12
Anche il tribunale, come il cimitero, aveva un'aria improvvisata, rivelava trascuratezza e disprezzo delle tradizioni: forse per questo Timar pensò al funerale di Eugène Renaud.
Non c'erano modanature, né rivestimenti di legno scuro, niente che conferisse all'ambiente la solennità necessaria. La grande sala spoglia avrebbe potuto essere la sede di un'agenzia commerciale. Le pareti erano intonacate a calce. Quattro vetrate si aprivano sulla veranda, dove si accalcavano almeno duecento negri - quelli vestiti della città e quelli nudi della foresta -, chi in piedi, chi seduto per terra.
All'interno, né sedie, né panche per il pubblico, nemmeno la gabbia dell'imputato: nulla, insomma, di ciò che fa di un tribunale un vero tribunale. Una semplice corda separava i funzionari dalla folla, ma quasi tutti i bianchi avevano avuto accesso alla zona riservata.
Dall'altro lato della corda stavano i negri, gli spagnoli, i portoghesi, e qualche francese che, come Timar, era arrivato tardi.
Il tavolo coperto da un tappeto verde doveva essere quello del presidente del tribunale. Era giudice unico, o i due seduti al suo fianco erano i giudici a latere? Il tipo che scriveva era di certo il cancelliere. Ma che ci facevano là il procuratore e il commissario di polizia, seduti sulle sedie dal fondo impagliato con le gambe allungate? E tutti quegli altri che Timar non conosceva e che erano riusciti a procurarsi un posto?
Le finestre erano aperte e i negri della veranda si stagliavano, immobili, in controluce. I bianchi indossavano abiti di tela e la maggior parte di loro, per paura del riverbero, teneva il casco in testa.
La gente fumava e molti si erano tolti la giacca.
Timar, sperduto in mezzo ai negri, cercava con gli occhi Adèle e a tutta prima non riuscì a individuarla.
Si era addormentato all'alba. Bouilloux - apposta, c'era da scommettere - non lo aveva svegliato, e quando aveva aperto gli occhi erano già le dieci. Era sceso senza neanche radersi, aveva trovato soltanto un boy e si era precipitato fuori, con la barba lunga e l'abito sgualcito. Non aveva nemmeno preso il caffè. Si era immerso nella massa nera, nel caldo del tribunale, e ci aveva messo un bel po' ad abituarsi all'atmosfera, a vedere e capire ogni cosa.
I bianchi, tutti senza eccezione, erano prostrati dall'afa. In prima fila, davanti alla corda, un indigeno seminudo, dai tratti grossolani tipici del negro della savana, recitava una sorta di monotono lamento, accompagnandosi a volte con un gesto timido della mano dal palmo rosa, mentre i piedi scalzi restavano fermi sull'attenti.
Ma sembrava che nessuno lo ascoltasse. I bianchi chiacchieravano fra loro. Di tanto in tanto il presidente si girava verso le finestre gridando qualcosa, e i grappoli di negri ammassati sulla veranda indietreggiavano, per tornare poco dopo ad accalcarsi di nuovo.
Timar non capiva le parole dell'indigeno. Non sapeva chi fosse. Ma finalmente aveva scorto, non lontano dal procuratore, il vestito nero di Adèle e una parte del suo profilo. Lei non l'aveva ancora visto. Stava rivolgendo dei segni d'intesa a qualcuno.
Il negro continuava a salmodiare, sciorinando una frase dietro l'altra con voce lamentosa. Appeso al muro c'era un grosso orologio sbiadito, come se ne vedono in tutti gli uffici pubblici. Le lancette avanzavano a scatti. Un boy si aprì un varco fino al presidente, portando un vassoio con dei bicchieri, un sifone di selz e una bottiglia. Gli uomini seduti al tavolo si versarono da bere con comodo, sempre senza prestare ascolto al negro. Nel frattempo, Adèle si era accorta della presenza di Timar e, bianca come il quadrante dell'orologio, con il fiato sospeso, lo guardava da lontano, mentre lui la fissava con aria crudele.
L'odore dei negri pigiati gli uni contro gli altri era acuto. Timar non aveva ancora mangiato né bevuto niente. Si sentiva venir meno, tanto più che non poteva sedersi, anzi doveva tenersi in equilibrio sulla punta dei piedi per vedere qualcosa.
«Basta così!» dichiarò all'improvviso il presidente, guardando l'orologio che segnava le dieci e quarantacinque. «Silenzio!».
Il nero non capì, ma tacque d'istinto.
«E tu, traduci quello che ha detto!».
Si era rivolto a un altro negro, in pantaloni bianchi e giacca nera, con un colletto di celluloide e gli occhiali. Era l'interprete, che parlava con voce bassa e profonda, come un tuono in lontananza.
«Dice che non ha mai visto Thomas, dato che non erano dello stesso villaggio, e lui non sapeva neanche che Thomas esisteva».
Solo per formulare questa frase l'interprete impiegò tre minuti. Il presidente gridò:
«Più forte!».
«Dice che è per via delle capre che pretendeva dal cognato, perché sua moglie se n'era andata con un uomo dell'altro villaggio. Era la sua prima moglie, figlia del capo, e raccontava in giro...».
Nessuno lo ascoltava. Timar non era più attento degli altri: gli riusciva difficile seguire il filo ingarbugliato del discorso e, per di più, gli sfuggiva una parola su due. Teneva lo sguardo fisso su Adèle, mentre si chiedeva dove e con chi avesse passato la notte.
Sotto il vestito era nuda come sempre? Un altro uomo aveva forse visto le sue cosce che emergevano a poco a poco dalla seta nera, le cosce bianchissime, il ventre morbido, il seno un po' sfiorito?
«...Non gli hanno mai voluto restituire la capra e...».
D'un tratto, quattro negri si misero a parlare tutti insieme nel loro dialetto, interpellando l'indigeno e interpellandosi reciprocamente. Avevano voci acute, e l'accusato, vestito solo con uno straccio che fungeva da perizoma, spostava lo sguardo dall'uno all'altro con espressione sgomenta.
Bastava distogliere l'attenzione per qualche secondo e la scena perdeva ogni parvenza di realtà, diventava un incubo assurdo, una parodia senza capo né coda. Sul tavolo con il tappeto verde c'era il whisky, i bianchi si offrivano sigarette a vicenda e parlavano d'altro.
Fra loro c'era Bouilloux, e anche il praticante e tre commercianti di legname. Costituivano un gruppo a parte, tra i funzionari da un lato e i negri dall'altro, e se ne stavano in piedi vicino a una finestra, all'altezza della corda. Fu Bouilloux il primo a gridare:
«Basta!».
Alcuni bianchi gli fecero eco:
«Basta!».
Il presidente agitò una campanella stridula, un giocattolo da bambini più che uno strumento da tribunale.
«Resta da sentire la moglie di Amami. Dov'è la moglie di Amami?».
La donna si trovava vicino all'ingresso e fu spinta avanti attraverso la folla di neri fino all'altezza della corda. Era una vecchia negra, con il seno cadente, aveva tatuaggi in rilievo sul petto e sul ventre, il cranio rasato.
Se ne stava ferma là dove l'avevano lasciata, non diceva niente, non vedeva niente. E nel cervello di Timar, senza che lui se ne accorgesse, si fece strada un dubbio. Guardava la donna di profilo, poi di scorcio, e gli ricordava la ragazza che aveva posseduto nel villaggio sul fiume. Non avevano forse gli stessi lineamenti, lo stesso disegno delle spalle e dei fianchi? Questa negra non poteva essere la madre dell'altra?
In tal caso, l'accusato - ossia l'indigeno che aveva parlato a lungo senza che nessuno lo ascoltasse - era il padre?
Allora Timar confrontò la fulgida visione della ragazza dal corpo liscio, le forme piene, con lo spettacolo pietoso offerto dalla coppia. Erano quelli meno vestiti di tutti. La pelle della vecchia aveva un aspetto terroso.
Marito e moglie erano a un metro l'uno dall'altro. Timar li sorprese a scambiarsi un'occhiata e capì che non sapevano assolutamente dove si trovavano, né cosa facevano, né tantomeno perché se la prendevano tutti con loro. L'uomo, in particolare, con il naso camuso e gli occhi piccoli e arrossati, di quando in quando lasciava scorrere intorno uno sguardo irrequieto che aveva un che di folle.
Nessuno se ne curava. Nello stesso istante, Timar notò che Bouilloux fissava su di lui uno sguardo carico di sottintesi, accennando anche un movimento della testa come a dirgli, a metà fra la minaccia e la preghiera:
«Buono, eh!».
Adesso si udiva la voce della negra, un suono uniforme, come se tutte le parole avessero uguale valore. E la donna, senza mai smettere di parlare, annodava e snodava il suo striminzito pareo. Per farsi coraggio, fissava un punto preciso del muro, accanto all'orologio, dove c'era la macchia di una mosca schiacciata.
Dietro una finestra, Timar riconobbe il capo dei suoi rematori, che gli rivolse un ampio sorriso. Il caldo si faceva sempre più opprimente. Un vero e proprio vapore saliva dai corpi, tanto dei bianchi quanto dei negri, e il sudore dolciastro degli uni si mescolava a quello acre degli altri, e al tanfo delle pipe e delle sigarette.
Ogni tanto qualcuno si dirigeva in silenzio verso l'uscita, faceva un salto in albergo per bere qualcosa e tornava poco dopo.
Timar aveva caldo, sete e fame, ma resisteva, perché aveva i nervi tesi fino allo spasimo. Non cessava un istante di cercare lo sguardo di Adèle, mentre lei sfuggiva il suo, prestando ascolto a un tizio, un bianco sconosciuto, che le mormorava qualcosa all'orecchio. Era sempre pallida, con gli occhi cerchiati.
Timar era in collera con lei, ma al tempo stesso ne aveva pietà: insomma, era in preda a un groviglio di sentimenti contraddittori che non riusciva a districare. L'idea che Adèle, ad esempio, avesse passato la notte con un altro gli faceva venir voglia di ucciderla e insieme di stringerla teneramente fra le braccia, piangendo sulla sorte di entrambi!
Sentiva appena la voce della negra, che parlava e parlava senza che nessuno la interrompesse, forse solo per rimandare a più tardi il momento della decisione. Vedeva il suo cranio rasato di vecchia, il seno avvizzito, e le gambe gracili, con le ginocchia un po' storte.
Lei continuava a parlare senza mai riprendere fiato, inciampando sulle sillabe, mangiandosi le parole, spinta dalla caparbia volontà di farsi capire e di convincere. Non usava i mezzi dei bianchi, non cercava di commuovere. Mai, neppure per un istante, alzò la voce. E invece di piangere, di svenire, restava rigida come una statua, quasi fosse per lei una questione d'onore.
Di umano aveva solo l'accento, il timbro della voce, quell'intonazione da diacono imperturbabile, quelle sillabe che si somigliavano tutte e che, se non vi si prestava attenzione, arrivavano all'orecchio come un mormorio confuso, simile al rumore della pioggia sui vetri.
Timar stringeva i pugni per la tensione. Il lungo monologo suscitava in lui lo stesso struggimento di certe nenie che le nutrici di campagna cantano ancora oggi. Era come una malia, una musica nostalgica e terribile, per quanto il viso della negra rimanesse impassibile. Un viso nel quale sempre di più Timar aveva l'impressione di rivedere l'altro, quello della ragazza che lo guardava allontanarsi dal villaggio a bordo della piroga e non osava neppure sollevare un braccio.
Altre immagini gli si affollarono nella mente, sorprendendolo per la loro nitidezza. Le dodici paia d'occhi indigeni che lo fissavano mentre le pagaie andavano su e giù e un canto, anch'esso simile a un lamento, si levava nell'aria afosa... La faccia da cane bastonato degli stessi uomini quando, il giorno prima, avevano urtato contro il ramo sommerso e Timar era andato su tutte le furie.
Gli faceva male il petto. Chissà, forse era la fame, o la sete. A furia di stare sulla punta dei piedi, gli tremavano le ginocchia. All'improvviso gli venne voglia di gridare anche lui:
«Basta! Finiamola!».
Ma proprio allora il presidente agitò la sua ridicola campanella. La donna, che non capiva, si mise a parlare più forte per continuare a farsi sentire. Non voleva tacere! L'interprete tradusse e lei alzò ancora un po' la voce, senza un gesto, ma con un tono disperato.
Sembrava il Parce, Domine, l'invocazione che, al profilarsi di una catastrofe, i fedeli innalzano in chiesa per tre volte, su tonalità diverse, a voce sempre più alta.
Adesso, la sua, era una voce di testa. La vecchia parlava in fretta. Voleva arrivare a dire tutto! Tutto!
«Portatela via!».
E altri neri, che i bianchi avevano rivestito con uniformi blu da poliziotti e un fez piatto in testa, trascinarono via la donna attraverso la folla. Chissà se almeno sapeva perché l'avevano fatta venire e perché ora, d'un tratto, la obbligavano a uscire. Ma lei non faceva resistenza, e continuava imperterrita a parlare, da sola!
Timar incrociò lo sguardo di Adèle e nei suoi occhi vide il panico. Non capì che era a causa della sua faccia. La fatica, il malessere, gli sforzi, il caldo, tutto, assolutamente tutto, era impresso sul suo viso tormentato, soffuso di un pallore malsano. E gli occhi febbricitanti, incapaci di star fermi, andavano da un negro a un bianco, dall'orologio alla macchia sul muro.
Era inondato di sudore gelido. Respirava a fatica e, così come non riusciva a fermare lo sguardo, non era neanche più in grado di fermare la mente. Eppure sentiva che aveva bisogno di pensare, un bisogno urgente, imperioso.
«Ci ripeta in breve quello che ha detto la testimone».
In breve! Magnifico! In breve!
«Dice che non è vero».
L'interprete era sicuro di sé, compreso della propria importanza. Dietro le finestre si levarono dei mormorii e il presidente agitò la campanella, gridando:
«Silenzio! O faccio allontanare tutti!».
Altri due negri si fecero strada, da soli, verso il posto dei testimoni. Il presidente, tornato calmo, si sporse in avanti, appoggiando i gomiti sul tavolo.
«Parli francese, tu?».
«Sì, signore».
«Che cosa ti ha fatto pensare che Amami abbia ucciso Thomas?».
«Sì, signore».
Quei due erano i testimoni a carico. Ormai Timar aveva capito tutto. E non solo aveva capito quello che stava succedendo, ma poteva anche ricostruire, punto per punto, gli avvenimenti! Mentre lui guardava la bella ragazza nuda, al villaggio, Adèle era entrata nella capanna del capo: doveva avergli offerto una grossa somma di denaro perché trovasse un colpevole tra i suoi uomini, e gli aveva consegnato la rivoltella che si era portata dietro.
Era così semplice! Il capo aveva scelto quello che meno gli piaceva fra gli uomini del villaggio, il nero che aveva sposato sua figlia e che, quando lei se n'era andata con un altro, si era permesso di reclamare la dote. Fra loro c'era tutta una storia di capre e di zappe! Cinque zappe! Cinque pezzi di ferro! Altri due negri erano stati mandati a testimoniare, due negri a cui doveva essere stato promesso qualcosa. E quelli cercavano di guadagnarsi la ricompensa.
«Sì, signore».
«Ma non ti sto chiedendo questo! Quando ti è venuta l'idea che Amami aveva ucciso Thomas?».
«Sì, signore».
E il presidente, esasperato:
«Interprete, traduca la domanda».
Seguì uno scambio di frasi in lingua indigena che pareva non dovesse mai finire, al punto che bisognò interromperli; allora l'interprete, senza scomporsi, tradusse:
«Dice che Amami è sempre stato considerato un bandito!».
C'era da urlare di rabbia. Amami era rimasto in aula quando avevano fatto uscire la moglie. Guardava con aria inebetita i suoi accusatori, ogni tanto cercava di parlare, ma lo zittivano. Non ci capiva più niente. Era smarrito.
La negra con cui Timar era stato a letto era davvero la figlia di quell'uomo? Adesso arrossiva al pensiero che la ragazza era vergine e che lui l'aveva posseduta lo stesso, con rabbia, con l'impulso - sia pure per un attimo - di vendicarsi dell'Africa intera.
«È questa l'arma che hanno trovato nella capanna di Amami?».
Il presidente mostrò una pistola a tamburo. Timar si sentiva addosso lo sguardo di Adèle, insieme a quello di altre tre persone: Bouilloux, il guercio e il praticante panciuto.
E non capiva, giacché non poteva vedersi, per quale motivo Bouilloux, nonostante la gravità del momento, si facesse largo tra la folla dei neri per avvicinarglisi.
Non sapeva che anche gli indigeni accanto a lui lo guardavano con stupore e spavento. Respirava affannosamente, come se avesse la febbre alta, e si stringeva le mani con tale forza da far scricchiolare le ossa.
«Confermano entrambi che questa è proprio la rivoltella che hanno trovato. Tutte le deposizioni sono concordi in tal senso. Nessun bianco è andato al villaggio dopo il delitto».
Il negro dal naso camuso fissava l'interprete con uno sguardo implorante, pieno di angoscia. Anche lui somigliava alla ragazza e, come la moglie, aveva una pelle grigiastra, terrosa.
Il guercio e il praticante guardavano Bouilloux che, fendendo la folla, si avvicinava alla meta. Dall'altro lato della corda, nella zona ufficiale, il procuratore si chinò verso Adèle e parlottarono fra loro a bassa voce, con gli occhi puntati su Timar. D'un tratto, una mano gli serrò il braccio. Era Bouilloux, che disse:
«Attento!».
Attento a che cosa? A chi? Per un attimo, Timar provò una sensazione di terrore: si vide al posto di quel povero negro seminudo che si dibatteva in mezzo alla folla, accerchiato, braccato, sopraffatto da essa.
Sì, anche lui era braccato. Gli mandavano Bouilloux per tenerlo a bada. Le dita di ferro del commerciante di legname gli stringevano il braccio in una morsa.
Adèle lo guardava. Anche il procuratore lo guardava. Persino il presidente alzò gli occhi con aria preoccupata, come se avesse fiutato una minaccia nell'aria, ma poi si limitò a bere una sorsata di whisky.
Chissà se in quel medesimo istante il negro aveva le stesse reazioni, le stesse angosce. Sentiva, forse, che tutto era contro di lui e che stava per essere stritolato, come se quella massa di corpi - dei neri e dei bianchi - avanzasse su di lui da ogni lato fino a soffocarlo? Fatto sta che si mise a parlare in mezzo al tumulto, a parlare da solo, con voce acuta, a ripetere la sua storia che nessuno aveva voluto ascoltare.
Allora i suoi nervi cedettero e, a dispetto di Bouilloux che gli massacrava il braccio, a dispetto dello sguardo di Adèle, a dispetto del procuratore che gli sorrideva, Timar urlò, urlò letteralmente, sollevandosi il più possibile sulla punta dei piedi, il viso inondato di sudore ma esangue, la gola così serrata che le parole gli facevano male:
«Non è vero! Non è vero! Non è stato lui! È...».
Tanto peggio! Doveva farla finita! Era ora!
«È stata lei! E voi lo sapete bene!».
Con uno sforzo, Bouilloux gli torse il braccio, spingendolo in mezzo alla massa di gambe e di piedi dei negri, e Timar crollò a terra.