11

 

Un primo incidente, mentre stavano superando una rapida, mise Timar di malumore.

I rematori, sovreccitati, erano al massimo dello sforzo, con la bocca aperta in una risata muta e, insieme, per aspirare più aria. La velocità era impressionante. Gli uomini guardavano i gorghi nell'ansa del fiume e prendevano lo slancio per oltrepassarli.

Proprio nella traiettoria della piroga un tronco d'albero seguiva la corrente, e le fronde gli davano l'aspetto di un isolotto. L'imbarcazione avrebbe ancora potuto scansarlo. Invece, per gioco, i negri si sbilanciarono tutti su un lato, remando freneticamente.

Dodici paia d'occhi sgranati brillavano di gioia infantile, volgendosi dal tronco ai gorghi, all'uomo bianco. I rematori volevano passare a un pelo dai rami, per suscitare un brivido in Timar e in se stessi.

Un lato dell'albero filò via rasentando il bordo, ma il fusto era stato quasi superato, quando un urto sollevò in aria un'estremità della piroga.

Timar non aveva fatto in tempo ad alzarsi, né a rendersi conto di quel che stava accadendo. Niente di grave: la barca aveva sbattuto contro un ramo sommerso, e non si era rovesciata solo perché i negri, spostandosi tutti insieme, avevano ristabilito l'equilibrio.

Il che non aveva evitato che entrasse parecchia acqua, per cui Timar si ritrovò seduto in una pozza.

Allora, preso da una rabbia improvvisa, cominciò a gridare insulti che i negri non potevano capire. Quando poi si vide ridotto in uno stato pietoso, tutto bagnato e sporco, perse completamente la testa.

Non aveva più sigarette, e questo aggiungeva malumore a malumore. Inoltre, al mattino, svegliandosi nella capanna indigena, si era ricordato di aver diviso il letto con una negra. La ragazza non c'era più e Timar non avrebbe saputo dire quando se n'era andata.

Accompagnato dai suoi uomini, si era diretto verso la piroga che li aspettava. Sulla riva si erano radunate le vecchie del villaggio con i bambini. Nel capannello c'era anche la ragazza con cui aveva passato la notte, e che non osava muoversi, avvicinarsi a lui né rivolgergli un saluto.

Timar era stato sul punto di fermarsi, poi aveva cambiato idea e aveva preso posto all'estremità della piroga, mentre i negri, pagaia alla mano, si sistemavano in fila uno dietro l'altro.

La ragazza era sempre là, tra il fogliame scintillante. Indietreggiava a poco a poco, per staccarsi dal gruppo. E lo guardava.

Le dodici pagaie sprofondarono nell'acqua e, di colpo, la piroga fu a cinquanta metri dalla riva, in piena corrente. Solo allora Timar ebbe l'impressione che la negra alzasse il braccio, o piuttosto che lo scostasse dal corpo, ma di una decina di centimetri appena, in un cenno incompiuto d'addio.

La collisione aveva comunque provocato una piccola falla nello scafo, perciò ora uno degli uomini doveva svuotare di continuo la piroga, servendosi solo delle mani unite a coppa.

Timar lo guardò lavorare per un pezzo, poi prese una scatoletta di cibo che gli era rimasta, l'aprì e versò il suo contenuto nel fiume per dare la latta al nero.

Subito, dodici paia di occhi lo fissarono con uno stupore senza limiti. I negri sapevano che una scatoletta di pàté costava dodici franchi, più o meno il loro guadagno di quindici giorni. L'uomo che usava la latta vuota a mò di sassola, si abbandonava al piacere di agitare il metallo brillante nell'acqua iridata dal sole, mentre gli altri lo guardavano invidiosi.

Ma già Timar non era più interessato a loro. Via via che si avvicinava alla meta, veniva riassalito dalle sue preoccupazioni. Adèle doveva essere arrivata a Libreville il giorno prima, probabilmente a metà pomeriggio, perché la lancia poteva sfruttare la corrente. Dove aveva dormito? Con chi aveva cenato? Che cosa aveva fatto per tutta la mattinata?

Durante le prime ore di viaggio, Timar aveva continuato a pensare alla giovane negra. Quando il sole si spostò sull'altro versante del cielo, la sua mente fu invece del tutto assorbita da Adèle, in particolare dai ricordi della loro ultima notte: sdraiati fianco a fianco, nel buio, a fissare il soffitto, fingendo di dormire, mentre si spiavano con i sensi all'erta.

Mangiò una banana. Non sapeva a che ora sarebbero arrivati e non riuscì a farsi intendere dal negro sdentato. Il tempo non passava mai. A due riprese, Timar fece fermare la piroga perché i negri accomodassero il suo riparo di frasche. Un'altra volta borbottò:

«Perché non cantate?».

Quelli non capirono, e lui intonò la loro melodia del giorno precedente. Allora i negri si guardarono, come liberati da un grosso peso, e il rematore mingherlino attaccò una tirata più lunga e più spedita delle altre che Timar aveva già sentito.

Non rimase ad ascoltare. Dopo cinque minuti, neanche si accorgeva più del canto che proseguiva in sottofondo. Perché Bouilloux era venuto alla concessione? E perché Adèle era partita senza preannunciare il suo viaggio?

Si addormentò due o tre volte, ma sempre per brevissimo tempo. Più che altro era uno sgradevole stato di torpore, dovuto al caldo e al riverbero. Poi il sole sprofondò dietro agli alberi e ci fu un breve crepuscolo, con una parvenza di frescura e una luce meno violenta, che restituiva alle cose il loro vero colore. Un quarto d'ora dopo era già buio pesto, e non avevano ancora raggiunto Libreville. Timar era furibondo, tanto più che non poteva nemmeno chiedere informazioni agli uomini.

Navigavano da un'ora nell'oscurità, quando apparvero due puntini luminosi, uno verde e uno rosso. Più in alto, nel cielo, scintillava una luce che non era una stella. Nello stesso momento, percepirono la musica di un grammofono e rumori di movimenti precipitosi su un tavolato.

La sagoma massiccia di un cargo si delineò a pochissima distanza dalla piroga, che continuò a filare sull'acqua e raggiunse la foce, là dove una volta Timar aveva visto un'altra nave caricare tronchi. Il disco era finito, ma non lo avevano tolto e nel silenzio si udiva perfino il cigolio della puntina.

Si accese un faro, di una luminosità abbagliante. Il fascio di luce fece qualche volteggio sull'acqua prima di trovare la piroga e seguirla. Proveniva dal ponte di comando. Tre uomini, appoggiati al parapetto, guardarono passare l'imbarcazione con un bianco a bordo.

«Ehilà!» gridò una voce.

Timar non rispose, per qualche motivo che lui stesso non avrebbe saputo spiegare. Rimase nel suo angolo, con aria imbronciata. Si riscosse solo quando la piroga, superata la foce del fiume, cominciò a beccheggiare.

Davanti a lui c'era l'oceano, a destra una fila di luci, una banchina come tutte le altre banchine del mondo, come una vera banchina europea, e i fari delle automobili che sfrecciavano nella notte.

 

Si accostarono alla spiaggia sabbiosa, nel punto in cui ogni mattina attraccavano le piroghe dei pescatori. Sulla banchina stavano passando alcuni negri vestiti come i bianchi, altri in costume arabo; per Timar era come tornare da un lunghissimo viaggio.

La luce elettrica smorzava il rosso del viale; per contrasto, la vegetazione sembrava di un verde squillante. Il paesaggio, nell'insieme, faceva pensare a un fondale di teatro, soprattutto se si alzava lo sguardo verso le palme da cocco, le cui foglie, illuminate dal basso, si stagliavano contro il cielo di un nero vellutato.

A tutto ciò si accompagnavano rumori, voci, passi, scricchiolii, andirivieni di persone che non si conoscevano tra loro, una macchina i cui occupanti neanche si chiedevano chi fosse quel viaggiatore emerso così dalla notte.

I tre negri nudi si annodarono uno straccio intorno alla vita, mentre gli altri tiravano in secco la piroga. Timar era indeciso: doveva ordinare ai negri di rientrare alla concessione? O era meglio tenerli lì, nel caso gli servissero? Ma come li avrebbe nutriti, dove li avrebbe fatti alloggiare? E loro si sarebbero orientati in una città? Timar si avvicinò all'omino sdentato e cercò di farsi capire:

«Tu potere dormire qui?».

E per spiegarsi meglio si appoggiò una mano sulla guancia, inclinò la testa e chiuse gli occhi.

Il negro sorrise, accennando un gesto rassicurante.

«Vedere signora!».

Sarebbe andato da Adèle! L'uomo lo sapeva bene: quella che contava era lei! Timar era uno capitato là per caso! Nella gerarchia degli esseri umani occupava un posto unicamente in quanto protetto della signora. Non era neanche un vero colono, perché non parlava il dialetto indigeno e non aveva tirato alle anatre che sorvolavano la piroga! Per di più si era messo a distribuire sigarette! Non aveva picchiato nessuno! Non aveva indicato dove fermarsi! Era proprio un dilettante, uno di passaggio!

«Io vedere signora!».

Timar gli voltò le spalle e raggiunse il viale illuminato da lampioni elettrici. Per via dell'incidente della piroga, aveva i pantaloni inzaccherati e sgualciti. Inoltre non si faceva la barba da tre giorni. Proprio mentre si trovava nel cerchio luminoso di un lampione, passò una macchina. Sentì il rumore del motore che rallentava. Un viso fece capolino da dietro il vetro, e Timar riconobbe il commissario di polizia, che proseguì per la sua strada, girandosi due volte.

Soltanto trecento metri lo separavano dall'albergo. In un angolo buio una negra in pareo azzurro rideva strusciandosi contro un indigeno molto elegante. Era un po' grassa, come tutte quelle di città. Portava i capelli crespi raccolti in un'alta e complicata acconciatura e aveva perduto quel senso di rispetto verso il bianco che, nella foresta e nella savana, è la norma. Quando Timar le fu davanti, lo guardò senza dire una parola, ma non appena si allontanò di cinque metri, la donna scoppiò a ridere di nuovo.

Erano solo piccoli dettagli, eppure lo turbavano perché andavano ad aggiungersi a tutti i suoi motivi di malumore.

 

In albergo si faceva musica. Sul grammofono girava un disco hawaiano, che Timar aveva sentito una cinquantina di volte, e si udiva il rumore delle palle da biliardo che si urtavano.

Prima di entrare, si fermò un istante, con la fronte aggrottata, e istintivamente assunse un'aria minacciosa. Nessuno però se ne accorse. Un commerciante di legname stava giocando a biliardo con il praticante panciuto; i due gli davano le spalle, nascondendolo in parte ad altre quattro persone sedute attorno a un tavolo, vicino al grammofono, che parlavano fitto fitto, come se avessero cose importanti da confidarsi. L'orologio segnava le undici. Dietro al bancone non c'era nessuno. Il praticante, indietreggiando, andò a sbattere contro Timar e si girò.

«Ma guarda! È lei, giovanotto!».

E nella sua esclamazione Timar percepì un certo imbarazzo.

«Ehi, voialtri!...».

Lo fissarono tutti senza eccessivo stupore, ma con evidente contrarietà. Per loro era proprio un intruso. I presenti si scambiarono qualche occhiata, poi Bouilloux - uno dei quattro seduti attorno al tavolo - si alzò e gli andò incontro, gridando con falsa allegria:

«Questa sì che è una sorpresa!».

In realtà, l'arrivo di Timar era esattamente ciò che aveva previsto e che temeva di più.

«Dica un po', è venuto in aeroplano?».

«In piroga!».

L'altro lanciò un piccolo fischio di ammirazione.

«Beve qualcosa?».

Timar gli strinse la mano a malincuore, poiché non osava fingere di non aver visto il gesto di Bouilloux. I giocatori ripresero la partita di biliardo. Qualcuno cambiò il disco sul grammofono.

«Ha cenato?».

«No... Sì... Non ho fame...».

«Comunque, vecchio mio, scommetto che non prende la sua dose di chinino da qualche giorno! Basta guardare che occhi ha!».

Il tono era amichevole, gioviale, ma privo di vera cordialità. Il guercio, dal tavolo in cui erano rimasti in tre, fissava Timar con un'espressione tragica, mentre Maritain, anche lui del gruppo, si alzò bruscamente, affrettandosi a stringere la mano ai presenti.

«Vado a letto. È tardi».

Aveva tutta l'aria di una fuga, come se temesse una scenata e preferisse non esserne testimone. Era la prima volta che Timar si trovava al centro dell'attenzione, in una situazione alquanto teatrale. Lui era il personaggio da trattare coi guanti, quello che incute paura, e questo gli ricordò che in tasca aveva una rivoltella.

«Venga, beviamo un goccetto!».

Bouilloux lo trascinò verso il bancone, passò dall'altro lato e riempì due bicchieri di calvados.

«Alla sua salute! Si accomodi!».

Timar si issò su uno sgabello e vuotò il bicchiere d'un fiato, con lo sguardo fisso sull'uomo. Non sarebbero riusciti ad abbindolarlo! Sapeva che, alle sue spalle, i giocatori di biliardo continuavano la partita soltanto per forma, e che anche a destra, vicino al grammofono, la conversazione si era interrotta.

 

A tutti stava a cuore una sola cosa: il confronto tra lui e Bouilloux o, per meglio dire, lo scontro che si preparava fra i due.

«Un altro!» disse tendendo il bicchiere vuoto.

Bouilloux ebbe una breve esitazione. Aveva paura! E proprio per questo Timar accentuava la sua aria cupa e feroce, così come i modi minacciosi, simulando una sicurezza che non aveva.

«Adèle?».

Bouilloux, con la bottiglia di calvados in mano, continuò a recitare la commedia per guadagnare tempo.

«Sempre innamorati? Ah, ah! Certo che dovete star bene laggiù, voi due, lontani dai seccatori!».

Era falso, falsissimo!

«Dov'è?».

«Dov'è? E a me lo viene a chiedere?».

«Non è in albergo?».

«Perché dovrebbe essere in albergo? Alla sua! Ma, mi dica, quanto tempo ha impiegato per discendere il fiume in piroga?».

«Poco importa! Dunque, Adèle non è venuta in albergo?».

«Non dico questo! Per essere venuta, è venuta, ma al momento non è qui».

Timar gli aveva tolto di mano la bottiglia e si versò un terzo bicchiere. Si girò di scatto verso i giocatori di biliardo e li sorprese immobili, con l'orecchio teso.

«Tocca a te! Forza, un bel quattro sponde» disse con prontezza il praticante.

Timar non era mai stato così nervoso e, al tempo stesso, così lucido. Avrebbe potuto fare qualunque cosa, anche i gesti più stravaganti, ma tutto con la massima freddezza. Rivolse di nuovo lo sguardo verso Bouilloux, uno sguardo più duro. Convinto di apparire terrificante, non si rendeva conto di avere l'aspetto di un malato divorato dalla febbre. Era questo - la sua anemia, la sua agitazione - che spaventava i commercianti di legname, tanto che Bouilloux afferrò i bicchieri.

«Vieni qua, figliolo! Facciamo due chiacchiere».

Lo trascinò in un angolo del caffè dove potevano parlare senza essere sentiti, posò bottiglia e bicchieri sul tavolo, si appoggiò sui gomiti e tese una mano verso quella di Timar.

I clienti ancora seduti all'altro tavolo se ne andarono, bofonchiando:

«A domani, Louis! Buonanotte a tutti!».

I loro passi risuonarono in strada. Rimasero solo i giocatori di biliardo, che mettevano nella partita un insolito zelo.

«Stai calmo! Questo non è il momento di fare sciocchezze».

Il tono era paternalistico, ma così umano da ricordare a Timar la voce di certi preti della sua adolescenza.

«Inutile prenderci in giro. Parliamo da uomo a uomo».

Senza smettere di spiare il viso del compagno, Bouilloux portò il bicchiere alle labbra, ma tolse la bottiglia dalle mani di Timar.

«Non ora!».

Le maschere negre erano sempre al loro posto, sulle pareti dalle tonalità pastello. Nel caffè era rimasto tutto come prima; solo che Adèle, con il suo vestito di seta nera e l'espressione seria, non era più dietro il bancone, immersa nei conti o con il mento appoggiato sulle mani incrociate e lo sguardo fisso davanti a sé, indifferente.

«La faccenda passerà in Corte d'Assise domani! Capisci?».

Il suo viso era quasi attaccato a quello di Timar. Un viso strano! Visto così da vicino, Bouilloux non era più il bestione che sembrava di solito. E ancora una volta Timar pensò a un suo confessore che parlava sempre con lo stesso tono burbero.

«È tutto a posto. Ma non bisogna agitare Adèle! Perciò è stato necessario prendere un mucchio di precauzioni».

«Dov'è?».

«Ti ho detto che non ne ho idea! Il tuo nome non deve venir fuori in Corte d'Assise. E sarebbe anche meglio non far sapere in giro che sei a Libreville. Capisci o no? Adèle è una brava figliola, che non merita di farsi otto o dieci anni di galera».

Era come un'allucinazione: Timar sentiva le parole, le comprendeva, ma gli sembrava di cogliere nello stesso tempo anche quello che c'era al di là delle parole, come se queste formassero una grata.

Adèle era una brava figliola! Ecco come ne parlavano! Ed erano pure andati a letto con lei, che diamine! Erano vecchi amici, sì, tutti della stessa combriccola, e lui veniva a fare il guastafeste!

Come un bambino arrabbiato, che non vuol sentire ragioni, ripeté:

«Dov'è?».

Bouilloux fu sul punto di perdersi d'animo, bevve il suo bicchiere e si scordò di impedire a Timar di versarsene un altro.

«Ascolta! Tra noi bianchi, qui, ci sosteniamo a vicenda. Adèle ha fatto quello che doveva fare. Non serve a niente discuterne! Ti ripeto che è tutto a posto, devi solo aspettare e avere fiducia...».

«E quando lei era il suo amante...».

«Ma no, ragazzo mio, no!».

«È stato lei a dirmi...».

«Non è la stessa cosa! Devi sforzarti di capire, perché la situazione è grave! Io ho detto che ero andato a letto con Adèle! E anche altri l'hanno fatto! Ma questo non c'entra niente!».

Timar scoppiò in una risata stridula.

«Non c'entra niente, proprio così! E perciò non permetterò, adesso...».

Bouilloux vide il suo interlocutore impallidire all'improvviso e serrare i pugni, allora si affrettò a spiegare:

«Nella vita ci sono delle necessità. All'epoca, Adèle aveva il marito che la istigava. Ancora non hai capito? Lo sai qual è la prova che non è la stessa cosa? Eugène non è mai stato geloso per quelle vecchie storie! Sapeva che cosa occorreva fare».

Timar sogghignava, ma non era sicuro di mantenere il controllo ancora per molto senza scoppiare in singhiozzi di umiliazione.

«Con noi - tutti quelli di qui, compresi i gran signori, il governatore e compagnia bella - lei lo faceva, come dire, per cortesia, era una necessità del mestiere...».

La voce di Bouilloux si fece più dura, quasi minacciosa.

«Conosco Adèle da dieci anni! Ebbene, credo proprio che con te sia stata la prima volta. E se l'avessi saputo prima, avrei fatto di tutto per impedirlo, ecco!».

Il tono era sempre più accorato.

«È una fortuna che Eugène sia morto quella notte, perché sono sicuro che te la saresti vista brutta. Ancora non capisci? Bisogna spiegarti tutto? Ti dico questo, parola di Bouilloux: Adèle è nei pasticci! Ed è un miracolo che ne sia quasi fuori... Non del tutto, però, giacché la fine di questa storia si deciderà domani. Allora, ripeto, qui c'è gente - io, come altri - che non permetterà...».

Tacque. Forse si rendeva conto di essersi spinto troppo in là? Oppure gli faceva paura il viso di Timar, pallido, chiazzato di rosso per via della febbre, con gli occhi lucidi, le labbra paonazze? E poi quelle dita troppo affusolate che tremavano sul tavolo!

«Non serve a niente dirsi cattiverie. Adèle sa quello che fa».

Le palle del biliardo continuavano a sbattere l'una contro l'altra e i due uomini si muovevano con aria concentrata intorno al tavolo verde.

«Si dà da fare per cavarsela! Entro domani sera sarà tutto risolto! E lei se ne potrà tornare laggiù con te. Quanto a sapere se ha fatto bene a lasciare Libreville e il resto, questi sono affari suoi».

«Dov'è?».

«Dov'è? Non lo so! E nessuno qui ha il diritto di chiederglielo, hai capito? Tu meno che mai. Dov'è? Forse sta facendo l'amore per salvarsi la testa!».

Bouilloux si girò bruscamente verso il boy, che se ne stava immobile all'angolo del bancone.

«Chiudi tutto!».

Poi si rivolse ai giocatori.

«Sparite, voialtri».

Adesso era lui ad arrabbiarsi. Timar non sapeva che dire. Aveva la mano contratta, tanto forte era il suo desiderio di afferrare la rivoltella. Si udì il rumore delle imposte che venivano chiuse, e i passi dei due ultimi clienti risuonarono in strada.

Bouilloux si era alzato in piedi, alterato quasi quanto lui, e lo guardava dall'alto in basso, dominandolo con la sua mole.

«Se Adèle ha bisogno di questo per salvarsi la testa, non sarai tu a metterti in mezzo...».

Stringeva i pugni, pronto a colpire, mentre Timar era quasi deciso a sparare.

E invece no: il bestione ridivenne umano, cordiale, e diede una pacca sulla spalla del giovanotto.

«Vedi, figliolo, non bisogna farsi venire strane idee! Ora tu vai a letto, senza storie! E domani sera tutto sarà finito, ve ne tornerete insieme laggiù, a casa vostra, dove potrete amarvi come vi pare...».

Timar si versò un ultimo bicchiere di calvados e lo mandò giù d'un fiato. Aveva ancora un'aria cupa, inquietante, ma quando Bouilloux lo spinse verso la scala, non fece resistenza.

«È una donna che merita tanto di cappello!» disse dietro di lui la voce dell'ex commerciante di legname.

Timar non seppe mai chi gli avesse messo una candela in mano, né come fosse arrivato in camera, dove, buttandosi tutto vestito sul letto, strappò la zanzariera.

In seguito si ricordò solo che aveva pianto, singhiozzando convulsamente: più tardi si era svegliato di soprassalto quando la candela, ormai consumata, si era spenta, e lui aveva stretto forte il cuscino, come se avesse Adèle fra le braccia.

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