Capitolo 5
All’inizio di febbraio Pavone e Sura cavalcarono a sudest, evitando di menzionare ciò che era successo a Sirmio. Attraversarono la diocesi della Dacia seguendo la deserta Via Militaris, e quando entrarono in Tracia, deviarono verso i monti Rodopi per evitare il campo invernale di Fritigerno. Percorrendo l’alto sentiero sulle montagne, scrutarono in silenzio le mura distrutte di quella che era stata la fiorente città di Trimontium e la minacciosa cappa di fumo grigio che incombeva nel cielo sopra l’accampamento gotico. Il campo invernale di Fritigerno era come un gigantesco ebollitore che dominava la campagna per miglia e miglia. Pavone si rese conto che i rapporti frammentari che aveva ricevuto erano veri: dopo il disastro di Adrianopoli, l’orda gotica si era ingrossata.
Costeggiarono le pianure della Tracia meridionale restando sulle colline per evitare di essere intercettati dagli uomini di reiks Ortwin, che aveva appostato vedette per controllare tutti i movimenti di truppe dell’impero da e per le poche città barricate della costa o verso l’interno. I segni dell’occupazione di Ortwin resero ancora più cupa l’ultima parte del loro viaggio. Incrociarono famiglie in fuga che avevano abbandonato le case rurali in Tracia portando con sé i loro pochi averi per dirigersi, come Pavone e Sura, verso la relativa sicurezza della diocesi meridionale della Macedonia e la protezione offerta da città come Tessalonica e Larissa.
L’ultima settimana di febbraio i due cavalieri raggiunsero la terra promessa. “La Macedonia”, pensò Pavone, guardando le verdi colline che si srotolavano fino all’orizzonte meridionale, dove il cielo color pastello incontrava la terra in una nebbia afosa.
Sura sollevò il viso verso il sole, godendosi i primi tepori primaverili dopo il lungo inverno. Attraversarono con i cavalli al passo un campo di mimose e poi seguirono il corso del fiume Axios, con il gorgoglio dell’acqua che faceva affiorare i ricordi del passato.
Quando alle loro narici giunse la brezza salata del mare, sollevarono il capo e distolsero la mente dai ricordi. Pavone guardò fisso davanti a sé, strizzando gli occhi per proteggerli dal sole. La nebbia si dissolveva a ogni passo e scorsero in lontananza due alte colline che incombevano ai lati della strada come torri di guardia. Quella a nord era solcata da sentieri, mentre quella a sud, due volte più alta, era coperta da fitti boschi e incappucciata di neve. «Il monte Olimpo», mormorò Pavone appena la scorse, pensando ai suoi studi giovanili – uno dei pochi ricordi piacevoli del suo passato di schiavo. «E il monte Cisso», aggiunse, guardando il pendio a nord. Tra le due alture c’era una grande baia protetta con le acque turchesi dell’Egeo che scintillavano al sole. Poi scorse tra la nebbia, ai piedi del monte Cisso, una città bagnata dal sole, che abbracciava la costa come un anfiteatro naturale. «E Tessalonica…», concluse.
Mentre scendevano verso la baia lungo il dolce pendio, scrutarono le alte mura dorate che circondavano la città. All’interno si ergevano un arco trionfale, una magnifica rotonda con il tetto a cupola, un teatro di marmo bianco, un palazzo sulla collina con rigogliosi frutteti a terrazza, un grande circo per le corse e un acquedotto che portava l’acqua in città dal monte Cisso. Tessalonica era una meraviglia che non aveva nulla da invidiare nemmeno a Costantinopoli.
Mentre si avvicinavano, videro anche le ferite lasciate dalla guerra. Davanti alle mura avevano scavato e ammonticchiato la terra per erigere un bastione esterno, alto la metà delle mura, con in cima un’appuntita palizzata.
Pavone e Sura si scambiarono uno sguardo, pensando al messaggio che aveva convocato laggiù l’XI Claudia. «Dov’è il grande campo militare?», chiese Sura.
«Sembra piuttosto un frettoloso tentativo di difesa», rispose Pavone. «La Macedonia non è ancora stata toccata dai goti, ma pare che Teodosio stia aspettando il loro arrivo».
Mentre si avvicinavano, gli echi delle attività umane si mescolarono alle strida dei gabbiani. Il porto era affollato di pescherecci e una flotta di galee si stava facendo strada tra di loro diretta verso il molo.
«Galee militari», osservò Pavone.
«Rinforzi», disse Sura con voce vibrante di speranza.
«Da dove?», chiese Pavone. «Le forze siriane del Limes arabicus negli ultimi anni sono state decimate».
«Sì», ammise Sura, «e anche gli egizi».
Mentre si avvicinavano al posto di guardia della palizzata, su un ponte sopra la porta scorse lo scintillio degli elmi e delle corazze delle sentinelle, il bagliore dei loro scudi verdi con l’insegna del leone dorato. Era la IV Flavia Felix, un reggimento occidentale della Pannonia – comitatenses, nominalmente superiori ai reggimenti limitanei come l’XI Claudia. Una legione fresca, non provata dalla guerra.
«I soliti altezzosi comitatenses», disse Sura con un ghigno. «Ma per due viaggiatori stanchi, è una presenza consolante».
«Chi va là?», ringhiò una sentinella della Flavia.
Pavone sollevò il capo e la guardò. «Il tribuno Pavone dell’XI Claudia, convocato per ordine dell’imperatore Teodosio».
«Altri due dispersi della Claudia», disse la sentinella, stringendosi nelle spalle, a un collega dietro la palizzata. La porta di aprì.
«Ci siamo», disse Pavone. «Dobbiamo scoprire dove staziona la Claudia, poi ci uniremo a loro e…», le parole gli si spensero sulle labbra e si fermò quando vide l’accampamento all’interno del bastione di terra. Le tende erano molte meno di quante se ne sarebbe aspettate e una fresca brezza dal mare accentuava il senso di vuoto.
«È questo?», mormorò Pavone, scrutando l’estremità orientale del campo. Davanti ad alcune tende di pelle di capra, cinque schiere di soldati erano sull’attenti per un’ispezione. Cinque legioni di comitatenses della Pannonia, inclusa la IV Flavia Felix. «Soltanto cinquecento uomini?»
«Aspetta, ci sono anche quelli», disse Sura indicando la striscia d’ombra sotto le mura, dove un gruppo di meno di duecento uomini si stava addestrando con le spade di legno «Hanno riformato l’VIII Gemina?»
«Così sembrerebbe», rispose Pavone, riconoscendo la loro insegna sfilacciata – bianca con un segugio blu che correva. La Gemina era una legione di limitanei, come la Claudia, ma erano stati decimati all’inizio della guerra gotica e i pochi sopravvissuti li avevano riassegnati come sentinelle della città. Ora, però, sembrava che fossero stati riorganizzati come legione.
Accanto a loro c’erano capannelli di soldati di altri reggimenti – sopravvissuti dell’armata distrutta a Adrianopoli. Un gruppo aveva l’insegna azzurro cielo degli Hiberi, un altro quella dei reggimenti degli auxilia palatina di Valente. Un tempo un fiero reggimento di mille soldati con le corazze scintillanti, ora erano ridotti a una settantina di uomini malconci con le armature e gli elmi ammaccati. Un altro gruppo di circa sessanta soldati stava riparando le tende sotto l’insegna rosso scuro dei Nervii, mentre un gruppo di duecento uomini scarsi si aggirava attorno a un quadrato di tende con l’insegna color zaffiro dei Fortenses … Teodosio aveva ereditato un esercito allo sbando.
Vicino al confine occidentale del campo, un drappello di trenta cavalieri cavalcava su e giù lanciando lance contro bersagli. Erano gli unici cavalieri presenti nel campo. Da quando le scholae palatinae – i reggimenti d’élite della cavalleria – erano state sgominate a Adrianopoli, nella regione c’erano stati ben pochi cavalieri. Una settantina di sagittarii e un gruppo più piccolo di frombolieri si esercitavano lanciando frecce e sassi contro cerchi dipinti sui tronchi. Sembrava fossero gli unici tiratori del campo.
Pavone scorse infine un gruppetto di tende sotto l’insegna scolorita della Claudia. Una vista che gli riscaldò il cuore e al tempo stesso lo rattristò. All’improvviso udirono dei passi alla loro destra, si voltarono e videro Libone, Cornico e Trupone – i centurioni della Claudia – raggianti in volto, con Retto che zoppicava dietro di loro.
«Signore!», disse Libone, sollevando una mano in segno di saluto. «Vi credevamo morti. Avevate detto che ci avreste raggiunti dopo due settimane e sono passati quasi due mesi!».
«Siamo stati… deviati», rispose Pavone.
«Cinque… seimila uomini?», finì di contare Sura.
«In tutto, seimilacinquecento», rispose Libone con un gesto della mano che abbracciava tutto il campo.
«Vino extra per Libone, questa notte», scherzò Retto. «Ha dovuto togliersi le calze e gli stivali per contare dopo il dieci».
«Contro un’orda di cinquantamila goti…», disse Sura, dando voce a quello che stavano pensando tutti.
«Li avete visti, vero?», chiese Retto, con il volto teso dalla preoccupazione.
«Sì, Fritigerno è rimasto a Trimontium», rispose Pavone. «Ma la primavera è quasi arrivata e tra poco diventerà irrequieto. E in ogni caso, quel bastardo di Ortwin ha continuato con i suoi saccheggi per tutto l’inverno. Avremo molto da fare là fuori». Strizzò di nuovo gli occhi e si guardò attorno. «Chi è il responsabile di questo posto?».
Come in risposta alla sua domanda, Pavone udì un nitrito e uno scalpiccio di zoccoli alle sue spalle. Si voltò e vide un guerriero goto in sella a una giumenta nera che sembrava uscito da un incubo. A petto nudo, indossava soltanto una bandoliera a tracolla, con una lunga spada appesa in diagonale sulla schiena, pantaloni verdi decorati con motivi a losanga blu e stivali di cuoio. I capelli color ambra erano raccolti in lunghe trecce che gli pendevano ondeggiando sulle spalle e spessi baffi gli decoravano il labbro superiore. Pavone rabbrividì, come se un’armata di invisibili formiche si fosse infilata sotto la sua pelle.
«Il tuo nome e il tuo grado», chiese il goto in tono secco.
Pavone inclinò la testa di lato. «Tribuno Pavone dell’XI Claudia Pia Fidelis. Potrei chiederlo anche a te, goto!».
«Pavone…», trasalì Retto.
«L’imperatore aveva ragione», lo interruppe il goto. «Ci vorrà un sacco di lavoro per rimettere insieme i brandelli delle legioni orientali».
Pavone corrugò la fronte e sentì la rabbia montargli dentro. In quell’istante si udì riecheggiare il suono delle buccinae e tutti si voltarono verso le mura, dove si trovavano i trombettieri.
«Ne riparleremo presto, tribuno Pavone», disse il goto con un ghigno, poi spronò il cavallo e avanzò verso la porta della città. «Nel frattempo avremo un’udienza con l’imperatore».
Le buccinae squillarono di nuovo, e Pavone e Sura, confusi, si guardarono attorno mentre le cinque legioni della Pannonia rompevano le righe, la Gemina smetteva di addestrarsi, i cavalieri smontavano dalla sella e riportavano i loro destrieri nelle stalle e gli arcieri e i frombolieri riponevano le loro armi, convergendo tutti verso la porta aperta della città. Un’ora più tardi Pavone, Sura e gli uomini della Claudia seguivano gli altri all’interno delle mura.
«È da settimane che ne parlano», disse Libone, passando a Pavone un otre di vino annacquato mentre la Claudia attraversava il cortile lastricato del mercato di Tessalonica, mescolandosi alla folla dei cittadini.
«Si è parlato molto di riorganizzazione, di nuovi comandanti e nuove legioni», aggiunse Cornico, camminando lungo il bordo di una monumentale fontana.
«E di questo periodo cruento», mormorò Retto.
Avanzarono lungo un viale di cipressi e raggiunsero l’agorà, dove Pavone notò in fondo alla piazza le insegne di tutte le legioni sopravvissute. Si diresse verso il lato nord, dove la folla stava convergendo verso un teatro di marmo bianco. Il semicerchio a gradoni si riempì presto, e molti uomini, inclusi quelli della Claudia, si ammassarono alla base e agli angoli, fissando tutti il palco vuoto di fronte all’agorà. Dal vicino molo arrivavano gli odori della salsedine e del pesce alla griglia, e le urla di eccitazione e di scontento di alcuni gruppi che protestavano contro il recente aumento delle tasse facevano a gara con le strida dei gabbiani. Ma le grida si placarono quando una tromba squillò tre volte.
Due legionari della Lancearii – un’altra delle poche legioni orientali che non erano state completamente distrutte dai goti – salirono sul palco con gli scintillanti scudi rossi su cui spiccava un sole dorato, le corazze bronzee e le piume argentate che danzavano nella brezza marina. Dietro di loro c’era Teodosio. Pavone lo scrutò attentamente. Mitra, concedici la benedizione di un buon capo. Tutti gli dèi sanno che ne abbiamo bisogno.
Teodosio indossava come a Sirmio una lunga tunica bianca di seta e avanzava strascicando i piedi.
Sui suoi capelli castani ben oliati risplendeva il diadema e non portava nessuna arma. Pavone sentì un nodo allo stomaco. “Abbiamo bisogno di un guerriero alla nostra guida”, pensò.
«Cittadini di Roma», esordì Teodosio con voce tonante. «Negli ultimi anni ognuno di voi ha perso un parente, un fratello o un figlio. E gli intrepidi uomini delle legioni che si sono radunati qui dopo aver perso così tanti compagni…».
Le parole ben scelte dell’imperatore, come accordi di cetra, emozionarono Pavone. Si voltò istintivamente verso Sura, e i suoi lineamenti contratti gli rivelarono che stava provando la stessa emozione, che dissimulò prontamente accostando l’otre alle labbra e bevendo un lungo sorso di vino. Nel portamento dell’imperatore c’era qualcosa che conferiva ancora più peso e autenticità alle sue parole. Forse era la sua espressione preoccupata. Valente era sempre stato a disagio quando doveva fare discorsi come questo, ma Teodosio era diverso.
«Oggi inizierà il riscatto», continuò Teodosio. «Ognuno di voi darà il proprio contributo affinché questa terra fiorisca di nuovo». Un mormorio di eccitazione si levò da alcuni dei presenti. «È il mio dovere ed è un onore, un vero onore, essere il vostro alto generale nei mesi a venire». Altri mormorii, mescolati a qualche urlo di giubilo. Quando altri due lancieri avanzarono dal fondo del palco con una corazza bianca e un cinturone con la spada, le urla si intensificarono, e quando Teodosio tese le braccia per farsi infilare la corazza, si levò un boato assordante. Teodosio sguainò la spada, che scintillò al sole, e sollevò la testa verso il cielo. «Vittoria, per Dio… per noi tutti!», tuonò.
La folla era meno numerosa che a Sirmio, ma il frastuono era impressionante: le urla roche dei soldati, quelle stridule dei cittadini, le sentinelle che picchiavano le lance sui tetti e sull’acciottolato e il ronzio dei sacerdoti che pregavano ai lati del palco. Pavone notò che anche molti soldati stavano intonando preghiere. A differenza che nella patria della legione Claudia, qui si invocava il Cristo nazareno e non Mitra.
«Vittoria per Mitra», disse Sura unendosi al coro e puntando un dito al cielo. «Dio della Luce».
Quando le urla si placarono, Teodosio infilò di nuovo la spada nella cintura. «Ma non c’è vittoria senza lotta, e noi dobbiamo lottare. L’orda di Fritigerno può contare su molti più uomini delle nostre legioni. È per questo che dobbiamo riorganizzarle, riportandole all’antica gloria».
«È questo il punto», sussurrò Opis, «gli uomini della Gemina hanno parlato dell’arrivo di nuove legioni. L’armata egizia, o forse legioni siriane».
«Le galee che abbiamo visto arrivare nella baia», aggiunse il centurione Cornico con una luce di speranza negli occhi.
Pavone e Sura si scambiarono uno sguardo dubbioso, ricordando la loro conversazione mentre si avvicinavano alla città.
Un tramestio fece voltare tutti verso l’angolo a sud dell’agorà. Si udì un rombo di stivali che dal molo avanzavano lungo il viale di cipressi, dirigendosi verso la piazza. Una massa indistinta si stava avvicinando a passo di marcia. Quattro o cinquemila uomini.
Dalla folla si levò un alto clamore. «Sono arrivate le legioni dalla Siria!», strillò come una ragazzina eccitata il tribuno dalle orecchie a sventola della Flavia.
Nello sguardo di Sura si riaccese la speranza. Pavone sentì svanire i suoi dubbi e strizzò gli occhi per vedere meglio, immaginando una serie di scintillanti reggimenti serrati che si sarebbero uniti ai cinque della Pannonia. Ma quando vide riversarsi nell’agorà una massa disorganizzata di uomini, gli si strinse il cuore. Non erano soldati, ma vagabondi. Con gli abiti a brandelli, curvi e zoppicanti, tremanti di febbre, con la pelle grigia e denti del colore del fango. A uno di loro mancava un braccio e i capelli unti gli si erano incollati alla faccia.
«Siamo a corto di uomini, dobbiamo arruolarne di nuovi in ogni angolo del nostro regno», continuò Teodosio. «Questi vengono da Costantinopoli, da Perinto, dalle isole e alcuni sono stati arruolati qui a Tessalonica. Ce ne sono abbastanza per rifornire la maggior parte delle nostre legioni e anche per formarne qualcuna di nuova. Non chiedetegli del loro passato, ma del glorioso futuro che potranno condividere con noi nelle nostre legioni».
«Metà di quegli uomini non potranno mai combattere», disse Retto alle spalle di Pavone, indicando i molti con le mani bendate sopra i pollici mancanti – un atto di automutilazione nel vano tentativo di sottrarsi al reclutamento. «Ce ne sono a centinaia».
«E anche schiavi», sussurrò Libone.
Pavone seguì lo sguardo di Libone e vide un gruppo di uomini che avanzavano con la schiena curva. Sotto la tunica strappata di uno di loro scorse i segni delle frustate di un padrone crudele. All’improvviso sentì le lacrime affiorargli agli occhi al ricordo del suo lontano passato nelle celle degli schiavi dell’odioso senatore Tarquizio, che ora gli sembrava un fantasma d’altri tempi. C’era voluta la minaccia della vecchia strega per costringere Tarquizio a liberare Pavone, e soltanto perché era libero aveva potuto arruolarsi nella Claudia. Adesso anche gli schiavi venivano arruolati in massa nelle legioni?
«Gli schiavi saranno requisiti a seconda delle necessità. Se i loro padroni si rifiuteranno», Teodosio fece una pausa, «saranno bruciati vivi», concluse in tono glaciale. Poi indicò con la mano un gruppo in mezzo alla folla. «E ce ne sono altri ai quali sarà offerta una seconda possibilità…».
All’improvviso Libone si irrigidì e fece una smorfia digrignando i denti. «Bastardi!», urlò. Pavone seguì il suo sguardo e scorse un centinaio di uomini lerci con le tuniche strappate… tuniche militari. Batavi! Ricordò le parole di Saturnino. «Disertori?».
Alcuni di loro squadravano con aria di sfida i legionari.
Le urla di giubilo si spensero, sostituite da un mormorio di scontento, e si levarono di nuovo le proteste contro le tasse, accompagnate da fischi e imprecazioni.
«Altri veterani in pensione saranno richiamati alle armi. E a partire da oggi, i figli dei legionari, vivi o morti, saranno tutti reclutati. Le tangenti non esonereranno più nessuno dal suo dovere», dichiarò Teodosio, ansioso di risollevare il morale della folla. «I nostri ranghi si rinfoltiranno, le nostre armate fioriranno. E la perdita di molti dei nostri comandanti ci impone di cercare nuovi generali. La nuova armata d’Oriente sarà guidata da quattro magistri militum – che faranno parte del mio sacrum consistorium». L’imperatore si spostò di lato e indicò il retro del palco. Quattro figure avanzarono verso di lui.
Pavone ne riconobbe subito una: esile, pallido, con i capelli lunghi e un aspetto assai poco militaresco, tranne l’armatura di bronzo.
«Saturnino, magister della Prima armata per decreto imperiale», urlò un lanciere mentre Saturnino si piazzava accanto a Teodosio.
Pavone si rincuorò. Uomo saggio, di poche ma ben ponderate parole, Saturnino poteva ringiovanire le legioni… e scacciare anche i suoi demoni. Con lui in veste di magister militum delle legioni del palazzo, gli Hiberi, i Nervii, i Fortenses e tutti quelli che restavano potevano essere rinvigoriti.
«Julius, magister della Seconda armata per decreto imperiale», annunciò il lanciere. Pavone si voltò verso il tarchiato generale con la mascella irsuta e gli occhi crudeli, che l’elmo e l’armatura neri rendevano ancora più minaccioso. Il suo nome riecheggiò qualche istante nella mente di Pavone e poi lui e Sura dissero all’unisono: «Il Macellaio di Calcedonia…».
Un mormorio corse tra la folla mentre molti altri si rendevano conto di chi era: il generale che aveva massacrato centinaia di legionari di origine gotica e di cittadini dell’Asia minore.
Il mormorio si trasformò in ardenti acclamazioni. «Quei bastardi se la meritavano», urlò un uomo, sollevando il pugno in aria per salutare Julius. Pavone scrutò il viso di Julius, gli anni di servizio militare gli avevano insegnato che spesso le prime impressioni ci dicono di che pasta è fatto un uomo. La faccia di Julius era dura mentre fissava la folla di legionari che lo lodava per il suo massacro. Per una frazione di secondo il labbro superiore del generale si incurvò in un sorriso.
«Inoltre», continuò il lanciere, «l’imperatore Teodosio ha assegnato a un uomo la responsabilità di organizzare una scuola di equitazione militare per ricostituire la cavalleria delle scholae palatinae, sgominata a Adrianopoli. Il nuovo magister equitum dell’armata d’Oriente sarà… Bacurio».
Per Pavone quel nome fu come uno schiaffo. Un terzo uomo avanzò sul palco e si fermò con le gambe divaricate e le mani dietro la schiena, con la brezza che faceva sventolare il suo logoro mantello marrone e la lunga piuma sul suo elmo di cuoio. Il suo viso cupo era segnato da tre cicatrici rosa, come se un orso gli avesse dato una zampata. Pavone ripensò al momento critico della battaglia di Adrianopoli quando gli impetuosi cavalieri del valoroso reggimento degli scutari erano scesi in campo prima che fosse impartito loro l’ordine.
«Pavone, ogni notte nei miei sogni vedo ombre», sussurrò Sura con lo sguardo fisso sul palco, «ma ti prego, dimmi che non è lui».
«Non può essere», gracchiò Libone. «C’eravamo anche noi, l’abbiamo visto cadere».
Pavone fece un sospiro. «È proprio lui, Bacurio degli scutari».
Quel giorno i cavalieri erano stati massacrati, Pavone ne era certo. Il reggimento era uno dei molti annientati. Aveva persino visto Bacurio cadere dal suo cavallo nel turbinio della battaglia. Il generale scrutò le legioni davanti a lui, come se volesse sfidarle a incolparlo di quel disastro, poi posò le mani sui fianchi… ma al posto della sinistra c’era un moncone al quale era attaccata la lama di una daga.
«È lui! Bacurio l’Iberico», esclamarono gli uomini della Flavia.
«Bacurio il Monco», li corresse un altro.
«Per tutti gli dèi», disse Trupone. «Mi ha fatto piacere vedere Saturnino, ma quest’uomo mi desta tristi ricordi».
«E infine, il magister militum dell’armata della Tracia, che guiderà la riconquista delle nostre terre», concluse il lanciere. Pavone, Sura e gli uomini dell’XI Claudia trasalirono. Quello sarebbe stato il loro nuovo capo: «Il generale Modares».
Pavone corrugò la fronte. «Modares?». Anche Sura era visibilmente confuso.
Quando Modares avanzò sul palco, dalle legioni si levarono urla di protesta e Pavone si sentì sprofondare. Era il cavaliere goto che poco prima l’aveva trattato con aria sprezzante.
«Ho cercato di dirtelo», sussurrò Retto.
«È un goto!», esclamò una voce alle sue spalle.
Modares e Julius, il Macellaio di Calcedonia, si scambiarono una gelida occhiata.
«Modares? Il nipote di Atanarico, il vecchio re dei goti?», chiese un’altra voce.
Atanarico, iudex dei goti prima di Fritigerno, era stato il più bellicoso e feroce comandante del suo popolo. Era una benedizione che avesse deciso di rimanere sui monti Carpazi anziché invadere l’impero come molte altre tribù. Ma adesso sembrava che suo nipote si fosse assicurato un posto ai vertici dell’armata d’Oriente.
Nonostante i ripetuti appelli di Teodosio i clamori non si placarono. «Ubbidite ai vostri generali come ubbidireste a me. Credete in loro, credete in me», intimò. Poi si voltò verso i quattro, che scesero i gradini di legno davanti al palco. In quell’istante squillò una buccina e la folla di disertori, ex schiavi e automutilati fu radunata come un gregge e poi smistata sotto le insegne delle varie legioni sul lato sud della piazza.
«Andiamo a vedere se riusciamo a cavare qualcosa da questa gente», sospirò Pavone facendo un cenno a Sura e avanzando con lui verso le insegne. Un gruppo di miserabili con le tuniche stracciate e tre disertori batavi furono scortati verso lo stendardo della Claudia. Uno di loro spiccava tra gli altri come una quercia tra i cespugli.
«Appius Opiter Pulcher», si presentò l’uomo, avanzando verso Pavone e Sura.
Non era giovane, doveva essere più o meno a metà della trentina, come il grande Zosimo. Le guance erano butterate dal vaiolo e i capelli ricci erano corti e unti. La mandibola sporgente e la faccia ossuta gli conferivano un’aria poco raccomandabile. “Un soldato”, pensò Pavone notando le cicatrici e lo sguardo granitico – un uomo che sapeva come affrontare le difficoltà e le ingiustizie.
«Un tempo appartenevo alla Prima Italica», disse il colosso come se avesse letto il pensiero di Pavone.
“Disertore o veterano?”, si domandò Pavone.
«Dopo essere stato congedato», aggiunse Pulcher, «sono stato assunto dal senatore Fabillo a Costantinopoli».
«Allora immagino che non ti farà piacere essere stato richiamato alle armi?», gli chiese Sura.
«Al contrario, ho sempre rimpianto quei tempi. C’è una guerra in corso e anch’io voglio fare la mia parte. Muoio dalla voglia di impugnare di nuovo la spada e fare tutto ciò che posso per mettere fine a questo conflitto».
La semplicità della sua dichiarazione era come una fresca brezza in una giornata afosa. Pavone fu tentato di rispondergli con un sorriso di benvenuto, ma la gravità della situazione lo indusse a limitarsi a un cenno del capo. «Opis si prenderà cura di te», disse facendo un cenno all’aquilifero, che aveva già preso nota del suo nome su una tavoletta di cera, mentre Libone faceva mettere in fila gli altri.
Pulcher sogghignò. «Eccellente. E in ogni caso, vivere nella villa di un senatore non è stato piacevole. Fabillo era un imbecille, convinto di avere il diritto di abusare dei suoi giovani schiavi…», si interruppe quando un ragazzo emaciato con la testa rasata si mise in coda accanto a loro. Pulcher lo guardò con aria di commiserazione e poi disse a Pavone: «Era soprattutto il giovane Stico a farne le spese».
Pavone incrociò lo sguardo del giovane rasato e in lui si ridestarono i ricordi della casa degli schiavi di Tarquizio. La rispettabilità del tribuno era ora davvero compromessa. Cercò di darsi un tono picchiando un piede a terra. «Qui avrà una vita più decorosa. Te lo posso assicurare».
Pulcher fece un altro ghigno e poi si allontanò per mettersi in coda.
«Sembra una persona perbene», disse Sura. «Il ragazzo… è troppo giovane, ma se ha anche soltanto la metà della tua determinazione, sarà perfetto».
Pavone guardò la fila. I tre disertori batavi ricambiarono il suo sguardo come un nobiluomo che fissa l’escremento di un cane. E poi c’erano ubriaconi, storpi, uomini fragili, molti in preda ad accessi di tosse. «Gli darai una ripulita, vero?».
Sura fece un sorriso sarcastico, sospirò e si incamminò lungo la coda, urlando alle reclute.
Pavone sentì uno scalpiccio di zoccoli alle sue spalle e capì chi era prima ancora di voltarsi. Modares gli scoccò uno sguardo gelido e ostile, ma Pavone lo salutò con un cenno della mano. «Le nuove reclute saranno assegnate alle loro unità e domattina saranno pronte per l’addestramento», disse, rispondendo alla domanda non espressa da Modares, per poi aggiungere a denti stretti «Signore!».
«Bene», grugnì Modares, allontanandosi sul suo cavallo.
La piccola Lupia raccolse i sassolini con cui stava giocando sulla strada, li infilò in un sacchetto di crine e si alzò.
«Cosa c’è, Lupia?», le chiesero le altre bambine.
«Dobbiamo andare», rispose Lupia.
«Perché? Non è tardi, c’è ancora il sole», protestarono le compagne di gioco.
Ma Lupia stava seguendo con gli occhi il carro nero che avanzava verso la porta della fabrica di armi di Adrianopoli. Dopo essere rimasta a lungo silente, negli ultimi mesi la fabrica aveva ripreso a funzionare grazie all’arrivo di nuovi lavoratori e stava producendo armi e corazze. Il carro si fermò e scesero quattro figure incappucciate avvolte in mantelli neri. Lupia vide il nervoso e corpulento cocchiere trasalire quando i quattro gli passarono davanti. E poi notò l’anello con un occhio al dito di uno di loro.
Le altre bambine si allontanarono saltellando e Lupia rimase sola. Si nascose dietro un muretto di sassi e sbirciò. Gli uomini che aveva visto erano quelli di cui le aveva parlato il padre la notte che era tornato a casa barcollando, coperto di sangue che non era il suo, e le aveva mostrato un anello come quello al dito di quell’uomo. Non tutti gli uomini delle legioni sono buoni, Lupia, le aveva spiegato Zosimo. Ce ne sono anche di cattivi, che si muovono come ombre e cercano di mettere in trappola i compagni. E questa notte ce n’è uno in meno da temere…
Lupia trasse un sospiro di sollievo quando l’uomo con l’anello e gli altri tre scomparirono all’interno della fabrica. Poco dopo udì delle urla, seguite da una raffica di colpi sordi e da un lamento. Qualche istante più tardi i quattro uscirono. Il loro capo aveva in mano una specie di stampo metallico, come quello usato per imprimere il marchio della fabrica su tutte le armi e le armature prodotte in quell’officina. L’uomo lo gettò a terra con un gesto rabbioso e Lupia sussultò. L’uomo la udì e si guardò attorno. La bambina era sicura che sotto il cappuccio la stesse fissando.
Presa dal panico, si alzò e corse a casa.
I quattro risalirono sul carro, che ripartì al galoppo.