IV
Stavo liberando dalle erbacce le mie dalie, le Polar Beauty e le Golden Leader e le Requiem, quando squillò il telefono. Non essendo abituato a quel suono che ora veniva a rompere bruscamente la pace del mio piccolo giardino, pensai che avessero sbagliato numero. Avevo pochissimi amici, benché, prima di andare in pensione, potessi vantare numerosi conoscenti. C’erano clienti che mi erano stati fedeli per vent’anni, che mi avevano conosciuto, nella stessa agenzia, come impiegato, cassiere e infine direttore, eppure erano rimasti semplici conoscenti. È raro che venga promosso direttore un dipendente della stessa agenzia in cui dovrà esercitare l’autorità, ma nel mio caso si erano date circostanze particolari. Avevo svolto le mansioni di direttore per quasi un anno, durante la malattia del mio predecessore, e uno dei miei clienti, fra i maggiori correntisti della banca, che mi aveva preso in simpatia, minacciò di trasferire altrove il suo conto se io non fossi rimasto in quell’ufficio. Il cliente si chiamava Sir Alfred Keene: aveva accumulato una fortuna con il cemento, e il fatto che mio padre fosse stato un imprenditore edile ci forniva un punto di contatto. Sir Alfred mi invitava a pranzo almeno tre volte all’anno e non mancava mai di consultarmi sui suoi investimenti, anche se poi non seguiva affatto i miei consigli: diceva che lo aiutavano a prendere una decisione. Sir Alfred Keene aveva una figlia nubile, a nome Barbara, appassionata di tombolo (credo che regalasse i suoi merletti alle vendite di beneficenza della parrocchia), la quale era sempre molto gentile con me, tanto che mia madre mi aveva consigliato di corteggiarla, visto che sicuramente avrebbe ereditato il patrimonio di Sir Alfred. Ma a me quella motivazione sembrava piuttosto disonesta e poi, per essere sincero, le donne non mi hanno mai interessato molto. Allora la banca era tutta la mia vita, e adesso avevo le mie dalie.
Purtroppo Sir Alfred morì poco prima che andassi in pensione, e la figlia si trasferì in Sudafrica. Naturalmente mi occupai io di tutti i problemi valutari: scrivere alla Banca d’Inghilterra per le varie autorizzazioni, sollecitare risposta alla mia del 9 c.m., e così via. La sera del suo ultimo giorno in Inghilterra, prima dell’imbarco a Southampton, Miss Keene mi invitò a pranzo. L’atmosfera era un po’ malinconica, senza Sir Alfred, che era un tipo molto gioviale, incline a ridere fragorosamente delle sue stesse battute. Miss Keene mi aveva pregato di occuparmi dei vini e io avevo scelto un Amontillado e, come vino da pasto, lo Chambertin preferito da Sir Alfred. La casa era una di quelle grandi ville di Southwood circondate da cespugli di rododendri, grondanti, quella sera, sotto un’uggiosa pioggerella novembrina. In sala da pranzo, sopra il posto di Sir Alfred, era appeso un dipinto a olio, una copia di un Van de Velde, raffigurante un peschereccio nella tempesta, e io espressi l’augurio che la traversata di Miss Keene non dovesse essere altrettanto tempestosa.
«Ho venduto la casa così com’è, con tutti i mobili» mi informò la mia ospite. «Andrò a vivere da certi secondi cugini.»
«Li conosce bene?»
«Mai visti» rispose Miss Keene. «Sono cugini di secondo grado. Ci siamo soltanto scambiati qualche lettera. I francobolli sono come quelli dei paesi stranieri, senza la regina sopra.»
«Almeno avrà il sole» dissi per consolarla.
«Lei è stato in Sudafrica?»
«Non mi sono quasi mai mosso dall’Inghilterra» risposi. «Una volta, da giovane, sono andato in Spagna con un compagno di scuola, ma sono stato male di stomaco a causa di tutti quei crostacei, o forse fu per l’olio.»
«Mio padre aveva una personalità dominatrice» disse Miss Keene, «e io non ho mai avuto amici... a parte lei, Mr Pulling, s’intende.»
Ancora oggi mi sembra sorprendente quanto sia arrivato vicino alla proposta di matrimonio, e tuttavia mi sia tirato indietro. Avevamo interessi diversi, ovviamente: il tombolo e le dalie hanno poco da spartire, se non forse il fatto di essere entrambi passatempi per persone molto sole. Mi erano già giunte voci della grande fusione tra le due banche; il mio collocamento a riposo era imminente e in fondo sapevo bene che le amicizie che avevo stretto con i miei clienti non sarebbero sopravvissute a lungo. Se mi fossi dichiarato, lei mi avrebbe detto di sì? Avevamo l’età giusta: lei si avvicinava ai quaranta e io stavo per superare il mezzo secolo; inoltre sapevo che avrei avuto l’approvazione di mia madre. Come sarebbe stato tutto diverso, se quella sera avessi parlato! Non avrei mai dovuto ascoltare il conturbante racconto della mia nascita, perché mia moglie mi avrebbe accompagnato al funerale, e in sua presenza zia Augusta non avrebbe fiatato. Né ci sarebbero mai stati i viaggi con la zia. Insomma, molte esperienze mi sarebbero state risparmiate, ma, tant’è, me ne sarei anche perdute molte. Miss Keene disse: «Andrò a stare vicino a Koffiefontein».
«Dove si trova Koffiefontein?»
«Veramente non lo so. Ascolti: sta diluviando.»
Ci alzammo da tavola e passammo in salotto a bere il caffè. Alla parete era appesa una veduta di Venezia, una copia del Canaletto. Pareva che tutti i quadri di quella casa rappresentassero località straniere, e Miss Keene stava per finire a Koffiefontein! Mai io mi sarei spinto così lontano, pensai allora; e avrei voluto che anche Miss Keene rimanesse qui, a Southwood.
«Certo che va a stare molto lontano.»
«Se avessi qualche legame che mi trattenesse qui... una zolletta o due?»
«Niente zucchero, grazie.» Era un invito a dichiararmi? Da quella sera, non ho mai smesso di domandarmelo. Non ero innamorato di lei, né lei di me, però credo che in qualche modo ci saremmo potuti costruire una vita insieme. Ebbi notizie di Miss Keene solo l’anno dopo. “Caro Mr Pulling” mi scrisse, “come vanno le cose a Southwood? Piove sempre? Qui abbiamo uno splendido inverno di sole. I miei cugini posseggono una piccola (!) azienda agricola di diecimila acri e gli sembra normale farsi settecento miglia in macchina per comperare un montone. Ancora non mi sono del tutto abituata alla vita di qui e penso spesso a Southwood. Come vanno le dalie? Io ho lasciato perdere il tombolo. Qui si vive più che altro all’aria aperta.”
Le risposi cercando di darle quante più notizie potevo, ma ormai, essendo in pensione, ero un po’ tagliato fuori dalla vita di Southwood. Le dissi della salute in declino di mia madre e di come andavano le dalie: la nuova varietà color porpora, piuttosto lugubre, chiamata Deuil du Roy Albert, non aveva dato buoni risultati. Poco male: con quel nome! Invece le mie Ben Hur erano uno splendore.
Sicuro che avessero sbagliato numero, avevo ignorato il telefono, ma, visto che continuava a squillare, mi decisi a lasciare le mie dalie e andai a rispondere.
L’apparecchio era sopra una piccola cassettiera nella quale tenevo i miei conti e tutta la corrispondenza originata dalla morte di mia madre. Da quando ero in pensione, non mi era più capitato di ricevere così tanta posta: dall’avvocato, dall’impresa di pompe funebri, dall’ufficio delle tasse; il conto del crematorio, le parcelle del dottore, i moduli della mutua, perfino qualche biglietto di condoglianze. Potevo quasi illudermi di essere di nuovo nel mondo degli affari.
La voce di mia zia disse: «Ce ne hai messo di tempo a rispondere».
«Stavo lavorando in giardino.»
«A proposito, come stava il tosaerba?»
«Bagnato fradicio, ma senza guasti irreparabili.»
«Ho da raccontarti una storia incredibile» disse la zia. «Casa mia è stata perquisita dalla polizia.»
«Perquisita... dalla polizia?»
«Sì, ascoltami bene, perché potrebbero venire anche da te.»
«Ma perché mai?»
«Hai ancora le ceneri di tua madre?»
«Certo.»
«Vogliono vederle. Forse perfino analizzarle.»
«Ma zia Augusta... adesso devi raccontarmi tutto per filo e per segno.»
«Ci sto provando, ma tu continui a interrompermi con futili esclamazioni. Era mezzanotte, e io e Wordsworth eravamo a letto. Per fortuna, mi ero messa la mia camicia da notte più bella. Suona il citofono, dice che sono agenti di polizia e che hanno un mandato di perquisizione. “Per trovare che?” chiedo io. Sai, per un attimo ho pensato che potesse trattarsi di una qualche questione razziale. Con tutte le norme che ci sono oggi pro e contro questa o quella razza, non si sa più come regolarsi.»
«Sei sicura che fossero della polizia?»
«Naturalmente mi sono fatta mostrare il mandato, ma tu l’hai mai visto un mandato di perquisizione? Per quello che ne so, poteva essere un permesso per la sala di lettura della biblioteca del British Museum. Comunque, li faccio entrare, perché erano ben educati e uno, quello in divisa, era alto e carino. Sono rimasti un po’ sorpresi quando hanno visto Wordsworth, o forse era per il colore del suo pigiama. Mi fanno: “È suo marito, signora?”. “No” rispondo io, “è Wordsworth.” A uno dei due – quello giovane in divisa – il nome non doveva giungere nuovo, perché dopo continuava a lanciargli occhiate furtive, come se si sforzasse di ricordare...»
«Ma in definitiva, che cosa cercavano?»
«Dice che avevano saputo da fonte attendibile che in casa c’era della droga.»
«Oddio, zia Augusta, credi che Wordsworth...»
«Neanche per sogno. Hanno prelevato tutti i pelucchi dalle cuciture delle sue tasche, e alla fine è saltata fuori la verità. Gli hanno chiesto che cosa c’era nel pacco marrone che era stato visto consegnare a un tizio in attesa giù in strada. Il povero Wordsworth ha risposto che non lo sapeva, allora sono intervenuta io, per dire che si trattava delle ceneri di mia sorella. Non so perché, ma subito mi hanno guardato con sospetto. L’agente più vecchio, che era in borghese, mi dice: “Per favore, signora, cerchi di non fare la spiritosa, questo non migliora la sua posizione”. Io ho ribattuto: “Secondo il mio senso dell’umorismo, non ci può essere niente di spiritoso nelle ceneri della mia defunta sorella”. “Per caso, era una specie di polverina, signora?” domanda il più giovane, quello che pensava di aver già sentito il nome di Wordsworth da qualche parte, e il più sveglio dei due. “La chiami come preferisce” faccio io, “polvere grigia, polvere umana” e dalla loro espressione sembrava che avessero segnato un punto a loro vantaggio. “E chi era il tizio al quale è stata consegnata la polvere?” domanda l’agente in borghese. “Mio nipote” ho risposto, “il figlio di mia sorella.” Sai, non mi pareva il caso di rivangare quella vecchia storia, di cui ti ho parlato ieri, con dei poliziotti. Allora hanno voluto sapere il tuo indirizzo e io glielo ho dato. Poi quello sveglio ha chiesto: “La polvere era per suo uso personale?”. “Vuole metterla in mezzo alle sue dalie” ho risposto. Hanno frugato dappertutto, specialmente in camera di Wordsworth, e si sono portati via campioni di tutte le sigarette che sono riusciti a trovare e anche le compresse di aspirina che tenevo nell’astuccio dei cachet. Poi hanno detto: “Buona notte, signora” molto educatamente, e se ne sono andati. Wordsworth è dovuto scendere ad aprirgli il portone, e mentre stava uscendo, il poliziotto sveglio si è voltato e gli ha chiesto: “Come ti chiami di nome?”. “Zachary” ha risposto Wordsworth, e l’altro ha scosso la testa perplesso.»
«Che faccenda incredibile.»
«Si sono perfino messi a leggere le mie lettere. Volevano sapere chi era Abdul.»
«Chi era Abdul?»
«Un tale che conoscevo tantissimo tempo fa. Per fortuna avevo tenuto la busta, con il timbro: Tunisi, febbraio 1924. Altrimenti chissà che cose assurde ci avrebbero letto, da riferire al presente.»
«Mi dispiace, zia Augusta. Deve essere stata un’esperienza terribile.»
«Anche divertente, in un certo senso. Ma mi ha fatto sentire in colpa per...»
Sentii suonare alla porta. «Aspetta un secondo, zia» dissi al telefono. Andai a guardare dalla finestra della sala da pranzo, e vidi un elmetto da poliziotto. Tornai al telefono e dissi: «I tuoi amici sono qui».
«Di già?»
«Ti richiamo appena se ne saranno andati.»
Era la prima volta in vita mia che ricevevo una visita della polizia. Davanti alla porta c’erano un tipo basso, di mezza età, con il cappello floscio e una faccia grossolana ma bonaria, dal setto nasale rotto, e il giovane agente alto e “carino” in divisa. «Mr Pulling?» domandò l’agente in borghese.
«Sì.»
«Possiamo entrare un attimo?»
«Ce l’avete il mandato?» domandai.
«Oh, non siamo a questo punto. Vogliamo soltanto scambiare due parole con lei.» Mi venne sulla punta della lingua un commento sulla Gestapo, ma ritenni più saggio tacere. Li accompagnai in sala, ma non li invitai ad accomodarsi. L’agente in borghese mi mostrò la tessera di riconoscimento: diceva che era il sergente investigativo Sparrow, John.
«Lei conosce un tale a nome Wordsworth, Mr Pulling?»
«Sì, è un amico di mia zia.»
«Quell’uomo le ha forse consegnato un pacco, ieri per strada?»
«Certo che me lo ha consegnato.»
«Le dispiacerebbe lasciarcelo esaminare, Mr Pulling?»
«Moltissimo.»
«Vede, signore, ci saremmo potuti procurare facilmente un mandato, ma volevamo condurre la cosa con delicatezza. Conosce da molto tempo questo Wordsworth?»
«L’ho visto ieri per la prima volta.»
«E forse lui le ha chiesto il favore di consegnare a qualcuno il pacco, e lei, non vedendoci niente di male e trattandosi oltretutto di un dipendente di sua zia...»
«Niente affatto: quel pacco è mio. Sbadatamente l’avevo dimenticato in cucina.»
«Il pacco le appartiene, signore, dunque lo ammette?»
«Sapete benissimo che cosa contiene; ve l’ha spiegato mia zia: è l’urna con le ceneri di mia madre.»
«Dunque sua zia si è messa in comunicazione con lei?»
«Naturale, che cosa credeva? Svegliare una povera vecchietta nel cuore della notte!»
«Era appena suonata la mezza, signore. E così quelle ceneri... sarebbero di Mrs Pulling?»
«Ecco là l’urna, può vederla da sé: sulla libreria.»
Avevo temporaneamente collocato l’urna, finché non fosse stato pronto il posto nell’aiuola, sopra l’edizione completa di Walter Scott che avevo ereditato da mio padre. A suo modo, benché indolente, mio padre era un grande amante della lettura, anche se non proprio avventuroso: gli bastava possedere i libri di pochissimi autori prediletti. Prima di avere terminato di leggere tutte le opere di Walter Scott, i primi volumi non li ricordava più e quindi era ben contento di ricominciare da capo con Guy Mannering.5 Anche di Marion Crawford possedeva l’opera completa e inoltre aveva una passione per la poesia dell’Ottocento, che io ho ereditato: Tennyson, Wordsworth, Browning e il Golden Treasury di Palgrave.
«Le dispiace se do un’occhiata?» chiese il sergente, ma naturalmente non riuscì ad aprire l’urna. «È sigillata» osservò. «Con nastro adesivo.»
«Naturale. Anche le scatole dei biscotti si...»
«Vorrei prelevarne un campione per farlo analizzare.»
A quel punto avevo incominciato a irritarmi sul serio. Dissi: «Se crede che le permetterò di giocherellare con le ceneri della mia povera mamma nei vostri laboratori...».
«Comprendo i suoi sentimenti, signore, ma ci muoviamo sulla base di prove piuttosto gravi in nostro possesso. Avevamo prelevato dalle tasche di quel Wordsworth un po’ di lanugine che, analizzata, ha rivelato tracce di erba.»
«Che erba?»
«Marijuana, signore, detta anche cannabis.»
«La lanugine delle tasche di Wordsworth non c’entra niente con mia madre.»
«Signore, non ci metteremmo molto a procurarci un mandato, ma, visto che probabilmente lei è soltanto un ingenuo che si è lasciato abbindolare, preferirei portarmi via l’urna con il suo consenso. In tribunale farebbe un’impressione molto migliore.»
«Potete controllare al crematorio: il funerale si è svolto appena ieri.»
«Già fatto, signore, ma vede, c’è la possibilità che quel Wordsworth (guardi che non pretendo di suggerirle la sua linea di difesa: quella è una faccenda che riguarda esclusivamente il suo avvocato), c’è la possibilità, dicevo, che abbia svuotato l’urna dalle ceneri per metterci l’erba. Magari sapeva di essere sorvegliato. Non sarebbe meglio, sotto tutti i punti di vista, sapere con certezza che sono proprio le ceneri di sua madre? Sua zia ci ha detto che ha intenzione di conservarle in giardino... non vorrà avere quell’urna sotto gli occhi tutti i giorni, con il dubbio: saranno davvero le ceneri della cara estinta o è una partita illegale di marijuana?»
Aveva un modo di fare così comprensivo che incominciavo a capire il suo punto di vista.
«Ne preleveremmo soltanto un pizzico minuscolo, signore, meno di un cucchiaino da tè, e tratteremmo il resto con il dovuto rispetto.»
«E va bene» dissi alla fine, «prendetevi il vostro pizzico. In fondo state solo facendo il vostro dovere.» Allora il sergente disse al poliziotto giovane, che per tutto il tempo aveva continuato a prendere appunti: «Prendi nota che Mr Pulling si è mostrato dispostissimo a collaborare e ha consegnato l’urna di sua spontanea volontà. Questo farà un’impressione favorevole in tribunale, signore, se dovesse accadere il peggio».
«Quand’è che mi restituirete la mia urna?»
«Domani al più tardi, signore... se tutto va come dovrebbe.» Mi strinse la mano con grande cordialità, come se davvero credesse nella mia innocenza, ma forse faceva parte delle sue maniere professionali.
Naturalmente mi affrettai a telefonare alla zia. «Si sono portati via l’urna» dissi. «Pensano che le ceneri di mia madre siano marijuana. Wordsworth dov’è?»
«È uscito dopo colazione e non è ancora tornato.»
«Hanno trovato tracce di marijuana nelle cuciture del suo vestito.»
«Oh santo cielo, povero ragazzo, che sbadato! Mi era parso un po’ agitato, infatti. E prima di uscire mi ha chiesto una CTC.».»
«E gliel’hai data?»
«Be’, sai, gli sono tanto affezionata, e poi ha detto che era il suo compleanno. E siccome l’anno scorso non l’aveva festeggiato, gli ho dato venti sterline.»
«Venti sterline! Io non tengo mai in casa una cifra simile.»
«Gli basterà per arrivare al massimo a Parigi. Anzi, ora che ci penso, è uscito in tempo per prendere la Golden Arrow,6 e il passaporto lo ha sempre con sé per poter dimostrare di non essere un immigrato clandestino. Sai una cosa, Henry, è venuta anche a me una gran voglia di un po’ di aria di mare.»
«Non riuscirai mai a trovarlo, a Parigi.»
«Non pensavo a Parigi, ma a Istanbul, semmai.»
«Istanbul non è sul mare.»
«Ti sbagli, caro. Non conti il mar di Marmara.»
«Perché proprio Istanbul?»
«Me l’ha fatto tornare in mente la lettera di Abdul trovata dalla polizia. Una strana coincidenza: prima quella lettera e poi un’altra oggi, con la posta del mattino, la prima dopo così tanto tempo.»
«Una lettera di Abdul?»
«Sì.»
È stata una debolezza, lo so, ma ancora non mi ero reso conto di quanto fosse profonda la passione di mia zia per i viaggi. Altrimenti, ci avrei pensato due volte prima di rivolgerle io stesso la fatale proposta: «Oggi non ho nessun impegno particolare. Se vuoi, possiamo fare una gita a Brighton...».