Capitolo quarantottesimo
Gli spagnoli si trovarono in difficoltà nelle acque insidiose al largo dell’Irlanda
Mi svegliai poco dopo le cinque, quando fuori era ancora buio. Infilai un cardigan sopra il pigiama, andai a dare un’occhiata in soggiorno. Sul divano, Menshiki dormiva. Nel camino il fuoco era spento, ma non da molto, presumibilmente, perché nella stanza faceva ancora abbastanza caldo. La catasta di legna che gli avevo lasciato si era alquanto ridotta. Disteso sul fianco, con la trapunta addosso, Menshiki era sprofondato in un sonno tranquillo, non lo si sentiva nemmeno respirare. Tutto, persino il sonno, era elegante in lui. Nella stanza l’aria sembrava trattenere il fiato, per non disturbarlo.
Lo lasciai dormire e andai in cucina a fare il caffè. Tostai delle fette di pane. Poi mi sedetti al tavolo della zona pranzo a mangiare il mio pane imburrato e bere il mio caffè, col libro che stavo leggendo in quei giorni posato davanti. Un libro che parlava dell’Invincibile Armada e delle tremende battaglie tra la flotta di Elisabetta I d’Inghilterra e quella di Filippo II di Spagna. Chissà poi perché dovevo leggere quel vecchio trattato sulle battaglie navali avvenute nella seconda metà del sedicesimo secolo, al largo delle coste britanniche… ma, una volta iniziato, l’avevo trovato interessante, addirittura avvincente. Faceva parte della biblioteca di Amada Tomohiko.
Secondo la teoria generalmente ammessa, il corso della storia aveva subito una svolta perché l’Invincibile Armada aveva sbagliato tattica ed era stata sbaragliata dalla flotta inglese, ma in realtà la maggior parte delle perdite riportate dai soldati spagnoli non erano avvenute durante la battaglia navale (dell’incredibile quantità di palle di cannone sparate dagli inglesi, quasi nessuna era andata a segno), ma in un naufragio. Gli spagnoli, abituati alla relativa tranquillità del Mediterraneo, si trovarono in difficoltà nelle acque insidiose al largo dell’Irlanda, quindi molte delle loro navi erano finite su scogli sommersi e colate a picco.
Seduto al tavolo da pranzo, mentre seguivo il triste destino dei soldati spagnoli, bevvi due tazze di caffè nero, e intanto il cielo a oriente andava lentamente schiarendo. Era sabato mattina.
Mi ripetei mentalmente le parole del Commendatore: «… oggi prima di mezzogiorno, riceverete una telefonata. Qualcuno vi inviterà a fare qualcosa. … non dovrete assolutamente rifiutare». Gettai un’occhiata all’apparecchio. Per il momento taceva. Ma con ogni probabilità una persona mi avrebbe chiamato. Il Commendatore non mentiva mai. Dovevo solo attendere.
Pensai a Marie. Avrei voluto telefonare a sua zia per sapere se c’erano novità, ma era troppo presto. Meglio aspettare almeno fino alle sette. Inoltre, se per caso Marie fosse stata ritrovata, la zia mi avrebbe già avvisato. Sapeva che stavo in pensiero. Se non ricevevo comunicazioni, era perché non c’erano sviluppi. Quindi continuai a leggere il libro sull’Invincibile Armada, e quando mi stufai, mi limitai a restare seduto lí, a guardare il telefono senza fare nulla. Peccato che si ostinasse a tacere.
Chiamai Akikawa Shōko poco dopo le sette. Rispose subito. Probabilmente era seduta di fianco all’apparecchio, nella spasmodica attesa che squillasse.
– Ancora nulla, – fu la prima cosa che mi disse. – Non si trova –. Immaginai che non avesse quasi dormito. Anzi, che non avesse chiuso occhio. Dalla voce sembrava esausta.
– Ma la polizia si sta muovendo? – chiesi.
– Sí. Ieri sera sono venuti due agenti, abbiamo spiegato loro la situazione e fornito una fotografia di Marie, descrivendo i vestiti che indossava… Abbiamo anche precisato che non è il tipo di ragazzina che esce la sera per andare in giro. Le informazioni sono state diramate, le ricerche sono in corso. Con discrezione, naturalmente. Ci hanno assicurato che l’indagine non verrà resa pubblica.
– Risultati però non ce ne sono.
– No, per il momento nemmeno un indizio. Comunque mi sembra che si stiano dando da fare, ce la mettono tutta.
Le dissi due parole di incoraggiamento e la pregai di chiamarmi subito se ci fossero state novità. Mi promise di farlo.
Intanto Menshiki si era svegliato e si stava lavando la faccia in bagno, dove rimase un bel po’ di tempo. Si lavò i denti con uno degli spazzolini nuovi che tenevo a disposizione degli ospiti, poi venne a sedersi di fronte a me in cucina e bevve un caffè nero bollente. Gli chiesi se voleva del pane tostato, rispose di no. Forse perché aveva dormito sul divano, i suoi magnifici capelli bianchi erano un pochino spettinati, in confronto alla perfezione abituale. Un disordine molto relativo, però. Davanti a me c’era il solito Menshiki, controllato ed elegante.
Gli dissi subito che avevo appena telefonato ad Akikawa Shōko.
– È solo una mia sensazione, – fece lui, sentito il mio resoconto, – ma penso che in questa faccenda la polizia non sarà di alcun aiuto.
– Cosa glielo fa dire?
– Marie non è una ragazzina come tante, non siamo davanti al tipico caso della teenager che scappa di casa. E non credo che si tratti di un rapimento. Di conseguenza, con i metodi abituali della polizia, sarà difficile trovarla.
Non feci commenti, ma pensai che probabilmente aveva ragione. Ci trovavamo di fronte a un’equazione in cui c’erano solo incognite, e quasi nessun numero. Ora l’essenziale era scoprire anche solo un numero in piú.
– Non converrebbe andare di nuovo a dare un’occhiata a quella buca? – proposi. – Può darsi che troviamo qualcosa di cambiato.
– Sí, andiamo! – disse Menshiki.
Tanto non potevamo fare nient’altro. Quest’oscura consapevolezza l’avevamo entrambi. Io mi dissi che durante la nostra assenza poteva arrivare una chiamata di Akikawa Shōko, o «l’invito» che mi aveva annunciato il Commendatore. Ma avevo il vago presentimento che fosse ancora presto.
Indossammo le giacche e uscimmo. Era una bella mattina di sole. Il vento che soffiava da nord-ovest aveva portato via le nubi che la sera prima coprivano il cielo. Alzando lo sguardo alla volta celeste, ora sorprendentemente alta e trasparente, si aveva l’impressione di vedere il fondo ribaltato di una limpida fontana. Da lontano arrivò il rumore uniforme di un lungo treno che correva sulla ferrovia. Ci sono giornate cosí, ogni tanto. Giornate in cui, grazie alla trasparenza dell’aria e alla direzione del vento, le nostre orecchie percepiscono con inusuale nitidezza suoni molto distanti.
Percorremmo senza parlare il sentiero nel bosco che portava al tempietto, ci fermammo davanti alla buca. Il coperchio era nella posizione esatta in cui l’avevamo lasciato la sera prima. Le pietre che vi erano posate sopra pure. Togliemmo tutto, constatammo che la scala era sempre al suo posto. E nella buca non c’era nessuno. Menshiki questa volta non ritenne necessario scendere. Alla luce del sole il fondo si vedeva benissimo, e non si notava alcun cambiamento. Di giorno, però, quella cripta non sembrava piú la stessa, non dava l’inquietante sensazione che infondeva la notte, l’effetto era molto diverso.
Rimettemmo a posto le assi, vi posammo sopra le pietre. Di nuovo attraversammo il bosco per tornare a casa. Nello spiazzo davanti al cottage erano parcheggiate, una accanto all’altra, la Jaguar immacolata di Menshiki e la mia Toyota Corolla Wagon sporca di fango.
– Be’, è ora che me ne vada, – disse Menshiki fermandosi davanti alla sua auto. – Restando qui le darei solo fastidio, e per il momento non posso essere di alcuna utilità. Mi perdona, vero?
– Ma certo. Torni a casa e si riposi. Se so qualcosa, la chiamo subito.
– Oggi è sabato, se non sbaglio.
– Sí. Sabato.
Menshiki annuí, tirò fuori dalla tasca della giacca a vento la chiave della macchina e rimase un momento a guardarla. Sembrava riflettere su qualcosa. Come se non riuscisse a prendere una decisione. Io non mi mossi.
– C’è una cosa di cui forse è meglio che le parli, – disse finalmente.
Appoggiato alla portiera della mia Toyota, attesi che continuasse.
– Trattandosi di una faccenda mia personale, ho esitato a lungo se metterla al corrente o meno, ma penso… penso sia piú corretto farlo. Non vorrei mai che si creassero inutili malintesi. Insomma, con Akikawa Shōko ho… come dire? Siamo in termini molto intimi, ecco.
– Cioè siete amanti? – chiesi, andando dritto al sodo.
Menshiki lasciò passare qualche secondo.
– Esatto, – disse poi. Un lieve rossore gli affiorò sulle guance. – Forse penserà che la situazione è evoluta molto rapidamente.
– La velocità, non penso che sia un problema.
– Infatti, – convenne Menshiki. – È proprio come dice lei. Il problema non è la velocità.
– Il problema… – iniziai, ma non proseguii.
– Il problema è la motivazione. È questo che vuole dire?
Non risposi. Lui però capí benissimo che il mio silenzio equivaleva a un sí.
– Senta, vorrei che le fosse ben chiara una cosa, – disse allora. – Non è un piano che ho architettato io fin dall’inizio. Non ho manovrato in modo che le cose prendessero questa piega. È stato uno sviluppo del tutto naturale della situazione. Prima che me ne rendessi conto, i giochi erano fatti. Anche se avrà difficoltà a credermi.
Sospirai.
– Quello che so per certo, – dissi, – è che se lei avesse avuto questo piano in mente fin dall’inizio, realizzarlo le sarebbe stato facilissimo. Non sto facendo dell’ironia.
– Può darsi che lei abbia ragione, – ammise Menshiki. – Lo ammetto. O diciamo piuttosto che non sarebbe stato troppo difficile. In realtà però le cose non sono andate cosí.
– In conclusione, mi sta dicendo che si è innamorato di Akikawa Shōko a prima vista?
Menshiki strinse un po’ le labbra, l’aria perplessa.
– Innamorato… Ad essere del tutto sincero, questo non lo posso affermare. L’ultima volta che mi sono innamorato… sí, forse lo ero… risale a un lontano passato. Adesso non ricordo assolutamente cosa provassi. È certo però che in quanto uomo, sono fortemente attratto da Shōko. Come donna, cioè.
– A prescindere dall’esistenza di Marie?
– Questa è una domanda cui non mi è facile rispondere. Se ci siamo incontrati, è stato a causa di Marie, è vero. Ma penso che avrei trovato Shōko affascinante anche se non ci fosse stata la bambina di mezzo.
Mah, chi lo sa! pensai. Un uomo complesso come Menshiki, dalla mente speculativa, veramente poteva essere attratto da una donna serena e priva di complicazioni come Shōko? Ma naturalmente questo non glielo potevo chiedere. Il cuore umano, d’altronde, è del tutto imprevedibile. Soprattutto quando c’è di mezzo il sesso.
– D’accordo, – gli dissi. – La ringrazio di avermi parlato sinceramente. Gira e rigira, la sincerità è sempre la cosa migliore.
– Lo spero anch’io.
– Sincerità per sincerità, Marie questa cosa l’aveva già capita, sa? Che fra sua zia Shōko e lei c’era una relazione, cioè. E si è confidata con me. Qualche giorno fa.
Alle mie parole Menshiki parve un po’ sorpreso.
– Che bambina perspicace! – disse. – E pensare che ho cercato di non far trapelare nulla, non il minimo segno.
– Sí, è molto perspicace. Ma se n’è accorta dal comportamento della zia, signor Menshiki, non dal suo.
Una donna ben educata e colta come Akikawa Shōko, entro un certo limite era capace di controllare le proprie emozioni, ma non fino al punto da indossare costantemente una maschera. E questo Menshiki lo sapeva benissimo, naturalmente.
– Quindi… – riprese Menshiki. – Quindi lei crede che ci sia un nesso, tra il fatto che Marie si è accorta di questa cosa e la sua scomparsa?
Scossi la testa.
– Non saprei proprio dirglielo, – risposi. – Tutto quello che posso consigliarle è di parlare con la zia, di consultarsi con lei. È preoccupatissima, a causa della scomparsa della nipote, è in uno stato di tremenda confusione. Forse ha bisogno del suo aiuto, del suo incoraggiamento. Adesso, subito.
– Ha ragione. Appena arrivo a casa la chiamo.
A quel punto Menshiki tacque, di nuovo parve riflettere su qualcosa. Fece un sospiro, poi aggiunse:
– A dire la verità, non credo di essermi innamorato. È qualcosa di un po’ diverso. Vede, io non sono il genere di persona che perde facilmente la testa. Non capisco bene nemmeno io cosa mi stia succedendo. Se non esistesse Marie, sarei tanto attratto da Shōko? È difficile per me tracciare una linea di demarcazione, stabilire fino a che punto questo sia vero.
Feci cenno che lo capivo.
– In ogni caso, non è qualcosa che avevo calcolato, – proseguí. – Vorrei che lei mi credesse, che credesse almeno a questo.
– Signor Menshiki, non so spiegarle perché mi sono fatto quest’idea, ma sono convinto che lei sia fondamentalmente una persona onesta, – gli dissi.
– La ringrazio, – mi rispose lui. E accennò un sorriso. Un sorriso un po’ imbarazzato, ma non privo di gioia.
– Allora posso spingere l’onestà un po’ piú avanti? – mi chiese.
– Prego.
– Ogni tanto, quando considero me stesso, ho la sensazione di non essere nulla, – disse Menshiki col tono di chi fa una confidenza. Il vago sorriso aleggiava ancora sulla sua bocca.
– Nulla?
– Una persona vuota. Forse quello che le sto dicendo le sembrerà presuntuoso, ma penso di essere un uomo intelligente e in gamba, l’ho sempre pensato. So di essere perspicace, bravo a valutare le situazioni e prendere una decisione. Ho anche un fisico robusto. Qualsiasi cosa intraprenda, non mi viene mai il dubbio che potrei anche non farcela. Ho ottenuto praticamente tutto quello che ho desiderato. È chiaro che quanto mi è successo a Tōkyō, quando sono finito in galera, è stato uno smacco, ma è uno dei rari insuccessi che fanno eccezione. Quando ero giovane, credevo di poter arrivare dove volevo. Prevedevo per me un futuro grandioso, ero convinto che sarei giunto a una posizione dalla quale avrei potuto guardare il mondo dall’alto. Quando ho superato i cinquanta, però, a un certo punto mi sono messo davanti a uno specchio e mi sono osservato; e cos’ho visto, cos’ho scoperto? Che ero una persona vuota. Il nulla. Uno di quegli «uomini vuoti» di cui parla T. S. Eliot.
Non sapendo proprio cosa dire, tacevo.
– Può darsi che tutta la mia vita sia stata una serie di errori. Mi capita di pensarlo. Di pensare che a un certo punto ho preso la direzione sbagliata. E da allora ho fatto solo cose prive di significato. È per questo che guardando lei, non posso fare a meno di invidiarla, gliel’ho già detto.
– E cos’è che trova invidiabile in me, di grazia? – chiesi.
– Vede, lei ha la forza di desiderare una cosa, anche se sa che non la può avere. Io invece, in vita mia, ho sempre e solo desiderato quello che era alla mia portata.
Pensai che probabilmente si riferiva a Marie. Marie però non era alla sua portata, per quanto lui ci tenesse. Ma non me la sentii di dirglielo.
Menshiki salí lentamente sulla sua auto, aprí il finestrino per salutarmi, accese il motore e se ne andò. Rimasi a guardare la macchina finché non scomparve, poi rientrai in casa. L’orologio segnava già le otto.
Il telefono squillò poco dopo le dieci. A chiamarmi era Masahiko.
– Senti, scusa se te lo dico all’ultimo momento, ma sto andando a Izu da mio padre. Che fai, vieni con me? L’altra volta mi hai detto che volevi incontrarlo, no?
«… oggi prima di mezzogiorno, riceverete una telefonata. Qualcuno vi inviterà a fare qualcosa. … non dovrete assolutamente rifiutare».
– D’accordo, va bene. Mi passi a prendere?
– Ho appena imboccato l’autostrada Tōmei, ti sto chiamando dall’area di servizio di Kōhoku. Penso di essere da te fra un’ora. Salti su e andiamo insieme a Izukōhara.
– Ma è una cosa improvvisa?
– Sí, mi hanno chiamato dalla casa di riposo. Pare che abbia avuto una crisi. Per questo sto andando lí. Oggi per fortuna non avevo impegni importanti.
– Sei sicuro che non sia un problema, se vengo anch’io? In un momento del genere, non faccio nemmeno parte della famiglia…
– No, figurati. Non ti preoccupare. Tanto ci vado solo io, a trovarlo, nessun altro, nessun parente. Preferisco che con me ci sia qualcuno, sarà un po’ piú allegro, – disse Masahiko, e riattaccò.
Misi giú il ricevitore e mi guardai attorno. Mi aspettavo di vedere il Commendatore da qualche parte. Invece non c’era. Aveva formulato il suo presagio e si era dileguato. Probabilmente gironzolava per il suo territorio privo di tempo, spazio e probabilità. In ogni caso, qualcuno mi aveva telefonato in mattinata per «invitarmi a fare qualcosa». Fin lí il pronostico si era avverato. Non ero affatto contento di allontanarmi da casa prima di sapere dove fosse Marie, ma non potevo fare diversamente. «… qualunque cosa succeda, non dovrete assolutamente rifiutare», mi aveva ordinato il Commendatore. Di Marie, per il momento potevo lasciare che se ne occupasse Menshiki. Almeno quella responsabilità se la doveva assumere.
In attesa che Masahiko arrivasse, mi sedetti sul divano del soggiorno e ripresi la lettura del libro sull’Invincibile Armada. Gli spagnoli che si erano salvati dal naufragio abbandonando le navi, costretti a raggiungere il litorale irlandese, furono trucidati dal primo all’ultimo dagli abitanti del luogo. Su quella costa viveva gente poverissima che ammazzò soldati e marinai per derubarli di tutto quello che possedevano. Gli spagnoli avevano sperato nell’aiuto degli irlandesi, contando sul fatto che erano cattolici, ma si erano sbagliati. La fame era stata piú forte del senso di solidarietà fra correligionari. Quanto alle navi cariche di dobloni d’oro − denaro della spedizione militare, preparato per ingraziarsi i potenti dopo lo sbarco in Inghilterra −, erano affondate al largo come gusci di noce. Dove si trovasse ora quel tesoro, nessuno lo sapeva.
Masahiko fermò davanti a casa la sua vecchia Volvo nera poco dopo le undici. Col pensiero ancora rivolto a tutti quei dobloni sepolti in fondo al mare, infilai il giubbotto di pelle e uscii.
Lasciata la Hakone Turnpike, Masahiko decise di prendere l’autostrada Izu Skyline fino ad Amagikōhara, poi da lí scendere verso Izukōhara. Secondo lui era il percorso piú veloce − sulla litoranea nel fine settimana c’era troppo traffico −, invece trovammo file di macchine cariche di turisti che andavano ad ammirare i paesaggi autunnali. La stagione degli aceri non era ancora finita, la maggior parte delle persone al volante erano guidatori della domenica non abituati alle strade di montagna, quindi rischiavamo di metterci molto piú tempo del previsto.
– Tuo padre come sta? È molto grave? – chiesi a Masahiko.
– Be’, non ne ha per molto, in ogni caso, – mi rispose lui in tono sommesso. – È solo questione di giorni, ormai. È molto vecchio. Non riesce quasi a mangiare e rischia la polmonite ab ingestis, la situazione è questa. Eppure non vuole essere alimentato con dieta liquida, e rifiuta le flebo. Quando non sarà piú in grado di mangiare da solo, vuole che lo lascino morire tranquillo. L’ha scritto nel suo testamento, un testamento firmato e depositato da un notaio. Di conseguenza non stanno in alcun modo cercando di prolungargli la vita. Può morire da un momento all’altro.
– Dunque sei preparato al peggio, ti tieni pronto.
– Proprio cosí.
– Dev’esser dura, per te.
– Be’, la morte di una persona non è una faccenda da poco. Non ho il diritto di lamentarmi.
La vecchia Volvo era ancora dotata di un lettore di cassette. Di cassette ce n’era una montagna, nel contenitore, ma Masahiko prese la prima che gli capitò sottomano, senza scegliere. La infilò nel lettore. Era una compilation di hit degli anni Ottanta. I Duran Duran, Huey Lewis… gente cosí.
– In questa macchina pare che il progresso si sia fermato, – gli dissi mentre sentivamo The Look of Love degli ABC.
– A me i cd, quella roba lí, non piacciono. Brillano troppo. Forse, appesi allo spiovente del tetto, i cd vanno bene per scacciare i corvi, ma per ascoltare la musica no. Il suono è metallico, il mixing poco naturale. E mi mette tristezza che non ci siano un lato A e un lato B. Se continuo a usare questa macchina, è perché la musica la voglio ascoltare su cassette a nastro. Nelle automobili nuove il lettore di cassette non c’è. Cosí nessuno le apprezza piú. Pazienza. A casa ho una magnifica collezione di bootleg, non voglio che diventi spazzatura.
– Non avrei mai creduto di poter riascoltare The Look of Love degli ABC in questa vita.
Masahiko mi gettò un’occhiata dubbiosa.
– Perché, non ti piace?
Attraversando i monti di Hakone, parlammo della musica degli anni Ottanta che un tempo veniva trasmessa alla radio. Ad ogni tornante vedevamo il monte Fuji, azzurrognolo, molto vicino.
– Padre e figlio, uno piú strano dell’altro, – conclusi a un certo punto. – Il padre ascolta solo dischi in vinile, il figlio resta ostinatamente attaccato alle cassette.
– Quanto ad essere indietro coi tempi, senti chi parla! Sei molto piú in ritardo di me. Non hai neanche un cellulare, se non sbaglio. Non usi Internet. Io il cellulare me lo porto sempre dietro. E quando voglio sapere una cosa, posso cercare subito su Google. In ufficio ho un Mac e lo uso anche per la grafica. Rispetto a te, sono ben piú al passo con questa società.
In quel momento stava terminando Key Largo di Bertie Higgins. Strano, che quella canzone piacesse a uno al passo coi tempi.
– Stai con qualcuno, adesso? – chiesi a Masahiko, tanto per cambiare argomento.
– Vuoi sapere se ho una fidanzata?
– Esatto.
Si strinse nelle spalle.
– Non in modo regolare. Come al solito. In piú, di recente mi sono reso conto di una cosa sorprendente, ragion per cui ho cominciato ad avere qualche problemuccio.
– Una cosa sorprendente?
– Sí. Che nelle donne, il lato destro della faccia è diverso da quello sinistro. Lo sapevi?
– Ma il volto delle persone non è mai perfettamente simmetrico, – dissi. – Anche i seni sono diversi uno dall’altro. E i testicoli. Sia nella grandezza che nella forma. È una cosa che qualunque pittore sa. Il lato destro e il lato sinistro del corpo umano non sono specularmente uguali, è per questo che le persone sono interessanti.
Senza staccare gli occhi dalla strada, Masahiko scosse la testa.
– Questo lo so anch’io, figurati un po’! Non è quello di cui stavo parlando adesso, però. Non intendevo la forma del corpo, ma la personalità.
Attesi che continuasse.
– Circa due mesi fa, ho fotografato una con cui stavo. Una foto presa frontalmente, con una macchina digitale. L’ho aperta sul computer che uso per lavorare. Poi, non so perché, ho diviso a metà la faccia e ho guardato i due lati uno alla volta. Visualizzavo il lato destro e poi visualizzavo il sinistro… ho ripetuto l’operazione piú volte. Insomma hai capito, no?
– Piú o meno.
– Ecco, a quel punto mi sono accorto che la donna che vedevo dal lato destro non era la stessa che vedevo dal sinistro. Ti ricordi quel criminale con i due lati della faccia completamente diversi, nel Cavaliere oscuro? Come si chiamava? Due Facce?
– Non l’ho visto, quel film, – gli dissi.
– Dovresti guardarlo. È divertente. Ad ogni modo, quando mi sono accorto di questa cosa ho avuto un po’ paura. Sapevo che avrei dovuto smettere, ma ho continuato a guardare ora un lato, ora l’altro. Sarebbe bastato che mettessi i due lati insieme, invece ho provato a creare una faccia solo col lato destro, e un’altra faccia solo col lato sinistro. Con un computer è facile fare questo tipo di operazioni. Bene: davanti a me avevo due donne dalla personalità del tutto diversa. Non ci potevo credere. Possibile che in ogni donna, in realtà ce ne siano due? Ti è mai venuta in mente, quest’idea?
– No, mai.
– Da quella volta ho fatto lo stesso esperimento con altre. Ho fotografato il viso, di fronte, poi ho aperto la foto sul computer e ho ripetuto l’operazione delle due metà separate. Il risultato non lascia dubbi: in tutte le donne, quale piú quale meno, i due lati della faccia sono differenti. E da quando mi sono accorto di questa cosa, be’, io le donne non le capisco piú per niente. Anche a letto, continuo a chiedermi se fra le braccia ho la donna di destra o quella di sinistra. Tipo: se sto facendo sesso con quella di destra, allora quella di sinistra in quel momento dov’è, cosa fa, a cosa pensa? Se invece sto con quella di sinistra, quella di destra dov’è, a cosa pensa, cosa fa? Ecco, quando comincio a pormi queste domande, le cose diventano terribilmente complicate. Capisci quello che voglio dire?
– Non tanto, veramente. Però capisco benissimo che la situazione si complichi.
– Si complica, si complica.
– E con la faccia di un uomo, hai provato?
– Ho provato. Con gli uomini però non è tanto evidente. È solo nelle donne che si nota una differenza drastica.
– Credo che dovresti consultare uno psicoterapeuta, – gli suggerii.
Masahiko fece un sospiro.
– Ho sempre pensato di essere una persona normale, – disse.
– Ecco, questa è un’idea pericolosa.
– Cosa? Credere di essere una persona normale?
– Non mi fido delle persone che sostengono di essere normali, l’ha scritto Scott Fitzgerald in non so piú quale romanzo.
Masahiko ci pensò un po’ su.
– Significa che anche se sei un tipo del tutto ordinario, sei insostituibile?
– Lo si può anche interpretare cosí.
Le mani sul volante, Masahiko per un po’ non aprí bocca.
– Senti, mi fai il favore di provare anche tu, una volta? – mi disse poi.
– Guarda che sono anni che faccio ritratti, come sai bene. Quindi credo di saperne abbastanza, sul viso delle persone. Posso tranquillamente definirmi un esperto. Ma non ho mai pensato che il lato destro e il lato sinistro di una faccia possano rivelare due distinte personalità.
– Sí, ma tu hai sempre ritratto uomini, giusto?
Aveva ragione. Non mi era mai stato chiesto di ritrarre una donna. Sempre e solo uomini, non sapevo perché. Con l’eccezione di Akikawa Marie, ma Marie era ancora una bambina, piú che una donna. Inoltre il ritratto non era ancora terminato.
– Gli uomini e le donne sono diversi. Completamente diversi, – sentenziò Masahiko.
– Allora dimmi una cosa: in tutte le donne il lato destro e il lato sinistro del viso mostrano due personalità differenti, sostieni…
– Esatto. È la conclusione cui sono arrivato.
– Ma c’è un lato che ti piace piú dell’altro?
Masahiko ci pensò su.
– No, questo non mi succede, – disse poi. – Il punto non è quale lato mi piace di piú e quale meno. E neppure quale è piú allegro e quale piú triste, quale piú bello e quale piú brutto. Il problema è solo la differenza in sé. È il fatto stesso che esista questa differenza a disorientarmi, in certi casi addirittura a spaventarmi.
– Tutto questo tuo discorso, mi suona un po’ come una nevrosi ossessiva.
– Anche a me. È quello che penso sentendomi parlare. Eppure è la verità. Dovresti provare, una volta.
Gli dissi che l’avrei fatto. Anche se non ne avevo la minima intenzione. Avevo già abbastanza grane, non volevo complicarmi ulteriormente la vita.
Poi parlammo di Amada Tomohiko. Del periodo che aveva trascorso a Vienna.
– Mio padre mi ha raccontato di essere andato a sentire Richard Strauss che dirigeva una sinfonia di Beethoven, una volta, – mi disse Masahiko. – L’orchestra era la Filarmonica di Vienna, naturalmente. Un’interpretazione magnifica. È uno dei rari episodi di quel periodo di cui lui mi abbia parlato.
– E della vita che conduceva a Vienna, non ti ha detto niente?
– Solo roba di poco interesse. Cosa mangiava, cosa beveva, che musica ascoltava… Perché a lui piaceva molto, la musica. Altre cose non me ne ha raccontate. Sulla pittura, sulla politica, neanche una parola… e nemmeno di una donna mi ha mai parlato.
A quel punto Masahiko fece una pausa, poi riprese:
– Qualcuno dovrebbe scrivere la storia della sua vita. Ne uscirebbe un libro interessante, ne sono sicuro. In realtà chi potrebbe farlo, però? Informazioni personali su di lui non ne esistono quasi. Amici non ne aveva e stava sempre lontano dalla famiglia, da solo, rintanato in una casa fra i monti a lavorare. Credo che avesse contatti esclusivamente con qualche mercante d’arte di sua conoscenza. Non parlava quasi con nessuno. Lettere non ne mandava mai. Anche volendo scrivere la sua biografia, non c’è quasi materiale. Si può dire che la sua vita, piú che avere delle parti mancanti, è stata una serie di lacune. Come un formaggio che ha piú buchi che sostanza.
– Restano soltanto le sue opere.
– Esatto. A parte le opere, di mio padre non resta quasi niente. Probabilmente è quello che vuole.
– Be’, tu sei una delle cose che lascia, – dissi.
– Io? – mi chiese Masahiko, voltandosi a guardarmi stupito. Ma subito riportò gli occhi sulla strada. – Be’, sí… Ora che mi ci fai pensare, è vero. Sono una delle cose che mio padre lascerà. Anche se non sono venuto molto bene.
– Però sei insostituibile.
– Proprio cosí. Del tutto ordinario, magari, ma insostituibile, – disse Masahiko. – Sai, a volte penso che sarebbe stato meglio che fossi tu, il figlio di Amada Tomohiko. Tutto sarebbe andato a meraviglia.
– Ma piantala, – feci ridendo. – Il ruolo di figlio di Amada Tomohiko non sarebbe stato facile per nessuno.
– Forse hai ragione, – disse Masahiko. – Conoscendoti, però, credo che saresti stato in grado di raccogliere la sua eredità, di essere alla sua altezza. Sei dotato del talento necessario, ben piú di me. È la mia impressione, per lo meno, te lo dico sinceramente.
Alle sue parole, tutt’a un tratto mi venne in mente L’assassinio del Commendatore. Che fosse quel quadro l’eredità lasciatami da Amada Tomohiko? Che mi avesse spinto a entrare in quel sottotetto per farmelo trovare? Per comunicarmi attraverso quell’opera una sua richiesta?
Dallo stereo della macchina uscivano le note di French Kissin’ in the USA, di Debbie Harry. Uno sfondo sonoro poco adatto alla nostra conversazione.
– Già, dev’essere stato pesante, per te, avere per padre Amada Tomohiko, – dissi d’impulso.
– No, a un certo punto della mia vita non mi è importato piú nulla, del confronto con lui, intendo. Ci ho dato un taglio. Quindi non è stata dura come tanti sembrano pensare. Pure io bene o male mi guadagno da vivere col disegno, e anche se so che il mio talento è di gran lunga inferiore a quello di mio padre, che tra noi non c’è paragone, la cosa ha smesso di darmi fastidio. Ad amareggiarmi non è la sua fama, ma il fatto che sia il genere di persona che è. Che per tutta la vita non si sia mai confidato con me, suo figlio. Che non mi abbia mai trasmesso nessun tipo di messaggio, o di consegna, fino alla fine.
– Non ti ha mai rivelato nulla, dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti?
– Briciole. Sembrava sempre dirmi: «Ti ho dato metà del tuo dna, e non ti devo nient’altro. Per il resto cavatela da solo». Ma i rapporti tra due persone non si limitano al dna. Non credi? Non sto dicendo che avrebbe dovuto farmi da guida, nella vita. Non chiedevo tanto. Avrei soltanto voluto parlare con lui, qualche volta, come fanno normalmente un padre e un figlio. Sapere che esperienze aveva avuto in passato, in quali idee aveva creduto… Sarei stato felice che mi raccontasse qualcosa, anche poco, mi sarebbe bastato.
Io ascoltavo in silenzio.
Mentre eravamo fermi a un semaforo, Masahiko si tolse i Ray-Ban scuri e li pulí col fazzoletto. Poi si voltò a guardarmi e disse:
– La mia impressione è che mio padre custodisca un segreto personale, un segreto pesante, e che abbia intenzione di portarlo con sé, ora che sta lasciando questo mondo. In fondo al cuore ha una specie di forziere che contiene tante cose. L’ha chiuso a chiave, e la chiave l’ha gettata via, oppure l’ha nascosta. Dove abbia potuto metterla, non ne ho la minima idea.
E cosí quanto era accaduto a Vienna nel 1938 sarebbe sprofondato nelle tenebre e rimasto per sempre un enigma incomprensibile. Poteva darsi però che la chiave fosse nascosta in quel quadro. Fu la prima cosa che mi venne in mente. Ecco perché prima di lasciare questo mondo Amada era venuto nella sua casa sui monti, fantasma vivente, ad accertarsi che L’assassinio del Commendatore fosse sempre lí, intatto.
Mi voltai a guardare indietro, con la netta impressione che sul sedile posteriore ci fosse il Commendatore: non lo vidi.
– Cosa c’è? – mi chiese Masahiko lanciandomi un’occhiata.
– No, niente, – gli risposi.
Il semaforo scattò sul verde, lui ripartí.