Capitolo trentaquattresimo
Volevo controllare la pressione dei
pneumatici
Quando aprii la porta, mi trovai davanti
Menshiki.
Camicia bianca button-down, gilet di lana a
piccoli motivi, giacca in tweed di un grigio tendente all’azzurro.
Pantaloni chino color senape e scarpe scamosciate. Come al solito,
indossava i vestiti con grande disinvoltura. La sua bella
capigliatura bianca splendeva al sole autunnale, alle sue spalle si
vedeva la Jaguar argento. Giusto di fianco alla Toyota Prius
azzurra. Una accanto all’altra, le due automobili facevano
l’effetto di una bocca dai denti mal allineati, aperta in una
risata.
Feci entrare Menshiki senza dire una parola.
La tensione sembrava irrigidirgli un po’ i tratti del viso. Per
associazione di idee, pensai a un muro intonacato di fresco. Era la
prima volta che lo vedevo cosí nervoso, di solito era molto
controllato e cercava di non mostrare le proprie emozioni. Aveva
conservato un’espressione distaccata anche dopo essere rimasto
chiuso per un’ora al buio, in fondo a una buca. Ora invece il suo
volto era quasi livido.
– Le spiace se entro un momento? – mi
chiese.
– No, si immagini, – gli dissi. – Stiamo
pranzando, ma abbiamo quasi finito. Prego, si accomodi.
– Ma se siete a tavola, non voglio
assolutamente disturbare… – fece lui guardando quasi di riflesso
l’orologio. Tanto per darsi un contegno, continuò a fissare le
lancette. Come se nel loro movimento ci fosse qualcosa di
sbagliato.
– Oh, è un pranzo molto alla buona, abbiamo
praticamente terminato. Poi possiamo prendere il caffè insieme.
Entri e ci aspetti in soggiorno. La presenterò alle mie
ospiti.
Menshiki scosse la testa.
– No, no, è troppo presto! – disse. – Sono
venuto perché pensavo che fossero già andate via. Non per essere
presentato. Poi ho trovato parcheggiata qui davanti una macchina
che non avevo mai visto, e non sapendo bene come comportarmi…
– Ma è l’occasione buona! – lo interruppi. –
Tutto si svolgerà in maniera molto naturale, lasci fare a me.
A quel punto lui accettò con un cenno del capo
e cominciò a togliersi le scarpe1.
Operazione che parve creargli qualche problema. Attesi che finisse,
poi lo condussi in soggiorno. Malgrado fosse già stato sovente in
quella stanza, si guardò attorno come se ci entrasse per la prima
volta.
– Aspetti qui, per favore, – gli dissi,
posandogli una mano su una spalla. – Si sieda, e cerchi di
rilassarsi. Non ci vorranno neanche dieci minuti.
Lo lasciai solo − non senza una certa
apprensione − e tornai in cucina. In mia assenza, Shōko e Marie
avevano finito di mangiare. Le loro forchette erano posate sui
piatti vuoti.
– Ha una visita? – mi chiese preoccupata
Shōko.
– Sí, ma niente di che. È un amico che abita
qui vicino ed è passato un momento a salutare. Ci sta aspettando di
là in soggiorno. Tra noi c’è una certa confidenza, non è necessario
che io faccia tante cerimonie. Posso finire tranquillamente di
mangiare.
Terminai quel poco che restava nel mio piatto.
Poi, mentre zia e nipote sparecchiavano, feci il caffè.
– Andiamo a prenderlo di là in soggiorno? –
chiesi a Shōko.
– Sí, ma se ha un ospite, non vorremmo
disturbare…
– Nessun disturbo, si figuri! – risposi
scuotendo la testa. – Anzi, colgo l’occasione per presentarvelo. Ho
detto che abita qui vicino, ma in realtà la sua casa si trova sul
versante opposto della valle, molto in alto. Probabilmente ha
sentito il suo nome anche lei.
– Come si chiama?
– Menshiki. Si scrive con due ideogrammi:
«sfuggire» e «colore».
– Che nome insolito! – disse Shōko. – No, è la
prima volta che lo sento. D’altronde non è che vada spesso
dall’altra parte della valle, anche se non è lontana.
Mettemmo le quattro tazze di caffè, lo
zucchero e la panna su un vassoio, e ci spostammo nel soggiorno.
Appena entrai, rimasi sorpreso di non vedere Menshiki. Era
scomparso, nella stanza non c’era nessuno. Guardai in terrazza…
niente, non era nemmeno lí. E non pensavo che fosse andato in
bagno.
– Ma dov’è finito? – chiesi, senza rivolgermi
a nessuno in particolare.
– Lo ha lasciato qui? – domandò Shōko.
– Sí, poco fa.
Andai a controllare nell’ingresso e constatai
che anche le sue scarpe non c’erano. Infilai dei sandali e aprii la
porta d’ingresso: la Jaguar era sempre parcheggiata allo stesso
posto. Quindi non era tornato a casa. Non riuscivo a vedere se
fosse in macchina perché i vetri, colpiti dai raggi del sole, mi
abbagliavano. Mi avvicinai all’automobile: Menshiki era seduto al
posto di guida e stava frugando da tutte le parti, alla ricerca di
chissà cosa. Diedi qualche colpetto sul finestrino. Lui abbassò il
vetro e mi guardò con aria disorientata.
– Cosa le è successo, signor Menshiki?
– Volevo controllare la pressione dei
pneumatici, ma non trovo il manometro portatile. Pensare che lo
lascio sempre in questo cassetto…
– E lo deve fare adesso, qui? È urgente?
– No, certo che no… mi è venuto in mente
tutt’a un tratto mentre stavo seduto in soggiorno a girarmi i
pollici. Perché è da un bel po’ che non la controllo, e…
– Scusi, ma le gomme hanno qualche problema?
Non mi pare.
– No, no, le gomme sono a posto.
– Allora la prego di rimandare e tornare in
soggiorno. Il caffè si raffredda, e le mie ospiti stanno
aspettando.
– Stanno aspettando? – fece Menshiki con voce
improvvisamente secca. – Cioè, aspettano me?
– Sí. Ho detto loro che l’avrei
presentata.
– No, non ce la faccio.
– Perché?
Nei suoi occhi c’erano disorientamento e
paura. Sembrava un uomo braccato dal fuoco, al sedicesimo piano di
un grattacielo, al quale venga detto che l’unica via di scampo è
saltare dalla finestra per centrare la rete di salvataggio che da
lassú gli appare piccola come un piattino.
– Su, torni dentro, – gli dissi in tono
deciso. – Vedrà che andrà tutto bene.
Menshiki non rispose, si limitò ad annuire,
poi scese dalla macchina e chiuse la portiera. Stava per bloccare
la serratura, ma si rese conto che non era necessario (che rischio
c’era, in quel posto isolato in montagna?) e infilò la chiave nella
tasca dei pantaloni.
Nel soggiorno, le due Akikawa ci aspettavano
sedute sul divano. Quando entrammo, si alzarono educatamente.
Presentai loro Menshiki con semplicità, senza particolari
convenevoli, fingendo che si trattasse di una persona come
tante.
– Anche il signor Menshiki ha posato per me, –
dissi. – Mi ha gentilmente chiesto di fargli il ritratto. Siamo
vicini, ci siamo conosciuti dopo che sono venuto ad abitare
qui.
– Se ho capito bene, la sua casa è sul
versante opposto della valle? – gli chiese Shōko.
Appena lei toccò l’argomento, Menshiki
impallidí visibilmente.
– Sí, ci vivo da alcuni anni, – disse. –
Quanti saranno, ormai…? Tre? O forse quattro? – Mi guardò come per
chiedere aiuto, ma io non fiatai.
– E da qui si vede, la sua casa? – gli domandò
ancora Shōko.
– Sí, si vede benissimo, – rispose Menshiki.
Aggiungendo subito dopo: – Ma non è tanto grande, e poi è molto
scomoda da raggiungere, lassú in alto.
– Quanto a scomodità, noi non siamo messi
meglio, – disse Shōko con un sorriso affabile. – Andare a fare
compere è una vera impresa. Il cellulare ha pochissimo campo, e
persino la radio prende male. Inoltre la strada è molto ripida:
quando nevica è pericolosissima. Al punto che se capita resto
tappata in casa, pur di non usare la macchina. Per fortuna però non
succede spesso, l’ultima nevicata l’abbiamo avuta forse cinque anni
fa.
– È vero, non nevica molto da queste parti, –
osservò Menshiki. – Grazie al vento tiepido che soffia dal mare. È
incredibile, la potenza del mare. Pensi che…
– In ogni caso, sono contento che in inverno
non nevichi troppo, – lo interruppi io, che lo tenevo d’occhio e
vedevo che si trovava in difficoltà. Se l’avessi abbandonato a se
stesso, sarebbe stato capace di lanciarsi in una conferenza sul
movimento delle correnti calde nel Pacifico.
Quanto a Marie, guardava ora la zia, ora
Menshiki, verso il quale però non mostrava un particolare
interesse. D’altronde lui non pareva accorgersi di lei, aveva occhi
solo per Shōko, dalla quale sembrava totalmente affascinato.
– Sa, adesso ho iniziato a fare il ritratto di
Marie, – gli dissi. – Le ho chiesto di posare per me.
– Per questo ogni settimana, la domenica
mattina, l’accompagno qui con la macchina, – gli spiegò Shōko. – In
realtà abitiamo piuttosto vicino, ma la strada è lunga perché è
piena di curve.
Finalmente Menshiki si voltò verso Marie. Però
i suoi occhi si muovevano irrequieti, come una mosca disorientata
in inverno, quasi cercassero, senza riuscire a trovarlo, un punto
dove fermare lo sguardo sul volto della ragazzina.
Per lanciargli un salvagente e toglierlo
dall’imbarazzo, andai a prendere l’album da disegno e glielo
mostrai.
– Questi sono i bozzetti di Marie che ho fatto
finora. Per il momento sono fermo a questa fase, non ho ancora
iniziato il ritratto vero e proprio.
Menshiki esaminò attentamente i disegni. Per
lui sembravano avere piú importanza che non la bambina in carne e
ossa. Sapevo però che non era cosí. Che se ne serviva soltanto come
di un sostituto, perché non riusciva a guardare Marie in faccia.
Era la prima volta che si trovava tanto vicino a lei, e non era in
grado di mettere ordine nelle sue emozioni. Quanto a Marie,
osservava Menshiki, i movimenti disordinati del suo viso, come se
studiasse un animale raro.
– Straordinari, – disse lui. Poi, rivolto di
nuovo a Shōko: – Sono tutti e tre molto espressivi. Colgono alla
perfezione l’atmosfera.
– Sí, lo penso anch’io, – rispose Shōko con un
sorriso.
– Marie però è un soggetto piuttosto
difficile, – dissi a Menshiki. – Raffigurarla in un dipinto è
tutt’altro che semplice. Il suo viso ha una mimica estremamente
vivace, e per arrivare al nucleo della sua personalità ci vuole
tempo. Ecco perché finora mi sono limitato a queste prove.
– Un soggetto difficile? – chiese Menshiki.
Socchiudendo le palpebre come se fosse abbagliato da qualcosa,
tornò a guardare Marie.
– In ognuno di questi tre disegni, vede,
l’espressione è un po’ diversa. Basta una piccola variazione perché
l’effetto complessivo cambi, – gli spiegai. – Ma per ritrarla in un
unico dipinto, devo cogliere la sua essenza profonda, al netto dei
mutamenti di espressione. Altrimenti riuscirei a esprimere solo un
aspetto della sua personalità.
– Capisco, – disse Menshiki. Sembrava
impressionato. Poi prese i tre disegni e si mise a confrontarli col
viso di Marie. Nel mentre la sua faccia, da pallida che era,
lentamente arrossiva, coprendosi poco per volta di macchioline che
via via presero la dimensione di palline da ping-pong, poi da
baseball e finirono col creare un rossore uniforme. Una
trasformazione cromatica che Marie osservava con grande interesse.
Shōko invece, educata come sempre, distolse con discrezione gli
occhi. Io protesi la mano verso il bricco del caffè e me ne versai
un’altra tazza.
– La settimana prossima, penso di iniziare il
ritratto vero e proprio. Stendere i colori su una tela, cioè, –
dissi per riempire il silenzio, senza rivolgermi a nessuno in
particolare.
– E ha già un’idea in mente? – mi domandò
Shōko.
Scossi la testa.
– No, non ancora. Finché non sono davanti alla
tela, con un pennello in mano, non riesco a concepire nulla di
concreto.
– Ci diceva che ha fatto anche il ritratto del
signor Menshiki… – continuò lei.
– Sí, il mese scorso, – risposi.
– Un ritratto stupendo, – si intromise
Menshiki con entusiasmo. – Non l’ho fatto incorniciare perché i
colori non sono del tutto asciutti, ci vorrà ancora un po’ di
tempo, ma l’ho già appeso a una parete del mio studio. È possibile
tuttavia che non lo si possa definire un ritratto in senso stretto.
Ciò che vi è raffigurato sono io, e al tempo stesso non sono io. È
un quadro… come dire? È un quadro molto profondo. Non mi stanco mai
di guardarlo.
– Quindi lei vi è raffigurato, ma al tempo
stesso non lo è? – ripeté Shōko.
– Cioè… ecco, diciamo che non è un semplice
ritratto, è un’opera di un livello superiore.
– Lo vorrei vedere, – disse Marie. Erano le
prime parole che pronunciava da quando ci eravamo spostati nel
soggiorno.
– Marie! Non essere invadente, – la redarguí
la zia. – A casa d’altri certe cose…
– … certe cose non mi creano il minimo
disturbo, – la interruppe Menshiki prima che lei potesse terminare
la frase. Al tono stridulo della sua voce tutti, lui incluso, per
un attimo trattenemmo il respiro. – Visto che abitate a due passi
da me, – riprese dopo una breve pausa, – dovete assolutamente
venire a vedere il quadro. Vivo solo, quindi non c’è pericolo che
disturbiate nessuno. Siete le benvenute in qualsiasi momento!
A conclusione di questo discorsetto, Menshiki
diventò ancora piú rosso. Probabilmente si era reso conto che in
quelle sue parole vibrava un’urgenza eccessiva.
– Ti piace la pittura, Marie? – chiese dopo un
attimo, questa volta rivolgendosi direttamente alla ragazzina. La
sua voce aveva ritrovato il timbro abituale.
Per tutta risposta, Marie annuí appena.
– Allora, se non sono importuno, domenica
prossima, a questa stessa ora, potrei venire a prendervi qui e
portarvi a casa mia, cosí vi mostro il quadro… se siete
d’accordo.
– Be’, non so se possiamo approfittare fino… –
iniziò Shōko.
– Ma io quel quadro lo voglio vedere, zia, –
tagliò corto Marie, in un tono che non ammetteva repliche.
In conclusione, venne deciso che la domenica
seguente, subito dopo mezzogiorno, Menshiki sarebbe passato a
prendere zia e nipote. Fui invitato a unirmi a loro, ma rifiutai,
adducendo a pretesto un impegno nel pomeriggio. Non desideravo
essere coinvolto ulteriormente in quella faccenda. Che se la
vedessero loro, del resto loro erano i diretti interessati.
Qualunque cosa fosse successa in seguito, preferivo restarne fuori.
Le circostanze mi avevano portato a fare da mediatore fra le due
parti, ma era un ruolo che non avevo né voluto, né gradito.
Menshiki e io accompagnammo alla macchina
Marie e la sua bella zia per salutarle. Shōko si mise a osservare
con interesse la Jaguar parcheggiata accanto alla Toyota Prius.
Esattamente come un cinofilo avrebbe guardato il cane di un’altra
persona.
– È il modello piú recente, vero? – chiese a
Menshiki.
– Sí. Al momento è l’ultimo coupé della
Jaguar. Le piacciono le automobili?
– Be’… non esattamente. È solo che mio padre
un tempo aveva una Jaguar, una berlina. Ora è morto, ma mi portava
spesso sulla sua macchina, e qualche volta me la faceva anche
guidare. Cosí vedendo quel marchio sul cofano, mi è venuta un po’
di nostalgia. Credo che fosse una XJ6, un modello con quattro fari
rotondi sul davanti. Un motore da 4.2 cc, a sei cilindri.
– La Serie 3, allora. Era un modello
magnifico.
– A mio padre piaceva molto, e l’ha tenuta per
tanti anni. Alla fine consumava troppo e aveva sempre dei piccoli
problemi, ma a lui non importava.
– In quel modello la combustione non era
particolarmente buona. Anche l’impianto elettrico non era granché.
Questo è un difetto tipico della Jaguar. Ma quando funziona a
dovere, a patto di non badare a quanto si spende per la benzina, è
una macchina meravigliosa. Comodissima, docile… non c’è automobile
che abbia altrettanto fascino. Naturalmente non è accessibile a
tutti, visto che la maggior parte della gente dà grande importanza
al consumo di carburante e ai piccoli problemi meccanici. Motivo
per cui le vendite della Toyota Prius sono alle stelle.
– Questa l’ha comprata per me mio fratello.
Non l’ho scelta io, – disse Shōko indicando la sua macchina. Aveva
quasi l’aria di scusarsi. − È facile da guidare, sicura, e rispetta
l’ambiente.
– La Prius è una macchina eccellente, – la
rassicurò Menshiki. – Stavo considerando di comprarne una
anch’io.
Ah, davvero? pensai. Avevo i miei dubbi, non
me lo vedevo proprio, Menshiki, al volante di una Prius. Era come
immaginare un leopardo ordinare una salade
niçoise.
Shōko guardò all’interno della Jaguar, poi
disse: – Scusi la sfacciataggine, ma potrei salirci un momento?
Vorrei solo sedermi al posto di guida.
– Ma certamente! – rispose Menshiki. Poi si
schiarí la gola come per controllare la voce, e aggiunse: – Ci stia
pure tutto il tempo che vuole. La può anche guidare, se le fa
piacere.
Che Akikawa Shōko mostrasse tanta ammirazione
per la macchina di Menshiki, non me lo sarei mai aspettato. A
vederla sembrava una persona quieta, di gusti sobri, non certo il
tipo di donna che si interessa alle automobili. Invece si sedette
al posto di guida con gli occhi che le brillavano, si sistemò
comodamente sul sedile di pelle color crema, osservò con attenzione
i comandi sul cruscotto, posò le mani sul volante. Poi spostò la
sinistra2 sulla
leva del cambio. Menshiki tirò fuori dalla tasca dei pantaloni la
chiave della macchina e gliela porse.
– Provi ad accendere, – le disse.
Shōko la prese in silenzio, la inserí nella
fessura accanto al volante, la girò in senso orario. Il grosso
felino in un attimo si svegliò. Lei stette qualche secondo assorta
ad ascoltare il rombo attutito del motore.
– Lo ricordo bene, questo rumore, –
disse.
– È un motore a otto cilindri, da 4.2 cc.
Quella di suo padre era una sei cilindri, anche il numero delle
valvole e il rapporto di compressione non erano gli stessi, ma il
rumore probabilmente è molto simile. Quanto al consumo di
carburante, continua ad essere spropositato, è un difetto della
Jaguar, da sempre.
Shōko sollevò la levetta che azionava il
lampeggiatore di destra. Si udí un piacevole ticchettio.
– Anche questo rumore lo ricordo bene, –
disse.
Menshiki sorrise.
– È tipico della Jaguar, non lo troverà in
nessuna macchina di nessun’altra casa automobilistica.
– Da ragazza, per prendere la patente, mi
esercitavo di nascosto sulla macchina di mio padre. Poi ne ho
guidate altre, ma all’inizio ho avuto qualche problema perché il
freno a mano non si inseriva allo stesso modo. Non sapevo come
fare.
– La capisco, – disse Menshiki sorridendo. –
Sa, gli inglesi sono molto pignoli, si impuntano su certi
dettagli…
– L’odore, però, nella macchina di papà era
diverso.
– Sí, purtroppo non credo che sia lo stesso.
Perché all’interno ormai non si possono piú usare i materiali di
una volta, per varie ragioni. Soprattutto dal 2002, da quando la
pelle per i sedili non la fornisce piú la Konori, l’odore non è piú
quello. La Konori non esiste piú, d’altronde.
– Che peccato! Mi piaceva moltissimo,
quell’odore. Perché… come dire? Be’, mi ricordava sempre
papà.
– Ad essere sincero… – riprese Menshiki con
aria un po’ imbarazzata, – possiedo un’altra Jaguar, oltre a
questa. Un vecchio modello. Può darsi che lí possa ritrovare quello
stesso odore.
– Ha una XJ6?
– Sí. Della Serie E.
– La spider, cioè?
– Esatto. Una Jaguar Roadster, anche questa
con un motore da 4.2 cc, a sei cilindri. È stata fabbricata verso
la metà degli anni Sessanta, ma funziona ancora benissimo. È
l’originale a due posti. Cioè, non so se la si possa davvero
considerare un modello originale, visto che ho fatto rifare la
capote.
Per me, che di automobili non capivo niente,
quella conversazione era quasi incomprensibile. Shōko invece
sembrava impressionata da quanto le diceva Menshiki. In ogni caso,
grazie all’evidente entusiasmo che i due condividevano per le
Jaguar, mi sentivo piú tranquillo: per quanto ristretto fosse il
campo del loro comune interesse, non avevo piú bisogno di trovare
un argomento di conversazione per loro, anche se si erano appena
conosciuti. Quanto a Marie, come me non doveva dare alcuna
importanza ai motori, perché ascoltando il dialogo fra gli altri
due aveva l’aria di annoiarsi a morte.
Shōko scese dalla Jaguar, chiuse la portiera e
restituí la chiave a Menshiki. Lui la infilò nella tasca dei
pantaloni, poi aiutò zia e nipote a salire sulla Toyota Prius
azzurra e chiuse la portiera dalla parte della bambina. Di nuovo
notai quanto diverso fosse il rumore che facevano la portiera di
una Jaguar e quella di una Toyota. Incredibile quale gamma di
variazioni possa avere un suono generato da uno stesso gesto! Quasi
quanto differisce la stessa nota suonata al contrabbasso, su una
sola corda, da Charles Mingus o da Ray Brown.
– Allora a domenica prossima, – disse
Menshiki.
Shōko, le mani sul volante, gli sorrise e
partí. Quando la forma tozza della Toyota Prius non fu piú
visibile, Menshiki e io rientrammo in casa. Tornammo a sederci in
soggiorno, a bere una tazza di caffè ormai freddo. Per qualche
minuto nessuno di noi due parlò. Menshiki sembrava completamente
privo di forze. Come un corridore che abbia appena tagliato il
traguardo dopo una lunga gara spossante.
– È bella, non trova? – gli chiesi. – Akikawa
Marie, voglio dire.
– Sí, è vero. E crescendo diventerà ancora piú
bella, – rispose. Ma era chiaro che con la testa stava da
tutt’altra parte.
– Che effetto le ha fatto, vederla da
vicino?
Menshiki sorrise, imbarazzato.
– A dire la verità, non sono riuscito a
osservarla bene. Ero troppo nervoso.
– Sí, ma un’occhiata gliel’avrà pur data,
no?
Lui annuí.
– Certo, è ovvio, – disse. Poi di nuovo tacque
per qualche secondo, finché di colpo alzò la testa e guardandomi
negli occhi mi chiese: – E lei? Che impressione ha avuto?
– Che impressione ho avuto io? Di cosa,
scusi?
Di nuovo Menshiki arrossí un poco.
– Insomma, trova che la bambina mi assomigli,
che i nostri tratti abbiano qualcosa in comune? Lei è un pittore,
sono anni che ritrae la gente, probabilmente è in grado di capire
questo genere di cose.
Scossi la testa.
– È vero che di solito riesco a cogliere
subito le caratteristiche di un volto, ma determinare se due
persone siano padre e figlia è al di sopra delle mie capacità. Al
mondo ci sono genitori e figli diversissimi fra loro, e perfetti
estranei che si assomigliano come due gocce d’acqua.
Menshiki fece un profondo sospiro. Un sospiro
che sembrava venir fuori dal suo corpo intero. Poi, strofinandosi
le mani l’una contro l’altra, disse: – Non le sto chiedendo una
consulenza professionale. Vorrei soltanto avere la sua impressione.
Se ha notato qualcosa, anche un piccolo dettaglio, me lo dica, per
favore.
Ci pensai su per qualche secondo.
– Senta, – dissi dopo un po’, – se considero i
suoi tratti e quelli di Marie uno per uno, fra voi non c’è nessuna
somiglianza fisica. Però mi sembra che abbiate qualcosa in comune
nel modo di muovere gli occhi. È una cosa che ho notato piú volte,
come un lampo.
Menshiki strinse le labbra sottili.
– Vuole dire che nei nostri occhi c’è qualcosa
di simile? – chiese poi.
– Sí. Le vostre emozioni si riflettono
direttamente nel vostro sguardo. La curiosità, ad esempio,
l’entusiasmo, la sorpresa… ma anche il dubbio, la diffidenza… tutti
questi sentimenti si manifestano attraverso i vostri occhi. Non si
può dire che nel complesso siate molto espressivi, eppure i vostri
occhi fungono da finestre per il vostro cuore. Per la maggior parte
delle persone è vero il contrario. Cambiano espressione di
continuo, ma il loro sguardo non dice nulla.
Menshiki parve sorpreso.
– Questa è l’impressione che le danno i miei
occhi?
Feci cenno di sí.
– Non me n’ero mai reso conto.
– Non è una cosa che possiamo reprimere, per
quanto ci sforziamo. Anzi, piú cerchiamo di controllarci, piú
l’emozione si concentra negli occhi. Ma è una cosa che spesso chi
ci guarda non percepisce, a meno di non osservarci molto
attentamente. È probabile che di solito passi inosservata.
– Lei però l’ha notata.
– Cogliere l’espressione della gente è il mio
mestiere.
Menshiki rifletté un momento sulle mie
parole.
– Dunque Marie e io abbiamo questo tratto in
comune, – riprese. – Tuttavia neppure lei sa dire se siamo padre e
figlia?
– Quando guardo una persona, in quanto pittore
ne traggo alcune impressioni che per me sono molto importanti. Ma
c’è una bella differenza tra un’impressione, percepita in un’ottica
artistica, e la realtà oggettiva. Un’impressione non è
necessariamente esatta. Ha tanta utilità pratica quanto una
farfalla in balia del vento. Detto ciò, lei che idea si è fatto? Ha
provato qualche emozione particolare, davanti a quella
bambina?
Menshiki scosse piú volte la testa.
– Non lo so. L’ho incontrata per la prima
volta poco fa. E per pochi minuti. Ho bisogno di piú tempo. Devo
abituarmi a stare con lei…
A quel punto Menshiki tacque e di nuovo scosse
leggermente il capo. Infilò le mani nelle tasche della giacca, come
se cercasse qualcosa, le tirò fuori… sembrava non sapere nemmeno
lui cosa vi cercasse.
– No, credo che il problema si ripresenterà
ogni volta, – proseguí. – Anzi, piú la vedrò, piú la mia confusione
aumenterà, ed è probabile che alla fine non giunga ad alcun
risultato. Continuerò a pensare che Marie forse è mia figlia, e
forse no. E che in ogni caso non ha importanza. Davanti a quella
ragazzina, al solo pensiero che potrei essere suo padre, anche solo
a immaginarlo, sento il sangue scorrermi piú velocemente attraverso
tutto il corpo. Sa, può darsi che fino ad ora non abbia mai capito
il vero senso della vita…
Rimasi in silenzio. Riguardo ai moti del suo
cuore, e ai suoi dilemmi sul senso della vita, non avevo commenti
da fare. Menshiki gettò un’occhiata al suo lussuoso orologio e si
alzò in modo stranamente impacciato dal divano.
– La devo ringraziare, – disse. – Se non ci
fosse stato lei a sostenermi, da solo non ce l’avrei fatta.
Senza aggiungere altro, si diresse con passo
malfermo verso l’ingresso, impiegò parecchio tempo a infilarsi le
scarpe e ad allacciarle, poi uscí. In piedi davanti alla porta di
casa, lo guardai salire in macchina e andarsene. Quando la Jaguar
scomparve alla vista, tutt’intorno calò di nuovo la quiete di quel
pomeriggio domenicale.
L’orologio segnava qualche minuto dopo le due.
Ero esausto. Andai a prendere nell’armadio una vecchia coperta, mi
sdraiai sul divano mettendomela addosso e dormii un po’. Quando mi
svegliai, erano passate da poco le tre. I raggi del sole che
entravano nella stanza non si erano spostati di molto. Che strana
giornata! Non riuscivo a capire se stessi avanzando,
indietreggiando o girando in tondo. Mi sembrava di aver perso del
tutto il senso dell’orientamento. Le due Akikawa, e Menshiki.
Ognuno dei tre possedeva a modo suo un forte, particolare
magnetismo. E io, che di magnetismo non ne avevo neanche un po’, mi
trovavo in mezzo a loro, accerchiato.
La domenica però non era terminata, anche se
ero stanco. Erano solo le tre. Il sole era ancora alto. Prima che
la giornata finisse e arrivasse il lunedí, dovevano passare ancora
diverse ore. Eppure non avevo voglia di fare niente. Quel breve
sonno non era servito a dissolvere l’intorpidimento che mi
offuscava la testa. Mi sentivo come un vecchio gomitolo di lana
schiacciato in fondo al cassetto di una scrivania. Qualcuno mi
aveva infilato a forza lí dentro. Col risultato che il cassetto non
si chiudeva completamente. Nelle giornate cosí, forse avrei fatto
bene anch’io a misurare la pressione delle gomme. È quello che
dovrebbero fare tutti, quando si sentono tanto fiacchi.
A pensarci bene, però, mi resi conto che non
avevo mai eseguito quell’operazione in vita mia, nemmeno una volta.
Al massimo, quando a una stazione di servizio il benzinaio mi aveva
detto: «Guardi che ci sarebbe da controllare la pressione dei
pneumatici, sa?», gli avevo chiesto di farlo. Ovviamente lo
strumento per misurarla da solo non lo possedevo. Non sapevo
neanche che forma avesse. Non doveva essere molto grande, se lo si
poteva mettere nel cassetto portaoggetti della macchina. Né doveva
costare tanto da richiedere un pagamento a rate. Decisi che in
futuro l’avrei comprato, tanto per provare.
Quando nella stanza calò il buio, andai in
cucina e iniziai a preparare la cena mentre bevevo una lattina di
birra. Misi nel forno un trancio di ricciola marinata nel
kasu, tagliai degli tsukemono3,
preparai un’insalata di cetrioli e alghe sott’aceto, una zuppa di
miso con la rapa. Mangiai ogni cosa da
solo, in silenzio. Non avevo nessuno con cui parlare, né mi veniva
in mente qualcosa da raccontare. Stavo finendo quel semplice pasto
solitario, quando suonò il campanello. Chissà perché, sembrava che
la gente si divertisse a suonare il campanello di casa mia proprio
quando stavo per finire di mangiare.
La giornata non è ancora terminata, pensai.
Avevo il presentimento che quella domenica sarebbe stata molto
lunga. Mi alzai da tavola e mi diressi lentamente verso
l’entrata.
1. Nelle
case giapponesi non si entra con le scarpe, le si lascia
nell’ingresso e si mettono delle pantofole a disposizione degli
ospiti.
2. In
Giappone si guida a sinistra, quindi nelle automobili il posto di
guida è a destra.
3.
Kasu: residui della produzione del
sakè; tsukemono: ortaggi e frutti in
salamoia, usati come contorno.