Capitolo quarantaquattresimo
L’insieme delle caratteristiche che fanno di una persona quella che è
Quel giorno Marie non aprí bocca. Seduta sulla sua sedia, posava con grande impegno e intanto mi fissava, come se contemplasse un paesaggio lontano. Dato che la sedia del tavolo da pranzo era un po’ piú bassa dello sgabello, doveva sollevare leggermente lo sguardo. Neanch’io le rivolsi la parola, non mi veniva in mente nulla da dirle e non sentivo il bisogno di parlarle. Mi limitavo a muovere in silenzio i pennelli sulla tela.
Naturalmente quella che ritraevo era Marie, ma al tempo stesso avevo l’impressione che fosse anche Komi, la mia sorellina morta, e la mia ex moglie Yuzu. Non era un effetto voluto, mi veniva naturale, era piú forte di me. Forse cercavo in quella ragazzina, in Marie, le due donne che avevo amato, e perso, nel corso della mia esistenza. Non sapevo giudicare se fosse una cosa sana o meno. In quel momento però non riuscivo a dipingere in altro modo. Anzi, non solo in quel momento. A pensarci bene, mi pareva di aver sempre dipinto cosí, fin dall’inizio. Facevo emergere nelle mie opere ciò che non riuscivo a trovare nella realtà. Era come un segno implicito, segreto, incomprensibile a chiunque tranne che a me.
Comunque fosse, ero di fronte alla tela e portavo avanti il lavoro. Poco per volta, con regolarità, andavo componendo il ritratto di Akikawa Marie. In un movimento che mi ricordava l’acqua di un fiume, che fa delle deviazioni seguendo la configurazione del terreno, ristagna qua e là formando dei laghi, poco per volta aumenta di regime mentre scorre verso l’estuario e finalmente sfocia nel mare. Potevo avvertire quel flusso creativo dentro di me, come lo scorrere del sangue nel mio corpo.
– Dopo non le dispiace se vengo a trovarla… – mi disse Marie sottovoce quando avevamo quasi finito. Le sue parole non avevano un’intonazione interrogativa, ma erano molto chiaramente una domanda: voleva sapere se poteva tornare a casa mia piú tardi.
– Passando dal tuo sentiero segreto, cioè?
– Sí.
– Per me va bene, ma a che ora verresti?
– Ancora non lo so.
– È meglio che tu non venga quando fa già buio. Non si sa mai che incontri si possono fare, la notte, sui monti.
Da quelle parti, nelle tenebre, si aggiravano diverse creature assurde: il Commendatore, Faccialunga, l’uomo con la Subaru Forester bianca, lo spettro vivente di Amada Tomohiko. E probabilmente anche quella parte di me che si trasformava in un orco assatanato. Perché la notte, in certe occasioni, potevo diventare un essere malefico. A quel pensiero mi venivano i brividi.
– Cercherò di venire il prima possibile, – disse Marie. – C’è qualcosa di cui le vorrei parlare, professore. A quattr’occhi, cioè.
– D’accordo. Ti aspetto.
Quando il suono del carillon annunciò che era mezzogiorno, posai i pennelli.
Shōko come le altre volte leggeva assorta il suo libro, sprofondata nel divano. Era quasi arrivata alla fine dello spesso volume nero. Si tolse gli occhiali, mise il segno fra le pagine e alzò il viso a guardarmi.
– Il lavoro procede bene, – le dissi. – Basta che veniate ancora una volta o due, e avrò terminato. Mi spiace averle rubato tanto tempo.
Shōko sorrise. Un sorriso molto affabile.
– Ma per carità, non deve farsi di questi scrupoli. A Marie posare piace moltissimo, e anch’io non vedo l’ora di ammirare il quadro finito. E poi si sta cosí bene, a leggere su questo divano, che aspettando non mi annoio! Oltretutto uscire un po’ di casa, cambiare atmosfera, mi fa bene.
A quel punto avrei voluto chiederle che idea si fosse fatta, la domenica precedente, quando insieme a Marie era andata a casa di Menshiki. Che impressione avesse avuto di quella splendida villa bianca. Che genere di persona le sembrasse lui. Ma sarebbe stato indiscreto porle quel genere di domande, a meno che non fosse lei a entrare in argomento.
Anche quel giorno Shōko si era vestita con molta cura: una gonna di lana cammello perfettamente stirata, una bella blusa di seta bianca con un gran fiocco, una giacca grigio-cenere… non esattamente quello che una donna mette la domenica mattina per andare a trovare i vicini. Sul risvolto della giacca aveva appuntato una barretta d’oro con una pietra preziosa incastonata, un diamante che aveva tutta l’aria di essere vero. Un abbigliamento un po’ troppo elegante, a mio avviso, per mettersi al volante di una Toyota Prius. Comunque erano considerazioni superflue. A parte il fatto che un rappresentante della Toyota non sarebbe stato d’accordo.
Quanto a Marie, anche lei era vestita grosso modo come le altre volte: spessa felpa, jeans strappati, scarpe da ginnastica bianche dal calcagno quasi consumato, molto piú sporche delle scarpe che metteva di solito.
Prima di andarsene, già all’ingresso, Marie mi fece con gli occhi un cenno incomprensibile alla zia. Un messaggio segreto per dirmi: «A piú tardi». Risposi con un leggero sorriso.
Dopo averle salutate, tornai nel soggiorno e mi sdraiai sul divano a fare un sonnellino. Non avevo fame e saltai il pranzo. Dormii profondamente per una mezz’ora, senza fare sogni. Cosa di cui fui davvero grato. Ciò che avrei potuto fare in sogno, e ancora di piú ciò che sarei potuto diventare, mi faceva paura.
Quella domenica pomeriggio la passai in maniera sconclusionata, fui d’umore uggioso come il tempo. Una giornata grigia, senza vento, il cielo coperto da nuvole sottili. Lessi un po’, ascoltai un po’ di musica, cucinai qualcosa, ma non riuscivo a concentrarmi su nulla. Qualsiasi cosa iniziassi a fare, lasciavo perdere a metà, era un pomeriggio cosí. Rassegnato, scaldai l’acqua nella vasca e ci rimasi immerso a lungo. Provai a ricordare il nome di tutti i personaggi che comparivano nei Demoni di Dostoevskij, uno per uno. Ne ricordavo sette, Kirillov incluso. Non so perché, ma al liceo ero bravissimo a memorizzare i nomi dei personaggi dei vecchi romanzi russi. Forse avrei dovuto rileggere I demoni. Ero libero di fare quello che volevo, avevo tempo a disposizione e nessuna incombenza particolare da svolgere. E mi trovavo nell’ambiente ideale per leggere i russi.
Poi pensai di nuovo a Yuzu. Se era incinta di sette mesi, ormai la pancia si doveva notare. Provai a immaginarla col pancione. Cosa stava facendo, in quel momento? A cosa stava pensando? Era felice? Naturalmente non avevo modo di saperlo.
Forse aveva ragione Masahiko. Forse anch’io, come un intellettuale russo del diciannovesimo secolo, per provare di essere una persona libera avrei dovuto fare qualche follia. Sí, ma cosa? Ad esempio… ad esempio chiudermi per un’ora in fondo a una buca profonda e buia! Ecco l’idea che mi venne in mente tutt’a un tratto. A farlo sul serio, però, non era stato Menshiki? Il suo gesto non era stato una specie di follia? Anche definendolo in termini prudenti, in ultima analisi era qualcosa che andava ben oltre i limiti della ragione.
Marie arrivò poco dopo le quattro. Quando sentii suonare il campanello andai ad aprire, e me la trovai davanti. Si infilò dentro casa svelta svelta, sgusciando attraverso lo stipite e il battente della porta appena la socchiusi. Come in uno spiraglio fra le nuvole. Poi si guardò attentamente attorno.
– Non c’è nessuno.
– No, nessuno, – la rassicurai.
– Ieri però c’era qualcuno.
Era una domanda.
– Sí. È venuta a trovarmi una persona, si è fermata a dormire qui.
– Un uomo.
– Sí, un uomo. Un mio amico. Ma tu come fai a sapere che c’era qualcuno?
– Perché una macchina nera che non avevo mai visto era parcheggiata qui davanti. Una macchina vecchia, dalla forma quadrata, sembrava una scatola.
Era la Volvo Station Wagon, che Masahiko chiamava «la cassa svedese». Molto pratica per trasportare le renne morte.
– Ieri gironzolavi da queste parti?
Marie annuí in silenzio. Pensai che forse, quando aveva tempo, veniva a controllare la situazione passando dal sentiero segreto. Oppure aveva l’abitudine di bighellonare e curiosare in quella zona già prima che ci venissi ad abitare io. Magari la considerava la sua «riserva di caccia». E io per combinazione mi ero trasferito proprio lí. In tal caso, però, chissà se aveva mai incontrato Amada Tomohiko, che viveva in quella casa prima di me? Un giorno avrei dovuto domandarglielo.
Feci passare Marie nel soggiorno. Ci sedemmo, lei sul divano, io su una poltrona. Le chiesi se volesse qualcosa da bere, mi rispose di no.
– È venuto a trovarmi un amico dei tempi dell’università, – le spiegai.
– Un suo caro amico?
– Sí. Forse è l’unica persona al mondo cui sono legato da vera amicizia.
Masahiko aveva presentato a Yuzu quel suo collega, era a conoscenza della loro relazione − relazione che aveva poi portato al mio recente divorzio − e non mi aveva detto nulla… eppure tutto questo non era sufficiente a gettare un’ombra sul nostro rapporto. A tal punto ci volevamo bene. Definirci amici non offendeva la verità.
– E tu? Hai delle buone amiche?
Marie non rispose. Restò impassibile, senza sollevare nemmeno un sopracciglio, come se non mi avesse sentito. Forse non era la cosa giusta da chiederle.
– Il signor Menshiki non è un caro amico per lei, professore, – disse. Il punto interrogativo non c’era, ma di nuovo si trattava di una domanda. Provavo veramente amicizia, per Menshiki? Era quello che voleva sapere.
– Come ti ho detto l’altra volta, non conosco il signor Menshiki abbastanza da poterlo considerare un amico. L’ho conosciuto poco dopo essermi trasferito qui, cioè neanche sei mesi fa. Ci vuole tempo, prima che due persone diventino amiche. Però penso che il signor Menshiki sia un uomo molto interessante, questo sí.
– Interessante?
– Come spiegarti… credo che abbia una personalità non banale. Diciamo pure molto originale. Non facile da comprendere, insomma.
– … personalità?
– Sí, l’insieme delle caratteristiche che fanno di una persona quella che è.
Marie mi fissò per qualche secondo, come se stesse scegliendo con cura le parole.
– Dalla terrazza della villa del signor Menshiki, si può vedere casa mia, è proprio di fronte.
Lasciai passare qualche secondo.
– È vero, – risposi. – La configurazione del terreno fa sí che si trovi davanti, dall’altra parte della valle. Ma si vede bene anche questa casa qui. Non solo la tua.
– Sí, ma penso che lui guardi la mia.
– Guardi? Cioè?
– Su quella terrazza ha un binocolo di precisione, lo tiene coperto con un cappuccio perché nessuno lo veda. È montato su una specie di treppiede. Con quello, sono sicura che riesce a vedere tutto, in casa mia, nei minimi dettagli.
Questa ragazzina l’ha scoperto, pensai. Il suo acuto spirito d’osservazione è sempre all’erta. Le cose importanti non se le lascia sfuggire.
– Insomma, stai dicendo che il signor Menshiki, servendosi di quel binocolo, tiene d’occhio casa tua?
Marie semplicemente annuí.
Inspirai a fondo l’aria, la buttai fuori.
– Ma non sarà solo una tua supposizione? – dissi poi. – Il fatto che abbia sulla terrazza un binocolo di precisione, non significa che guardi la tua casa. Magari guarda le stelle, la luna.
Lo sguardo di Marie non vacillò.
– Sí, ma io ho sempre la sensazione di essere osservata, – disse. – Già da un po’ di tempo. Però non capivo da chi, da dove. Adesso lo so. Da quell’uomo, ne sono sicura.
Di nuovo feci un lento respiro. Il sospetto di Marie era giusto. A controllare con un binocolo militare, giorno dopo giorno, la casa degli Akikawa era proprio Menshiki. Ma per quanto ne sapevo io − non che volessi prendere le sue difese! −, non lo faceva con cattive intenzioni. Voleva solo vedere quella ragazzina. Se aveva comprato quella grande villa dall’altra parte della valle, se aveva cacciato via con mezzi non proprio corretti la famiglia che ci viveva prima, era per vedere quella bella tredicenne che poteva essere sua figlia − soltanto a questo scopo. Tutte cose che non potevo dire a Marie lí, in quel momento, però.
– Se le cose stanno come dici tu, perché lo fa, secondo te? Perché tanto interesse?
– Non lo so. Magari gli piace mia zia.
– Pensi che gli piaccia tua zia?
Marie aggrottò un poco le sopracciglia.
Non sembrava sospettare di essere lei stessa, la persona osservata di continuo. Forse non immaginava ancora di poter essere oggetto del desiderio maschile. Mi parve un po’ strano, ma mi guardai bene dal contraddirla. Se era quello che pensava, tanto meglio.
– Credo che il signor Menshiki nasconda qualcosa, – aggiunse Marie.
– Uhm? Cosa, ad esempio?
Ci pensò su. Poi, come se mi desse una notizia grave, annunciò: – Questa settimana, la zia l’ha già incontrato due volte.
– L’ha incontrato?
– È andata a casa sua, cioè.
– Ci è andata da sola?
– Poco dopo pranzo è andata via in macchina, da sola, ed è tornata nel tardo pomeriggio.
– Be’, nulla prova che sia andata a casa del signor Menshiki.
– Io però lo so, – disse Marie.
– E come fai a saperlo?
– Perché lei di solito, prima di uscire, non passa ore sotto la doccia, non si fa la manicure, non si profuma, non si mette i vestiti piú belli che ha. Quando va ad aiutare in biblioteca, o a fare delle commissioni, di sicuro tutti questi preparativi non li fa.
– Certo che noti proprio tutto, tu, – commentai impressionato. – Comunque, perché pensi che la zia incontri proprio il signor Menshiki? Potrebbe trattarsi di qualcun altro.
Marie strinse un po’ le palpebre. Piegò la testa di lato. E mi guardò con l’aria di chiedermi se la credessi scema fino a quel punto. Tante cose suggerivano che l’uomo poteva essere solo Menshiki. E Marie non era scema.
– Quindi tua zia va a casa del signor Menshiki e passa qualche ora sola con lui.
Marie fece cenno di sí.
– E secondo te loro due… come dire? Hanno una relazione intima?
Di nuovo Marie annuí.
– Sí. Molto intima, credo, – aggiunse arrossendo un po’.
– D’accordo, però tu durante la giornata sei a scuola, no? Non sei a casa. Come fai a sapere certe cose?
– Le so. Certe cose una donna le ha scritte in faccia.
Eppure io non ho capito niente, pensai. Mentre viveva con me, Yuzu per mesi era andata a letto con un altro, ma io non mi ero accorto di nulla. Col senno di poi, sarebbe stato meglio che me ne fossi reso conto. Ma perché dei segnali che una ragazzina di tredici anni aveva percepito subito, a me erano sfuggiti completamente?
– Be’, pare che le cose stiano andando avanti in fretta, fra loro, – dissi.
– La zia è una persona con la testa sulle spalle, non è certo una sciocca. Però è un po’ troppo sentimentale. E il signor Menshiki ha una forza fuori dal comune, mia zia non regge il confronto.
Probabilmente aveva ragione lei. Quell’uomo possedeva una forza speciale. Se voleva davvero qualcosa, e decideva di ottenerlo, la maggior parte delle persone non avrebbero potuto resistergli. Me incluso. Fare sua, fisicamente, una donna, per lui non doveva essere un’impresa.
– Sei preoccupata, vero? Hai paura che il signor Menshiki si serva di tua zia per qualche suo scopo?
Marie si portò una mano alla testa e spostò una ciocca dei capelli neri e lisci, scoprendo il piccolo orecchio bianco. Un orecchio dalla forma bellissima. Poi annuí.
– Però non è tanto facile, sai, far cessare una relazione che è già andata molto avanti, – osservai.
Altro che facile, è quasi impossibile, aggiunsi fra me. Perché può solo proseguire, schiacciando tanti destini, come quegli enormi carri torreggianti che vengono sospinti dai fedeli nelle feste religiose induiste. Senza possibilità di fare marcia indietro.
– Per questo sono venuta a parlarle, professore, – disse Marie, e mi guardò dritto negli occhi.
Quando stava già calando il buio, munito della mia torcia elettrica accompagnai Marie fino a un punto vicino all’imbocco del «passaggio segreto». Doveva essere a casa per cena, mi aveva detto. Entro le sette, quindi.
Era venuta a chiedermi consiglio. Io però non avevo risposte brillanti da darle. L’unica strategia che mi venne da suggerire era di osservare per un po’ gli sviluppi della situazione, non si poteva fare altro. Perché sua zia e Menshiki erano due adulti, single, e, supponendo che avessero una relazione, era qualcosa che avevano deciso di comune accordo. Come sarei potuto intervenire, io? Né potevo spiegare a Marie, a Shōko o a qualcun altro le circostanze che avevano portato a quella situazione. Nessuno poteva dare dei buoni consigli al riguardo. Era come boxare con la mano destra legata dietro la schiena.
Camminavamo uno accanto all’altra lungo il sentiero nel bosco, quasi senza parlare. A un certo punto Marie mi prese per mano. La sua mano era piccola, ma piú forte di quanto mi fossi aspettato. Quell’improvvisa stretta mi sorprese un po’, ma non mi parve un gesto fuori luogo, forse perché da bambino camminavo sempre tenendo mia sorella per mano. Era una sensazione ben nota, che mi mise nostalgia.
Il palmo di Marie era liscio e caldo, ma non sudato. Doveva essere immersa nei suoi pensieri, perché ogni tanto, forse in accordo con l’intensità della sua concentrazione, serrava o allentava la stretta. Anche in questo mi ricordava mia sorella.
Quando arrivammo davanti al tempietto, lasciò andare la mia mano e senza dire una parola andò sul retro. La seguii.
A terra restavano ancora le piume della pampa schiacciate dai cingoli della ruspa. Al di là, come sempre, c’era la buca. Coperta di assi, con pesanti pietre posate sopra. Con la torcia le illuminai, per assicurarmi che nessuno le avesse spostate: no, dall’ultima volta non erano state toccate.
– Possiamo dare un’occhiata dentro? – mi chiese Marie.
– Soltanto guardare, però.
– Soltanto guardare.
Spostai le pietre e sollevai un’asse di legno. Marie si accovacciò e attraverso l’apertura scrutò all’interno. Con la torcia, cercai di farle luce. Naturalmente nella buca non c’era nessuno. Solo la scala di metallo appoggiata alla parete. Grazie alla scala, volendo saremmo potuti scendere e risalire, ma senza, tornare su sarebbe stato impossibile, visto che la profondità era di quasi tre metri. Le pareti non offrivano appigli e una persona normale non sarebbe riuscita ad arrampicarsi.
Trattenendo i capelli indietro con una mano, Marie osservò a lungo il fondo della buca. Aguzzava lo sguardo, come se nell’oscurità cercasse qualcosa. Cosa mai poteva interessarle, là dentro, cosa la affascinava?
– Chissà chi l’ha costruita… – disse.
– Mah, non saprei… All’inizio ho pensato che fosse un antico pozzo, ma pare che non sia cosí. Tanto per cominciare, scavare un pozzo qui non avrebbe senso. Comunque sia, gli scavi risalgono a tanto tempo fa, e sono stati fatti con grande cura. Ci saranno voluti tempo e fatica.
Marie mi guardava, senza dire niente.
– Sei sempre venuta a giocare da queste parti, fin da quando eri piccola? – le chiesi.
Fece cenno di sí.
– Ma fino a poco tempo fa non sapevi dell’esistenza di questa buca dietro il tempietto.
Scosse la testa.
– È stato lei a trovarla e ad aprirla, vero, professore? – mi domandò.
– Sí, diciamo che sono stato io a scoprirla. Cioè, pensavo che ci fosse qualcosa sotto al tumulo di pietre, ma non immaginavo che si trattasse di una cripta come questa. In pratica, però, a far spostare il tumulo e scoperchiare la buca è stato il signor Menshiki, non io, – spiegai, seguendo l’impulso di rivelare tutto a Marie. Dirle la verità era sicuramente la cosa migliore.
In quel momento, su un ramo, un uccello emise un verso acuto. Come se volesse mandare un segnale d’allarme ai compagni. Alzai lo sguardo, ma non riuscii a capire dove si trovasse. I rami ormai privi di foglie erano troppo intricati. Al di sopra, il cielo era uniformemente grigio, un cielo al tramonto, già invernale.
Marie, il viso un po’ corrucciato, non disse nulla.
– Però… be’, avevo l’impressione che questa buca desiderasse fortemente essere aperta da qualcuno. E a questo scopo sono stato, per cosí dire… convocato.
– Convocato?
– Sí, invitato ad avvicinarmi, a venire qui.
Marie inclinò la testa di lato, perplessa.
– Cioè, la buca voleva che lei l’aprisse?
– Esatto.
– Questa buca qui?
– Sí. Non necessariamente che l’aprissi io, sarebbe andato bene chiunque. Ma per combinazione ero il solo a trovarmi da queste parti.
– In pratica però la buca l’ha aperta il signor Menshiki.
– Sono stato io ad accompagnarlo qui. Senza di lui, non ce l’avrei mai fatta. Spostare quelle pesanti pietre a mani nude non era possibile, e io non avevo certo i mezzi economici per noleggiare una ruspa. Una specie di coincidenza, insomma.
Marie rifletté un momento sulle mie parole.
– Forse avreste fatto meglio a non toccare nulla, – disse. – Credo di averglielo già detto.
– Pensi che avremmo dovuto lasciare tutto cosí com’era?
In silenzio, Marie si alzò in piedi e si spolverò piú volte con le mani i jeans, sporchi di terra sulle ginocchia. Poi mi aiutò a chiudere la buca e a rimettere a posto le pietre. Anche questa volta cercai di imprimermi nella memoria la loro disposizione.
– Sí, dovevate lasciare tutto com’era, – disse a quel punto Marie, strofinando leggermente i palmi delle mani.
– Sai cosa penso io? Che questo posto sia depositario di qualche leggenda, o di qualcosa che deve essere tramandato. Perché possiede una particolare aura religiosa.
Marie scosse la testa, per dire che lei non ne aveva idea.
– Può darsi che mio padre lo sappia, però.
La maggior parte dei terreni di quella zona appartenevano alla sua famiglia fin dall’epoca Meiji, erano proprietà degli Akikawa come quasi tutta quella montagna. Quindi poteva darsi che suo padre fosse al corrente di qualcosa, riguardo al tempietto e alla buca.
– Allora potresti chiedere a lui?
Marie storse un po’ le labbra.
– Sí, uno di questi giorni glielo chiedo, – rispose. Poi, dopo qualche secondo, aggiunse a bassa voce: – Se lo vedo.
– Prova a domandargli se sa chi abbia costruito questa buca, quando, a quale scopo… Basterebbe un indizio, un’idea…
– Può darsi che abbiano chiuso qualcosa qui dentro, e poi ci abbiano messo sopra delle pietre pesantissime, – borbottò Marie.
– Quindi avrebbero costruito un tumulo per impedire che uscisse, e poi quel tempietto contro la iettatura? È questo che pensi?
– Forse è andata cosí.
– E invece noi abbiamo aperto la buca a forza.
Marie annuí.
L’accompagnai fino al limitare del bosco. Da lí in poi, preferiva andare sola, mi disse. Tanto la strada la conosceva bene, anche al buio. Evidentemente non voleva mostrare a nessuno quel sentiero segreto che portava a casa sua. Era una via di fuga nota solo a lei. Cosí la salutai e tornai indietro da solo. Nel cielo non c’era quasi piú luce. Il freddo e l’oscurità stavano calando.
Quando passai davanti al tempietto, lo stesso uccello di prima fece sentire il suo verso stridente. Questa volta non sollevai lo sguardo. Continuai dritto per la mia strada fino a casa. Mi preparai qualcosa per cena. Cucinando, bevvi un bicchiere di Chivas Regal allungato con un po’ d’acqua. Nella bottiglia ne restava ancora un dito. Il silenzio della sera era profondo. Le nuvole in cielo assorbivano tutti i rumori.
Quella buca, sarebbe stato meglio non aprirla.
Sí, forse aveva ragione Marie. Per lo meno, non la dovevo aprire io. Da un po’ di tempo a quella parte, sembrava che facessi solo cose sbagliate.
Provai a immaginare Menshiki che abbracciava Akikawa Shōko. In quella grande villa bianca, in qualche stanza, su un grande letto, loro due nudi facevano l’amore. Naturalmente era qualcosa che non mi riguardava, accadeva in un mondo con cui non avevo nulla a che fare. Pensando a loro due insieme, tuttavia, non potevo evitare di sentirmi a disagio. Un po’ come quando, in una stazione, si vede passare un lungo treno deserto che prosegue senza fermarsi.
A poco a poco mi venne sonno, la mia domenica era finita. Dormii profondamente, senza fare sogni, senza ricevere altre visite.