13

 

Mormorò, sogghignando:

«È evidente! Non esiste!».

Due passeggeri si voltarono e lui li guardò senza batter ciglio, alzò perfino le spalle: erano gli ennesimi funzionari. Il piroscafo, che aveva appena ritirato le scialuppe, si stava lentamente allontanando dalla rada di Libreville. Timar era seduto al bar, in fondo al ponte di prima classe. Di punto in bianco si alzò, rendendosi conto a un tratto che vedeva per l'ultima volta la linea gialla della spiaggia, la linea più scura della foresta, i tetti rossi e i pennacchi delle palme da cocco.

Aveva lo sguardo teso, i lineamenti alterati, ma per lui era ormai un'abitudine fare le smorfie, contrarre le dita affusolate, parlare a voce bassa tra sé e sé, incurante degli altri.

«A proposito, mi hanno accompagnato alla stazione?».

Sapeva bene che stava dicendo una sciocchezza: a Libreville la stazione non c'era e l'avevano lasciato imbarcarsi da solo, senza nessuno che sventolasse un fazzoletto sulla banchina. Ma la parola «stazione» gli piaceva, perché gli ricordava il momento della partenza, la stazione della Rochelle, la madre e la sorella.

Era molto stanco, glielo avevano ripetuto tutti. Era successo dopo il tafferuglio. Fino ad allora Timar non aveva mai dato scandalo, soprattutto in pubblico, perché era educato e di carattere alquanto docile.

Ma quando Bouilloux gli aveva storto il braccio, in mezzo a quella folla di gente che si agitava, si era accorto che ce l'avevano con lui, e aveva cominciato a colpire alla cieca. Ecco com'era andata. Negri e bianchi erano mescolati insieme. Mentre la massa brulicante si riversava in strada, Timar aveva ricevuto dei calci in faccia. Gli era volato via il casco. Perdeva sangue. Il sole scottava.

Gli era già capitato di assistere a qualche rissa, ma non vi aveva mai preso parte. Anzi, in genere se ne teneva alla larga, mentre quella volta era proprio al centro. E si rese conto che i colpi fanno meno male di quanto si creda, e che non ci vuole coraggio per battersi. Aveva tutti contro? E lui picchiava tutti. Picchiò fino a quando, senza sapere come, si ritrovò nella semioscurità del commissariato di polizia.

Riconobbe le strisce d'ombra e di luce, il tavolino del whisky. Era seduto su una sedia e il commissario, in piedi, lo guardava con un'aria strana. Tanto che Timar, stupito, si passò una mano sulla fronte balbettando: «Le chiedo scusa. Non so cosa sia successo. Ce l'avevano con me».

E abbozzò un sorriso educato a cui il commissario non rispose, continuando anzi a fissarlo con gelida curiosità.

«Vuole bere?».

Il tono era lo stesso che avrebbe usato con un negro o con un cane. Gli servì un semplice bicchier d'acqua e riprese a misurare la stanza a grandi passi.

Timar fece il gesto di alzarsi.

«Stia lì!».

«Che cosa aspettiamo?».

La situazione era ancora un po' confusa. Sarebbe bastato un niente per darle una dimensione del tutto irreale.

«Si sieda!».

Il commissario non si prendeva neanche la briga di rispondere alla sua domanda, al punto che Timar fu di nuovo sfiorato dall'idea di un complotto ordito contro di lui.

«Entri, dottore! Come sta? Ha saputo quel che è successo?».

Il commissario indicò Timar con un'occhiata. Il medico parlò sottovoce:

«Cosa accadrà adesso?».

«Saremo costretti ad arrestarla. Dopo un simile scandalo...».

Il dottore, rivolgendosi a Timar, borbottò con la stessa freddezza del poliziotto:

«È lei che ha provocato tutta quella cagnara?».

Nel frattempo, sollevò la palpebra di Timar, la lasciò ricadere, gli tastò il polso - cinque secondi appena - e squadrò il giovane dalla testa ai piedi, mugugnando:

«Già!».

Quindi si voltò verso il commissario:

«Le dispiace venire un momento di là?».

Confabularono a voce bassa, sulla veranda. Infine il commissario rientrò nella stanza, grattandosi la fronte, e fece venire subito un boy:

«Chiamami il governatore al telefono».

Poi, all'apparecchio:

«Pronto! Come pensavamo, sì! Provvedo ad accompagnarlo? Anche se così non fosse, non potrei fare diversamente, a causa dello stato d'animo dei commercianti di legname. Sarà lì anche lei?».

Prese il casco e disse a Timar:

«Venga».

Timar lo seguì, meravigliandosi lui stesso della propria docilità. Non reagiva più. Non avrebbe mai immaginato di poter essere così stanco, così svuotato nella testa e nel corpo. Entrò, dietro al commissario, nel cortile dell'ospedale, senza chiedersi perché mai fosse stato condotto lì. La macchina del governatore era già arrivata. In una camera molto pulita, di certo più pulita di quelle dell'albergo, c'era il governatore in persona. Ignorò la mano tesa di Timar.

«Non so se si rende conto di quello che ha combinato, giovanotto!».

No! A essere sinceri, si rendeva e non si rendeva conto. Aveva fatto a pugni. Ricordava un negro e una negra che salmodiavano in una sala surriscaldata, e Adèle che lo fissava da lontano come a ipnotizzarlo.

«Le è rimasto del denaro?».

«Penso di averne ancora un po' in banca».

«Allora le do un consiglio. Tra due giorni, una nave, la Foucault, rientra in Francia. La prenda!».

Timar cominciò ad agitarsi. Sforzandosi di assumere un atteggiamento dignitoso, disse:

«Vorrei parlarle di questa storia di Adèle».

«Un'altra volta. Si metta a letto».

Il governatore e il commissario uscirono, l'uno più freddo e sprezzante dell'altro. Poi Timar si era addormentato. Aveva avuto la febbre alta e un mal di testa insopportabile. Non faceva che ripetere all'infermiere:

«È questo maledetto ossicino, proprio qui, alla base del cranio!».

Adesso si trovava a bordo. Non c'era stata, per così dire, alcuna transizione. Il commissario era andato a trovarlo un paio di volte nella sua camera. Timar gli aveva chiesto se poteva vedere Adèle.

«Meglio di no».

«Ma lei che dice?».

«Non dice niente».

«E il dottore? Sostiene che sono pazzo, non è vero?».

Questo lo seccava. Si rendeva conto di avere l'aria di un pazzo, ma era certo di non esserlo. È vero, faceva smorfie e gesti da pazzo! E, a volte, gli si agitavano in testa pensieri confusi da pazzo!

«Non esiste!».

No! Ne era sicuro! E lo dimostrava la sua calma! Aveva fatto i bagagli da solo! Si era accorto che mancavano gli abiti bianchi e li aveva richiesti, ben sapendo che a bordo, sino a Tenerife, la gente usa vestirsi di bianco.

Alle sette del mattino, sul molo, da solo con i facchini, si era girato sogghignando verso la strada rossa orlata di palme da cocco che si stagliavano contro il cielo, e aveva esclamato:

«Non esiste!».

Esisteva, ovviamente, ma lui si capiva! Così come capiva che tutto questo era soltanto uno stato passeggero. E, dunque, non ne provava vergogna.

Era salito sulla scialuppa. D'un tratto, con il viso nascosto fra le mani, aveva mormorato:

«Adèle!».

Aveva stretto i denti. Attraverso le dita, vedeva i negri che sorridevano. Il mare era calmo.

Finito! Ormai l'Africa era scomparsa alla vista.

Gli si avvicinò il barman.

«Desidera?».

«Un'aranciata!».

E, in un breve scambio di sguardi, Timar intuì che anche il barman lo prendeva per pazzo. Probabilmente erano state avvertite le autorità di bordo.

«Non esiste!».

Un treno... Quale treno?... Ah, sì! Il treno della Rochelle, e sua sorella che sventolava il fazzoletto...

Rifletteva, seduto in una poltrona di vimini. Era vestito di nero, perché i suoi abiti coloniali non erano stati recuperati. In fondo, gli faceva piacere distinguersi dagli altri passeggeri. C'erano molti ufficiali, troppi.

«Troppi galloni!» borbottò.

E troppi funzionari! Troppi bambini che correvano sul ponte!

Cos'è che gli ricordava? Ah già, Adèle! Anche lei era sempre vestita di nero! Solo che non aveva bambini e sotto il vestito era nuda. Mentre la negra era nuda senza vestito!

Si ricordava benissimo! Di tutto! Era molto più furbo di quanto credessero! Avevano cercato di condannare il padre della negra! Timar l'aveva salvato e loro si erano messi d'accordo per picchiarlo.

Perché era una cospirazione! C'erano dentro tutti! Anche il governatore, e il procuratore, e i commercianti di legname! E tutti andavano a letto con Adèle, naturalmente!

Alcuni passeggeri, in bianco, facevano dieci, cento volte il giro del ponte per ammazzare il tempo.

«Ammazzare? Non esiste!».

E d'improvviso Timar smise di pensare, o piuttosto di pensare così velocemente. Restò come sospeso. Si vedeva dall'esterno, vestito di nero, con il casco sulla nuca, seduto al bar del piroscafo. Stava tornando in Francia!

Doveva aver ricevuto dei colpi in testa. Aveva rischiato di diventare pazzo, e tale lo credevano. Ma non sarebbe durata a lungo, lo sentiva! Lo sentiva con tanta chiarezza che rinviava il momento di guarire, di pensare davvero, per tutto il tempo!

Era un piccolo trucco. Rifletteva a voce alta. Socchiudeva gli occhi e le immagini si mescolavano, deformate come nei sogni.

Stava facendo buio. Al tavolo accanto, alcune persone - dei funzionari, naturalmente - giocavano a belote e bevevano pernod. Come a Libreville! Da Adèle! Anche lui aveva imparato a giocare a belote! Non era difficile!

Già un'altra sera... Sì, qualche settimana dopo... Un po' prima di arrivare nella concessione... Sulla lancia... Insomma, sì, aveva avuto una crisi... Si era dibattuto... Aveva picchiato... Lo avevano messo a letto...

Adèle era sdraiata, nuda, al suo fianco. Si spiavano a vicenda. Facevano finta di dormire, ma poi Timar aveva preso sonno e lei ne aveva approfittato per filarsela. Quando si era svegliato, Adèle non c'era più!

La giovane negra era vergine.

«Non esiste!».

C'era un continuo viavai di gente, fra gli altri un giovane tenente deciso a non togliersi il casco, nonostante il sole fosse tramontato. Un capitano che giocava a belote gli gridò:

«Paura del colpo di luna?».

Timar si girò di scatto. Quell'espressione l'aveva già sentita, non ricordava dove, mentre dormiva o mentre si agitava! E dato che era stata pronunciata con la stessa ironia, fissò con aria aggressiva il capitano, come se esigesse da lui una spiegazione o delle scuse.

Ci fu un breve conciliabolo a bassa voce. I giocatori si alzarono.

«Andiamo a cambiarci?».

E Timar, in piedi sul ponte, lanciò alle loro spalle uno sguardo diffidente.

 

A cena, solo a un tavolo, fu molto tranquillo. Si limitò a sogghignare di tanto in tanto, dato che la gente lo guardava con una curiosità piena di commiserazione, e a mormorare di proposito frasi sconnesse.

La cosa divertiva in particolare una ragazzina, e Timar si divertiva altrettanto vedendola ridere di nascosto, dietro il tovagliolo.

Non aveva importanza! Lo sapeva bene! Come la marea! Arriva sempre l'ora in cui il mare, anche se sembra in tempesta, si ritira. È matematico!

Nella sua testa le immagini diventavano via via meno confuse, meno ingarbugliate. Tranne la notte. Due volte Timar si mise a gridare, seduto sulla cuccetta, inondato di sudore, con le membra tremanti, cercando con la mano il corpo di Adèle.

Ma non era più come prima. Era notte! E Adèle non c'era. O, meglio, c'era, ma lui non poteva toccarla, prenderla, accarezzare il suo seno candido.

Inoltre, il letto era occupato dalla negra, inerte e rassegnata. Bisognava sistemare le cose, prendere una decisione, forse partire insieme ad Adèle, andare lontano, molto lontano...

Sì, per non parlarne più! Niente Africa! Niente Gabon! Niente tronco di okumé! Meglio dare il tronco ai negri e lasciare che se la sbrigasse Constantinesco!

Solo Adèle contava, nelle strisce d'ombra e di luce, nel letto umido di sudore. Poi sarebbe scesa dabbasso. Timar, con l'orecchio teso, avrebbe sentito gli andirivieni del boy che spazzava il pavimento mentre lei faceva i conti dietro il bancone.

Fu svegliato dal medico di bordo, un giovanotto stupido, che si sentiva in dovere di recitare la commedia.

«Mi dicono che siamo della stessa città. Allora...».

«Di dov'è, lei?».

«La Pallice!».

«Non è la stessa città!».

Certo! Tre chilometri di distanza, ma tre chilometri sono pur sempre qualcosa! Senza considerare che il medico aveva una faccia da idiota e gli occhi bovini. In realtà, voleva solo sapere come stava Timar. Ebbene, era calmo!

«Ha passato una notte tranquilla?».

«Pessima!».

«È inutile dirle che di qualunque farmaco avesse bisogno...».

«Non esiste!».

Che lo lasciassero in pace! Chiedeva solo questo! Non aveva bisogno di nessuno! E tantomeno dei medici! Lui era più intelligente di tutti i medici del mondo!

E anche più intelligente di com'era prima! Perché ora aveva le antenne! Intuiva cose troppo sottili per la maggior parte degli uomini. Intuiva tutto, anche il futuro, la visita che gli avrebbe fatto alla Rochelle, nella loro casetta di rue Chef-de-Ville, il medico di famiglia, ostentando pure lui un sorriso cordiale:

«Allora, Joseph, vecchio mio, come va?».

E sua madre, e sua sorella, e tutti gli altri, a preoccuparsi per lui. E il dottore che, andandosene, avrebbe sussurrato in corridoio:

«Un po' di riposo. Passerà!».

Diamine! E l'avrebbero circondato di attenzioni. Gli avrebbero riparlato della cugina Blanche, quella di Cognac, e una domenica lei sarebbe spuntata con un vestito rosa comprato per l'occasione!

D'accordo! L'avrebbe sposata, come no! Purché lo lasciassero in pace! E avrebbe accettato l'impiego alle raffinerie di petrolio di cui gli avevano già parlato! Alla Fallice, appunto! In un quartiere dove, a cento metri dal mare, avevano costruito delle orrende case a schiera per gli operai! Lui, invece, avrebbe avuto una casa più grande, con il giardino, «genere villa»! E una moto! Sarebbe diventato un tipo tranquillo e gentile! Non ne aveva mai avuto tanta voglia! Chissà, magari si sarebbe anche convinto ad avere dei bambini.

Le persone che lo incrociavano, sul ponte o nel salone della musica, non potevano sapere che lui aveva le antenne, e si giravano, stupite, mormorando fra loro.

«E con ciò?».

Il momento più bello, sì, proprio il più bello di tutti, era quando le dodici pagaie si alzavano in perfetta sincronia e, per una frazione di secondo, i dodici negri trattenevano il fiato, e dodici paia di occhi erano puntate sul bianco, per poi emettere un sospiro profondo.

E subito le dodici pagaie affondavano nell'acqua, gli addomi si contraevano, i muscoli guizzavano; nuove perle di sudore brillavano sulla pelle dei rematori e perle d'acqua schizzavano tutt'intorno alla piroga!

Ma non era il caso di parlarne! Nessuno avrebbe capito!

Soprattutto nel suo ufficio della Pallice! Soprattutto a Blanche, che era una bella ragazza.

«Non esiste!».

Incontrò lo sguardo divertito del barman, che l'apostrofò:

«Buongiorno, signor Timar!».

«Buongiorno!».

«Scende a terra, a Cotonou?».

«A terra? Non esiste!».

Il barman gli sorrise con aria complice:

«Le servo un'aranciata?».

«Un'aranciata, sì. E già! Mi hanno proibito il whisky? Be',il whisky non esiste!».

Ma lo diceva senza convinzione. C'erano dei momenti, come questo, in cui era perfettamente calmo, perfettamente freddo, e vedeva le cose con assoluta chiarezza.

Non doveva farlo! Non ancora! Oppure... Forse, ad esempio, sarebbe stato capace di punto in bianco di gettarsi in acqua! Ma neanche questo doveva fare!

La prua tagliava lentamente la seta grigioazzurra del mare. I tavolini del bar erano all'ombra. Un marinaio dipingeva di rosso l'interno delle bocche di areazione.

Timar giurava a se stesso di essere gentile! Con Blanche e con tutti, alla Rochelle e alla Fallice! Avrebbe visto partire delle navi per l'Africa! E anche dei giovani! E dei funzionari!

Ma non avrebbe detto niente! Proprio niente! Solo che a volte, di notte, avrebbe avuto il suo colpo di luna, la sua crisi, come si dice, e questo l'avrebbe aiutato, nel vuoto del letto, a ritrovare la carne troppo bianca di Adèle e l'aria pesante, e un sottofondo di sudore, e l'odore dei rematori neri, mentre sua moglie, in camicia da notte, gli avrebbe preparato una tisana.

Sulla nave alcuni si voltavano ancora al suo passaggio. E invece lui era così calmo, collegava i pensieri con tanta precisione, con tanto controllo, che provò il bisogno di confonderli un po', non foss'altro per divertire il pubblico. Perciò, spiando i volti con quei suoi occhietti febbricitanti e ironici, disse a voce alta:

«L'Africa non esiste!».

E per un quarto d'ora ripeté, andando su e giù per il ponte con aria seria:

«L'Africa non esiste! L'Africa...».

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Revisione e ipertesto di Bandinotto (agosto 2014)

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