XII
Mi svegliai proprio mentre stavamo uscendo dalla stazione di Losanna. In mezzo a due alti condomini grigi si intravedeva il lago, poi ecco un gustoso cartellone con la pubblicità dei cioccolatini, e un altro con la pubblicità degli orologi. Mi aveva svegliato l’addetto alle cuccette nel portarmi caffè e brioche (io avevo chiesto i croissant!). «La signora del 72 è sveglia?» domandai.
«Ha lasciato detto di non disturbarla fino a Milano.»
«È vero che non c’è la carrozza ristorante?»
«Sì, monsieur.»
«Almeno, ci porterà la colazione domattina?»
«No, monsieur. Io stacco a Milano. Dopo ci sarà un altro addetto.»
«Italiano?»
«Iugoslavo, monsieur.»
«Parlerà inglese? O francese?»
«Ne dubito, monsieur.» Mi sentii irrimediabilmente all’estero.
Dopo avere bevuto il caffè, mi misi nel corridoio a guardare le piccole cittadine svizzere scorrere via ordinatamente: il Montreux Palace, con il suo stile edoardiano baroccheggiante simile al castello del re di Ruritania19 e, dietro, una fila di monti pallidi come negativi sottoesposti che spuntavano da un banco di foschie mattutine. Aigle, Bex, Visp... il treno fermava in quasi tutte le stazioni, ma raramente si vedeva qualcuno scendere o salire. Evidentemente, gli stranieri, al pari di zia Augusta, non trovavano interessante la Svizzera senza la neve, eppure fu proprio lì che provai la fortissima tentazione di piantarla in asso. Avevo cinquanta sterline in travellers’ cheques e la Turchia non mi attirava minimamente. Davanti a me vedevo passare declivi erbosi in riva a torrenti, coglievo squarci di antichi castelli in cima a colline punteggiate di vigneti e visioni di ragazze in bicicletta; tutto sembrava lindo e ordinato e sicuro, come era stata la mia vita prima del funerale di mia madre. Ripensai al mio giardino; che nostalgia delle dalie: in una stazioncina, dove un postino in bicicletta stava consegnando delle lettere, vidi un’aiuola di fiori lilla e rossi. Credo che sarei sceso davvero, se in quel momento la ragazza, Tooley, non mi avesse tirato per la manica. Che male c’era nell’amare la tranquillità, perché dovevo esserne distolto a forza da zia Augusta?
«Ha dormito bene?» mi domandò Tooley.
«Sì, grazie, e lei?»
«Non ho chiuso occhio.» Mi fissava con i suoi occhi da pechinese, come se si aspettasse una briciola dal mio piatto. Le offrii una brioche, ma non la volle. «Oh no, grazie, ho appena mangiato una tavoletta di cioccolato.»
«Come mai non è riuscita a dormire?»
«Eh, sono... preoccupata.»
Mi tornarono in mente, dai tempi in cui facevo il cassiere, facce timide come la sua, che sbirciavano attraverso la barriera igienica con l’avviso che raccomandava di parlare nella scomoda fessura posta troppo in basso. Stavo quasi per chiederle se avesse il conto scoperto.
«Se posso fare qualcosa...»
«Niente, volevo soltanto parlare un po’.»
Che altro potevo fare, se non invitarla nel mio scompartimento? Mentre ero in corridoio, il letto era stato trasformato in divano, così ci mettemmo a sedere, fianco a fianco. Le offrii una sigaretta. Era una normalissima Senior Service, ma lei se la rigirò tra le dita come se non avesse mai visto un oggetto del genere.
«Inglesi?» domandò.
«Sì.»
«Che cosa vuol dire Senior Service?»
«È la Marina.»
«Non si offende, vero, se fumo una delle mie?» Tirò fuori dalla borsa un barattolo di latta con su scritto “Pasticche di eucalipto e mentolo” e ne estrasse una sigaretta anonima, che aveva l’aria di essere stata arrotolata a mano. Dopo qualche esitazione, me ne offrì una, e io pensai che sarebbe stato maleducato rifiutare. Era molto sottile e un po’ ciancicata, e con uno strano sapore erbaceo, non sgradevole.
«Non avevo mai fumato sigarette americane» dissi.
«Le ho avute a Parigi... da un amico.»
«E neanche sigarette francesi.»
«Era un tipo così simpatico. Micidiale.»
«Chi?»
«Questo tizio che ho conosciuto a Parigi. Gli ho anche spiegato il mio problema.»
«Qual è il suo problema?»
«Abbiamo litigato... con il mio ragazzo, cioè. Lui voleva andare a Istanbul in terza classe. Io gli ho detto che era matto, in terza classe non avremmo potuto dormire insieme, e poi io i soldi ce li ho. “Il tuo assegno di merda” fa lui. “Va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri.” Questa deve essere una citazione, vero? Io gli dico: “Non servirebbe a niente. Papà mi rifonderebbe tutto”. “Non c’è bisogno di farglielo sapere” fa lui. “Ha le sue fonti di informazione” dico io. “È un pezzo grosso della CIA.” “Puoi prendere i tuoi soldi e ficcarteli in quel posto.” È un modo di dire inglese, vero? Il mio ragazzo è inglese. Ci siamo conosciuti a Trafalgar Square, eravamo seduti vicini.»
«Davate da mangiare ai piccioni?» domandai.
Gorgogliò una risatina che le fece andare di traverso il fumo. «Lei è un tipo ironico. Mi piacciono i tipi ironici. Come mio padre. Anzi, sa che lei gli somiglia un po’? L’ironia è anche una qualità letteraria ammirevole, non è vero? Come la passione.»
«Non mi faccia domande di letteratura, Miss Tooley» dissi io. «Sono molto ignorante in materia.»
«Non mi chiami Miss Tooley. Tooley è il nome con cui mi chiamano i miei amici.»
A St Maurice una classe di ragazzine sfilò sul marciapiedi. Erano tutte carine, nessuna indossava la minigonna né era visibilmente truccata, e anche i loro zainetti erano lindi e in ordine.
«Come farà un posto così bello a essere così noioso?» rifletté Tooley ad alta voce.
«Noioso?»
«Qui nessuno si sballa, né si sballerà mai. Le va un’altra sigaretta?»
«Sì, grazie. Sono molto leggere. E hanno un sapore gradevole, tra l’altro. Non raspano in gola.»
«Come mi piace il suo modo di esprimersi! Davvero micidiale!»
Mi sentivo più sveglio di quanto non mi accada di solito a quell’ora del mattino, e trovavo la compagnia di Tooley una piacevole novità. Ero contento che la zia dormisse ancora, dandomi così la possibilità di approfondire la nostra conoscenza. Mi sentivo protettivo verso quella ragazzina. Mi sarebbe piaciuto avere una figlia, benché non fossi mai riuscito a immaginarmi Miss Keene nei panni di madre. Le madri non dovrebbero essere a loro volta bisognose di protezione.
«Quel suo amico di Parigi» osservai «se ne intende davvero di sigarette.»
«Era favoloso» convenne Tooley. «Cioè, è uno che ci sa fare.»
«Francese?»
«Oh, no, viene dal cuore dell’Africa nera.»
«Un negro?»
«Non si dice così» mi redarguì lei. «Si dice gente di colore o neri, secondo come preferiscono loro.»
Mi assalì un sospetto. «Per caso, si chiamava Wordsworth?»
«Non so, io lo conosco come Zach.»
«È lui! Ed era venuto ad accompagnare lei alla stazione?»
«Certo, chi altri? Io mica me lo aspettavo, invece, eccolo là alla barriera, per salutarmi. Gli ho comprato il biglietto d’ingresso, ma sembrava spaventato, non ha voluto entrare.»
«Anche mia zia lo conosce.» Non le dissi che aveva usato il suo biglietto per altri scopi.
«Be’, che coincidenza fantastica! Sembra di leggere Thomas Hardy.»
«Vedo che se ne intende di letteratura.»
«Porto letteratura inglese alla maturità» disse Tooley. «Mio padre voleva che portassi scienze politiche, perché sperava che prestassi servizio nel Peace Corps, per un po’, ma evidentemente io e mio padre non abbiamo le stesse idee, su questa come su altre cose.»
«Che mestiere fa suo padre?»
«Gliel’ho detto, ha un incarico molto segreto alla CIA.»
«Interessante!»
«È sempre in giro. Da quando la mamma ha chiesto il divorzio, l’autunno scorso, l’avrò visto una volta. Gli dico sempre che lui vede il mondo orizzontalmente, cioè in superficie, capisce? Io voglio vedere il mondo verticalmente.»
«In profondità» confermai. Mi sentivo fiero per come riuscivo a stare dietro alle sue idee.
«Queste qui aiutano» disse lei agitando la sigaretta. «Mi sento già un po’ sballata. È per il suo fantastico modo di parlare. Mi sembra quasi di averla conosciuta al corso di letteratura inglese. Come personaggio. Abbiamo trattato Dickens in profondità.»
«Verticalmente» dissi io, e scoppiammo a ridere tutti e due.
«Come ti chiami?»
«Henry.» Tooley rise di nuovo e io la imitai, anche se non sapevo bene il perché.
«Almeno ti avessero chiamato Harry!»
«Harry è il diminutivo. Non si può essere battezzati Harry. Non c’è mai stato un santo Harry.»
«Sarebbe questo il diritto canonico?»
«Credo di sì.»
«Perché io conoscevo un tipo formidabile, che era stato battezzato Mi-venisse-un-colpo.»
«Non credo che l’abbiano davvero battezzato così.»
«Tu sei cattolico?»
«No, ma mia zia sì, credo. Cioè, non sono proprio sicuro.»
«Io stavo quasi per farmi cattolica. Per via dei Kennedy. Ma poi, quando due di loro sono morti ammazzati... cioè, insomma, sono superstiziosa. Macbeth era cattolico?»
«È una domanda che non mi sono mai posto... Immagino che... cioè, insomma, veramente, non lo so.» Incominciavo a parlare come lei.
«Forse faremmo bene a chiudere la porta dello scompartimento e ad aprire il finestrino. In che paese siamo, adesso?»
«Credo che stiamo per arrivare al confine italiano.»
«Allora apri il finestrino, svelto!» Non riuscivo a seguire il suo ragionamento, ma obbedii. Io avevo già finito la mia sigaretta, e lei schiacciò il suo mozzicone e poi svuotò il portacenere sui binari. Fu allora che mi tornò in mente Wordsworth.
«Che cosa abbiamo fumato?» domandai.
«Erba, ovviamente. Perché?»
«Ti rendi conto che potrebbero mandarci in prigione? Non conosco le leggi svizzere né quelle italiane, ma...»
«A me no, sono minorenne.»
«E io?»
«Potresti invocare l’innocenza mentale» disse Tooley, e scoppiò a ridere; stava ancora ridendo quando si aprì la porta e i poliziotti italiani misero dentro la testa.
«Passaporti, prego!» intimarono, ma non li aprirono nemmeno; la corrente d’aria provocata dal finestrino aperto fece volare via il berretto di uno degli agenti; potevo solo sperare che l’odore di cannabis si fosse disperso nel corridoio. Subito dopo arrivarono i doganieri, i quali furono altrettanto discreti, tranne uno che arricciò il naso. Di lì a pochi minuti li vidi al sicuro sulla banchina. Il cartello diceva Domodossola.
«Siamo in Italia» annunciai.
«Allora fumane un’altra.»
«Neanche per sogno, Tooley. Non avevo idea che... Per carità, sbarazzati di quella roba prima di stasera. La Iugoslavia è un paese comunista, là non ci penserebbero due volte a mettere in prigione una minorenne.»
«A me hanno sempre insegnato che gli iugoslavi sono comunisti buoni. Infatti, gli vendiamo materiale strategico, no?»
«Sì, ma non droga.»
«Ecco che ricominci a fare l’ironico. Volevo raccontarti il mio grande problema, ma come posso, se tu fai l’ironico?»
«Non hai appena detto che l’ironia è un’ammirevole qualità letteraria?»
«Ma tu non sei un romanzo» disse Tooley, e si mise a piangere, mentre, fuori, l’Italia fuggiva all’indietro. La cannabis aveva provocato le risate e adesso, immagino, provocava le lacrime. A guardarla, venne anche a me un po’ di tristezza. Mi girava la testa. Chiusi il finestrino e attraverso il vetro vidi un paesino tutto giallo e ocra in cima a una collina, sembrava spuntato dalla terra stessa con l’aiuto della pioggia, poi, lungo la ferrovia, una fabbrica e delle case popolari rosse e un’autostrada e una pubblicità della Perugina e tutti i cavi e le reti elettriche di un’epoca che ha ripudiato il carbone.
«Che problema hai, Tooley?» le chiesi.
«Mi sono dimenticata di prendere la maledetta pillola e sono sei settimane che non mi vengono le mie cose. Stavo quasi per dirlo a tua madre, ieri sera...»
«Mia zia» la corressi. «Dovresti parlargliene. Io non mi intendo di queste cose.»
«Ma io preferisco parlarne con un uomo» disse Tooley. «Cioè, le donne, non so, mi intimidiscono. Non faccio amicizia subito, come con gli uomini. Purtroppo, però, gli uomini di oggi sono così ignoranti. Una volta erano le ragazze che non sapevano come cavarsela, adesso sono i maschi. Julian ha detto che era colpa mia, che lui si era fidato di me.»
«Julian sarebbe il tuo ragazzo?»
«Sì, e si è arrabbiato perché mi ero dimenticata di prendere la pillola. Voleva andare a Istanbul in autostop. Dice che magari funzionava.»
«Non avevi detto che voleva andarci in terza classe?»
«Sì, ma prima che gli dicessi della pillola. E prima che incontrasse quel tizio con il camion che andava a Vienna. Mi ha dato un ultimatum. Eravamo in questo caffè in place St Michel, e Julian mi dice: “O si parte adesso o mai più”. “No” faccio io, e lui: “Allora vacci da sola, cazzo.”»
«Dov’è lui adesso?»
«Da qualche parte tra qui e Istanbul.»
«Come farai a rintracciarlo?»
«Al Gulhane lo sapranno.»
«Dove?»
«Al Gulhane. È vicino alla Moschea Blu. Lì tutti sanno dove sono tutti.» Incominciò a cancellare con cura le tracce delle lacrime. Poi, dopo un’occhiata al suo enorme orologio a quattro cifre, disse: «È quasi ora di pranzo. Ho una fame da lupi. Speriamo che non sia perché siamo in due. Vuoi un po’ di cioccolato?».
«Aspetterò fino a Milano» risposi.
«Un’altra sigaretta?»
«No, grazie.»
«Io sì. Magari funziona.» Le ritornò il sorriso. «Buffe le idee che mi vengono. Cioè, di qualsiasi cosa penso che magari funzionerà. A Parigi ho provato a bere brandy e ginger, perché a scuola si diceva che lo zenzero funziona. Ho provato anche con la sauna. È buffo, perché in realtà l’unica cosa che funziona è il raschiamento. Wordsworth aveva detto che mi avrebbe trovato un dottore, ma gli occorreva qualche giorno per cercarlo, e dopo sarei dovuta rimanere a riposo qualche giorno ancora. Ma se poi arrivavo al Gulhane e Julian era già partito? E per dove, lo sai tu? Un ragazzo che ho conosciuto a Parigi diceva che ci stanno cacciando via tutti da Katmandu e adesso il posto giusto è Vientiane. Non per gli americani, s’intende, se no ti arruolano.»
In certi momenti, a sentirla parlare, avevo l’impressione che il mondo intero fosse in viaggio da un posto all’altro.
Tooley riprese: «Quando Julian mi ha piantata, sono andata a letto con un ragazzo, perché, ho pensato, magari serve a smuovere un po’ le acque. Cioè, certe volte ti vengono le mestruazioni, così, con l’orgasmo, solo che non ho avuto l’orgasmo. Probabilmente ero preoccupata per Julian, perché di solito non ho di queste difficoltà».
«Secondo me, dovresti tornare subito a casa e dire tutto ai tuoi genitori.»
«Al singolare» corresse lei. «Mia mamma non la conto, e papà non so esattamente dove sia. È sempre in giro. In missione segreta. Per quello che ne so, potrebbe essere a Vientiane... dicono che pullula di agenti della CIA.»
«Non hai nessuno che puoi considerare la tua famiglia?» le chiesi.
«Con Julian eravamo una famiglia, ma poi lui si è arrabbiato per la storia della pillola. È un tipo molto impulsivo. “Se devo ricordartela io tutte le volte” diceva, “perdo la mia spontaneità, lo capisci o no?” Ha la teoria che le donne vogliono castrare i loro uomini, per esempio togliendogli la spontaneità.»
«E tuttavia ti sentivi in famiglia con lui?»
«Certo. Con Julian si poteva parlare di tutto» disse Tooley sorridendo felice al ricordo, mentre l’erba ricominciava a fare effetto. «Arte, sesso, James Joyce, psicologia.»
«Non dovresti fumare quella roba» protestai.
«L’erba? Perché? L’erba non fa male. Con l’acido è diverso. Julian voleva farmelo provare, ma io ho detto: no grazie. Cioè, non voglio mica guastarmi i cromosomi.»
A volte, francamente, non capivo una parola di quello che diceva, eppure mi sembrava che l’avrei potuta ascoltare per ore senza stancarmi. Sotto sotto, aveva una delicatezza e una dolcezza che mi ricordavano un po’ Miss Keene. Era un paragone assurdo, lo so. Forse, mi dissi, è questo che Tooley intende con “sentirsi sballati”.