Capitolo trentaquattresimo
Volevo controllare la pressione dei pneumatici
Quando aprii la porta, mi trovai davanti Menshiki.
Camicia bianca button-down, gilet di lana a piccoli motivi, giacca in tweed di un grigio tendente all’azzurro. Pantaloni chino color senape e scarpe scamosciate. Come al solito, indossava i vestiti con grande disinvoltura. La sua bella capigliatura bianca splendeva al sole autunnale, alle sue spalle si vedeva la Jaguar argento. Giusto di fianco alla Toyota Prius azzurra. Una accanto all’altra, le due automobili facevano l’effetto di una bocca dai denti mal allineati, aperta in una risata.
Feci entrare Menshiki senza dire una parola. La tensione sembrava irrigidirgli un po’ i tratti del viso. Per associazione di idee, pensai a un muro intonacato di fresco. Era la prima volta che lo vedevo cosí nervoso, di solito era molto controllato e cercava di non mostrare le proprie emozioni. Aveva conservato un’espressione distaccata anche dopo essere rimasto chiuso per un’ora al buio, in fondo a una buca. Ora invece il suo volto era quasi livido.
– Le spiace se entro un momento? – mi chiese.
– No, si immagini, – gli dissi. – Stiamo pranzando, ma abbiamo quasi finito. Prego, si accomodi.
– Ma se siete a tavola, non voglio assolutamente disturbare… – fece lui guardando quasi di riflesso l’orologio. Tanto per darsi un contegno, continuò a fissare le lancette. Come se nel loro movimento ci fosse qualcosa di sbagliato.
– Oh, è un pranzo molto alla buona, abbiamo praticamente terminato. Poi possiamo prendere il caffè insieme. Entri e ci aspetti in soggiorno. La presenterò alle mie ospiti.
Menshiki scosse la testa.
– No, no, è troppo presto! – disse. – Sono venuto perché pensavo che fossero già andate via. Non per essere presentato. Poi ho trovato parcheggiata qui davanti una macchina che non avevo mai visto, e non sapendo bene come comportarmi…
– Ma è l’occasione buona! – lo interruppi. – Tutto si svolgerà in maniera molto naturale, lasci fare a me.
A quel punto lui accettò con un cenno del capo e cominciò a togliersi le scarpe1. Operazione che parve creargli qualche problema. Attesi che finisse, poi lo condussi in soggiorno. Malgrado fosse già stato sovente in quella stanza, si guardò attorno come se ci entrasse per la prima volta.
– Aspetti qui, per favore, – gli dissi, posandogli una mano su una spalla. – Si sieda, e cerchi di rilassarsi. Non ci vorranno neanche dieci minuti.
Lo lasciai solo − non senza una certa apprensione − e tornai in cucina. In mia assenza, Shōko e Marie avevano finito di mangiare. Le loro forchette erano posate sui piatti vuoti.
– Ha una visita? – mi chiese preoccupata Shōko.
– Sí, ma niente di che. È un amico che abita qui vicino ed è passato un momento a salutare. Ci sta aspettando di là in soggiorno. Tra noi c’è una certa confidenza, non è necessario che io faccia tante cerimonie. Posso finire tranquillamente di mangiare.
Terminai quel poco che restava nel mio piatto. Poi, mentre zia e nipote sparecchiavano, feci il caffè.
– Andiamo a prenderlo di là in soggiorno? – chiesi a Shōko.
– Sí, ma se ha un ospite, non vorremmo disturbare…
– Nessun disturbo, si figuri! – risposi scuotendo la testa. – Anzi, colgo l’occasione per presentarvelo. Ho detto che abita qui vicino, ma in realtà la sua casa si trova sul versante opposto della valle, molto in alto. Probabilmente ha sentito il suo nome anche lei.
– Come si chiama?
– Menshiki. Si scrive con due ideogrammi: «sfuggire» e «colore».
– Che nome insolito! – disse Shōko. – No, è la prima volta che lo sento. D’altronde non è che vada spesso dall’altra parte della valle, anche se non è lontana.
Mettemmo le quattro tazze di caffè, lo zucchero e la panna su un vassoio, e ci spostammo nel soggiorno. Appena entrai, rimasi sorpreso di non vedere Menshiki. Era scomparso, nella stanza non c’era nessuno. Guardai in terrazza… niente, non era nemmeno lí. E non pensavo che fosse andato in bagno.
– Ma dov’è finito? – chiesi, senza rivolgermi a nessuno in particolare.
– Lo ha lasciato qui? – domandò Shōko.
– Sí, poco fa.
Andai a controllare nell’ingresso e constatai che anche le sue scarpe non c’erano. Infilai dei sandali e aprii la porta d’ingresso: la Jaguar era sempre parcheggiata allo stesso posto. Quindi non era tornato a casa. Non riuscivo a vedere se fosse in macchina perché i vetri, colpiti dai raggi del sole, mi abbagliavano. Mi avvicinai all’automobile: Menshiki era seduto al posto di guida e stava frugando da tutte le parti, alla ricerca di chissà cosa. Diedi qualche colpetto sul finestrino. Lui abbassò il vetro e mi guardò con aria disorientata.
– Cosa le è successo, signor Menshiki?
– Volevo controllare la pressione dei pneumatici, ma non trovo il manometro portatile. Pensare che lo lascio sempre in questo cassetto…
– E lo deve fare adesso, qui? È urgente?
– No, certo che no… mi è venuto in mente tutt’a un tratto mentre stavo seduto in soggiorno a girarmi i pollici. Perché è da un bel po’ che non la controllo, e…
– Scusi, ma le gomme hanno qualche problema? Non mi pare.
– No, no, le gomme sono a posto.
– Allora la prego di rimandare e tornare in soggiorno. Il caffè si raffredda, e le mie ospiti stanno aspettando.
– Stanno aspettando? – fece Menshiki con voce improvvisamente secca. – Cioè, aspettano me?
– Sí. Ho detto loro che l’avrei presentata.
– No, non ce la faccio.
– Perché?
Nei suoi occhi c’erano disorientamento e paura. Sembrava un uomo braccato dal fuoco, al sedicesimo piano di un grattacielo, al quale venga detto che l’unica via di scampo è saltare dalla finestra per centrare la rete di salvataggio che da lassú gli appare piccola come un piattino.
– Su, torni dentro, – gli dissi in tono deciso. – Vedrà che andrà tutto bene.
Menshiki non rispose, si limitò ad annuire, poi scese dalla macchina e chiuse la portiera. Stava per bloccare la serratura, ma si rese conto che non era necessario (che rischio c’era, in quel posto isolato in montagna?) e infilò la chiave nella tasca dei pantaloni.
Nel soggiorno, le due Akikawa ci aspettavano sedute sul divano. Quando entrammo, si alzarono educatamente. Presentai loro Menshiki con semplicità, senza particolari convenevoli, fingendo che si trattasse di una persona come tante.
– Anche il signor Menshiki ha posato per me, – dissi. – Mi ha gentilmente chiesto di fargli il ritratto. Siamo vicini, ci siamo conosciuti dopo che sono venuto ad abitare qui.
– Se ho capito bene, la sua casa è sul versante opposto della valle? – gli chiese Shōko.
Appena lei toccò l’argomento, Menshiki impallidí visibilmente.
– Sí, ci vivo da alcuni anni, – disse. – Quanti saranno, ormai…? Tre? O forse quattro? – Mi guardò come per chiedere aiuto, ma io non fiatai.
– E da qui si vede, la sua casa? – gli domandò ancora Shōko.
– Sí, si vede benissimo, – rispose Menshiki. Aggiungendo subito dopo: – Ma non è tanto grande, e poi è molto scomoda da raggiungere, lassú in alto.
– Quanto a scomodità, noi non siamo messi meglio, – disse Shōko con un sorriso affabile. – Andare a fare compere è una vera impresa. Il cellulare ha pochissimo campo, e persino la radio prende male. Inoltre la strada è molto ripida: quando nevica è pericolosissima. Al punto che se capita resto tappata in casa, pur di non usare la macchina. Per fortuna però non succede spesso, l’ultima nevicata l’abbiamo avuta forse cinque anni fa.
– È vero, non nevica molto da queste parti, – osservò Menshiki. – Grazie al vento tiepido che soffia dal mare. È incredibile, la potenza del mare. Pensi che…
– In ogni caso, sono contento che in inverno non nevichi troppo, – lo interruppi io, che lo tenevo d’occhio e vedevo che si trovava in difficoltà. Se l’avessi abbandonato a se stesso, sarebbe stato capace di lanciarsi in una conferenza sul movimento delle correnti calde nel Pacifico.
Quanto a Marie, guardava ora la zia, ora Menshiki, verso il quale però non mostrava un particolare interesse. D’altronde lui non pareva accorgersi di lei, aveva occhi solo per Shōko, dalla quale sembrava totalmente affascinato.
– Sa, adesso ho iniziato a fare il ritratto di Marie, – gli dissi. – Le ho chiesto di posare per me.
– Per questo ogni settimana, la domenica mattina, l’accompagno qui con la macchina, – gli spiegò Shōko. – In realtà abitiamo piuttosto vicino, ma la strada è lunga perché è piena di curve.
Finalmente Menshiki si voltò verso Marie. Però i suoi occhi si muovevano irrequieti, come una mosca disorientata in inverno, quasi cercassero, senza riuscire a trovarlo, un punto dove fermare lo sguardo sul volto della ragazzina.
Per lanciargli un salvagente e toglierlo dall’imbarazzo, andai a prendere l’album da disegno e glielo mostrai.
– Questi sono i bozzetti di Marie che ho fatto finora. Per il momento sono fermo a questa fase, non ho ancora iniziato il ritratto vero e proprio.
Menshiki esaminò attentamente i disegni. Per lui sembravano avere piú importanza che non la bambina in carne e ossa. Sapevo però che non era cosí. Che se ne serviva soltanto come di un sostituto, perché non riusciva a guardare Marie in faccia. Era la prima volta che si trovava tanto vicino a lei, e non era in grado di mettere ordine nelle sue emozioni. Quanto a Marie, osservava Menshiki, i movimenti disordinati del suo viso, come se studiasse un animale raro.
– Straordinari, – disse lui. Poi, rivolto di nuovo a Shōko: – Sono tutti e tre molto espressivi. Colgono alla perfezione l’atmosfera.
– Sí, lo penso anch’io, – rispose Shōko con un sorriso.
– Marie però è un soggetto piuttosto difficile, – dissi a Menshiki. – Raffigurarla in un dipinto è tutt’altro che semplice. Il suo viso ha una mimica estremamente vivace, e per arrivare al nucleo della sua personalità ci vuole tempo. Ecco perché finora mi sono limitato a queste prove.
– Un soggetto difficile? – chiese Menshiki. Socchiudendo le palpebre come se fosse abbagliato da qualcosa, tornò a guardare Marie.
– In ognuno di questi tre disegni, vede, l’espressione è un po’ diversa. Basta una piccola variazione perché l’effetto complessivo cambi, – gli spiegai. – Ma per ritrarla in un unico dipinto, devo cogliere la sua essenza profonda, al netto dei mutamenti di espressione. Altrimenti riuscirei a esprimere solo un aspetto della sua personalità.
– Capisco, – disse Menshiki. Sembrava impressionato. Poi prese i tre disegni e si mise a confrontarli col viso di Marie. Nel mentre la sua faccia, da pallida che era, lentamente arrossiva, coprendosi poco per volta di macchioline che via via presero la dimensione di palline da ping-pong, poi da baseball e finirono col creare un rossore uniforme. Una trasformazione cromatica che Marie osservava con grande interesse. Shōko invece, educata come sempre, distolse con discrezione gli occhi. Io protesi la mano verso il bricco del caffè e me ne versai un’altra tazza.
– La settimana prossima, penso di iniziare il ritratto vero e proprio. Stendere i colori su una tela, cioè, – dissi per riempire il silenzio, senza rivolgermi a nessuno in particolare.
– E ha già un’idea in mente? – mi domandò Shōko.
Scossi la testa.
– No, non ancora. Finché non sono davanti alla tela, con un pennello in mano, non riesco a concepire nulla di concreto.
– Ci diceva che ha fatto anche il ritratto del signor Menshiki… – continuò lei.
– Sí, il mese scorso, – risposi.
– Un ritratto stupendo, – si intromise Menshiki con entusiasmo. – Non l’ho fatto incorniciare perché i colori non sono del tutto asciutti, ci vorrà ancora un po’ di tempo, ma l’ho già appeso a una parete del mio studio. È possibile tuttavia che non lo si possa definire un ritratto in senso stretto. Ciò che vi è raffigurato sono io, e al tempo stesso non sono io. È un quadro… come dire? È un quadro molto profondo. Non mi stanco mai di guardarlo.
– Quindi lei vi è raffigurato, ma al tempo stesso non lo è? – ripeté Shōko.
– Cioè… ecco, diciamo che non è un semplice ritratto, è un’opera di un livello superiore.
– Lo vorrei vedere, – disse Marie. Erano le prime parole che pronunciava da quando ci eravamo spostati nel soggiorno.
– Marie! Non essere invadente, – la redarguí la zia. – A casa d’altri certe cose…
– … certe cose non mi creano il minimo disturbo, – la interruppe Menshiki prima che lei potesse terminare la frase. Al tono stridulo della sua voce tutti, lui incluso, per un attimo trattenemmo il respiro. – Visto che abitate a due passi da me, – riprese dopo una breve pausa, – dovete assolutamente venire a vedere il quadro. Vivo solo, quindi non c’è pericolo che disturbiate nessuno. Siete le benvenute in qualsiasi momento!
A conclusione di questo discorsetto, Menshiki diventò ancora piú rosso. Probabilmente si era reso conto che in quelle sue parole vibrava un’urgenza eccessiva.
– Ti piace la pittura, Marie? – chiese dopo un attimo, questa volta rivolgendosi direttamente alla ragazzina. La sua voce aveva ritrovato il timbro abituale.
Per tutta risposta, Marie annuí appena.
– Allora, se non sono importuno, domenica prossima, a questa stessa ora, potrei venire a prendervi qui e portarvi a casa mia, cosí vi mostro il quadro… se siete d’accordo.
– Be’, non so se possiamo approfittare fino… – iniziò Shōko.
– Ma io quel quadro lo voglio vedere, zia, – tagliò corto Marie, in un tono che non ammetteva repliche.
In conclusione, venne deciso che la domenica seguente, subito dopo mezzogiorno, Menshiki sarebbe passato a prendere zia e nipote. Fui invitato a unirmi a loro, ma rifiutai, adducendo a pretesto un impegno nel pomeriggio. Non desideravo essere coinvolto ulteriormente in quella faccenda. Che se la vedessero loro, del resto loro erano i diretti interessati. Qualunque cosa fosse successa in seguito, preferivo restarne fuori. Le circostanze mi avevano portato a fare da mediatore fra le due parti, ma era un ruolo che non avevo né voluto, né gradito.
Menshiki e io accompagnammo alla macchina Marie e la sua bella zia per salutarle. Shōko si mise a osservare con interesse la Jaguar parcheggiata accanto alla Toyota Prius. Esattamente come un cinofilo avrebbe guardato il cane di un’altra persona.
– È il modello piú recente, vero? – chiese a Menshiki.
– Sí. Al momento è l’ultimo coupé della Jaguar. Le piacciono le automobili?
– Be’… non esattamente. È solo che mio padre un tempo aveva una Jaguar, una berlina. Ora è morto, ma mi portava spesso sulla sua macchina, e qualche volta me la faceva anche guidare. Cosí vedendo quel marchio sul cofano, mi è venuta un po’ di nostalgia. Credo che fosse una XJ6, un modello con quattro fari rotondi sul davanti. Un motore da 4.2 cc, a sei cilindri.
– La Serie 3, allora. Era un modello magnifico.
– A mio padre piaceva molto, e l’ha tenuta per tanti anni. Alla fine consumava troppo e aveva sempre dei piccoli problemi, ma a lui non importava.
– In quel modello la combustione non era particolarmente buona. Anche l’impianto elettrico non era granché. Questo è un difetto tipico della Jaguar. Ma quando funziona a dovere, a patto di non badare a quanto si spende per la benzina, è una macchina meravigliosa. Comodissima, docile… non c’è automobile che abbia altrettanto fascino. Naturalmente non è accessibile a tutti, visto che la maggior parte della gente dà grande importanza al consumo di carburante e ai piccoli problemi meccanici. Motivo per cui le vendite della Toyota Prius sono alle stelle.
– Questa l’ha comprata per me mio fratello. Non l’ho scelta io, – disse Shōko indicando la sua macchina. Aveva quasi l’aria di scusarsi. − È facile da guidare, sicura, e rispetta l’ambiente.
– La Prius è una macchina eccellente, – la rassicurò Menshiki. – Stavo considerando di comprarne una anch’io.
Ah, davvero? pensai. Avevo i miei dubbi, non me lo vedevo proprio, Menshiki, al volante di una Prius. Era come immaginare un leopardo ordinare una salade niçoise.
Shōko guardò all’interno della Jaguar, poi disse: – Scusi la sfacciataggine, ma potrei salirci un momento? Vorrei solo sedermi al posto di guida.
– Ma certamente! – rispose Menshiki. Poi si schiarí la gola come per controllare la voce, e aggiunse: – Ci stia pure tutto il tempo che vuole. La può anche guidare, se le fa piacere.
Che Akikawa Shōko mostrasse tanta ammirazione per la macchina di Menshiki, non me lo sarei mai aspettato. A vederla sembrava una persona quieta, di gusti sobri, non certo il tipo di donna che si interessa alle automobili. Invece si sedette al posto di guida con gli occhi che le brillavano, si sistemò comodamente sul sedile di pelle color crema, osservò con attenzione i comandi sul cruscotto, posò le mani sul volante. Poi spostò la sinistra2 sulla leva del cambio. Menshiki tirò fuori dalla tasca dei pantaloni la chiave della macchina e gliela porse.
– Provi ad accendere, – le disse.
Shōko la prese in silenzio, la inserí nella fessura accanto al volante, la girò in senso orario. Il grosso felino in un attimo si svegliò. Lei stette qualche secondo assorta ad ascoltare il rombo attutito del motore.
– Lo ricordo bene, questo rumore, – disse.
– È un motore a otto cilindri, da 4.2 cc. Quella di suo padre era una sei cilindri, anche il numero delle valvole e il rapporto di compressione non erano gli stessi, ma il rumore probabilmente è molto simile. Quanto al consumo di carburante, continua ad essere spropositato, è un difetto della Jaguar, da sempre.
Shōko sollevò la levetta che azionava il lampeggiatore di destra. Si udí un piacevole ticchettio.
– Anche questo rumore lo ricordo bene, – disse.
Menshiki sorrise.
– È tipico della Jaguar, non lo troverà in nessuna macchina di nessun’altra casa automobilistica.
– Da ragazza, per prendere la patente, mi esercitavo di nascosto sulla macchina di mio padre. Poi ne ho guidate altre, ma all’inizio ho avuto qualche problema perché il freno a mano non si inseriva allo stesso modo. Non sapevo come fare.
– La capisco, – disse Menshiki sorridendo. – Sa, gli inglesi sono molto pignoli, si impuntano su certi dettagli…
– L’odore, però, nella macchina di papà era diverso.
– Sí, purtroppo non credo che sia lo stesso. Perché all’interno ormai non si possono piú usare i materiali di una volta, per varie ragioni. Soprattutto dal 2002, da quando la pelle per i sedili non la fornisce piú la Konori, l’odore non è piú quello. La Konori non esiste piú, d’altronde.
– Che peccato! Mi piaceva moltissimo, quell’odore. Perché… come dire? Be’, mi ricordava sempre papà.
– Ad essere sincero… – riprese Menshiki con aria un po’ imbarazzata, – possiedo un’altra Jaguar, oltre a questa. Un vecchio modello. Può darsi che lí possa ritrovare quello stesso odore.
– Ha una XJ6?
– Sí. Della Serie E.
– La spider, cioè?
– Esatto. Una Jaguar Roadster, anche questa con un motore da 4.2 cc, a sei cilindri. È stata fabbricata verso la metà degli anni Sessanta, ma funziona ancora benissimo. È l’originale a due posti. Cioè, non so se la si possa davvero considerare un modello originale, visto che ho fatto rifare la capote.
Per me, che di automobili non capivo niente, quella conversazione era quasi incomprensibile. Shōko invece sembrava impressionata da quanto le diceva Menshiki. In ogni caso, grazie all’evidente entusiasmo che i due condividevano per le Jaguar, mi sentivo piú tranquillo: per quanto ristretto fosse il campo del loro comune interesse, non avevo piú bisogno di trovare un argomento di conversazione per loro, anche se si erano appena conosciuti. Quanto a Marie, come me non doveva dare alcuna importanza ai motori, perché ascoltando il dialogo fra gli altri due aveva l’aria di annoiarsi a morte.
Shōko scese dalla Jaguar, chiuse la portiera e restituí la chiave a Menshiki. Lui la infilò nella tasca dei pantaloni, poi aiutò zia e nipote a salire sulla Toyota Prius azzurra e chiuse la portiera dalla parte della bambina. Di nuovo notai quanto diverso fosse il rumore che facevano la portiera di una Jaguar e quella di una Toyota. Incredibile quale gamma di variazioni possa avere un suono generato da uno stesso gesto! Quasi quanto differisce la stessa nota suonata al contrabbasso, su una sola corda, da Charles Mingus o da Ray Brown.
– Allora a domenica prossima, – disse Menshiki.
Shōko, le mani sul volante, gli sorrise e partí. Quando la forma tozza della Toyota Prius non fu piú visibile, Menshiki e io rientrammo in casa. Tornammo a sederci in soggiorno, a bere una tazza di caffè ormai freddo. Per qualche minuto nessuno di noi due parlò. Menshiki sembrava completamente privo di forze. Come un corridore che abbia appena tagliato il traguardo dopo una lunga gara spossante.
– È bella, non trova? – gli chiesi. – Akikawa Marie, voglio dire.
– Sí, è vero. E crescendo diventerà ancora piú bella, – rispose. Ma era chiaro che con la testa stava da tutt’altra parte.
– Che effetto le ha fatto, vederla da vicino?
Menshiki sorrise, imbarazzato.
– A dire la verità, non sono riuscito a osservarla bene. Ero troppo nervoso.
– Sí, ma un’occhiata gliel’avrà pur data, no?
Lui annuí.
– Certo, è ovvio, – disse. Poi di nuovo tacque per qualche secondo, finché di colpo alzò la testa e guardandomi negli occhi mi chiese: – E lei? Che impressione ha avuto?
– Che impressione ho avuto io? Di cosa, scusi?
Di nuovo Menshiki arrossí un poco.
– Insomma, trova che la bambina mi assomigli, che i nostri tratti abbiano qualcosa in comune? Lei è un pittore, sono anni che ritrae la gente, probabilmente è in grado di capire questo genere di cose.
Scossi la testa.
– È vero che di solito riesco a cogliere subito le caratteristiche di un volto, ma determinare se due persone siano padre e figlia è al di sopra delle mie capacità. Al mondo ci sono genitori e figli diversissimi fra loro, e perfetti estranei che si assomigliano come due gocce d’acqua.
Menshiki fece un profondo sospiro. Un sospiro che sembrava venir fuori dal suo corpo intero. Poi, strofinandosi le mani l’una contro l’altra, disse: – Non le sto chiedendo una consulenza professionale. Vorrei soltanto avere la sua impressione. Se ha notato qualcosa, anche un piccolo dettaglio, me lo dica, per favore.
Ci pensai su per qualche secondo.
– Senta, – dissi dopo un po’, – se considero i suoi tratti e quelli di Marie uno per uno, fra voi non c’è nessuna somiglianza fisica. Però mi sembra che abbiate qualcosa in comune nel modo di muovere gli occhi. È una cosa che ho notato piú volte, come un lampo.
Menshiki strinse le labbra sottili.
– Vuole dire che nei nostri occhi c’è qualcosa di simile? – chiese poi.
– Sí. Le vostre emozioni si riflettono direttamente nel vostro sguardo. La curiosità, ad esempio, l’entusiasmo, la sorpresa… ma anche il dubbio, la diffidenza… tutti questi sentimenti si manifestano attraverso i vostri occhi. Non si può dire che nel complesso siate molto espressivi, eppure i vostri occhi fungono da finestre per il vostro cuore. Per la maggior parte delle persone è vero il contrario. Cambiano espressione di continuo, ma il loro sguardo non dice nulla.
Menshiki parve sorpreso.
– Questa è l’impressione che le danno i miei occhi?
Feci cenno di sí.
– Non me n’ero mai reso conto.
– Non è una cosa che possiamo reprimere, per quanto ci sforziamo. Anzi, piú cerchiamo di controllarci, piú l’emozione si concentra negli occhi. Ma è una cosa che spesso chi ci guarda non percepisce, a meno di non osservarci molto attentamente. È probabile che di solito passi inosservata.
– Lei però l’ha notata.
– Cogliere l’espressione della gente è il mio mestiere.
Menshiki rifletté un momento sulle mie parole.
– Dunque Marie e io abbiamo questo tratto in comune, – riprese. – Tuttavia neppure lei sa dire se siamo padre e figlia?
– Quando guardo una persona, in quanto pittore ne traggo alcune impressioni che per me sono molto importanti. Ma c’è una bella differenza tra un’impressione, percepita in un’ottica artistica, e la realtà oggettiva. Un’impressione non è necessariamente esatta. Ha tanta utilità pratica quanto una farfalla in balia del vento. Detto ciò, lei che idea si è fatto? Ha provato qualche emozione particolare, davanti a quella bambina?
Menshiki scosse piú volte la testa.
– Non lo so. L’ho incontrata per la prima volta poco fa. E per pochi minuti. Ho bisogno di piú tempo. Devo abituarmi a stare con lei…
A quel punto Menshiki tacque e di nuovo scosse leggermente il capo. Infilò le mani nelle tasche della giacca, come se cercasse qualcosa, le tirò fuori… sembrava non sapere nemmeno lui cosa vi cercasse.
– No, credo che il problema si ripresenterà ogni volta, – proseguí. – Anzi, piú la vedrò, piú la mia confusione aumenterà, ed è probabile che alla fine non giunga ad alcun risultato. Continuerò a pensare che Marie forse è mia figlia, e forse no. E che in ogni caso non ha importanza. Davanti a quella ragazzina, al solo pensiero che potrei essere suo padre, anche solo a immaginarlo, sento il sangue scorrermi piú velocemente attraverso tutto il corpo. Sa, può darsi che fino ad ora non abbia mai capito il vero senso della vita…
Rimasi in silenzio. Riguardo ai moti del suo cuore, e ai suoi dilemmi sul senso della vita, non avevo commenti da fare. Menshiki gettò un’occhiata al suo lussuoso orologio e si alzò in modo stranamente impacciato dal divano.
– La devo ringraziare, – disse. – Se non ci fosse stato lei a sostenermi, da solo non ce l’avrei fatta.
Senza aggiungere altro, si diresse con passo malfermo verso l’ingresso, impiegò parecchio tempo a infilarsi le scarpe e ad allacciarle, poi uscí. In piedi davanti alla porta di casa, lo guardai salire in macchina e andarsene. Quando la Jaguar scomparve alla vista, tutt’intorno calò di nuovo la quiete di quel pomeriggio domenicale.
L’orologio segnava qualche minuto dopo le due. Ero esausto. Andai a prendere nell’armadio una vecchia coperta, mi sdraiai sul divano mettendomela addosso e dormii un po’. Quando mi svegliai, erano passate da poco le tre. I raggi del sole che entravano nella stanza non si erano spostati di molto. Che strana giornata! Non riuscivo a capire se stessi avanzando, indietreggiando o girando in tondo. Mi sembrava di aver perso del tutto il senso dell’orientamento. Le due Akikawa, e Menshiki. Ognuno dei tre possedeva a modo suo un forte, particolare magnetismo. E io, che di magnetismo non ne avevo neanche un po’, mi trovavo in mezzo a loro, accerchiato.
La domenica però non era terminata, anche se ero stanco. Erano solo le tre. Il sole era ancora alto. Prima che la giornata finisse e arrivasse il lunedí, dovevano passare ancora diverse ore. Eppure non avevo voglia di fare niente. Quel breve sonno non era servito a dissolvere l’intorpidimento che mi offuscava la testa. Mi sentivo come un vecchio gomitolo di lana schiacciato in fondo al cassetto di una scrivania. Qualcuno mi aveva infilato a forza lí dentro. Col risultato che il cassetto non si chiudeva completamente. Nelle giornate cosí, forse avrei fatto bene anch’io a misurare la pressione delle gomme. È quello che dovrebbero fare tutti, quando si sentono tanto fiacchi.
A pensarci bene, però, mi resi conto che non avevo mai eseguito quell’operazione in vita mia, nemmeno una volta. Al massimo, quando a una stazione di servizio il benzinaio mi aveva detto: «Guardi che ci sarebbe da controllare la pressione dei pneumatici, sa?», gli avevo chiesto di farlo. Ovviamente lo strumento per misurarla da solo non lo possedevo. Non sapevo neanche che forma avesse. Non doveva essere molto grande, se lo si poteva mettere nel cassetto portaoggetti della macchina. Né doveva costare tanto da richiedere un pagamento a rate. Decisi che in futuro l’avrei comprato, tanto per provare.
Quando nella stanza calò il buio, andai in cucina e iniziai a preparare la cena mentre bevevo una lattina di birra. Misi nel forno un trancio di ricciola marinata nel kasu, tagliai degli tsukemono3, preparai un’insalata di cetrioli e alghe sott’aceto, una zuppa di miso con la rapa. Mangiai ogni cosa da solo, in silenzio. Non avevo nessuno con cui parlare, né mi veniva in mente qualcosa da raccontare. Stavo finendo quel semplice pasto solitario, quando suonò il campanello. Chissà perché, sembrava che la gente si divertisse a suonare il campanello di casa mia proprio quando stavo per finire di mangiare.
La giornata non è ancora terminata, pensai. Avevo il presentimento che quella domenica sarebbe stata molto lunga. Mi alzai da tavola e mi diressi lentamente verso l’entrata.
1. Nelle case giapponesi non si entra con le scarpe, le si lascia nell’ingresso e si mettono delle pantofole a disposizione degli ospiti.
2. In Giappone si guida a sinistra, quindi nelle automobili il posto di guida è a destra.
3. Kasu: residui della produzione del sakè; tsukemono: ortaggi e frutti in salamoia, usati come contorno.