V

La mattina dopo fui svegliato da un brusio lontano di folla e lì per lì pensai di essere di nuovo a Brighton, con il mare che faceva rotolare i ciottoli sulla spiaggia. La zia era già alzata e aveva preparato la colazione con i pompelmi del giardino. Dalla città arrivavano sprazzi di musica.

«Che cosa succede?»

«Oggi è la festa nazionale. Wordsworth mi aveva avvisata, ma io me ne ero scordata. Se vai in città mettiti qualcosa di rosso.»

«Perché?»

«È il colore del partito al governo. Quello del Partito liberale è l’azzurro, ma non è salutare indossarlo. Nessuno ci prova.»

«Non ho niente di rosso.»

«Ho io un foulard adatto.»

«Non vorrai che mi metta un foulard da donna.»

«Infilalo nel taschino: sembrerà un fazzoletto.»

«Perché non vieni anche tu, zia?»

«Non posso. Devo aspettare Visconti. Oggi arriverà di sicuro. O almeno manderà a dire qualcosa.»

Avrei potuto fare a meno di vergognarmi di indossare il foulard. Quasi tutti gli uomini portavano foulard rossi al collo, molti con il ritratto del Generale stampato sopra. Soltanto i borghesi si limitavano a un fazzoletto, e alcuni senza certo ostentarlo: lo tenevano nascosto nel pugno, appena visibile tra le dita; evidentemente avrebbero preferito portare qualcosa di azzurro. Dappertutto sventolavano bandiere rosse: si sarebbe detto che la città fosse stata conquistata dai comunisti, solo che qui il rosso era il colore dei reazionari. Agli incroci dovevo continuamente fermarmi per lasciar passare cortei di donne dai foulard rossi che inalberavano ritratti del Generale e striscioni con slogan sul grande Partido colorado. Gruppi di gauchos arrivavano in città su cavalli bardati di rosso. Un ubriaco cadde bocconi fuori dalla porta di una taverna e rimase steso a terra, con il faccione cordiale del generale dispiegato sopra la schiena e i cavalli che lo schivavano passando. Ogni tanto sfilava un’automobile decorata, con sopra belle ragazze con boccioli rossi di camelia tra i capelli. Perfino il sole sembrava rossastro nella foschia del mattino.

La folla mi spinse in direzione della Avenida Mariscal López, dove si teneva la sfilata dei cortei. Lungo il lato opposto della strada si innalzavano le tribune riservate ai ministri e ai diplomatici. Riconobbi il Generale sull’attenti mentre riceveva il saluto delle truppe; la tribuna adiacente doveva essere quella dell’ambasciata americana, perché nell’ultima fila, mezzo schiacciato da un corpulento addetto militare, scorsi il mio amico O’Toole. Lo salutai con la mano; lui mi vide, credo, perché accennò un sorriso timido e disse qualcosa al suo ingombrante vicino. Poi sfilò un corteo, e lo perdetti di vista.

Il corteo era composto di uomini vecchi dagli abiti malandati: alcuni con le stampelle, altri senza un braccio. Reggevano gli stendardi del loro battaglione. Erano ex combattenti della guerra del Chaco, che una volta all’anno, suppongo, si godevano questo momento di orgoglio. Avevano un’aria più umana dei colonnelli che li seguivano, ritti sulle macchine dell’esercito, in alta uniforme con nappe e spalline d’oro, tutti con baffoni neri e tutti assolutamente identici: sembravano birilli colorati in attesa di essere buttati giù dalla boccia.

Dopo un’ora ne ebbi abbastanza di quello spettacolo e mi avviai verso il centro, diretto al grattacielo del nuovo albergo, per comperare un giornale in lingua inglese, ma l’unico che avessero era il «New York Times» di cinque giorni prima. Mentre stavo per entrare, fui avvicinato da un tizio con l’aria distinta dell’intellettuale, sembrava un diplomatico o un professore universitario, che mi rivolse la parola in tono da cospiratore. «Come dice, scusi?» domandai.

«Dollari americani?» ripeté quello parlando rapidamente, e quando scossi la testa (non avevo nessuna voglia di violare le leggi valutarie del paese), si allontanò in fretta. Purtroppo, quando uscii dall’albergo con il mio giornale, me lo ritrovai sull’altro marciapiedi, e non mi riconobbe. «Dollari americani?» bisbigliò di nuovo, e al mio «No» mi lanciò un’occhiataccia piena di disprezzo, come se gli stessi giocando uno scherzo di cattivo gusto.

Tornai indietro verso la periferia e la casa di zia Augusta, bloccato di tanto in tanto agli incroci dalle ultime propaggini della sfilata. Un palazzo sfarzoso, coperto di bandiere, esibiva una quantità di striscioni scarlatti: doveva essere la sede del Partido colorado. Sui gradini c’era un andirivieni di uomini robusti in completo scuro e foulard rosso al collo, sudati sotto il sole mattutino. Uno di essi si fermò per chiedermi , o così pensai, che cosa volessi. «Colorado?» domandai.

«Sì, lei è americano?»

Finalmente qualcuno che parla inglese, pensai tutto contento. Aveva una faccia da bulldog bonaccione, ma aveva bisogno di una buona rasatura.

«No» risposi, «sono inglese.»

Abbaiò una parola in un tono che non sembrava affatto bonario, e in quel momento, forse a causa del caldo, del sole e del profumo di fiori, fui preso da un attacco di starnuti. Senza pensarci, tirai fuori dal taschino il foulard rosso della zia e mi ci soffiai il naso. Fu una pessima idea. Senza sapere come, mi ritrovai seduto per terra con il naso sanguinante, circondato da omaccioni, tutti in completo scuro, tutti con la faccia da bulldog. Altri tipi simili a loro si affacciarono al balcone della palazzina, fissandomi con curiosità e disapprovazione. Udii ripetere più volte la parola “ingles”; poi arrivò un poliziotto, che con uno strattone mi tirò in piedi. Dopo, mi venne in mente che ero stato fortunato: se mi fossi soffiato il naso vicino a un gruppo di gauchos, una coltellata nelle costole non me l’avrebbe evitata nessuno.

Diversi omaccioni mi accompagnarono alla caserma della polizia, compreso quello che mi aveva colpito, che brandiva il foulard della zia, il corpo del reato. «È tutto uno sbaglio» gli assicurai.

«Sbaglio?» Il suo inglese era piuttosto limitato.

Alla caserma di polizia, una costruzione imponente, fatta per resistere a un assedio, tutti quanti si misero a parlare contemporaneamente con grande concitazione e aggressività. Non sapevo che comportamento tenere. Continuai a ripetere: “ingles”, senza alcun effetto. Provai anche “ambasciatore”, ma la parola non rientrava nel loro vocabolario. Il graduato era giovane e preoccupato, suppongo che i suoi superiori fossero tutti alla sfilata. Quando pronunciai la parola “ingles” per la terza volta e “ambasciatore” per la seconda, mi colpì con un pugno, ma senza convinzione, tanto che non mi fece neppure male. Stavo facendo una nuova scoperta: la violenza fisica, come il trapano del dentista, di rado fa male come si teme.

Riprovai con “sbaglio”, ma nessuno riusciva a tradurre quella parola. Il foulard fu fatto passare di mano in mano fino al graduato, al quale fu fatta notare la macchia di moccio. Il graduato mi sventolò sotto il naso un qualcosa che sembrava una carta di identità: ne dedussi che volesse vedere il mio passaporto. Dissi: «L’ho lasciato a casa», e tre o quattro dei miei accompagnatori si misero a discutere; forse dissentivano sulla traduzione della mia frase.

Stranamente, fu l’uomo che mi aveva preso a pugni davanti alla sede del partito a dimostrarsi il più comprensivo. Poiché continuava a sanguinarmi il naso, mi passò il suo fazzoletto. Non era proprio immacolato e io pensai al rischio di setticemia, ma non volevo rifiutare il suo aiuto, perciò mi tamponai approssimativamente il naso, poi feci per restituirgli il fazzoletto. Lui lo respinse con un gesto di magnanimità. Poi scarabocchiò qualcosa su un foglietto e me lo mostrò. Lessi il nome di una via e un numero. L’uomo indicò il pavimento, poi la mia persona e mi porse una matita. Tutti si pigiarono intorno con grande curiosità. Scossi la testa: sapevo come arrivarci, ma non conoscevo l’indirizzo della casa della zia. Il mio amico (stavo incominciando a considerarlo tale) mi scrisse il nome di tre alberghi. Scossi di nuovo la testa.

Poi rovinai tutto. Chissà per quale associazione di idee, mentre me ne stavo lì, davanti al tavolo di un poliziotto, nella stanza afosa e affollata, con una sentinella armata sulla porta, la mia mente riandò al giorno del funerale della mia matrigna, alla cappella piena di lontani parenti, e alla voce di zia Augusta, alta sui bisbigli rispettosi, che diceva: “Una volta ho assistito a una cremazione prematura”. Avevo pensato che il funerale avrebbe costituito una gradevole novità nella preordinata monotonia della mia vita di pensionato, e in effetti così era stato, ben oltre le mie aspettative. E io che, quel giorno, mi preoccupavo per il mio tosaerba che prendeva la pioggia! Scoppiai a ridere, e quando risi, tutta l’ostilità ritornò: ero di nuovo l’insolente straniero che si era soffiato il naso nella bandiera del Partido colorado. Il mio primo aggressore mi strappò di mano il suo fazzoletto e il graduato, spingendo via gli astanti, mi arrivò al fianco e mi mollò un gran pugno sull’orecchio destro, che incominciò a sanguinare a sua volta. Tentando disperatamente di pensare al nome di qualcuno che quella gente potesse conoscere, provai con l’attuale nome di Visconti. «Señor Izquierdo» dissi, senza risultato. Poi: «Señor O’Toole». Il graduato fermò a mezz’aria il pugno già pronto a colpire di nuovo e io rincarai: «Ambasciata... americano».

Quelle parole evidentemente funzionarono, benché non capissi bene se a mio favore. Furono chiamati due agenti, che mi spintonarono lungo un corridoio e mi rinchiusero in una cella. Sentii che il graduato telefonava a qualcuno; potevo solo sperare che il padre di Tooley avesse davvero quelle entrature. Nella cella non c’era niente su cui sedere: soltanto un pezzo di tela di sacco sotto una finestrella con le sbarre, troppo alta per lasciar vedere altro che un quadratino di cielo uniforme. Sul muro c’erano delle scritte in spagnolo, forse preghiere, o forse frasi oscene. Mi misi a sedere sulla tela di sacco, preparandomi a una lunga attesa. Guardando la parete di fronte a me, ripensai alle parole della zia, e cercai di convincermi che potevo ringraziare il cielo: per il momento la parete sembrava tenersi a distanza.

Per passare il tempo, tirai fuori la penna e incominciai a fare scarabocchi sull’intonaco. Prima scrissi le mie iniziali, riprovando la solita irritazione perché erano la sigla di una famosa salsa; poi segnai la mia data di nascita, 1913, con un trattino accanto, dove qualcun altro avrebbe potuto inserire la data della mia morte. Poi mi venne l’idea di registrare una specie di storia della mia famiglia (mi avrebbe aiutato a trascorrere il tempo nel caso avessi dovuto rimanere in cella a lungo). Perciò annotai la data della morte di mio padre, 1923, e quella della mia matrigna, meno di un anno prima. Dei nonni non sapevo niente, sicché l’unica altra parente era zia Augusta. Era nata intorno al 1895, scrissi l’anno con un punto interrogativo di fianco. Allora mi venne l’idea di abbozzare una sorta di biografia della zia sulla parete, che già incominciava ad assumere un’aria più amichevole. Non credevo fino in fondo alle storie che mi aveva raccontato , e chissà, avrei potuto scoprire qualche errore cronologico. Aveva detto di avermi visto per l’ultima volta al mio battesimo, dunque doveva essersene andata da casa nostra intorno al 1913, a diciotto anni, cioè non molto tempo dopo che era stata scattata la famosa fotografia. Poi c’era stato il periodo di Curran a Brighton... senza dubbio dopo la prima guerra mondiale, pensai, perciò scrissi: Chiesa dei Cani, 1919, con un altro punto di domanda. Poi Curran l’aveva lasciata, lei era andata a Parigi e là, in rue de Provence, aveva conosciuto Visconti... forse pressappoco nel periodo in cui era morto mio padre a Boulogne. Zia Augusta doveva essere sui venticinque anni, all’epoca. Passai al suo periodo italiano, con i viaggi tra Milano e Venezia, la morte di zio Jo, la vita con Visconti, interrotta quando il progetto Arabia Saudita era andato a monte. Annotai in via provvisoria l’anno 1937 di fianco a Parigi-Monsieur Dambreuse, perché la zia era tornata in Italia e si era ritrovata con Visconti nella casa dietro «Il Messaggero» prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale. Degli ultimi vent’anni della sua vita, prima della comparsa di Wordsworth, non sapevo niente. Dovetti ammettere di non avere scoperto alcunché di sostanzialmente falso in quella cronologia. C’era tempo sufficiente per tutte le avventure che mi aveva raccontato e per molte altre ancora. Incominciai a fare congetture sulle ragioni del litigio con la mia cosiddetta madre: doveva essere avvenuto più o meno all’epoca della finta gravidanza, ammesso che quella storia fosse vera...

La porta della cella si spalancò e il secondino portò dentro una sedia. Che gentili, pensai, e feci per approfittare subito della comodità, ma il poliziotto mi spinse via brutalmente. Entrò O’Toole. Aveva l’aria imbarazzata. «A quanto pare è nei guai, Henry» disse.

«È tutto uno sbaglio. Mi è venuto da starnutire e senza volere mi sono soffiato il naso nel…»

«Nella bandiera del Colorado davanti alla sede del partito.»

«Sì, ma credevo che fosse il mio fazzoletto.»

«Si è messo in un brutto pasticcio davvero.»

«Temo proprio di sì.»

«Potrebbero condannarla a dieci anni, come niente. Posso sedermi? Sono rimasto in piedi per ore a quella maledetta sfilata.»

«Ma certo, si accomodi.»

«Potrei farle portare un’altra sedia.»

«Non importa, mi sto abituando al mio sacco.»

«L’aggravante» riprese O’Toole «è che l’ha fatto proprio durante la loro festa nazionale. Fa l’effetto di una provocazione. In un altro momento si sarebbero accontentati di espellerla dal paese. Come mai ha chiesto di me?»

«Aveva detto di avere delle entrature, e a questa gente l’espressione “ambasciata inglese” non faceva effetto.»

«Gli inglesi non contano molto da queste parti, purtroppo per lei. Siamo noi a fornirgli le armi, per non parlare della nuova centrale idroelettrica che li stiamo aiutando a costruire... non lontano dalle cascate Iguaçu. Servirà anche il Brasile, che però dovrà pagargli i diritti di sfruttamento. Un bel colpo per il Paraguay.»

«Molto interessante» commentai, non senza un certo risentimento.

«Davvero vorrei aiutarla» disse O’Toole, «lei è un amico di Lucinda. A proposito, ho ricevuto una cartolina da mia figlia: non si trova a Katmandu, bensì a Vientiane. Non so come mai.»

«Ascolti, O’Toole» dissi, «se non altro, potrebbe almeno telefonare all’ambasciata inglese. Se devo passare dieci anni in galera gradirei un letto e una sedia.»

«Oh, certo» disse O’Toole, «questo lo posso fare. Forse potrei anche ottenere il suo rilascio. Il capo della polizia è un mio buon amico…»

«Anche mia zia lo conosce, mi pare.»

«Non ci conti troppo. Vede, abbiamo ricevuto notizie fresche su sua zia. La polizia non vorrebbe intervenire, credo ci sia stato un passaggio di soldi, ma noi stiamo esercitando pressioni. A quanto pare, Henry, lei è immischiato con certi tipi molto equivoci.»

«Mia zia è una vecchietta di settantacinque anni.» Diedi una scorsa alle annotazioni che avevo fatto sul muro: rue de Provence, Milano, «Il Messaggero». Io stesso, nove mesi prima, avrei senza dubbio definito equivoca la sua carriera, mentre adesso non mi sembrava ci fosse niente di poi così riprovevole nel suo curriculum vitae; erano molto peggio trent’anni in banca. «Non capisco perché ce l’abbiate con lei.»

«Il suo amico, quel nero, è venuto a parlarci.»

«Sono sicuro che non avrà detto niente contro mia zia.»

«È vero, contro sua zia non ha detto niente, ma aveva un mucchio di cose da dire sul conto del señor Izquierdo. Tanto che ho convinto la polizia a togliere costui dalla circolazione per un po’.»

«Questo rientra nelle sue ricerche di sociologia?» domandai. «Ah, forse Izquierdo soffriva di denutrizione!»

«Va bene, ecco, forse le ho detto un paio di bugie, Henry» disse O’Toole, di nuovo con l’aria di vergognarsi.

«Allora lei è della CIA, come mi aveva detto Tooley?»

«Ecco... qualcosa del genere... non proprio» disse O’Toole aggrappandosi al suo straccio di menzogna come a un ombrello rovesciato durante una bufera.

«Che cosa vi ha detto Wordsworth?»

«Aveva il dente avvelenato. Se sua zia non fosse così vecchia, avrei detto che lo faceva per amore: sembrava geloso di questo Izquierdo.»

«Dov’è Wordsworth adesso?»

«È rimasto nei paraggi. Vuole rivedere sua zia quando le acque si saranno calmate.»

«E si calmeranno?»

«Potrebbero, Henry, potrebbero. Se tutti gli interessati si mostrassero ragionevoli.»

«Sarà dimenticata anche la faccenda del mio starnuto?»

«Immagino di sì. Quanto al contrabbando di Izquierdo: a nessuno importerebbe un fico secco, se soltanto lui si mostrasse ragionevole. E lei, Henry, conosce Mr I.»

«Non l’ho mai visto.»

«Forse lo conosce sotto un altro nome.»

«No» risposi.

«Henry» disse O’Toole con un sospiro. «Davvero vorrei aiutarla. Tutti gli amici di Lucinda possono contare su di me. Potremmo sistemare l’intera faccenda in poche ore. Dopotutto, Visconti non è così importante, non è mica Mengele o Bormann.»

«Ma non stavamo parlando di Izquierdo?»

«Io, lei e il suo amico Wordsworth sappiamo che si tratta della stessa persona. E anche la polizia lo sa, ma loro proteggono questa gente... almeno finché non rimangono al verde. Visconti ci è arrivato molto vicino, ma poi si è presentata Miss Bertram a saldare i suoi debiti.»

«Io non ne so niente» dissi. «Sono venuto soltanto per fare visita a mia zia.»

«Ci sarà stato un motivo se Wordsworth le è venuto incontro a Formosa. Comunque sia, mi piacerebbe scambiare due chiacchiere con sua zia, e una parola da parte sua mi faciliterebbe le cose. Se io convincessi la polizia a rilasciarla, potremmo andare insieme a parlare con Miss Bertram e…»

«Insomma, che cosa ha in mente, O’Toole?»

«A questo punto, sua zia sarà in ansia per Visconti. Io posso rassicurarla. Lo terranno in galera soltanto per qualche giorno, fino a quando non lo dirò io.»

«Che cosa le offrirà in cambio? La avverto che mia zia non farà niente che possa nuocere a Visconti.»

«Voglio soltanto parlarle, Henry. In sua presenza. È probabile che non si fidi di me, se ci vado da solo.»

Avevo i crampi dappertutto, su quel sacco, e non vidi motivi per non accettare.

O’Toole mi avvisò: «Occorreranno un paio di ore per farla rilasciare. Oggi tutto è fuori squadra». Si alzò.

«Come vanno le statistiche, O’Toole?»

«La sfilata ha mandato all’aria tutto. Non ho neppure osato bere il caffè a colazione. Tutte quelle ore in piedi senza poter fare una goccia. Mi sa che eliminerò del tutto questa giornata. Non la si può certo definire normale.»

Gli occorsero più di un paio d’ore per convincere la polizia a rilasciarmi, ma si dimenticarono di ritirare la sedia dalla cella dopo la sua partenza e mi portarono una specie di brodino, e io li presi come segni di buon auspicio. Con mia grande sorpresa, non mi annoiavo affatto, benché non potessi aggiungere niente di rilevante alla cronologia sul muro, a parte due date, peraltro dubbie, per Tunisi e L’Avana. Incominciai a comporre mentalmente una lettera a Miss Keene in cui le descrivevo la mia situazione attuale: “Ho insultato il partito al governo nel Paraguay, e sono immischiato con un criminale di guerra ricercato dall’Interpol. Per il primo reato, il massimo della pena è dieci anni di carcere. Sono rinchiuso in una cella di tre metri per due, e come giaciglio ho una tela di sacco. Non ho idea di che cosa potrà succedermi ancora, ma confesso di non sentirmi infelice, tutto sommato, perché trovo tutto questo molto interessante”. Naturalmente non avrei mai scritto sul serio quella lettera: per Miss Keene sarebbe stato impossibile riconciliarne l’autore con l’uomo che aveva conosciuto.

Era ormai buio quando finalmente vennero a liberarmi. Mi fecero ripercorrere il corridoio, fino all’ufficio, dove mi restituirono solennemente il foulard rosso della zia, e il giovane graduato mi diede un’amichevole pacca sulla schiena, spingendomi fuori, dove O’Toole mi aspettava in una decrepita Cadillac. Disse: «Mi dispiace, c’è voluto più di quanto pensassi. Adesso Miss Bertram sarà in ansia anche per lei».

«Non credo di contare tanto, a paragone di Visconti.»

«Il sangue non è acqua, Henry.»

«Acqua non è la parola più adatta, parlando di Visconti.»

In casa erano accese soltanto due luci. Mentre attraversavamo il boschetto in fondo al giardino, qualcuno ci fece lampeggiare una torcia in faccia, ma la luce fu spenta prima che potessi vedere chi era stato. Mi girai a guardare, ma non vidi niente.

«Sta facendo sorvegliare la casa?» domandai aO’Toole.

«Io no, Henry.»

Si capiva benissimo che non era tranquillo. Infilò la mano all’interno della giacca.

«È armato?» chiesi.

«Bisogna prendere qualche precauzione.»

«Contro una vecchietta? In casa c’è solo mia zia.»

«Non si può mai sapere.»

Attraversammo il prato e salimmo i gradini. La lampadina della sala da pranzo illuminava due bicchieri vuoti e una bottiglia vuota di champagne. Era ancora fredda quando la presi in mano. Nel rimetterla giù urtai uno dei bicchieri, e il tintinnio risuonò per tutta la casa. La zia doveva essere in cucina, perché comparve immediatamente sulla porta.

«Dove diamine sei stato, Henry?»

«In prigione. Mr O’Toole mi ha aiutato a venirne fuori.»

«Non mi sarei mai immaginata di vedere Mr O’Toole in casa mia, dopo quello che ha fatto passare al señor Izquierdo in Argentina. Sicché lei è Mr O’Toole.»

«Sì, Miss Bertram. Ho pensato che fosse meglio fare due chiacchiere amichevoli. So quanto deve essere in ansia per Mr Visconti.»

«Non sono affatto in ansia per Mr Visconti.»

«Ho pensato che forse... non sapendo dove sia... dopo un ritardo del genere…»

«So esattamente dove si trova» lo interruppe zia Augusta. «Al gabinetto.» Lo sciacquone si scaricò con un tempismo che non sarebbe potuto essere più perfetto.