XV

Dopo il confine turco, quando ormai era troppo tardi per essere di qualche utilità, fu attaccata al treno una vecchia carrozza ristorante non priva di una sua eleganza un po’ fané. Quel giorno zia Augusta si era alzata presto, e ora ci stavamo gustando un caffè squisito, con pane tostato e marmellata: la zia volle a tutti i costi che bevessimo anche un vinello rosso, sebbene io non sia abituato a bere così presto al mattino. Fuori dal finestrino, un oceano di alta erba ondeggiante si perdeva all’orizzonte verde pallido. Si avvertiva nell’aria la loquace allegria di fine viaggio e la carrozza si riempì di passeggeri che vedevamo per la prima volta: un vietnamita in salopette blu parlava con una ragazza arruffata in calzoncini corti, poi raggiunti da due giovani americani, un ragazzo e una ragazza che si tenevano per mano, lui con i capelli lunghi come quelli di lei. Dopo avere contato e ricontato i loro soldi, decisero di non prendere una seconda tazza di caffè.

«Dov’è Tooley?» domandò zia Augusta.

«Ieri sera non si sentiva troppo bene. Sono molto preoccupato per lei, zia. Il suo ragazzo è partito per Istanbul in autostop. Può darsi che non sia ancora arrivato. Oppure che sia già ripartito senza di lei.»

«Per dove?»

«Tooley non lo sa di preciso. Katmandu o Vientiane.»

«Istanbul è un posto imprevedibile» osservò zia Augusta. «Non so neppure io che cosa troverò.»

«Che cosa ti aspetti di trovare?»

«Ho un piccolo affare da sbrigare con un vecchio amico, il generale Abdul. Mi aspettavo un telegramma al St James and Albany, invece niente. Speriamo almeno di trovare un messaggio al Pera Palace.»

«Chi è questo generale?»

«L’ho conosciuto ai tempi del povero Visconti» rispose la zia. «Ci fu molto utile nelle trattative con l’Arabia Saudita. All’epoca era l’ambasciatore turco a Tunisi. Che feste davamo allora all’Excelsior! Non era proprio esattamente come andare al Crown and Anchor a bere un bicchierino con il povero Wordsworth.»

Nell’avvicinarci a Istanbul, il panorama cambiò. Lasciatosi alle spalle il mare di erba, l’espresso ridusse la velocità a quella di un accelerato per pendolari. Quando mi sporsi dal finestrino riuscii a vedere, oltre il muro, dentro il giardino di una casetta; con la ragazza dalla gonna rossa che alzò gli occhi verso di noi mentre le passavamo lentamente accanto avremmo potuto metterci a conversare; un tale montò in bicicletta e per un tratto ci tenne testa. Da un tetto di tegole rosse uccelli dal lungo becco interruppero il loro parlottare da pettegole di paese per guardarci.

Dissi: «Ho una gran paura che Tooley sia incinta».

«Dovrebbe prendere delle precauzioni, ma a ogni modo è ancora troppo presto perché tu te ne debba preoccupare, Henry.»

«Santo cielo, zia Augusta, non intendevo dire... come puoi pensare che io...?»

«È una conclusione logica» disse la zia, «siete stati tanto tempo insieme. E quella ragazza ha un suo fascino da cucciolo.»

«Sono troppo vecchio per certe cose.»

«Sei un giovanotto sui cinquanta» ribatté la zia.

La porta del vagone ristorante si aprì sferragliando, ed ecco là Tooley, ma una Tooley trasfigurata. Forse era solo perché si era messa meno ombretto, ma gli occhi le brillavano come non glieli avevo mai visti brillare. «Salve!» salutò dalla porta. I quattro ragazzi si girarono, la guardarono e risposero «Salve!», come se fossero vecchi amici. «Salve!» ripeté Tooley rivolta a loro, e io provai una piccola fitta di gelosia, irrazionale come i malumori appena svegli.

«Buongiorno! Buongiorno!» disse poi a noi due, come se con le persone anziane parlasse una lingua diversa. «Oh, Mr Pulling, sono venute!»

«Venute, che cosa?»

«Le mie cose. Mi sono venute. Visto, che avevo ragione: gli scossoni del treno, cioè... ha funzionato. Ho un mal di pancia da pazzi, ma mi sento da favola. Non vedo l’ora di dirlo a Julian. Oh, speriamo di trovarlo al Gulhane.»

«Vai al Gulhane?» domandò dall’altro capo del vagone il ragazzo americano.

«Sì, anche voi?»

«Certo. Possiamo andarci insieme.»

«Fantastico!»

«Vieni a bere un caffè con noi, se hai i soldi.»

«Mi scusate, vero?» disse Tooley rivolta alla zia. «Vanno anche loro al Gulhane.»

«Certo che ti scusiamo, Tooley.»

«Lei è stato così gentile, Mr Pulling» proseguì Tooley. «Non so che cosa avrei fatto senza di lei. Cioè, insomma, è stato un po’ come la buia notte dell’anima.»

Mi accorsi che avrei preferito che mi chiamasse Smudge.

«Vacci piano con le sigarette, Tooley» le raccomandai.

«Oh» rispose lei, «adesso non c’è più bisogno che faccia economia. Cioè, al Gulhane si trovano facilmente. Si trova di tutto, al Gulhane. Anche l’acido. Ma ci rivedremo ancora, prima di scendere, vero?»

Invece no. Adesso faceva parte della classe dei giovani, e io dovetti accontentarmi di mandare un saluto alla sua schiena, quando passò la dogana davanti a noi. I due americani si tenevano sempre per mano, e il ragazzo vietnamita portava lo zaino di Tooley e le aveva messo un braccio intorno alle spalle per proteggerla dalla folla che si accalcava davanti al cancello del controllo bagagli. Non dovevo più ritenermi responsabile nei suoi confronti, eppure il pensiero di Tooley rimase, annidato in un angolo della coscienza, come uno di quei doloretti persistenti, che preoccupano pur nella loro insignificanza: non cominciano così anche le malattie gravi, come il cancro?

Chissà se Julian l’aspettava davvero? Avrebbero proseguito per Katmandu? Si sarebbe ricordata di prendere la pillola? Quando, al Pera Palace, mi feci finalmente la barba come si deve, scoprii di non avere notato, nel buio del vagone letto, un piccolo sbaffo di rossetto sulla guancia. Forse era stato per quello che la zia era saltata alla conclusione sbagliata. Lo sfregai via, e subito mi sorpresi a pensare: Dove sarà, in questo momento? Guardai con una smorfia di disapprovazione la mia faccia allo specchio, ma in realtà la smorfia era diretta a sua madre che stava a Bonn, a suo padre nella CIA in giro per il mondo, a Julian con le sue paure di castrazione, e a tutti coloro che avrebbero dovuto proteggerla e invece non provavano alcun senso di responsabilità.

Pranzammo in un ristorante chiamato Abdullah, poi la zia mi portò a vedere le principali attrazioni turistiche – la Moschea Blu, Santa Sofia – ma si capiva subito che era preoccupata. All’albergo non aveva trovato messaggi ad attenderla.

«Non puoi telefonare tu al generale?» le domandai.

«Nemmeno all’ambasciata di Tunisi si fidava del suo telefono.»

Ci piazzammo doverosamente nel bel mezzo di Santa Sofia, la cui struttura, che forse un tempo sarà anche stata bella, adesso era rovinata da brutte scritte in arabo, color marroncino chiaro, che la facevano assomigliare a un’enorme squallida sala d’attesa di qualche stazione nelle ore morte. I pochi turisti presenti si guardavano intorno con l’aria di cercare gli orari dei treni, e c’era perfino un uomo con la valigia.

«Non ricordavo più quanto fosse brutta» disse la zia. «Torniamocene a casa.»

“Casa” non era la parola più appropriata per il Pera Palace, che aveva l’aspetto del padiglione di un paese orientale costruito per l’Esposizione universale. Al bar, tutto trafori e specchi, la zia ordinò due raqi: ancora nessun messaggio da parte del generale Abdul, e per la prima volta la vidi smarrita.

«Quando è stata l’ultima volta che hai ricevuto sue notizie?» le chiesi.

«Te l’ho detto: ho ricevuto una sua lettera a Londra, il giorno dopo la visita di quei poliziotti. E a Milano mi ha fatto pervenire un messaggio tramite Mario. Era tutto pronto, diceva. Se ci fossero stati dei cambiamenti, Mario l’avrebbe saputo.»

«È quasi ora di cena.»

«Scusami, Henry, ma non mi va di mangiare. Ho un po’ di nausea: saranno state le vibrazioni del treno. Andrò a letto, ad aspettare la telefonata. Non posso credere che mi abbia piantata in asso. Visconti credeva ciecamente nel generale Abdul, e non erano molte le persone di cui si fidava.»

Cenai da solo, nel ristorante dell’albergo, un salone immenso che mi ricordò Santa Sofia (il cibo non era un granché). Avevo bevuto parecchi raqi, a cui non ero abituato, e forse l’assenza della zia mi rese un po’ avventato. Non avevo sonno; se almeno ci fosse stata Tooley con me! Uscii, e trovai un tassista che masticava un po’ di inglese. Era greco, disse, ma conosceva Istanbul come se ci fosse nato. «Al sicuro» continuava a ripetere, «con me al sicuro», agitando la mano quasi a indicare come lungo i muri e nei vicoli fosse pieno di lupi in agguato. Gli dissi di farmi visitare la città. Il tassista infilò una serie di stradine anguste, una più buia dell’altra, senza niente di artistico da vedere, e andò a fermarsi davanti a un portone scuro e minaccioso, con un guardiano barbuto addormentato sui gradini. «Casa sicura» disse il greco, «sicura e pulita. Molto al sicuro», e a me tornò in mente, lasciandomi a disagio, una cosa che avrei preferito dimenticare, la casa piena di divani dietro «Il Messaggero».

«No, no, proseguiamo, non intendevo questo.» Cercai di spiegarmi meglio: «Mi porti in un locale tranquillo. Un locale dove andrebbe lei stesso. Con gli amici. A bere qualcosa. Con gli amici».

Dopo una corsa di diverse miglia lungo il mar di Marmara, ci fermammo davanti a un edificio dall’aspetto spoglio e comune, con l’insegna “West Berlin Hotel”. Niente sarebbe potuto essere più lontano dalla Istanbul delle mie fantasie. Era una specie di scatola a tre piani, come uno di quegli edifici della Berlino del dopoguerra, costruiti in economia da una piccola impresa. Il tassista mi fece strada nella sala, che occupava quasi tutto il piano terra dell’albergo. Una ragazza, in piedi di fianco a un piccolo pianoforte, cantava canzoni sentimentali, per quello che potevo giudicare, a un pubblico di uomini di mezza età in maniche di camicia, seduti a bere birra intorno a lunghi tavoli. Avevano quasi tutti dei baffoni grigi, come il mio autista, e applaudivano con forza, doverosamente, alla fine di ogni canzone. Ci fu servita della birra, e io e il tassista brindammo alla nostra salute. La birra era ottima, notai, e, in aggiunta a tutto il raqi e al vino bevuti in precedenza, mi diede una piacevole euforia. Nella cantante colsi una certa rassomiglianza con Tooley e in quegli uomini tarchiati fantasticai di... «Conosce il generale Abdul?» domandai al tassista. Subito, quello mi fece segno di tacere. Mi resi conto, guardandomi intorno una seconda volta, che in tutto il locale non si vedeva una donna, a parte la cantante, la quale, non appena il pianoforte tacque, data un’occhiata all’orologio, che segnava la mezzanotte, afferrò la borsetta e infilò una porta in fondo alla sala. Poi, dopo che i bicchieri furono nuovamente riempiti, il pianoforte attaccò un motivo più virile, e tutti quegli uomini di mezza età si alzarono in piedi, misero ciascuno le braccia intorno alle spalle del vicino e incominciarono a ballare, formando cerchi che via via si allargavano, si rompevano, si riformavano.

Avanzavano come alla carica, indietreggiavano, pestavano i piedi per terra all’unisono. Nessuno diceva una parola al vicino, non c’era alcuna allegria da ubriachi. Io mi sentivo come un estraneo che assistesse a una cerimonia religiosa di cui non sapeva interpretare i simboli. Perfino il mio tassista mi aveva abbandonato per andare a mettere il braccio intorno alle spalle di un altro, e io continuai a bere, per annegare il mio senso di esclusione. Ero ubriaco, me ne rendevo conto, perché mi sentivo gli occhi pieni di lacrime alcoliche e avrei voluto scaraventare per terra il bicchiere e mettermi a ballare anch’io. Ma io ero escluso, come sempre ero stato. Tooley se ne era andata con i suoi giovani amici e Miss Keene dai suoi cugini a Koffiefontein, abbandonando il suo tombolo sulla sedia sotto il Van de Velde. Tra me e gli altri si sarebbe sempre levato, come quando facevo il cassiere, un igienico schermo di plastica. Nemmeno l’alito dei ballerini, che giravano ora intorno al mio tavolo, poteva raggiungermi. E la zia, la zia stava probabilmente parlando di cose per lei importanti con il generale Abdul. A Milano, aveva salutato il figlio adottivo con maggiore trasporto di quanto ne avesse mai dimostrato con me; e a Wordsworth, a Parigi, aveva detto addio mandandogli baci con la mano e versando calde lacrime. Aveva un suo mondo, dal quale io sarei sempre rimasto escluso; perché mai, mi dissi, non sono rimasto a casa, con le mie dalie e le ceneri di mia madre che non era, a voler credere alla zia, la mia vera madre. Invece eccomi qui, nella sala del West Berlin Hotel, a versare lacrime di birra e di autocommiserazione e a invidiare tutti quegli uomini che ballavano allacciati a estranei. «Mi porti via» dissi al tassista appena fu ritornato, «finisca la sua birra, ma mi porti via.»

«Non è soddisfatto?» mi domandò mentre risalivamo la collina verso il Pera Palace.

«Sono stanco, tutto qui. Ho voglia di andarmene a letto.»

Davanti all’albergo, due auto della polizia sbarravano la strada. Un uomo piuttosto vecchio, con il bastone da passeggio appeso al braccio sinistro, stava scendendo da una delle macchine; aveva la gamba destra rigida. Il tassista mi disse in tono pieno di riverenza: «È il colonnello Hakim». Il colonnello indossava un completo gessato di flanella grigia, molto inglese, e aveva corti baffi grigi. Sembrava un qualsiasi veterano dell’Esercito o della Marina inglesi diretto al suo club.

«Uomo molto importante» mi disse il mio autista, «molto giusto verso i greci.»

Entrai nell’albergo, superando il colonnello. Il portiere era in piedi davanti alla porta, pronto, immagino, ad accoglierlo; io contavo così poco, che non si spostò nemmeno per lasciarmi passare: dovetti girargli intorno, e non rispose alla mia buonanotte. L’ascensore mi portò al quinto piano. Vedendo la luce sotto la porta della camera della zia, bussai ed entrai. Era seduta a letto, con indosso una liseuse, che leggeva un tascabile dalla copertina trucida.

«Ho fatto un giro per Istanbul» dissi.

«Anch’io.» Le tende erano scostate e le luci della città brillavano sotto di noi. Mise giù il libro. Sulla copertina si vedeva una ragazza nuda distesa sul letto con un pugnale conficcato nella schiena, e un uomo dalla faccia crudele, con un fez rosso in testa, che la fissava. Il titolo del libro era: Turkish delight.22 «Mi sono immersa nell’atmosfera locale.»

«È il tipo con il fez l’assassino?»

«No, lui è il poliziotto. Un tipo odioso a nome colonnello Hakim.»

«Che strano, pensa che...»

«L’assassinio viene commesso proprio qui, al Pera Palace, ma un mucchio di particolari sono sbagliati, come ci si può aspettare da uno scrittore. Della ragazza è innamorato un agente segreto inglese, un tipo tosto ma sentimentale a nome Amis, e i due hanno pranzato insieme da Abdullah (dove abbiamo mangiato noi, ricordi?) la sera prima che lei venisse uccisa. C’è anche una scena d’amore a Santa Sofia e un attentato alla vita di Amis nella Moschea Blu. In un certo senso, oggi abbiamo fatto un pellegrinaggio letterario.»

«Letterario, non direi.»

«Uffa, sei proprio figlio di tuo padre. Voleva a tutti i costi farmi leggere Walter Scott, specialmente Rob Roy, ma io preferisco di gran lunga questo. C’è molto più ritmo e ci sono meno descrizioni.»

«L’ha uccisa Amis, allora?»

«No, ovviamente, ma è sospettato dal colonnello Hakim, che usa dei sistemi molto crudeli negli interrogatori» disse la zia con gusto.

Squillò il telefono. Risposi io.

«Forse è il generale Abdul, finalmente» disse la zia. «Per quanto, sembra un po’ tardi per telefonare.»

«Qui è la reception. È in camera Miss Bertram?»

«Sì, di che cosa si tratta?»

«Scusi se la disturbo, ma il colonnello Hakim desidera vederla.»

«A quest’ora? No, impossibile. Perché?»

«Sta già salendo.» E interruppe la comunicazione.

«Sta arrivando il colonnello Hakim» annunciai.

«Il colonnello Hakim?»

«Quello vero. Anche lui è della polizia.»

«La polizia?» ripeté zia Augusta. «Ancora? Incomincio a credere di essere ritornata ai vecchi tempi. Ai tempi di Visconti. Henry, ti dispiace aprire la mia valigia? Quella verde. Ci troverai un soprabito. Fulvo chiaro, con il collo di pelliccia.»

«Sì, zia, eccolo.»

«Sotto il soprabito, in una scatola di cartone, troverai una candela, una candela scolpita.»

«Sì, vedo la scatola.»

«Tira fuori la candela, ma fai attenzione perché è piuttosto pesante. Mettila qui, sul comodino, e accendila. La luce di candela dona di più alla mia carnagione.»

Era incredibilmente pesante, tanto che per poco non la lasciai cadere. Probabilmente ha la base piombata, pensai, per tenerla ferma. Era una specie di grosso mattone di cera scarlatta, alto una trentina di centimetri, e decorato su tutti e quattro i lati con cartigli e stemmi araldici. Quanta abilità artistica era stata impiegata per modellare quella cera che si sarebbe comunque sciolta in poco tempo. Accesi lo stoppino. «Adesso, spegni la luce» disse la zia sistemandosi la liseuse e sprimacciando il cuscino. Si sentì bussare alla porta, ed entrò il colonnello Hakim.

Fece un inchino dalla soglia. «Miss Bertram?» disse.

«Sì. Lei è il colonnello Hakim?»

«Sì. Mi scuso se sono venuto a disturbarla a quest’ora e senza preavviso.» Parlava inglese senza quasi accento. «Credo che abbiamo una conoscenza in comune, il generale Abdul. Posso sedere?»

«Ma certo. La sedia davanti alla toilette è la più comoda. Le presento mio nipote, Henry Pulling.»

«Buonasera, Mr Pulling. Le sono piaciuti i balli al West Berlin Hotel? Un ritrovo ignoto alla maggior parte dei turisti. Posso accendere la luce, Miss Bertram?»

«Preferirei di no, ho gli occhi delicati, e leggo sempre al lume di candela.»

«È una candela stupenda.»

«Le fanno a Venezia. Gli stemmi sono quelli dei quattro dogi più famosi, ma non mi chieda come si chiamano. Come sta il generale Abdul? Speravo tanto di rivederlo.»

«Temo che il generale Abdul sia molto malato.» Prima di mettersi a sedere, il colonnello appese il bastone alla specchiera. Teneva la testa leggermente inclinata e protesa verso la zia, in un atteggiamento che sembrava di deferenza, ma io notai che il vero motivo era il piccolo apparecchio acustico che portava nell’orecchio destro. «Era molto amico suo e del signor Visconti, se non vado errato, vero?»

«Quante cose sa, colonnello!» disse la zia con un sorriso accattivante.

«Fa parte del mio odioso mestiere» disse il colonnello «essere un Nosey Harker.»

«Parker, colonnello.»

«Il mio inglese è arrugginito.»

«Mi ha fatto seguire fino al West Berlin Hotel?» domandai io.

«Oh, no, ho suggerito al tassista di portarcela» rispose il colonnello. «Pensavo che avrebbe potuto interessarla e che avrebbe impegnato la sua attenzione più a lungo di quanto non sia accaduto. I night alla moda sono molto banali e poco caratteristici. Come trovarsi a Parigi o a Londra, tranne che là gli spettacoli sono di qualità migliore. Naturalmente, ho detto al tassista di provare in un altro posto, prima. Non si può mai sapere.»

«Mi dica del generale Abdul» intervenne la zia spazientita. «Che cos’ha?»

Il colonnello si protese un poco più in avanti e abbassò la voce, come se stesse per confidare un segreto. «Gli hanno sparato» disse, «mentre fuggiva.»

«Fuggiva?» esclamò la zia. «E da chi?»

«Da me» rispose il colonnello con schiva modestia, cincischiando con l’apparecchio acustico. Le sue parole furono seguite da un lungo silenzio. Sembrava non ci fosse più niente da dire: perfino la zia era ammutolita. Si abbandonò contro i cuscini con la bocca semiaperta. Il colonnello tirò fuori di tasca una scatolina di latta e la aprì. «Con permesso» disse. «Mentolo ed eucalipto. Soffro di asma.» Si mise in bocca una pasticca e incominciò a succhiarla. Calò di nuovo il silenzio, finché la zia disse: «Non credo che quelle pasticche possano farle granché».

«È questione di suggestione, credo. L’asma è un disturbo nervoso. Queste pasticche in effetti sembrano alleviarla, ma forse soltanto perché io credo che la allevino.» Ansimava un po’, parlando. «Tende a venirmi un attacco ogni volta che arrivo al clou di un caso.»

«Anche Visconti soffriva di asma» disse zia Augusta. «Si è curato con l’ipnosi.»

«Non gradirei mettermi così completamente nelle mani di un’altra persona.»

«Naturalmente Visconti sapeva come far presa sull’ipnotizzatore.»

«Certo, allora è diverso» confermò il colonnello in tono di approvazione. «Dove si trova adesso Visconti?»

«Non ne ho idea.»

«Nemmeno il generale Abdul lo sapeva. Del resto, questa informazione ci serve soltanto per gli archivi dell’Interpol: la cosa risale a più di trent’anni fa. Glielo chiedevo en passant. Personalmente non mi interessa, non è il vero argomento dell’interrogatorio.»

«Si tratta di un interrogatorio, colonnello?»

«In un certo senso, sì. Ma spero non spiacevole. Abbiamo trovato una sua lettera al generale Abdul, in cui lei accenna a un investimento che il generale le avrebbe consigliato. In quella lettera, scriveva che per lei era indispensabile concludere l’investimento fintanto che si trovava in Europa e in modo anonimo, ma che l’operazione presentava certe difficoltà.»

«Non starà lavorando per la Banca d’Inghilterra, voglio sperare, colonnello.»

«Non ho questa fortuna, ma il generale Abdul stava tramando qualcosa, qui da noi, ed era molto a corto di fondi. Così gli tornarono in mente certi amici con i quali in passato aveva concluso alcune speculazioni. Si mise in contatto con lei (sperando magari, attraverso di lei, di rintracciare il signor Visconti), con un tedesco a nome Weissmann, di cui lei forse non ha mai sentito parlare, e con un certo Harvey Crowder, un industriale della carne in scatola di Chicago. La CIA, che lo tiene da tempo sotto controllo, ce lo ha segnalato. Beninteso, faccio questi nomi soltanto perché le persone in questione sono state tutte arrestate e hanno parlato.»

«Se proprio ci tiene a saperlo» disse la zia «per i suoi archivi, il generale Abdul mi aveva consigliato di acquistare obbligazioni convertibili della Deutsche Texaco, cosa fuori questione in Inghilterra per via dell’aggio sul dollaro, e illegale da farsi all’estero, per una cittadina inglese. Per questo dovevo rimanere anonima.»

«Sì» ammise il colonnello, «non male come copertura.» Ricominciò ad ansimare e si mise in bocca un’altra pasticca. «Le ho riferito quei nomi soltanto per dimostrarle come il generale Abdul non sia più molto lucido. Non si finanzia un’operazione in Turchia con fondi stranieri del genere. Una donna assennata come lei si sarà resa conto che, se il suo progetto avesse avuto una minima probabilità di successo, il generale avrebbe trovato finanziatori sul posto. Non si sarebbe visto costretto a offrire a un esportatore di carne in scatola di Chicago un interesse del venticinque per cento e la compartecipazione ai profitti.»

«Visconti l’avrebbe capito subito.»

«Ma adesso lei è una donna sola, non può più usufruire dei consigli di Visconti e forse si è lasciata tentare dall’idea dei rapidi profitti...»

«E perché mai? Non ho figli a cui lasciarli, colonnello.»

«Allora dallo spirito di avventura.»

«Alla mia età?» si schermì compiaciuta e raggiante la zia.

Bussarono alla porta, ed entrò un agente a dire qualcosa al colonnello, il quale tradusse per noi: «Nei bagagli di Mr Pulling non è stato trovato niente, ma se non le dispiace... il mio sottoposto è molto ordinato, userà guanti puliti e non lascerà la minima grinza, glielo posso assicurare... Le dispiace se accendiamo la luce elettrica?».

«Mi dispiace moltissimo» rispose la zia. «Ho dimenticato sul treno gli occhiali scuri. Però, se vuole farmi venire un’emicrania pazzesca...»

«No di certo, Miss Bertram. Il mio agente farà a meno della luce, ma lei ci perdonerà se la perquisizione richiederà più tempo.»

Per prima cosa, l’agente esaminò la borsetta della zia, e consegnò al colonnello alcuni documenti. «Quaranta sterline in travellers’ cheques» commentò questi.

«Dieci le ho incassate» spiegò la zia.

«Vedo, dal biglietto aereo, che intende partire domani... cioè oggi. Una visita brevissima. Come mai allora è venuta in treno?»

«Volevo vedere il mio figliastro a Milano.»

Il colonnello la guardò perplesso. «Se non sono indiscreto... sul passaporto c’è scritto che lei non è sposata.»

«È il figlio di Visconti.»

«Sempre quel Visconti...»

Adesso l’agente era alle prese con la valigia della zia. Guardò nella scatola che aveva contenuto la candela, la scrollò per bene, la annusò.

«È la scatola della candela» disse la zia. «Come mi sembra di averle detto, le fabbricano a Venezia. Una candela basta per tutto un viaggio: credo siano garantite per ventiquattro ore filate. O forse quarantotto.»

«Sta mandando in fumo una vera e propria opera d’arte» osservò il colonnello.

«Henry, reggi la candela in modo che l’agente possa vederci meglio.»

Nuovamente, nel sollevarla, rimasi colpito dal suo peso.

«Non si disturbi, Mr Pulling, ormai ha finito.»

La rimisi giù con sollievo.

«Dunque» disse il colonnello Hakim con un sorriso, «non abbiamo trovato niente di compromettente nel suo bagaglio.» Il poliziotto stava rimettendo a posto il contenuto della valigia. «Adesso, per pura formalità, dobbiamo esaminare la stanza. Anche il letto, Miss Bertram, se non le dispiace accomodarsi per un attimo su una sedia.»

Partecipò personalmente alla perquisizione, trascinando la gamba rigida da un mobile all’altro, tastando a volte con il bastone, sotto il letto, in fondo a un cassetto. «E infine, le tasche di Mr Pulling.» Le svuotai con mala grazia sul ripiano della toilette. Il colonnello sfogliò con attenzione il mio taccuino e ne tirò fuori un ritaglio del «Daily Telegraph». Lo lesse ad alta voce, aggrottando le sopracciglia perplesso: «“Quelle che più mi hanno colpito sono state le Maître Roger rosso rubino, le Cheerio rosso chiaro a punta bianca, le Arabian Night e le Black Flash rosso sangue e le Bacchus rosso scarlatto...” Vuole darmi una spiegazione, Mr Pulling?».

«Si spiega da sé» dissi io con sussiego.

«Allora, perdoni la mia ignoranza.»

«È la recensione di una mostra di dalie. A Chelsea. Sono un appassionato di dalie.»

«Sono fiori?»

«Certo che sono fiori!»

«I nomi sembravano nomi di cavalli. Quel rosso sangue mi lasciava perplesso.» Rimise a posto il ritaglio e si avvicinò zoppicando a zia Augusta. «Le auguro la buonanotte, Miss Bertram. Ha trasformato il mio dovere in un piacere, stanotte. Non ha idea di come mi annoino le solite esibizioni di innocenza offesa. Domani le manderò una macchina della polizia per accompagnarvi all’aeroporto.»

«Oh, non si disturbi. Possiamo prendere un taxi.»

«Ci dispiacerebbe se doveste perdere l’aereo.»

«Ora che ci penso, forse dovrei fermarmi ancora un giorno per andare a far visita al povero generale Abdul.»

«Temo non possa ricevere visite. Che libro sta leggendo? Che brutto ceffo, il tipo con il fez rosso. Ha pugnalato lui la ragazza?»

«No, lui è il poliziotto. Si chiama colonnello Hakim» rispose la zia con un’espressione soddisfatta.

Quando fummo di nuovo soli, mi rivolsi alla zia con una certa irritazione. «Zia Augusta» dissi, «che cos’è questa storia?»

«Qualche piccola complicazione politica, immagino. In Turchia prendono la politica molto più sul serio che da noi. Solo poco tempo fa hanno impiccato un primo ministro: noi ce lo sogniamo, loro lo fanno. Non avevo previsto che il generale Abdul si fosse messo nei pasticci. Una vera stupidaggine, alla sua età. Ottant’anni deve averli tutti, ma pare che in Turchia ci siano più centenari che in qualsiasi altro paese d’Europa. Dubito, però, che il povero Abdul possa arrivarci.»

«Ma ti rendi conto che ci stanno espellendo? Dovremmo rivolgerci all’ambasciata inglese.»

«Esageri, caro. Ci mettono semplicemente a disposizione una macchina della polizia.»

«E se ci rifiutassimo di salirci?»

«Non ci penso nemmeno. Abbiamo già i posti prenotati sull’aereo. Non avevo comunque intenzione di trattenermi oltre, una volta concluso il mio investimento. Non mi aspettavo profitti immediati, e il venticinque per cento comporta sempre qualche rischio.»

«Quale investimento, zia Augusta? Quaranta sterline in travellers’ cheques?»

«Ma no, caro, no. A Parigi ho comperato un lingotto d’oro, molto grosso. Ti ricordi quell’uomo, inviato dalla banca...?»

«Ah, ecco che cosa cercavano! E dove diamine l’hai nascosto, zia?»

Guardai la candela, ricordando quanto fosse pesante.

«Sì, caro» disse la zia, «hai indovinato giusto, bravo. Il colonnello Hakim non ci è riuscito. Adesso la puoi spegnere.» La sollevai per la terza volta: doveva pesare quasi venti libbre.

«Che cosa ti proponi di farne, adesso?»

«Sono costretta a riportarmela in Inghilterra. Verrà buona in un’altra occasione. È stato un bel colpo di fortuna, se ci pensi, che abbiano sparato al povero generale Abdul prima che gli consegnassi la candela, e non dopo. Ammesso che sia ancora vivo. Con una donna probabilmente preferiscono glissare sui particolari più macabri. A ogni buon conto, gli farò dire una messa, perché è improbabile che un uomo di quell’età sopravviva a lungo a una pallottola. Anche se non fossero stati colpiti organi vitali, basterebbe lo shock per...»

Interruppi le sue illazioni: «Non vorrai davvero riportarti il lingotto in Inghilterra!». Mi irritava perfino il bisticcio fonetico – lingotto in Inghilterra – che faceva pensare a una canzonetta umoristica. «Non hai proprio alcun rispetto per la legge?»

«Dipende a quale legge ti riferisci. Per esempio, dei dieci comandamenti, quello sul bue e l’asinello non riesco a prenderlo molto sul serio.»

«I doganieri inglesi non si lasciano infinocchiare con la stessa facilità della polizia turca.»

«Una candela usata è sempre convincente. L’ho già sperimentato altre volte.»

«No, se provano a sollevarla.»

«Ma non ci proveranno, caro. Se lo stoppino e la cera fossero intatti, forse potrebbero mettersi in mente di farmi pagare la tassa d’importazione. Oppure, un funzionario particolarmente sospettoso potrebbe pensare che sia una candela fasulla con dentro la droga. Ma una candela usata! No, credo che il rischio sia minimo. E c’è sempre la mia età a proteggermi.»

«Mi rifiuto di tornare con quel lingotto in Inghilterra.» L’assonanza mi irritò di nuovo.

«Non hai alternative, caro. Il colonnello ci accompagnerà di certo fin sull’aereo, e non ci sono fermate intermedie prima di Londra. Il grande vantaggio di essere espulsi è che non dovremo passare nuovamente la dogana turca.»

«Perché, perché l’hai fatto, zia Augusta? Un rischio simile...»

«Visconti ha bisogno di soldi.»

«Ma se ti ha rubato i tuoi!»

«È stato tanto tempo fa. Ormai li avrà finiti.»