Capitolo quarantacinquesimo
Qualcosa stava per accadere
Dei due lavori che stavo portando avanti
contemporaneamente, terminai per primo La
buca in mezzo al bosco. Lo finii il venerdí, poco dopo
mezzogiorno. La cosa strana, con i quadri, è che piú si avvicinano
al compimento, piú acquisiscono volontà, punto di vista ed
espressività propri. E quando viene il momento, dicono al pittore
che si deve fermare, che l’opera è pronta (per lo meno è quello che
succede a me). Un ipotetico osservatore che assista alla creazione
non può capire quando il quadro si può davvero considerare finito.
Nella maggior parte dei casi, la linea di demarcazione non è
percepibile. Solo il pittore la sente. L’opera gli parla, gli dice:
«Stop, non aggiungere altro». Quindi basta prestare attenzione alla
sua voce.
Con La buca in mezzo al
bosco accadde la stessa cosa. A un certo punto il dipinto
raggiunse la perfezione e non mi permise piú di toccarlo. Come una
donna sessualmente soddisfatta. Tolsi la tela dal cavalletto e la
posai sul pavimento, appoggiata alla parete. Poi mi sedetti a terra
anch’io e la guardai a lungo: una buca a metà coperta di
assi.
Perché tutt’a un tratto mi era venuta voglia
di raffigurarla? Non riuscivo a comprendere né il significato né lo
scopo di quel lavoro. Sapevo solo che un bel giorno non avevo
potuto resistere al desiderio di dipingere un quadro intitolato
La buca in mezzo al bosco. Non c’era
altro da dire. Sono cose che a volte mi succedono. Quando qualcosa
− un paesaggio, un oggetto, una persona − mi attira, semplicemente
prendo i pennelli e inizio a raffigurarlo su una tela. Senza una
ragione né un obiettivo particolare. Una velleità, diciamo.
Eppure quella volta non era andata cosí. Non
si trattava solo di uno sfizio. Nel dipingere quel quadro avevo
cercato qualcosa. Cercato intensamente. Mi ero messo al lavoro in
preda a un forte impulso creativo, e in poco tempo avevo completato
l’opera, come se qualcuno avesse continuato a pungolarmi nella
schiena. A meno che quel quadro avesse una sua volontà e si fosse
servito di me per farsi dipingere − con chissà quale intenzione.
Come Menshiki, che mi aveva chiesto di fargli il ritratto con una
sua idea in testa (forse).
Obiettivamente, non era un brutto quadro. Non
ero in grado di giudicare se lo si potesse davvero definire
un’opera d’arte (non per giustificarmi, ma non era per creare
un’opera d’arte che avevo deciso di dipingerlo). Tecnicamente però
non gli si potevano trovare difetti. La composizione era perfetta,
ogni cosa − la luce del sole che filtrava fra gli alberi, il colore
delle foglie morte ammucchiate a terra − era ricreata in modo molto
realistico. Inoltre, benché avesse la precisione di una fotografia,
possedeva un’aura simbolica e misteriosa.
Mentre contemplavo quell’opera terminata da
poco, finii col percepirvi un presagio di movimento. Un osservatore
superficiale vi avrebbe visto un semplice, concretissimo paesaggio
che raffigurava una buca in un bosco, come diceva il titolo. Anzi,
piú che raffigurarla, la riproduceva. Sí, questa interpretazione
era piú vicina alla verità. Forte della mia lunga, ininterrotta
carriera di pittore professionista, servendomi di una tecnica che
ormai padroneggiavo, avevo riprodotto sulla tela, il piú fedelmente
possibile, un paesaggio. L’avevo fotografato, piú che
dipinto.
Eppure presentivo in quel quadro uno sviluppo.
Da un momento all’altro qualcosa stava per accadere, stava per
iniziare, lí dentro − lo percepivo con estrema intensità. E
finalmente compresi! Il mio presentimento era il segno che stavo
per dipingere qualcos’altro in quella scena, o che un’entità di
natura indefinita mi spingeva a farlo.
Mi sedetti meglio, e di nuovo la
osservai.
Che genere di sviluppo poteva mai prodursi a
quel punto? Qualcuno o qualcosa sarebbe venuto fuori strisciando da
quella buca buia, rotonda, aperta a metà? O al contrario vi sarebbe
sceso? Mi concentrai a lungo, ma dalla scena in sé non riuscii a
trarre nessuna indicazione. Sempre e solo quello stesso, forte
presentimento.
Allora perché, a che scopo, la buca aveva
voluto essere raffigurata da me? Forse cercava di insegnarmi
qualcosa? Oppure mettermi in guardia? Era un vero enigma. Anzi, gli
enigmi erano tanti, ma di soluzioni non ne trovavo nemmeno una.
Pensai di mostrare il quadro a Marie e chiederle cosa ne pensasse.
Forse vi avrebbe colto un indizio che a me sfuggiva.
Il venerdí, per me era giorno di lezione alla
scuola di disegno vicino alla stazione di Odawara. Tenevo il corso
cui partecipava Akikawa Marie. Forse, al termine dell’ora, avrei
potuto parlarle. Andai in città in macchina.
Dopo aver parcheggiato, mi restava ancora del
tempo. Come sempre, prima di iniziare presi un caffè. Non in un
locale asettico e molto illuminato come Starbucks, ma in un posto
che si trovava in una stradina laterale, aperto tanti anni prima da
un uomo anziano. Il caffè era forte e scuro, e veniva servito in
tazze terribilmente pesanti. La musica che arrivava dai vecchi
altoparlanti era jazz d’altri tempi. Billy Holiday e Clifford
Brown. Quando uscii dal locale, mentre bighellonavo in una via
affollata, mi ricordai che non avevo quasi piú filtri per la
caffettiera e ne comprai un pacchetto. Poi trovai un negozio che
vendeva dischi usati, entrai e passai un po’ di tempo a guardare
vecchi lp. A pensarci bene, erano mesi che ascoltavo soltanto
musica classica. Sugli scaffali di Amada Tomohiko non ce n’era
altra. Quanto alla radio, sentivo esclusivamente i notiziari e le
previsioni del tempo, sulle frequenze a onde medie (a causa della
configurazione del terreno, la modulazione di frequenza non
prendeva).
La mia collezione di cd e lp − niente di che −
l’avevo lasciata nell’appartamento di Hiroo. Per evitare la
seccatura di dividere uno per uno dischi, libri… le cose che
appartenevano a me da quelle che appartenevano a Yuzu. D’altronde
era quasi impossibile. Ad esempio, Nashville
Skyline di Bob Dylan era suo o mio? E l’album dei Doors con
Alabama Song chi l’aveva comprato, e
che importanza poteva avere ormai? Quella musica per un certo
periodo era appartenuta a entrambi, l’avevamo ascoltata insieme,
giorno dopo giorno, nella nostra vita quotidiana. Anche supponendo
che fosse possibile dividere gli oggetti, come avremmo potuto
separare i ricordi che vi erano legati? No, non restava che
lasciarsi tutto alle spalle.
In quel negozio cercai Nashville Skyline e il primo album dei Doors, ma
non trovai né l’uno né l’altro. Probabilmente avrei potuto comprare
i cd, ma quel genere di musica la volevo ascoltare su vecchi lp.
Tanto piú che a casa di Amada Tomohiko un lettore di cd non c’era.
E nemmeno un registratore. Solo un paio di giradischi. Amada
sembrava essere il tipo d’uomo che aborriva ogni genere di
apparecchio moderno. Probabile che si fosse sempre tenuto a
distanza di sicurezza da un forno a microonde.
In quel negozio finii col comprare due lp:
The River di Bruce Springsteen e un
disco di Roberta Flack e Donny Hathaway. Entrambi non li ascoltavo
da molto tempo, perché a un certo punto avevo smesso di
interessarmi alla musica contemporanea e sentivo sempre gli stessi
vecchi dischi. Con i libri era uguale, leggevo e rileggevo quelli
che mi erano piaciuti anni prima. I libri pubblicati di recente non
mi attiravano. Come se il tempo a un certo punto si fosse
fermato.
Chissà, forse si era fermato veramente? Oppure
si muoveva a fatica, senza piú avanzare? Come un ristorante non
accetta piú clienti poco prima dell’ora di chiusura? Peccato che
io, soltanto io, non me ne fossi ancora accorto.
Chiesi di mettermi i due dischi in una busta
di carta e pagai in contanti. Poi passai da un rivenditore di
bevande alcoliche e comprai una bottiglia di whisky. Esitai un po’
sulla marca, ma finii per scegliere un Chivas Regal. Era un po’ piú
caro degli altri whisky scozzesi, ma avrebbe fatto piacere a
Masahiko la prossima volta che fosse venuto a trovarmi.
Quando venne l’ora della lezione, lasciai i
dischi, il pacchetto dei filtri e la bottiglia di whisky in
macchina ed entrai nel palazzo dove aveva sede la scuola. Il corso
per i bambini, quello cui partecipava Akikawa Marie, era il primo,
iniziava alle cinque. Però in classe lei non c’era. Era
un’eventualità che non avevo previsto. Tanto per cominciare, Marie
seguiva quelle lezioni con passione, e non ricordavo che fosse mai
stata assente. Non vederla al suo posto quindi mi mise un po’ in
ansia. Mi parve un brutto segno. Cosa le era successo? Si era
improvvisamente sentita male, le era capitato qualcosa?
Naturalmente non mostrai la mia sorpresa,
assegnai ai miei allievi un compito facile, poi a ciascuno di loro
diedi qualche consiglio e feci qualche considerazione sul disegno
appena eseguito; terminata la lezione i bambini tornarono a casa,
iniziò quella per gli adulti. Anche quell’ora passò senza problemi.
Chiacchierai del piú e del meno con diverse persone (non è qualcosa
per cui io sia particolarmente dotato, ma se devo, lo faccio). Alla
fine andai a parlare brevemente del programma col direttore della
scuola. Neanche lui sapeva perché Akikawa Marie quel giorno fosse
assente. Nessuno dei suoi famigliari aveva chiamato.
Uscito dalla scuola, entrai in un ristorante
di soba nelle vicinanze e mangiai
soba caldi con tenpura. Anche questa era un’abitudine. Andavo
sempre nello stesso ristorante e ordinavo sempre soba con tenpura. Era
uno dei miei piccoli riti. Poi me ne tornai in macchina alla casa
sui monti. Quando rientrai, erano già quasi le nove di sera.
Dato che il telefono non era dotato di una
segreteria (anche una semplice novità come quella non doveva essere
gradita ad Amada Tomohiko), non potevo sapere chi avesse chiamato
in mia assenza. Rimasi a lungo a guardare quell’apparecchio
obsoleto, ma non ne ricavai alcuna informazione. Se ne stava
ostinatamente chiuso nel suo silenzio, nero come la pece.
Feci un lungo bagno che mi scaldò. Dopodiché
versai in un bicchiere quel dito di whisky che restava nella
vecchia bottiglia, vi aggiunsi due pezzi di ghiaccio, e mi spostai
in soggiorno. Misi sul piatto dello stereo uno dei dischi che avevo
appena comprato. Sentire musica non classica nel soggiorno di
quella casa, all’inizio mi fece uno strano effetto, mi pareva
qualcosa di inappropriato. L’atmosfera di quella stanza aveva
verosimilmente assorbito le armonie che vi erano risuonate per
tanti anni. Ora stavo ascoltando la musica che mi era familiare,
però, quindi col passare dei minuti la nostalgia poco per volta
prevalse sul senso di disagio. Finché cominciai a provare la
piacevole sensazione che ogni mio muscolo si rilassasse.
Probabilmente non mi ero reso conto di quanto fossi teso.
Il lato A del disco di Roberta Flack e Donny
Hathaway finí. Lo voltai, e mentre ascoltavo sorseggiando il mio
whisky il primo brano del lato B (For All We
Know, una canzone bellissima), squillò il telefono. Le
lancette dell’orologio segnavano le dieci e mezzo. Strano che
qualcuno mi chiamasse a quell’ora di sera. Non avevo molta voglia
di rispondere. Però in quegli squilli sentivo una nota di urgenza.
Posai il bicchiere, mi alzai, tolsi la puntina dal disco per
rimetterla sulla sua forcella, sollevai il ricevitore.
– Pronto? – fece la voce di Akikawa
Shōko.
La salutai.
– Mi scusi per l’ora, – disse lei. Nella sua
voce percepivo un certo allarme. – Volevo solo chiederle una cosa,
Marie oggi non è venuta a lezione, vero?
No, le dissi, era assente. La sua domanda mi
aveva un po’ sorpreso. Marie arrivava al corso di disegno
direttamente da scuola (una scuola media pubblica), infatti
indossava sempre l’uniforme. E dopo il corso ogni volta la zia
veniva a prenderla in macchina e tornavano a casa insieme. Era una
loro routine.
– Marie è scomparsa, – disse Shōko.
– Come, è scomparsa?
– Non la trovo da nessuna parte.
– Ma da quand’è che non la vede? –
domandai.
– Stamattina è uscita di casa come al solito,
dicendo che andava a scuola. Mi sono offerta di portarla in
macchina alla stazione del treno, ma mi ha risposto che preferiva
andare a piedi. A Marie camminare piace. Andare in macchina invece
no, la porto solo quando rischia di fare tardi. Altrimenti scende a
piedi fino alla fermata dell’autobus che va alla stazione.
Stamattina è uscita di casa alle sette e mezzo, come ogni
giorno.
Shōko fece questo resoconto tutto d’un fiato,
poi tacque per qualche secondo. Sentivo che cercava di placare
l’affanno. Anch’io nel frattempo provai a mettere ordine nelle
informazioni che mi aveva appena dato.
– Oggi è venerdí, – riprese Shōko. – Il
venerdí, quando esce da scuola, di solito si reca direttamente al
corso di disegno. E alla fine della lezione io passo a prenderla in
macchina. Oggi però mi ha detto che non era necessario, che sarebbe
tornata con l’autobus. Quindi non sono andata. Tanto sollevare
obiezioni non serve a nulla, con Marie, perché fa sempre di testa
sua. Quando torna con l’autobus, di solito è a casa tra le sette e
le sette e mezzo. In tempo per cenare, insomma. Oggi invece ho
aspettato fino alle otto, alle otto e mezzo… niente, non tornava.
Allora ho cominciato a preoccuparmi e ho telefonato alla scuola di
disegno, per chiedere se Marie nel pomeriggio fosse veramente
andata a lezione. La segretaria mi ha detto di no, Marie non si era
vista. A quel punto sono entrata nel panico. Ormai sono le dieci e
mezzo passate e non è ancora tornata a casa. Non sapevo a chi
rivolgermi, poi mi è venuto in mente di chiedere a lei, magari lei
può dirmi qualcosa. Per questo la chiamo a quest’ora…
– Io però non lo so, dove potrebbe trovarsi
Marie, non ne ho la minima idea, – dissi. – Oggi, quando non l’ho
vista in classe, sono rimasto un po’ sorpreso perché finora non ha
mai saltato una lezione, ma non saprei dirle altro.
Shōko fece un profondo sospiro.
– Mio fratello non è ancora rientrato, e
chissà quando arriverà, – disse. – Non so dove raggiungerlo, non
sono nemmeno sicura che stasera venga a dormire a casa. Sono qui
sola, completamente disorientata, e non so cosa fare.
– Stamattina Marie, quando è uscita, indossava
i vestiti che mette per andare a scuola?
– Sí, l’uniforme scolastica. Una giacca e una
gonna. E la cartella a tracolla. Come tutti i giorni. Però non sono
sicura che a scuola ci sia andata davvero. Ormai è tardi per
controllare, non c’è nessuno. Ma se non l’avessero vista mi
avrebbero chiamato. Anche di soldi, credo che avesse solo quelli
che le servivano per oggi. Ha un cellulare, ma è spento. A lei non
piace, il cellulare. Lo accende solo quando ha bisogno di
telefonare. Sapesse quante volte le ho detto che dovrebbe tenerlo
acceso, nel caso le succeda qualcosa, un incidente…
– Ma una cosa come questa di oggi non era mai
accaduta? Non è mai tornata tardi, la sera?
– No, assolutamente, è la prima volta. Marie è
un’allieva molto scrupolosa e diligente, da sempre. Non che nella
classe abbia delle buone amiche, o che la scuola le piaccia poi
molto, ma se deve fare una cosa, la fa coscienziosamente. Lei è
cosí. Alle elementari ha ricevuto il premio di frequenza. In questo
senso è una bambina molto corretta. E alla fine delle lezioni,
torna sempre direttamente a casa. Non se ne va in giro a perdere
tempo.
In realtà la sera Marie sgattaiolava fuori
spesso, ma a quanto pareva sua zia non se n’era mai accorta.
– E stamattina non ha notato nulla di strano,
di diverso dal solito?
– No, niente. Era come sempre, in tutto e per
tutto. Ha bevuto del latte caldo, mangiato una fetta di pane
tostato, ed è uscita di casa. Salutando appena, poche parole, come
ogni mattina. Come fa sempre, d’altronde. Ogni tanto le succede di
mettersi a parlare e non smettere piú, ma in genere è già molto se
risponde.
Mentre ascoltavo Shōko, sentivo crescere
l’inquietudine. Ormai erano quasi le undici e fuori era buio pesto,
la luna era nascosta dietro le nuvole. Cosa diavolo era successo a
Marie?
– Aspetto ancora un’ora, poi avverto la
polizia, – disse Shōko.
– Sí, forse è meglio. Se pensa che io possa
fare qualcosa, mi chiami, non si faccia scrupoli. A qualsiasi
ora.
Shōko mi ringraziò e riagganciò. Io finii di
bere in un sorso il mio whisky e portai il bicchiere in
cucina.
Poi andai nell’atelier. Accesi tutte le luci
nella stanza, mi sedetti sullo sgabello e nuovamente osservai il
quadro posato sul cavalletto: Ritratto di
Akikawa Marie. Ormai non ci voleva molto per terminarlo. La
figura di quella tredicenne taciturna, tutto ciò che se ne poteva
tratteggiare, grosso modo era sulla tela. Il quadro, oltre a
mostrare il suo aspetto fisico, conteneva anche alcune
caratteristiche inerenti alla sua personalità, non percepibili alla
vista. Rivelare le informazioni nascoste oltre i limiti della
visione, trasmetterne il messaggio in forma diversa: ecco il genere
di opera che desideravo creare. Qualcosa di molto lontano da un
ritratto su commissione. In questo senso Akikawa Marie, come
modella, era di estremo interesse. Nella sua figura la maggior
parte delle suggestioni erano celate, come in un’illusione ottica.
Peccato che da quella mattina fosse scomparsa. Avevo quasi
l’impressione che fosse stata risucchiata all’interno del suo
ritratto.
A quel punto spostai lo sguardo sulla
Buca in mezzo al bosco, appoggiato
alla parete. Il dipinto a olio che avevo appena terminato. In un
altro senso, da una direzione diversa, anche quell’opera sembrava
parlarmi.
Di nuovo, guardandolo, provai la sensazione
che stesse per accadere qualcosa. Quello che per tutta la giornata
era stato solo un presentimento, aveva iniziato a erodere la
realtà. Si stava già trasformando in evento reale. Il fatto che
Marie non si trovasse piú era in qualche modo legato a quel quadro,
La buca in mezzo al bosco. Me lo
sentivo. Terminandolo, quel pomeriggio, avevo risvegliato e messo
in moto qualcosa. Il risultato era la scomparsa di Marie.
Non era però una spiegazione che potessi dare
ad Akikawa Shōko. Se gliene avessi parlato, sarei solo riuscito a
confonderla e turbarla inutilmente.
Uscii dall’atelier, andai in cucina e bevvi
diversi bicchieri d’acqua per togliermi dalla bocca il gusto del
whisky. Poi alzai la cornetta del telefono e feci il numero di casa
di Menshiki. Rispose al terzo squillo. Dalla leggera tensione che
percepii nella sua voce, mi resi conto che era in attesa di qualche
notizia importante. Mi parve un po’ stupito che a chiamarlo fossi
io, ma subito si rilassò e ritrovò la solita calma.
– Mi scusi se la disturbo a quest’ora, – gli
dissi.
– Non fa nulla, non si preoccupi. Tanto vado
sempre a dormire tardi, non sono tenuto a rispettare un orario. Mi
fa piacere sentirla.
Saltando i convenevoli, gli annunciai che
Marie era scomparsa e gli raccontai brevemente i fatti: il mattino
era uscita di casa dicendo che andava a scuola, ma non era ancora
tornata. Non era neanche venuta alla mia lezione di disegno.
Menshiki sembrò molto sorpreso. Per qualche secondo rimase senza
parole.
– Ma lei non ha alcuna idea di dove possa
essere finita? – mi chiese poi.
– Assolutamente nessuna, – gli risposi. –
Casco dalle nuvole. Lei?
– No, non mi viene in mente nulla, si figuri!
Marie non parla quasi, con me.
Nella sua voce non c’era traccia di emozione.
Esponeva semplicemente i fatti cosí come stavano.
– È una bambina taciturna per carattere, non
parla quasi con nessuno, – gli dissi. – Comunque, non è a casa, a
quest’ora di notte. La zia è sconvolta. Il padre della bambina non
è ancora rientrato e lei non sa cosa fare, da sola.
Di nuovo Menshiki rimase qualche secondo in
silenzio. Per quanto ricordavo, non era mai successo che a piú
riprese ammutolisse.
– Pensa che io possa essere d’aiuto in qualche
modo? – mi chiese alla fine.
– Mi scusi per la richiesta estemporanea, ma
potrebbe venire qui, adesso?
– A casa sua?
– Sí. In relazione a questo fatto che è
accaduto, vorrei parlarle di una cosa.
Menshiki fece un pausa. Poi disse:
– D’accordo. Arrivo subito.
– Spero di non aver interrotto nulla di
importante.
– No. Niente che non possa essere rimandato, –
mi rispose Menshiki. Si schiarí la gola. Lo immaginai mentre
gettava un’occhiata all’orologio. – Sarò da lei fra un quarto
d’ora.
Misi giú il telefono e mi preparai a uscire.
Indossai una maglia e il giubbotto di pelle, e tenni la torcia
elettrica a portata di mano. Dopodiché mi sedetti sul divano e
attesi di sentir arrivare la Jaguar.