
volte.
– L’ha incontrato?
– È andata a casa sua, cioè.
– Ci è andata da sola?
– Poco dopo pranzo è andata via in macchina,
da sola, ed è tornata nel tardo pomeriggio.
– Be’, nulla prova che sia andata a casa del
signor Menshiki.
– Io però lo so, – disse Marie.
– E come fai a saperlo?
– Perché lei di solito, prima di uscire, non
passa ore sotto la doccia, non si fa la manicure, non si profuma,
non si mette i vestiti piú belli che ha. Quando va ad aiutare in
biblioteca, o a fare delle commissioni, di sicuro tutti questi
preparativi non li fa.
– Certo che noti proprio tutto, tu, –
commentai impressionato. – Comunque, perché pensi che la zia
incontri proprio il signor Menshiki? Potrebbe trattarsi di qualcun
altro.
Marie strinse un po’ le palpebre. Piegò la
testa di lato. E mi guardò con l’aria di chiedermi se la credessi
scema fino a quel punto. Tante cose suggerivano che l’uomo poteva
essere solo Menshiki. E Marie non era scema.
– Quindi tua zia va a casa del signor Menshiki
e passa qualche ora sola con lui.
Marie fece cenno di sí.
– E secondo te loro due… come dire? Hanno una
relazione intima?
Di nuovo Marie annuí.
– Sí. Molto intima, credo, – aggiunse
arrossendo un po’.
– D’accordo, però tu durante la giornata sei a
scuola, no? Non sei a casa. Come fai a sapere certe cose?
– Le so. Certe cose una donna le ha scritte in
faccia.
Eppure io non ho capito niente, pensai. Mentre
viveva con me, Yuzu per mesi era andata a letto con un altro, ma io
non mi ero accorto di nulla. Col senno di poi, sarebbe stato meglio
che me ne fossi reso conto. Ma perché dei segnali che una ragazzina
di tredici anni aveva percepito subito, a me erano sfuggiti
completamente?
– Be’, pare che le cose stiano andando avanti
in fretta, fra loro, – dissi.
– La zia è una persona con la testa sulle
spalle, non è certo una sciocca. Però è un po’ troppo sentimentale.
E il signor Menshiki ha una forza fuori dal comune, mia zia non
regge il confronto.
Probabilmente aveva ragione lei. Quell’uomo
possedeva una forza speciale. Se voleva davvero qualcosa, e
decideva di ottenerlo, la maggior parte delle persone non avrebbero
potuto resistergli. Me incluso. Fare sua, fisicamente, una donna,
per lui non doveva essere un’impresa.
– Sei preoccupata, vero? Hai paura che il
signor Menshiki si serva di tua zia per qualche suo scopo?
Marie si portò una mano alla testa e spostò
una ciocca dei capelli neri e lisci, scoprendo il piccolo orecchio
bianco. Un orecchio dalla forma bellissima. Poi annuí.
– Però non è tanto facile, sai, far cessare
una relazione che è già andata molto avanti, – osservai.
Altro che facile, è quasi impossibile,
aggiunsi fra me. Perché può solo proseguire, schiacciando tanti
destini, come quegli enormi carri torreggianti che vengono sospinti
dai fedeli nelle feste religiose induiste. Senza possibilità di
fare marcia indietro.
– Per questo sono venuta a parlarle,
professore, – disse Marie, e mi guardò dritto negli occhi.
Quando stava già calando il buio, munito della
mia torcia elettrica accompagnai Marie fino a un punto vicino
all’imbocco del «passaggio segreto». Doveva essere a casa per cena,
mi aveva detto. Entro le sette, quindi.
Era venuta a chiedermi consiglio. Io però non
avevo risposte brillanti da darle. L’unica strategia che mi venne
da suggerire era di osservare per un po’ gli sviluppi della
situazione, non si poteva fare altro. Perché sua zia e Menshiki
erano due adulti, single, e, supponendo che avessero una relazione,
era qualcosa che avevano deciso di comune accordo. Come sarei
potuto intervenire, io? Né potevo spiegare a Marie, a Shōko o a
qualcun altro le circostanze che avevano portato a quella
situazione. Nessuno poteva dare dei buoni consigli al riguardo. Era
come boxare con la mano destra legata dietro la schiena.
Camminavamo uno accanto all’altra lungo il
sentiero nel bosco, quasi senza parlare. A un certo punto Marie mi
prese per mano. La sua mano era piccola, ma piú forte di quanto mi
fossi aspettato. Quell’improvvisa stretta mi sorprese un po’, ma
non mi parve un gesto fuori luogo, forse perché da bambino
camminavo sempre tenendo mia sorella per mano. Era una sensazione
ben nota, che mi mise nostalgia.
Il palmo di Marie era liscio e caldo, ma non
sudato. Doveva essere immersa nei suoi pensieri, perché ogni tanto,
forse in accordo con l’intensità della sua concentrazione, serrava
o allentava la stretta. Anche in questo mi ricordava mia
sorella.
Quando arrivammo davanti al tempietto, lasciò
andare la mia mano e senza dire una parola andò sul retro. La
seguii.
A terra restavano ancora le piume della pampa
schiacciate dai cingoli della ruspa. Al di là, come sempre, c’era
la buca. Coperta di assi, con pesanti pietre posate sopra. Con la
torcia le illuminai, per assicurarmi che nessuno le avesse
spostate: no, dall’ultima volta non erano state toccate.
– Possiamo dare un’occhiata dentro? – mi
chiese Marie.
– Soltanto guardare, però.
– Soltanto guardare.
Spostai le pietre e sollevai un’asse di legno.
Marie si accovacciò e attraverso l’apertura scrutò all’interno. Con
la torcia, cercai di farle luce. Naturalmente nella buca non c’era
nessuno. Solo la scala di metallo appoggiata alla parete. Grazie
alla scala, volendo saremmo potuti scendere e risalire, ma senza,
tornare su sarebbe stato impossibile, visto che la profondità era
di quasi tre metri. Le pareti non offrivano appigli e una persona
normale non sarebbe riuscita ad arrampicarsi.
Trattenendo i capelli indietro con una mano,
Marie osservò a lungo il fondo della buca. Aguzzava lo sguardo,
come se nell’oscurità cercasse qualcosa. Cosa mai poteva
interessarle, là dentro, cosa la affascinava?
– Chissà chi l’ha costruita… – disse.
– Mah, non saprei… All’inizio ho pensato che
fosse un antico pozzo, ma pare che non sia cosí. Tanto per
cominciare, scavare un pozzo qui non avrebbe senso. Comunque sia,
gli scavi risalgono a tanto tempo fa, e sono stati fatti con grande
cura. Ci saranno voluti tempo e fatica.
Marie mi guardava, senza dire niente.
– Sei sempre venuta a giocare da queste parti,
fin da quando eri piccola? – le chiesi.
Fece cenno di sí.
– Ma fino a poco tempo fa non sapevi
dell’esistenza di questa buca dietro il tempietto.
Scosse la testa.
– È stato lei a trovarla e ad aprirla, vero,
professore? – mi domandò.
– Sí, diciamo che sono stato io a scoprirla.
Cioè, pensavo che ci fosse qualcosa sotto al tumulo di pietre, ma
non immaginavo che si trattasse di una cripta come questa. In
pratica, però, a far spostare il tumulo e scoperchiare la buca è
stato il signor Menshiki, non io, – spiegai, seguendo l’impulso di
rivelare tutto a Marie. Dirle la verità era sicuramente la cosa
migliore.
In quel momento, su un ramo, un uccello emise
un verso acuto. Come se volesse mandare un segnale d’allarme ai
compagni. Alzai lo sguardo, ma non riuscii a capire dove si
trovasse. I rami ormai privi di foglie erano troppo intricati. Al
di sopra, il cielo era uniformemente grigio, un cielo al tramonto,
già invernale.
Marie, il viso un po’ corrucciato, non disse
nulla.
– Però… be’, avevo l’impressione che questa
buca desiderasse fortemente essere aperta da qualcuno. E a questo
scopo sono stato, per cosí dire… convocato.
– Convocato?
– Sí, invitato ad avvicinarmi, a venire
qui.
Marie inclinò la testa di lato,
perplessa.
– Cioè, la buca voleva che lei
l’aprisse?
– Esatto.
– Questa buca qui?
– Sí. Non necessariamente che l’aprissi io,
sarebbe andato bene chiunque. Ma per combinazione ero il solo a
trovarmi da queste parti.
– In pratica però la buca l’ha aperta il
signor Menshiki.
– Sono stato io ad accompagnarlo qui. Senza di
lui, non ce l’avrei mai fatta. Spostare quelle pesanti pietre a
mani nude non era possibile, e io non avevo certo i mezzi economici
per noleggiare una ruspa. Una specie di coincidenza, insomma.
Marie rifletté un momento sulle mie
parole.
– Forse avreste fatto meglio a non toccare
nulla, – disse. – Credo di averglielo già detto.
– Pensi che avremmo dovuto lasciare tutto cosí
com’era?
In silenzio, Marie si alzò in piedi e si
spolverò piú volte con le mani i jeans, sporchi di terra sulle
ginocchia. Poi mi aiutò a chiudere la buca e a rimettere a posto le
pietre. Anche questa volta cercai di imprimermi nella memoria la
loro disposizione.
– Sí, dovevate lasciare tutto com’era, – disse
a quel punto Marie, strofinando leggermente i palmi delle
mani.
– Sai cosa penso io? Che questo posto sia
depositario di qualche leggenda, o di qualcosa che deve essere
tramandato. Perché possiede una particolare aura religiosa.
Marie scosse la testa, per dire che lei non ne
aveva idea.
– Può darsi che mio padre lo sappia,
però.
La maggior parte dei terreni di quella zona
appartenevano alla sua famiglia fin dall’epoca Meiji, erano
proprietà degli Akikawa come quasi tutta quella montagna. Quindi
poteva darsi che suo padre fosse al corrente di qualcosa, riguardo
al tempietto e alla buca.
– Allora potresti chiedere a lui?
Marie storse un po’ le labbra.
– Sí, uno di questi giorni glielo chiedo, –
rispose. Poi, dopo qualche secondo, aggiunse a bassa voce: – Se lo
vedo.
– Prova a domandargli se sa chi abbia
costruito questa buca, quando, a quale scopo… Basterebbe un
indizio, un’idea…
– Può darsi che abbiano chiuso qualcosa qui
dentro, e poi ci abbiano messo sopra delle pietre pesantissime, –
borbottò Marie.
– Quindi avrebbero costruito un tumulo per
impedire che uscisse, e poi quel tempietto contro la iettatura? È
questo che pensi?
– Forse è andata cosí.
– E invece noi abbiamo aperto la buca a
forza.
Marie annuí.
L’accompagnai fino al limitare del bosco. Da
lí in poi, preferiva andare sola, mi disse. Tanto la strada la
conosceva bene, anche al buio. Evidentemente non voleva mostrare a
nessuno quel sentiero segreto che portava a casa sua. Era una via
di fuga nota solo a lei. Cosí la salutai e tornai indietro da solo.
Nel cielo non c’era quasi piú luce. Il freddo e l’oscurità stavano
calando.
Quando passai davanti al tempietto, lo stesso
uccello di prima fece sentire il suo verso stridente. Questa volta
non sollevai lo sguardo. Continuai dritto per la mia strada fino a
casa. Mi preparai qualcosa per cena. Cucinando, bevvi un bicchiere
di Chivas Regal allungato con un po’ d’acqua. Nella bottiglia ne
restava ancora un dito. Il silenzio della sera era profondo. Le
nuvole in cielo assorbivano tutti i rumori.
Quella buca, sarebbe stato meglio non
aprirla.
Sí, forse aveva ragione Marie. Per lo meno,
non la dovevo aprire io. Da un po’ di tempo a quella parte,
sembrava che facessi solo cose sbagliate.
Provai a immaginare Menshiki che abbracciava
Akikawa Shōko. In quella grande villa bianca, in qualche stanza, su
un grande letto, loro due nudi facevano l’amore. Naturalmente era
qualcosa che non mi riguardava, accadeva in un mondo con cui non
avevo nulla a che fare. Pensando a loro due insieme, tuttavia, non
potevo evitare di sentirmi a disagio. Un po’ come quando, in una
stazione, si vede passare un lungo treno deserto che prosegue senza
fermarsi.
A poco a poco mi venne sonno, la mia domenica
era finita. Dormii profondamente, senza fare sogni, senza ricevere
altre visite.