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Trovai zia Augusta sola, seduta al centro del vasto e malandato salone della suite, pieno di poltrone di velluto verde e di caminetti di marmo. Non si era preoccupata di mettere via la valigia, che era rimasta, aperta e vuota, sul pavimento. Nei suoi occhi si scorgevano tracce di lacrime. Quando accesi a mezza luce il polveroso lampadario, mi rivolse un sorriso esitante.

«È successo qualcosa, zia Augusta?» Mi era venuto in mente che il tizio dalle basette potesse averla derubata, e mi diedi dello stupido per averla lasciata sola con quel po’ po’ di soldi.

«No, niente, Henry» rispose la zia con una voce inaspettatamente dolce e tremula. «Alla fine, ho deciso di aprire un conto in una banca di Berna. A quali banalità ci inducono, con tutte le loro leggi e leggine!» In quel momento aveva l’aria stanca che ci si aspetta di vedere in una vecchia signora di settantacinque anni.

«Mi sembri turbata.»

«Solo dai ricordi» rispose zia Augusta. «Per me questo albergo è pieno di ricordi, vecchi ricordi. Tu dovevi essere ancora bambino...»

Di colpo, provai un moto di affetto sincero per mia zia. Forse, per risvegliare le nostre emozioni occorre un qualche segno di debolezza, e mi tornarono alla mente le dita di Miss Keene esitanti sul suo merletto al tombolo mentre mi parlava dell’ignoto Sudafrica: fu allora che arrivai vicinissimo a dichiararmi.

«Che genere di ricordi, zia?»

«Oh, di una storia d’amore, Henry. Un amore molto felice, finché è durato.»

«Raccontami.»

Ero commosso, come mi era capitato a volte a teatro, dallo spettacolo della vecchiaia che rivanga i suoi ricordi. Il lusso fané della stanza faceva pensare alla scena di qualche commedia in cartellone allo Haymarket e mi riportò alla mente le foto di Doris Keene in Romanticismo e di... chi era più l’attrice di Pietre miliari? Avendo ben pochi ricordi personali sui quali soffermarmi, apprezzo ancora di più la nostalgia degli altri.

«Ti annoierei, Henry» si schermì la zia tamponandosi delicatamente gli occhi. «È come ritrovare in una credenza una bottiglia semivuota di champagne, che ha perduto le sue bollicine...» Anche quella frase logora era tipica delle commedie che davano allo Haymarket.

Avvicinai una sedia e le presi la mano: era una mano minuta, morbida al tatto, con una piccola “macchia della tomba” marrone, che la zia si era dimenticata di coprire con la cipria: anche questo mi commosse profondamente. «Racconta» ripetei. Restammo in silenzio entrambi, seguendo ciascuno pensieri diversi. A me sembrava di stare sul palcoscenico, durante una messinscena di La seconda signora Tanqueray. La zia aveva condotto un’esistenza piuttosto scapestrata, questo era certo, ma era stata capace di amori intensi, ai suoi tempi, qui nel St James and Albany; chissà quali esperienze passate potevano giustificare i suoi rapporti con il povero Wordsworth? Quella stanza d’albergo mi richiamava alla mente l’altro Albany, a Londra, dove aveva abitato, appunto, il capitano Tanqueray.18

«Cara zia Augusta» le dissi mettendole il braccio intorno alle spalle, «a volte fa bene parlare con un’altra persona. Io appartengo a un’altra generazione, lo so... una generazione più convenzionale, forse...»

«È una storia che non mi fa molto onore» disse la zia, abbassando gli occhi con un’aria pudica che non le conoscevo.

Mi ritrovai inginocchiato alquanto scomodamente al suo fianco, con una gamba nella valigia vuota e la sua mano nella mia. «Fidati di me» la esortai.

«Quello di cui non mi fido del tutto è il tuo senso dell’umorismo, Henry. Non ho l’impressione che troviamo divertenti le medesime cose.»

«Mi aspettavo una storia triste» ribattei piccato, districandomi dalla valigia.

«Oh, sì, infatti è una storia molto triste, a suo modo» disse la zia, «però è anche divertente.» Si mise a rigirare la mano, che le avevo lasciato libera, da un lato e dall’altro, come se stesse esaminando un guanto nel reparto dei saldi. «Bisogna proprio che domani mi faccia fare la manicure» osservò.

Il suo repentino cambiamento di umore mi provocò una certa irritazione: ero stato trascinato in uno stato d’animo sentimentale, che non mi era congeniale, e ora mi si diceva che non era il caso! Dissi, pensando di metterla in imbarazzo: «Poco fa ho incontrato Wordsworth».

«Cosa! Qui?»

«No, mi dispiace deluderti, non qui in albergo. Per strada.»

«Dove sta?»

«Non gliel’ho chiesto. E nemmeno gli ho dato il tuo recapito. Non mi ero reso conto che avessi tanta voglia di rivederlo.»

«Sei troppo intollerante, Henry.»

«No, zia Augusta, soltanto prudente.»

«Non capisco da quale ramo della famiglia tu possa avere ereditato la prudenza. Tuo padre era pigro, sì, ma prudente no, mai.»

«E mia madre?» domandai a bruciapelo nella speranza che cascasse nella trappola.

«Se fosse stata un tipo prudente, tu non saresti qui, adesso.» Andò alla finestra e rimase a fissare i giardini delle Tuileries, di là della rue de Rivoli. «Quante balie e quante carrozzine» mormorò con un sospiro. Nella luce cruda del pomeriggio, appariva vecchia e vulnerabile.

«Ti sarebbe piaciuto avere un bambino, zia Augusta?»

«Non era mai il momento adatto» rispose la zia. «Curran non era un tipo affidabile, come padre, e quando conobbi Visconti, il giorno si avviava alla fine, cioè, non proprio alla fine, ma i bambini appartengono alle ore dell’alba, e con Visconti si era già oltre la vampa del mezzogiorno. A ogni modo, non sarei stata una brava madre. Sa Dio in che razza di posti me lo sarei trascinato, povero bambino. E metti che ne fosse venuto fuori un tipo assolutamente rispettabile...»

«Come me, per esempio.»

«Sul tuo conto non ho ancora perduto tutte le speranze» disse la zia. «Con il povero Wordsworth ti sei comportato in maniera abbastanza decente. Hai fatto bene, sai, a non dargli il mio recapito. Al St James and Albany sarebbe fuori posto. Peccato che non siamo più ai tempi degli schiavi, perché allora avrei potuto fingere che avesse una funzione pratica. Gli avrei preso una camera qui di fronte, al St James...» Sorrise come perduta in un ricordo. «Sì, credo che dovrei parlarti di Monsieur Dambreuse. Lo amavo pazzamente, e se non abbiamo avuto un figlio, è stato esclusivamente perché il nostro era un amore tardivo. Infatti io non prendevo nessunissima precauzione.»

«Era a lui che stavi pensando quando sono entrato?»

«Sì. Quelli che passammo insieme furono tra i sei mesi più belli della mia vita, e li passammo tutti qui, all’Albany. Ci eravamo visti per la prima volta un lunedì sera fuori da Fouquet. Lui mi invitò a prendere un caffè, e il giovedì eravamo già installati qui, come una coppia regolare, in buoni rapporti con il portiere e la cameriera. Il fatto che lui fosse sposato non mi dava fastidio, perché io non sono una donna gelosa, e comunque a me era toccata la parte maggiore, o così credevo. Mi aveva detto che sua moglie stava nella loro villa in campagna, dalle parti di Tolosa, felicemente occupata con i loro sei figli, e non richiedeva grandi attenzioni. Lui se ne andava il sabato mattina dopo il petit déjeuner ed era di ritorno il lunedì sera in tempo per andare a letto. Forse per dimostrarmi la sua fedeltà, la notte del lunedì era sempre molto appassionato, al punto che, molto spesso, il resto della settimana trascorreva in maniera abbastanza tranquilla. Il che, del resto, si confaceva al mio temperamento: ho sempre preferito gli eccessi occasionali alle nottate abitudinarie. Ah, come lo amavo! Forse non con la tenerezza che avevo provato per Curran, ma mi sentivo molto più libera e spensierata che con Visconti. Ma l’amore più profondo non è il più spensierato. Le risate che ci facevamo! Dopo, naturalmente, ho capito che Monsieur Dambreuse aveva ottime ragioni per ridere.»

Perché proprio in quel momento doveva assalirmi il pensiero di Miss Keene? «Sei mai stata a Koffiefontein?» domandai alla zia.

«No, perché? Dove si trova?»

«Molto lontano» risposi.

«Poi scoprii che in realtà non si era mai allontanato molto da qui, e questa fu la cosa peggiore. Altro che Tolosa: Monsieur Dambreuse era parigino dalla testa ai piedi. La verità è che aveva moglie e quattro figli (di cui uno abbastanza grande da lavorare alle Poste) in rue de Miromesnil, dieci minuti a piedi da qui passando dietro il St James per rue Saint-Honoré; e un’altra amante installata in una suite esattamente come la nostra (Monsieur Dambreuse non voleva fare ingiustizie), al primo piano del St James! Il sabato e domenica li trascorreva con moglie e figli in rue de Miromesnil e i pomeriggi del martedì, mercoledì, giovedì e venerdì, quando io credevo che fosse in ufficio, con quest’altra ragazza, a nome Louise Dupont, qui di fronte, al St James. Bisogna ammettere che si trattava di un bell’exploit per un uomo che aveva passato da un pezzo la cinquantina e aveva dovuto smettere di lavorare a tempo pieno (faceva il dirigente in un’industria metalmeccanica) per ragioni di salute.

«Dunque era più vecchio di me» osservai impulsivamente.

«Certo! All’altra aveva detto esattamente quello che aveva detto a me. Anche lei sapeva della moglie a Tolosa, ma non immaginava neanche lontanamente che c’era un’altra donna praticamente nel medesimo albergo. Monsieur Dambreuse era un uomo pieno di fantasia, a cui piacevano le donne di una certa età. Fu un periodo molto felice; a volte mi ricordava tuo padre, con quei periodi di letargo scanditi da esplosioni di energia. In seguito, dopo che la cosa era saltata fuori, mi disse che per lui io ero la sua signora della notte: la luce elettrica mi donava moltissimo, disse. L’altra la chiamava la sua ragazza del pomeriggio, benché avesse solo un paio di anni meno di me. Insomma era un vero mandrillo, del tutto fuori posto, a mio parere, in una azienda metalmeccanica.»

«Come hai fatto a scoprire la verità?»

«Monsieur Dambreuse si è fidato troppo della sua fortuna. Per sei mesi era filato tutto così liscio. Se andavo a fare spese, uscivo sempre dalla parte di rue de Rivoli. Terminato il mio giro, prendevo un tè alla libreria W.H. Smith. Louise al pomeriggio, naturalmente, era sempre impegnata, e faceva le sue compere al mattino, quando ero impegnata io (lui infatti non si alzava mai prima delle undici), e usciva sempre dalla parte di rue Saint-Honoré. Finché un bel giorno si impadronì di lui uno spiritello maligno. Era domenica, e aveva accompagnato la moglie e i due figli più piccoli al Louvre a vedere i Poussin. Dopo, volevano fare merenda, e sua moglie propose il Ritz. “Troppo rumoroso” disse lui, “con tutte quelle galline titolate, sembra un pollaio. Conosco io un posticino tranquillo, con un bel giardino, dove non va mai nessuno...” Peccato che quel pomeriggio ci eravamo andate tutte e due, io e Louise.

«Non mi era mai capitato di prendere il tè nel giardinetto tra il St James e l’Albany, e nemmeno a Louise, ma quel pomeriggio una qualche ispirazione – benché sia cattolica, a volte mi viene da credere in una Potenza Superiore – ci indusse a farlo. Eravamo le uniche clienti, e tu sai come sono socievoli le donne francesi. Un cortese cenno del capo e un “Bonjour madame”, due parole da un tavolo all’altro sul clima, “così mite quest’anno”, e in capo a pochi minuti eravamo sedute insieme, occupate a passarci lo zucchero e a offrirci tartine a vicenda, contente, forse, di poter chiacchierare un po’ tra donne, dopo sei mesi chiuse in una camera d’albergo sempre con lo stesso uomo.

«Ci presentammo, e ci mettemmo a parlare dei nostri cosiddetti mariti. Quando scoprimmo che entrambi lavoravano nella stessa ditta, un’azienda metalmeccanica, la cosa ci parve soltanto una curiosa coincidenza. Una delle qualità che più apprezzo, retrospettivamente, in Monsieur Dambreuse è il fatto che preferiva sempre dire la verità, quand’era possibile; anzi, in un certo senso era più degno di fiducia di tanti uomini, i quali tendono spesso a dire bugie inutili, per pura vanità. “Chissà, magari si conoscono” stava dicendo Louise, quand’ecco che arriva Monsieur Dambreuse in persona, seguito dalla moglie, una donna piuttosto robusta, e dai figli, due ragazzini cresciuti troppo in fretta, la femmina con un lieve strabismo e il raffreddore da fieno. “Achille!” esclamò Louise, e quando penso alla faccia di lui nel vedere noi due sedute insieme al tavolo, mi viene da sorridere ancora oggi.» Si tamponò gli occhi con il fazzolettino. «E anche un po’ da piangere» aggiunse, «perché quella fu la fine di un idillio. Un uomo non può perdonare chi gli ha fatto fare la figura dello stupido.»

«Quella che doveva perdonare eri tu, semmai!» dissi io con una certa indignazione.

«Oh, no, caro. Io ero dispostissima ad andare avanti così, e anche Louise non avrebbe avuto niente in contrario a condividerlo. Quanto a Madame Dambreuse, non credo che abbia mai realmente afferrato la situazione: lui, che si chiamava davvero Achille, ci presentò come le mogli di due suoi colleghi. Ma non riuscì più a recuperare del tutto la propria autostima. Ormai, quando aveva i suoi periodi di calma a metà settimana, sapeva che io ne conoscevo il motivo, e questo lo metteva in imbarazzo. Non era il tipo che passa da un letto all’altro con leggerezza, era orgoglioso del suo piccolo segreto e adesso si sentiva nudo, poveretto, ed esposto al ridicolo.»

«Ma zia Augusta» esclamai, «come facevi a sopportarlo, una volta scoperto che per tutto quel tempo ti aveva ingannata?»

La zia si alzò e venne decisa verso di me con le piccole mani strette a pugno. Pensai che volesse picchiarmi. «Sciocchino» disse, come se stesse parlando a un ragazzino. «Monsieur Dambreuse era un vero uomo, e magari tu gli somigliassi!»

Poi, inaspettatamente, sorrise e con un gesto consolatorio mi appoggiò la mano alla guancia. «Scusami, Henry, non è colpa tua. Sei stato educato da Angelica. A volte mi prende il pensiero angoscioso di essere l’unica persona al mondo che ancora riesce a trovare divertente la vita. Era per questo che stavo piangendo, quando sei arrivato. Dunque, dissi a Monsieur Dambreuse: “Achille, le cose che facciamo mi piacciono esattamente quanto prima, e non m’importa sapere dove vai nel pomeriggio. Per me non fa differenza”. Ma per lui sì, naturalmente, perché non aveva più il suo segreto. Il bello per lui stava nella segretezza, sicché ci lasciò tutte e due, per poter ricominciare da qualche altra parte con un nuovo segreto. Non un nuovo amore: un nuovo segreto. La cosa più triste fu quando mi disse: “Non esiste un altro albergo come il St James and Albany in tutta Parigi”. “Perché non prendi due camere al Ritz, a due piani diversi?” gli dissi io. Mi rispose: “Il lift lo saprebbe. Non sarebbe più un vero segreto”.»

Ero stato ad ascoltare con stupore e anche un po’ di turbamento. Per la prima volta mi rendevo conto dei pericoli che mi attendevano. Era come se fossi trascinato dietro di lei in un’assurda impresa cavalleresca, come Sancio Panza al seguito di Don Chisciotte, ma per difendere non già l’ideale cavalleresco, bensì l’ideale di una vita “divertente”, come la chiamava la zia. «Perché vuoi andare a Istanbul, zia Augusta?» domandai.

«Chi vivrà vedrà» rispose lei.

«Non starai cercando Monsieur Dambreuse, per caso?» Era un’idea assurda, ma non si sa mai.

«No, no, Henry. Probabilmente sarà morto, come Curran, e comunque ormai avrebbe quasi novant’anni. E Visconti, il povero stupido Visconti, anche lui sarebbe sugli ottantacinque, come minimo... un’età in cui le donne ti servono per compagnia. Correva voce che dopo la guerra fosse tornato a Venezia e fosse finito annegato nel Canal Grande dopo una rissa con un gondoliere a causa di una donna, ma io non ci ho mai creduto. Non era il tipo che si batte per una donna, e con tutti i trucchi che conosceva, se l’era sempre cavata. Ah, che vita lunga ho avuto... proprio come tuo zio Jo.»

Di nuovo la sfiorò la malinconia, e a me, per la prima volta, venne fatto di pensare che forse le dalie non erano sufficienti per riempire la vita di un uomo in pensione. «Sono contento di averti ritrovata, zia Augusta» dissi con slancio.

Rispose con un’espressione gergale decisamente fuori luogo: «Non sono mica arrugginita, eh?», aprendosi in sorriso così filosofico, e insieme così spensierato e giovanile, che compresi benissimo come Wordsworth potesse essere geloso.