VII
«Lei è stato definito una vipera» dissi a Visconti.
«Da chi?»
«Be’, non dai due poliziotti: dal capo della polizia di Roma.»
«Ah, quel fascista» disse Visconti.
«Fascista nel 1945?»
«Collaborazionista, allora.»
«La guerra era finita.»
«Un collaborazionista comunque. Con i vincitori si collabora, i perdenti li si appoggia.» Anche questa sembrava una citazione di Machiavelli.
Stavamo bevendo champagne in giardino, perché la casa al momento era impraticabile. C’erano uomini che trasportavano mobili; uomini arrampicati su scale a pioli; elettricisti che riparavano l’impianto e appendevano lampadari. E zia Augusta che sovrintendeva al tutto.
«Io preferii la fuga a una nuova forma di collaborazionismo» proseguì Visconti. «Non si può mai sapere chi vincerà veramente alla fine. Il collaborazionismo è sempre una misura temporanea. Non che mi importi molto della sicurezza, ma a sopravvivere ci tengo. Ebbene, se il questore mi avesse definito un topo di fogna, non avrei niente da ridire. Anzi, provo un sincero senso di fratellanza per i topi in genere: il futuro del mondo dipende dai topi. Dio, almeno per come lo immagino io, ha creato un certo numero di alternative, nel caso che alcuni dei suoi prototipi dovessero fallire: è questo il senso dell’evoluzione. Che una specie si può estinguere. Non ho mai capito perché i protestanti avversino con tanta forza le idee di Darwin. Ma forse, se Darwin si fosse concentrato sull’evoluzione di pecore e capre, non avrebbe offeso la sensibilità religiosa.»
«Sì, ma i topi…» obiettai.
«I topi sono creature estremamente intelligenti. Se vogliamo scoprire qualcosa sul funzionamento del corpo umano, facciamo esperimenti sui topi. E in una cosa essi sono incontestabilmente più progrediti di noi: vivono sottoterra, nella clandestinità. Noi abbiamo incominciato a farlo soltanto durante l’ultima guerra, mentre i topi si sono resi conto dei pericoli della vita in superficie migliaia di anni fa. Quando scoppierà la bomba atomica, i topi riusciranno a sopravvivere. Che stupendo mondo deserto si troveranno a disposizione; benché confidi che avranno abbastanza buon senso da rimanersene sottoterra. Posso immaginarmi che si evolveranno molto rapidamente. Spero soltanto che non ripeteranno il nostro errore inventando la ruota.»
«È curioso, però, come noi li odiamo» osservai. Dopo tre bicchieri di champagne, avevo la sensazione che con Visconti potevo parlare liberamente, come mi era capitato con Tooley. «Consideriamo codardi i topi, mentre i codardi siamo noi, che abbiamo paura di loro.»
«Non so se il questore avesse paura di me, ma probabilmente intuiva con un senso di inquietudine che io gli sarei sopravvissuto. Questa è una sgradevole forma di invidia che prova soltanto chi si trova in una situazione di assoluta sicurezza. Per esempio, io non la provo nei tuoi confronti, benché tu sia molto più giovane di me, perché qui entrambi viviamo in uno stato di beata insicurezza. Sarai tu il primo ad andarsene? Sarò io? Sarà O’Toole? Dipende da chi è il topo migliore. Ecco perché nelle guerre moderne i vecchi leggono l’elenco dei caduti con una certa sorniona soddisfazione: hanno la possibilità di vivere più a lungo dei loro nipoti.»
«Una volta ho visto un topo, nel mio giardino» raccontai, lasciando che Visconti mi riempisse nuovamente il bicchiere. «Se ne stava immobile in un’aiuola, per non farsi notare. Aveva la pelliccia vaporosa, come le piume di un uccello nella stagione fredda. Non era repellente come i topi a pelo raso. Senza pensarci, gli tirai un sasso. Lo avevo mancato, e mi aspettavo di vederlo fuggire di corsa, invece si allontanò zoppicando. Doveva avere una zampa rotta. Si diresse molto lentamente verso un buco nella siepe. A un certo punto, si fermò, esausto, e girò la testa a guardarmi, con una tale aria da reietto, che mi fece pena e non me la sentii di tirargli altre sassate. Poi proseguì zoppiconi verso il buco e vi si infilò. Nel giardino adiacente c’era un gatto, sicché sapevo che non avrebbe potuto scamparla. Ma c’era una tale dignità in quel suo incamminarsi verso la morte, che per tutta la mattina mi vergognai di me stesso.»
«Questo ti fa onore» disse Visconti. «Parlando da topo onorario a nome dei confratelli, ti perdono per la sassata. Un altro bicchiere!»
«Non sono abituato a bere champagne di mattina.»
«Non c’è nient’altro di utile da fare, per il momento, se non metterci di buon umore. Mia moglie è più che felice di seguire i preparativi per il suo ricevimento.»
«Sua moglie?»
«Sì, l’annuncio è un po’ prematuro, ma ieri notte abbiamo deciso di sposarci. Ora che la pulsione sessuale non è più in primo piano, il matrimonio non presenta pericoli di infedeltà né di noia.»
«Siete vissuti insieme a lungo, senza essere sposati.»
«La nostra vita è stata, come dicono i francesi, mouvementée. Adesso posso lasciare gran parte del carico di lavoro a te. Il mio socio va sorvegliato, ma a quello ci penso io. Così come mi occuperò dei rapporti con la polizia. Il capo della polizia verrà alla festa di domani sera. A proposito, ha una figlia incantevole. Peccato che tu non sia cattolico: un capo della polizia sarebbe un suocero prezioso; ma forse a questo si può rimediare.»
«Lei parla come se avessi deciso di stabilirmi qui per tutta la vita.»
«So bene che l’espressione “per tutta la vita” ha un suono piuttosto funereo, come quando si dice “condannato a vita”, ma da queste parti “a vita” può facilmente significare per un giorno, una settimana, un mese. E di sicuro non si muore in un incidente stradale.»
«A sentirla, si direbbe che io sia un giovanotto in cerca di avventure. O’Toole vuole che mi imbarchi domani.»
«Ma ormai fai parte della famiglia» ribatté Visconti posandomi la mano simile a un artiglio sul ginocchio e conficcandomi le unghie nella carne per rinsaldare la presa. «Mi sento un po’ come un padre nei tuoi confronti.» Il suo sorriso, che nelle intenzioni doveva esprimere tenerezza, non era precisamente del tipo che si è soliti associare alla paternità: i denti mancanti rovinavano l’effetto. Doveva avere notato che guardavo la sua bocca, perché spiegò: «Un tempo avevo una dentatura bellissima. Con certe stupende capsule d’oro: sono l’unico tipo di gioielli maschili che le donne apprezzano appieno. Quelle deliziose creature amano posare le labbra sull’oro. Purtroppo l’oro piaceva anche ai nazisti, perciò, pur cercando di mantenere relazioni amichevoli con loro, ritenni più prudente farmi togliere i denti. C’era un ufficiale della Gestapo che ne aveva un cassetto pieno, e avevo notato che, anziché guardarmi negli occhi, mi guardava in bocca».
«Come spiegò ai nazisti la sparizione dei denti?»
«Dissi che li avevo venduti in cambio di sigarette. Davvero non so come avrei fatto senza quei denti, quando dovetti fuggire. Prima che fossi arrivato a Milano e al collegio dei gesuiti di Mario, avevo speso fino al mio ultimo dente.»
Fummo raggiunti da zia Augusta. «Un bicchiere di champagne non dispiacerebbe neanche a me» disse. «Speriamo che domani non piova. A ogni buon conto, ho tenuto sgombra la sala da pranzo, per ballare. La tua camera, Henry, è a posto. Va tutto a rilento perché non ci intendiamo con la lingua. Continuo a parlargli in italiano, e quelli non capiscono. Mi scopro a guardarmi intorno in cerca di Wordsworth per chiedere a lui di spiegare: in queste cose è bravissimo…»
«Mi sembrava che avessimo deciso di non pronunciare mai più il suo nome.»
«È vero, ma è talmente stupido renderci la vita difficile con queste gelosie, alla nostra età. Sai, Henry, che Visconti è rimasto turbato quando gli ho detto di avere incontrato Achille sulla nave? Povero Achille, non riusciva nemmeno a muoversi, con quella gotta.»
«Preferisco che i morti rimangano morti» insistette Visconti.
«A differenza di Pottifer» disse la zia, e scoppiò a ridere.
«Chi è Pottifer?» domandai.
«Stavo per parlartene a Boulogne, ma tu non hai voluto ascoltare.»
«Racconta adesso.»
«Adesso ho troppo da fare.»
Era chiaro che l’unico modo per farmi perdonare il mio comportamento quella sera al ristorante della Gare Maritime era di supplicarla. «Per favore, zia Augusta, mi piacerebbe tanto sapere…» Mi sembrava di essere un bambino che finge interesse per una favola, per rimandare il momento di andare a dormire. Ma ora, che cosa volevo rimandare? Forse il momento di decidere definitivamente se imbarcarmi per tornare a casa, rivedere le mie dalie e il maggiore Charge, rispondere alla lettera di Miss Keene, oppure se oltrepassare il confine ed entrare nel mondo della zia, dove finora avevo fatto soltanto brevi incursioni come turista. Mentre osservavo le bollicine dello champagne di Panamá risalire alla superficie del bicchiere, come palle galleggianti sull’acqua al luna park, mi parve inconcepibile che potessi abbandonare per sempre il territorio del colonnello Hakim, di Curran, di O’Toole...
«Perché sorridi?» mi domandò zia Augusta.
«Stavo pensando a O’Toole ormai in volo per Washington con il falso Leonardo.»
«Non oggi: oggi non ci sono voli diretti al Nord. Verrà alla festa domani. L’ho invitato ieri, nel salutarci. Una volta ottenuto quello che voleva, si è dimostrato un uomo molto simpatico. Bello, anche, sia pure con quella sua aria triste.»
«Ma forse, oggi, avendo il tempo di esaminare meglio il disegno…»
«O’Toole non capisce niente di arte» disse Visconti. «Il tizio che ha eseguito il falso era un genio. Un analfabeta, uno dei contadini del principe, ma che mano, che occhio! Il principe non aveva idea di quale tesoro vivente avesse sulle sue terre, finché non arrivò la polizia – erano i primi tempi di Mussolini – ad arrestare quell’uomo. Falsificava banconote. Aveva messo su una piccola stamperia dietro la bottega del fabbro. Faceva questi biglietti falsi quasi perfetti, ma non si rendeva conto della propria bravura, e li regalava ai suoi compagni e amici. Il principe non capiva come avessero fatto i suoi dipendenti a diventare così ricchi: non c’era un bracciante che non avesse il suo apparecchio radio. Nei circoli socialisti questo diede al principe la fama di padrone illuminato, anzi volevano perfino eleggerlo al parlamento. Poi i contadini incominciarono a comprarsi la ghiacciaia, perfino la motocicletta. E naturalmente esagerarono... uno si comprò addirittura una Fiat. Inoltre, la carta usata dal falsario era scadente. Quando ebbe scontato la sua pena, il principe lo accolse a braccia aperte, e si premurò di mettergli a disposizione i materiali giusti per fare la copia del suo Leonardo.»
«Incredibile! E dice che era un analfabeta?»
«Questo era un vantaggio, nella sua attività. Per esempio, non aveva idee preconcette su come bisognasse scrivere una lettera. Per lui una lettera era semplicemente una forma astratta, ed è più facile copiare esattamente una figura che non ha significato.»
La calura mattutina si era fatta più intensa, e anche il profumo dei fiori. La bottiglia di champagne era quasi finita. Questa è l’isola dei lotofagi, pensai:
Sentire i compagni sussurrare,
e giorno dopo giorno mangiare fiori di
loto.36
E come diceva quel passo: “piangono i fiori dalle lunghe foglie”? Qui erano gli alberi a piangere, lacrime d’oro. Sentii il tonfo di un’arancia che cadeva; dopo essere rotolata brevemente, andò a fermarsi in mezzo a una decina di altre arance.
«A che cosa stai pensando, caro?»
«Tennyson è il mio poeta preferito. E ho sempre pensato che Southwood possedesse una qualità tennysoniana: per la vecchia chiesa, forse, i rododendri, Miss Keene intenta al tombolo. In particolare mi sono sempre piaciuti questi versi:
Allora prendi il telaio da ricamo e
aggiungi
un tocco di vermiglio all’esotico macao.
Anche se, nel caso di Miss Keene, non si trattava di ricamo.»
«Hai nostalgia di Southwood perfino qui?»
«No» risposi, «c’è anche un altro Tennyson, e lo ritrovo più qui che a Southwood:
Se la morte è la fine della vita; ah,
perché
questa dovrebbe essere solo fatica?
«Mr Pottifer non ci credeva, che la morte fosse la fine della vita.»
«Come molti, del resto.»
«Sì, ma lui prese un’iniziativa al riguardo.»
Insomma, la zia moriva dalla voglia di raccontarmi di questo Pottifer. Lanciai un’occhiata interrogativa a Visconti, che alzò impercettibilmente le spalle. «Chi era Pottifer, zia?»
«Un consulente fiscale» rispose zia Augusta, senza aggiungere altro.
«Tutto qui?»
«E un uomo molto orgoglioso.»
Era chiaro che il mio commento a Boulogne le bruciava ancora e che avrei dovuto estorcerle la storia una frase alla volta.
«E allora?»
«Prima lavorava per l’ufficio delle imposte, come ispettore.»
Il sole illuminava gli aranci, i limoni e i pompelmi. Ai piedi dei lapachos rosati spiccavano i fiori azzurri e bianchi sull’arbusto di gelsomino. Visconti versò il resto dello champagne nei nostri tre bicchieri. La luna trasparente stava tramontando all’orizzonte. Somerset House, ufficio delle imposte... erano più distanti del Mare Crisium o del Mare Humorum sul pallido globo celeste.
«Su, raccontami di questo Pottifer, zia Augusta» insistetti mio malgrado.
«Gli venne l’idea di prolungare la sua vita dopo la morte» incominciò la zia, «utilizzando il servizio di segreteria telefonica. Piuttosto fastidioso per i suoi clienti, tra i quali c’ero anch’io. Fu al tempo della seconda separazione da Visconti, a causa della guerra. In Italia non ero abituata a pagare le tasse, perciò furono un brutto colpo per me, al ritorno in Inghilterra. Soprattutto per il fatto che il mio modesto reddito era considerato “reddito non da lavoro”. Se penso a tutte quelle interminabili tournée, Roma, Milano, Firenze, Venezia, prima che morisse Jo e mi mettessi in società con Visconti…»
«Quello fu un giorno felice per me, cara» intervenne Visconti, «ma stavi raccontando a Henry di quel Pottifer.»
«Devo pur spiegargli gli antefatti, altrimenti non capirebbe lo scopo della nostra società.»
«Quale società?»
«Un’invenzione di Mr Pottifer per legalizzare il mio caso e quello di alcune altre signore nella mia stessa situazione. La chiamò Meerkat Products Ltd. Noi fummo nominate consiglieri di amministrazione e le nostre rendite (“non da lavoro” figurarsi!) furono segnate come stipendi, dunque come uscite; servivano a dimostrare che la società presentava quella che Pottifer amava definire “una piccola perdita salutare”. A quei tempi, più forte era la perdita, più alto era il valore della società in caso di vendita. Non ho mai capito il perché.»
«Tua zia non è una donna d’affari» osservò Visconti con tenerezza.
«Comunque, mi affidai a Pottifer, e feci bene. Negli anni trascorsi come ispettore delle tasse, in Pottifer era nato un odio intenso per il suo incarico e avrebbe fatto qualsiasi cosa per favorire i contribuenti. Andava molto fiero della sua abilità nell’aggirare ogni nuova normativa. Ogni anno, dopo l’approvazione della legge finanziaria, si chiudeva in una specie di ritiro spirituale per tre settimane.»
«Che tipo di società era la Meerkat, che cosa produceva?»
«Niente, altrimenti avremmo dovuto dichiarare degli utili. Quando Pottifer morì, cercai la parola “meerkat” sul dizionario. Diceva: piccolo mammifero del Sudafrica, simile a un icneumone. Siccome non sapevo che cosa fosse un icneumone, andai a controllare: pare che sia un qualcosa che distrugge le uova di coccodrillo, un’occupazione quanto mai improduttiva, a mio parere. Ma secondo me gli ispettori delle tasse pensavano che fosse una provincia dell’India.»
Arrivarono due operai che trasportavano una struttura di ferro dipinta di nero.
«E quello che cos’è, cara?»
«Il barbecue.»
«Sembra enorme.»
«Per forza, se ci dobbiamo arrostire un bue intero.»
«Non hai finito di spiegare la faccenda del servizio di segreteria telefonica» la richiamai.
«Non riuscivo a capacitarmi» riprese la zia. «Erano arrivate le cartelle delle tasse (esorbitanti, come sempre), ma ogni volta che provavo a telefonare a Pottifer, la segreteria telefonica rispondeva: “Mr Pottifer è in riunione con i direttori del fisco. Vi richiamerà non appena possibile”. La cosa andò avanti per quasi due settimane, finché, un bel giorno, mi venne in mente di provare a chiamare all’una di notte. La risposta era sempre la stessa: “Mr Pottifer è in riunione con i direttori…”. Allora capii che doveva essere successo qualcosa. Alla fine venne fuori tutta la storia. Pottifer era morto da tre settimane, ma nel testamento aveva disposto che il fratello non dovesse disdire il telefono e facesse trasmettere quel messaggio al servizio di segreteria.»
«Ma perché?»
«Credo il motivo dipendesse in parte dalla sua idea di immortalità; ma rientrava anche nella guerra personale che aveva dichiarato contro il fisco. Pottifer era un fautore convinto della tattica dilatoria. “Mai rispondere alle loro domande” ci raccomandava. “Obbligateli a scrivere di nuovo. E date risposte ambigue: siete sempre in tempo a decidere in seguito, a seconda delle circostanze, che cosa intendevate dire. Più voluminosa è la pratica, più lungo sarà sbrigarla. Il personale cambia di frequente e i nuovi arrivati devono incominciare a leggersi tutto l’incartamento dal principio. Lo spazio in ufficio è limitato. Alla fine, troveranno più semplice archiviare tutto.” A volte, se un ispettore insisteva troppo, consigliava di infilarci un riferimento a una comunicazione inesistente. Mandava una lettera secca: “Noto che la mia del 6 aprile 1963 è stata completamente disattesa”. Poteva passare un mese buono, prima che l’ispettore ammettesse di non avere trovato traccia della lettera in questione. Allora Pottifer ne spediva una copia, in cui era contenuto un riferimento a un’altra comunicazione ancora, che l’ispettore non sarebbe riuscito a rintracciare. Se l’ispettore era nuovo della zona, dava la colpa al suo predecessore; altrimenti, dopo qualche anno di Pottifer, gli veniva un esaurimento nervoso. Credo dunque che, nel progettare di continuare a esistere dopo la morte (logicamente non ci fu alcun annuncio sui giornali, e i funerali si svolsero in forma strettamente privata), avesse in mente appunto una tattica dilatoria. Non pensò agli inconvenienti che avrebbe causato ai suoi clienti, ma solo al fastidio che avrebbe procurato all’ispettore.»
Zia Augusta emise un profondo sospiro, non meno ambiguo delle comunicazioni di Mr Pottifer: non riuscii a capire se fosse di tristezza per la morte del consulente fiscale, o di soddisfazione per essere finalmente riuscita a raccontare la storia iniziata alla Gare Maritime di Boulogne.
«In questo paese benedetto che è il Paraguay» disse Visconti con il tono di chi sta traendo la morale della storia, «non esistono le tasse e dunque non c’è bisogno di evaderle.»
«Pottifer non sarebbe stato felice, qui» osservò zia Augusta.
Quella sera, mentre stavo preparandomi per andare a letto, la zia venne a trovarmi in camera mia. «È comoda la tua camera, adesso, vero?» mi domandò sedendosi sul letto.
«Molto comoda.»
Vide subito la sua fotografia, che avevo tolto dalle pagine di Rob Roy e infilato in un angolo della specchiera. Una camera da letto senza fotografie mi dà l’impressione che il suo occupante sia una persona senza cuore, perché quando ci si addormenta si ha bisogno della presenza di qualcuno che vegli su di noi, come facevano i quattro evangelisti durante l’infanzia. «E quella, da dove viene?» mi domandò.
«L’ho trovata in un libro.»
«L’aveva scattata tuo padre.»
«L’avevo immaginato.»
«Era stata una giornata di grande felicità» disse la zia. «Senza le solite discussioni circa il tuo futuro.»
«Il mio…?»
«E dire che non eri nemmeno nato. Anche adesso, mi piacerebbe poter conoscere il tuo futuro. Hai intenzione di restare con noi? Sei così evasivo!»
«Ormai è troppo tardi per il battello.»
«Ci saranno sicuramente delle cabine libere.»
«Non mi attira l’idea di passare tre giorni con il povero Wordsworth.»
«Esistono gli aerei…»
«Appunto» dissi, «perciò vedi che non occorre decidere subito. Posso partire la settimana prossima, o quella dopo ancora. Possiamo aspettare di vedere come si mettono le cose.»
«Ho sempre pensato che un giorno avremmo potuto vivere insieme.»
«Hai sempre pensato? Ma se ci conosciamo da meno di un anno!»
«Perché credi che sia venuta al funerale?»
«Be’, era il funerale di tua sorella.»
«Già, è vero, non ci pensavo.»
«Abbiamo tutto il tempo per decidere» dissi. «Magari tu stessa non vorrai stabilirti qui. Dopotutto, sei una grande viaggiatrice.»
«Questo per me è il capolinea» disse zia Augusta. «Forse i viaggi sono sempre stati un surrogato. Finché stavo con Visconti, non mi veniva voglia di viaggiare. E tu, che cosa c’è a Southwood che ti induce a tornare?»
Era una domanda che mi assillava da parecchi giorni, e adesso mi sforzai di rispondere il più onestamente possibile. Parlai delle mie dalie, parlai perfino del maggiore Charge e dei suoi pesci rossi. Incominciò a cadere la pioggia frusciando tra le fronde in giardino; un pompelmo piombò pesantemente al suolo. Parlai dell’ultima sera trascorsa con Miss Keene e della sua lettera triste e indecisa da Koffiefontein. Perfino l’ammiraglio si fece avanti nei miei ricordi, con la faccia arrossata dal Chianti e il cappellino di carta rossa. Parlai delle scatole di Omo davanti alla porta di casa. Mi sentii invadere dalla sensazione di sollievo che deve provare un paziente dopo un’iniezione di pentothal e lasciai che i miei pensieri alla rinfusa dettassero le parole. Parlai del Chicken e di Peter e Nancy del ristorante di Latimer Road, delle campane di St John e della targa in memoria del consigliere Turnbull, patrono dello squallido orfanotrofio. Sedetti sul letto vicino alla zia, e lei mi mise il braccio intorno alle spalle, mentre io passavo in rassegna la mia vita priva di avvenimenti. «Sono stato molto felice» conclusi, come se dovessi giustificarla.
«Sì, caro, sì, lo so.»
Le dissi come era stato buono con me Sir Alfred Keene, e le dissi della banca e di come Sir Alfred avesse minacciato di chiudere il suo conto se non mi avessero confermato come direttore.
«Caro il mio ragazzo» disse zia Augusta, «è tutto finito, adesso» e mi accarezzò la fronte con la mano da vecchia come se fossi uno scolaretto scappato di collegio e lei mi stesse promettendo di non mandarmici più, che tutti i miei problemi erano finiti, potevo restarmene a casa.
Benché fossi nel pieno della mezza età, appoggiai la testa sul suo petto e dissi: «Sono stato felice, zia, ma sapessi che noia!».