Capitolo cinquantaduesimo
Un uomo con un berretto a cono arancione
Era davanti a me, come Amada Tomohiko l’aveva dipinto nel quadro, in basso a sinistra. Faccialunga sporgeva il viso da una botola in un angolo della stanza e, tenendo sollevato il coperchio quadrato, si guardava attorno furtivamente. Aveva lunghi capelli arruffati e una barba nera che gli copriva metà del volto, quel suo volto lungo e stretto come una melanzana storta. Il mento era sfuggente, gli occhi tondi e stranamente grandi, il naso largo e piatto. Solo le labbra, chissà perché, erano rosse come un frutto maturo. Di corporatura non era grande, al contrario, ma era ben proporzionato. Sembrava la copia in scala ridotta di un essere umano, come il Commendatore.
A differenza del personaggio dipinto nel quadro, aveva un’espressione di profondo stupore mentre guardava attonito il Commendatore ormai cadavere. Probabilmente non credeva alla scena che aveva davanti agli occhi, era a bocca aperta. Non sapevo da quanto tempo fosse lí in quella posizione. Concentrato a uccidere il Commendatore, tenendo d’occhio al tempo stesso le reazioni di Amada, non mi ero accorto della presenza di qualcuno in un angolo della stanza. Quello strano uomo però aveva di sicuro visto tutto, dall’inizio alla fine. Perché questo aveva dipinto nel suo quadro Amada Tomohiko.
Sulla tela Faccialunga, bloccato in una posa statica, non accennava a fare movimenti. Come se fosse pietrificato. Cosí provai a muovermi io, con prudenza. Nessuna reazione da parte sua. Con una mano continuava a tenere il coperchio della botola sollevato e guardava il Commendatore con gli occhi spalancati. Non lo vidi neanche battere le ciglia.
Poco per volta allentai la tensione dei muscoli e mi rilassai, poi feci qualche passo verso di lui, in modo da spezzare la composizione della scena allontanandomi dal punto in cui mi trovavo. Il coltello sporco di sangue in mano, avanzai a passi felpati, come un gatto, con infinita cautela. Volevo a tutti i costi evitare che Faccialunga si rifugiasse di nuovo sottoterra. Per salvare Akikawa Marie, per ricreare la scena del quadro e far uscire dal sottosuolo quell’uomo, il Commendatore aveva donato la sua vita. Il suo sacrificio non doveva essere vano.
Tuttavia, come ottenere da Faccialunga informazioni riguardo a Marie? Non sapevo da dove cominciare. Che rapporto c’era tra quel personaggio e la scomparsa di Marie, chi era lui in realtà? Non ne avevo la minima idea. Le informazioni su Faccialunga che mi aveva dato il Commendatore erano piú un enigma che dati certi. In ogni caso, non dovevo lasciarmelo scappare. A tutto il resto avrei pensato dopo.
Il coperchio della botola misurava circa sessanta centimetri di lato. Come il pavimento della stanza, era di linoleum verde. Una volta chiuso, sicuramente non lo si distingueva dal suolo. Anzi, era probabile che la botola stessa scomparisse.
Pur vedendo che mi avvicinavo, Faccialunga non si muoveva. Sembrava letteralmente pietrificato, come un gatto paralizzato in mezzo alla strada dai fari di un’automobile. Poteva anche darsi che avesse ricevuto il compito di mantenere il piú a lungo possibile, senza alterazioni, la composizione della scena. Comunque fosse, la sua immobilità in quel momento per me era una fortuna. Perché altrimenti, vedendomi avvicinare e rendendosi conto di essere in pericolo, sarebbe scappato subito sottoterra. E quella botola, una volta chiusa, non si sarebbe riaperta mai piú.
Girai lentamente alle spalle di Faccialunga, posai il coltello a lato della botola, protesi fulmineo le mani e lo afferrai per il colletto. Indossava abiti scuri, piuttosto aderenti. Una rozza tenuta da lavoro, fatta di un tessuto molto diverso da quello dell’elegante veste del Commendatore. Al tatto era molto ruvida ed era rattoppata in piú punti.
Sentendosi preso per il colletto, Faccialunga di colpo si riscosse e uscí dal suo stato di paralisi, si dimenò freneticamente, cercando di rifugiarsi dentro la buca. Io però lo tenevo con tutte le mie forze e non lo mollai. Non potevo permettergli di fuggire, qualunque cosa succedesse. Con uno sforzo immane cercai di trascinarlo fuori. Lui oppose una resistenza disperata. Si irrigidí tutto, le mani puntate contro il bordo della buca. Era molto piú forte di quanto avessi pensato. Provò persino a mordermi le dita. Non sapendo cos’altro fare, gli sbattei violentemente la testa contro lo spigolo della botola. Una, due volte, osservando bene la sua reazione. Al secondo colpo Faccialunga svenne, le forze improvvisamente lo abbandonarono. Cosí potei finalmente tirarlo fuori di lí, e portarlo alla luce del sole.
Era un poco piú alto del Commendatore. Piú o meno tra i settanta e gli ottanta centimetri. Indossava abiti pratici, quelli che mettono i contadini per lavorare nei campi, o gli inservienti per pulire il giardino. Una casacca ruvida e ampi pantaloni di cotone stampato simili ai monpen. Intorno ai fianchi aveva una specie di cintura di corda. Era a piedi nudi. Forse le scarpe non le metteva mai, perché aveva la pianta dei piedi indurita e spessa, nera di sporcizia. I capelli lunghi non erano stati lavati da un pezzo, e non sembravano conoscere il pettine. La metà inferiore della faccia era nascosta da una barba nera. L’altra metà aveva un colorito livido, segno che quell’uomo non doveva godere di buona salute. Stranamente però non puzzava, benché non una sola parte del suo corpo fosse pulita.
Dall’aspetto esteriore, dedussi che doveva trattarsi di un uomo rozzo, appartenente allo strato sociale piú basso, mentre il Commendatore era un membro della classe nobile del tempo. Nell’epoca Azuka la gente del popolo probabilmente aveva proprio quell’aria lí. Oppure era cosí che Amada Tomohiko si era immaginato «la gente del popolo all’epoca Azuka». Ma non aveva la minima importanza. Ciò che dovevo fare io, seduta stante, era ottenere da quell’uomo dalla faccia strana informazioni riguardo alla scomparsa di Marie.
Lo distesi prono, presi la cintura di un accappatoio appeso poco distante, e gli legai strettamente le mani dietro la schiena. Poi trascinai il suo corpo inerte al centro della stanza. Non era pesante, viste le dimensioni. Piú o meno quanto un cane di taglia media. Staccai il cordone che tratteneva le tende della finestra e lo usai per legargli un piede alla gamba del letto. Cosí, quando fosse rinvenuto, non avrebbe potuto rifugiarsi nella botola.
Catturato e disteso per terra, privo di conoscenza, inondato dalla luce del sole pomeridiano, Faccialunga faceva davvero pena, poveraccio. Mentre si sporgeva da quella buca buia e osservava la scena, controllando le mie mosse, aveva un’aria sinistra, ma in pochi istanti l’aveva persa. Guardandolo da vicino, pensai che non sembrava un essere pericoloso e malevolo. Anzi, nel suo aspetto c’era persino un accenno di stolida onestà. Inoltre doveva essere molto schivo. Il genere di persona che non ha progetti e giudizi propri, ma esegue pedestremente gli ordini impartiti dai superiori.
In Amada Tomohiko, sempre supino sul letto, non si notava la minima alterazione. Teneva gli occhi chiusi ed era perfettamente immobile, al punto che era difficile capire se fosse ancora vivo. Avvicinai l’orecchio a pochi centimetri dalla sua bocca. Prestando molta attenzione, riuscii a sentire, molto flebile, il sibilo del suo respiro, lontano come l’eco del mare. Non aveva lasciato questo mondo. Era soltanto immerso nella serenità del coma profondo. Dopo essermene assicurato, provai un senso di sollievo. Non ci sarebbe mancato altro che morisse mentre Masahiko non c’era! Il suo viso ora aveva un’espressione placida, addirittura soddisfatta, si sarebbe detto. Dopo avermi visto con i suoi occhi trafiggere il Commendatore (o l’uomo che secondo lui andava ucciso), era forse riuscito a liberarsi, finalmente, di un pensiero ossessivo.
Il corpo del Commendatore era sempre accasciato sulla poltroncina rivestita di stoffa, nella stessa posizione. Gli occhi erano aperti, dentro la bocca socchiusa si intravedeva la lingua immobile. Dal cuore gli fuoriusciva ancora sangue, ma meno abbondante di prima. Gli presi la mano destra: era molle, inerte. Conservava ancora un po’ di calore, ma la pelle dava già una sensazione di rigidità. Di quel distacco che assume la vita quando si trasforma progressivamente nel suo contrario. Provai il desiderio di ricomporre amorevolmente quel corpo, di adagiarlo in una bara adatta alle sue dimensioni. Una piccola bara destinata a un bambino, che sarei poi andato a deporre con riguardo nella cripta dietro il tempietto. In modo che nessuno potesse piú disturbarlo. In quel momento però la sola cosa che potessi fare era chiudergli delicatamente le palpebre.
Non mi restava che sedermi ad aspettare che Faccialunga tornasse in sé. Fuori dalla finestra l’oceano luccicava abbagliante sotto i raggi del sole. Alcuni pescherecci erano ancora al largo. Un aereo argenteo attraversava il cielo diretto a sud, la fusoliera levigata splendente nella luce. Era un apparecchio dotato di quattro motori a elica e una lunga antenna sulla coda, un velivolo da ricognizione delle Forze di autodifesa, decollato dalla base di Atsugi per avvistare eventuali sommergibili. In quel sabato pomeriggio, ognuno si dedicava senza brontolare al proprio lavoro quotidiano. Quanto a me, nella camera di un lussuoso ricovero per anziani illuminato dal sole, avevo appena accoltellato il Commendatore, acciuffato Faccialunga che faceva capolino da una botola, e stavo cercando un’incantevole tredicenne scomparsa nel nulla. Il mondo è bello perché è vario.
Intanto Faccialunga tardava a svegliarsi. Piú volte controllai l’ora.
Se a quel punto fosse improvvisamente rientrato Masahiko, cos’avrebbe pensato di fronte a quella scena? Il Commendatore, assassinato, giaceva in un lago di sangue. Faccialunga, tirato fuori a forza dalla botola, era steso a terra. Entrambi erano alti meno di un metro e indossavano vesti di foggia antica. Quanto a suo padre Tomohiko, era in coma profondo, un sorriso soddisfatto sulle labbra. In un angolo della stanza si apriva una scura buca quadrata. Come avrei potuto spiegargli la serie di circostanze che avevano portato a quella situazione?
Naturalmente Masahiko non tornò. Come aveva detto il Commendatore, era impegnato in un’importante telefonata di lavoro. Doveva parlare al cellulare con qualcuno riguardo a non so quale faccenda. Chissà se anche quella telefonata era stata programmata in anticipo per evitare che io rischiassi di venire disturbato nel bel mezzo dell’azione? Intanto, sempre seduto, tenevo d’occhio Faccialunga. La botta contro lo spigolo della buca gli aveva provocato una temporanea commozione cerebrale. Non avrebbe impiegato molto tempo a riprendere conoscenza. Gli sarebbe rimasto un bel bernoccolo sulla fronte, ma niente di piú.
Finalmente tornò in sé. Si dimenò sul pavimento, pronunciò alcune parole sconnesse. Poi dischiuse leggermente gli occhi, come un bambino davanti a qualcosa che gli fa paura… qualcosa che deve guardare anche se non vorrebbe.
Scattai in piedi e andai a inginocchiarmi di fianco a lui.
– Non c’è tempo! – gli dissi guardandolo dall’alto. – Voglio sapere dov’è Akikawa Marie. Se me lo dici, ti slego subito e ti lascio tornare là sotto.
Gli indicai la botola aperta in un angolo della stanza. Non l’avevo richiusa. Non sapevo se il significato delle mie parole gli fosse chiaro o no, ma non potevo fare altro che parlargli sperando che mi capisse.
Invece di rispondere, Faccialunga scosse violentemente la testa, piú volte. Cosa voleva dire? Che non sapeva nulla? Che non comprendeva la mia lingua?
– Se non mi ubbidisci, ti uccido, – lo minacciai. – Hai visto che ho accoltellato il Commendatore? Uccidere una persona o due, non fa nessuna differenza per me.
Cosí dicendo, gli appoggiai il coltello macchiato di sangue contro la gola sporca. Pensai ai pescatori in mare aperto, agli aviatori. «Ognuno si dedicava senza brontolare al proprio lavoro». A me era toccato questo. Naturalmente non avevo intenzione di uccidere nessuno, ma la lama era affilata e ben reale. Faccialunga, per la paura, si contrasse tutto e si mise a tremare.
– Aspetti! – disse con voce roca. – Aspetti un momento, signore!
Pronunciava le parole in modo un po’ strano, ma si faceva capire. Allontanai appena appena il coltello dalla sua gola.
– Dov’è Akikawa Marie? – gli chiesi. – Lo sai?
– No, io non so nulla di questa persona. È la verità.
Lo guardai in silenzio negli occhi. Occhi grandi, espressivi. Ebbi la sensazione che fosse sincero.
– Allora cosa sei venuto a fare, qui?
– È il mio lavoro, devo vedere quello che succede e registrarlo. Per questo guardavo. È la verità.
– Cos’è che dovevi guardare, eh?
– Non lo so, signore, mi è stato ordinato di fare cosí, e cosí ho fatto.
– Ma chi sei, tu? Un tipo di idea?
– No, non sono un’idea. Sono una metafora.
– Una metafora?
– Sí. Una semplice, umile metafora. Il mio ruolo è soltanto collegare una cosa a un’altra. Quindi mi perdoni.
Nella mia testa si stava creando una gran confusione.
– Se sei davvero una metafora, prova a improvvisarne una. Dovresti riuscirci, no? – gli dissi.
– Ma io sono solo una povera metafora di basso rango. Non sono capace di inventarne una di categoria superiore.
– Non è necessario che sia di categoria superiore. Basta che sia una metafora.
Faccialunga ci pensò su per un bel po’. Poi declamò:
– Era uno che si notava. Come un uomo con un berretto a cono arancione in una strada affollata.
Non solo non era di categoria superiore! Tanto per cominciare, non era nemmeno una metafora.
– Non è una metafora, è una similitudine, – gli feci notare.
– Mi scusi, signore. Allora ci riprovo, – mi rispose Faccialunga, la cui fronte si stava coprendo di sudore.
– Lui viveva come se portasse un berretto a cono arancione in una strada affollata, – disse.
– Non si capisce niente, di questa frase. E non è una metafora vera e propria. Non mi convinci affatto, tu, come metafora. Non mi resta che ucciderti.
Per il terrore, a Faccialunga cominciarono a tremare le labbra. Con tutta la sua magnifica barba, era un fifone.
– Mi scusi. Sono ancora un apprendista. Non riesco a immaginare metafore brillanti. Le chiedo perdono. Però sono una metafora vera, genuina, mi creda.
– Ma c’è qualcuno gerarchicamente superiore a te, qualcuno che ti dà ordini?
– No, non c’è. Cioè forse sí, ma non l’ho mai visto. Io sono semplicemente al servizio della correlazione tra un fenomeno e il modo in cui viene espresso. Sono come una medusa inesperta in balia delle onde. Di conseguenza non mi uccida, signore, la prego. Mi perdoni.
– Ti posso anche perdonare, – gli dissi, senza allontanare il coltello dalla sua gola. – In cambio, però, ti chiedo di portarmi nel luogo dal quale sei venuto.
– No, questo non lo posso fare! – disse Faccialunga, opponendo per la prima volta un secco rifiuto. – La strada che ho preso per venire fin qui è una «via metaforica». Il percorso non è lo stesso per tutti, varia da persona a persona. Di conseguenza non mi è possibile condurla con me.
– Vuoi dire che devo trovare la via da solo? È cosí?
Faccialunga scosse la testa.
– No, signore, è troppo rischioso per lei prendere una strada riservata alle metafore. Se una persona vivente vi si addentra, basta che sbagli percorso una volta e rischia di finire in un mondo assurdo. Ci sono doppie metafore nascoste ovunque.
– Doppie metafore?
Faccialunga tremava.
– Sí. Stanno acquattate nelle tenebre, sono creature pericolosissime, vere e proprie criminali.
– Non importa, – dissi. – Tanto ci sono già dentro fino al collo, nell’assurdità. Un po’ piú o un po’ meno, per me non cambia nulla, non è piú una novità. Ho appena ucciso con le mie mani il Commendatore. Non voglio che la sua morte sia inutile.
– Allora mi rassegno. Mi permetta di darle un consiglio, però.
– Sí?
– Penso che lei dovrebbe portare con sé qualcosa per farsi luce. Perché percorrerà luoghi molto bui, signore. E sicuramente incontrerà un fiume. È un fiume metaforico, ma l’acqua è reale. La corrente è fredda e veloce, profonda. Non le sarebbe possibile raggiungere l’altra sponda senza una barca. Ne troverà una all’attracco.
– E dopo aver preso la barca e attraversato il fiume, cosa mi succederà? – chiesi.
Gli occhi di Faccialunga ebbero un lampo.
– Al di là del fiume c’è un mondo che fluttua al vento della correlazione, un mondo che si estende all’infinito. Non le resta che vederlo con i suoi occhi.
Andai fino al comodino accanto al letto dove giaceva Amada Tomohiko. Come avevo previsto, trovai una torcia elettrica. Per forza, una stanza in un istituto come quello doveva essere dotata di quel tipo di equipaggiamento, nel caso scoppiasse un incendio. Provai ad accenderla: funzionava, le batterie erano cariche. La presi e infilai il giubbotto di pelle che avevo lasciato sulla spalliera della sedia. Poi mi diressi verso la botola in un angolo della camera.
– La prego, – mi supplicò Faccialunga. – Non potrebbe disfare queste corde, per favore? Non mi lasci legato qui, sarei perduto.
– Se sei veramente una metafora, dovresti riuscire a liberarti facilmente. In ogni caso sei un concetto, un’idea, qualcosa del genere… figurati se non riesci a spostarti da un luogo all’altro come vuoi.
– Mi sta sopravvalutando, signore. Non sono dotato di facoltà cosí straordinarie. Sono le metafore di alto rango che possono essere chiamate concetti o idee.
– Quelle che portano un berretto a cono arancione?
Un’ombra passò sul viso di Faccialunga.
– Non mi prenda in giro, per favore. Anch’io posso sentirmi ferito, sa?
Esitai un po’, ma alla fine decisi di slegargli le mani e il piede. Gli avevo fatto dei nodi stretti, quindi per scioglierli ci volle qualche minuto. Tutto sommato, non mi sembrava una cattiva persona. A parte il fatto che non sapeva dove si trovasse Akikawa Marie, mi aveva dato di sua spontanea volontà informazioni utili. Una volta libero, non avrebbe cercato di ostacolarmi o farmi del male. E poi non era pensabile lasciarlo legato lí. Se qualcuno l’avesse trovato, e in quelle condizioni, sarebbero state grane a non finire. Appena gli sciolsi le piccole mani, Faccialunga, sempre seduto a terra, prese a massaggiarsi i polsi. Poi si toccò la fronte, dove gli era spuntato un bel bernoccolo.
– La ringrazio. Adesso posso tornare al mondo da cui sono venuto.
– Prego, comincia pure ad avviarti, – gli dissi indicandogli la buca in un angolo. – È meglio se vai prima tu, io ti seguo.
– Allora non faccio complimenti, mi scusi. Le chiedo solo di richiudere bene la botola. Altrimenti qualcuno potrebbe inciampare e caderci dentro. Oppure entrarci per curiosità. E poi la colpa sarebbe mia.
– Tranquillo. Una volta sceso, non dimenticherò di chiudere.
Faccialunga andò a passettini fino alla botola, vi calò le gambe e scese, lasciando fuori solo metà faccia. I suoi grossi occhi, sgranati, brillavano di luce sinistra. Proprio come nel quadro L’assassinio del Commendatore.
– Be’, faccia attenzione, allora, – mi disse. – Spero proprio che trovi quella signorina… come ha detto che si chiama? Komichi?
– No, non Komichi, – replicai. Un brivido mi corse lungo la spina dorsale. Mi irrigidii tutto, la gola secca. Per un attimo mi venne meno la voce. – Si chiama Akikawa Marie. Che cosa sai, tu, di Komichi?
– No, io non so niente, – si affrettò a dire Faccialunga. – All’improvviso, nella mia umile mente metaforica, è affiorato quel nome. Mi sono sbagliato. Mi scusi.
Dette quelle parole, Faccialunga scivolò veloce nella buca e scomparve. Come fumo disperso dal vento.
La torcia di plastica in mano, per qualche minuto rimasi fermo dove mi trovavo. Komichi? Perché a quel punto saltava fuori il nome di mia sorella? Anche Komi era legata alla serie di avvenimenti che mi erano capitati? Comunque fosse, non avevo il tempo di riflettere su quell’enigma. Infilai le gambe nella buca e accesi la torcia elettrica. Ai miei piedi mi parve di scorgere un lungo passaggio buio, in leggera discesa. Era tutto molto strano. Cioè, visto che la stanza era al secondo piano, al di sotto logicamente ci sarebbe dovuto essere il primo. Eppure il fascio di luce non riusciva a illuminare la fine di quel cunicolo. Mi calai del tutto, poi protesi un braccio e chiusi bene la botola. Non vidi piú nulla, era buio pesto.
In quella profonda e infinita oscurità, faticavo a ritrovare i miei cinque sensi. Come se il flusso di informazioni fra la mente e il corpo si fosse interrotto. L’effetto era sconcertante. Avevo l’impressione di non essere piú me stesso. Eppure dovevo andare avanti.
«Mi dovete uccidere… trovare Akikawa Marie».
Queste erano state le parole del Commendatore. A lui era toccato il sacrificio, a me spettava la prova. Intanto, non potevo fare altro che avanzare. Con la luce della torcia per unica alleata, mi inoltrai nell’oscurità della «via metaforica».
iTalia