Capitolo 10

La mattina del terzo giorno si svegliarono sotto un caldo sole e un cielo azzurro, con ciuffi di nuvole bianche sospinte da una fresca brezza. Pavone rimase indietro, con l’elmo sottobraccio, e lasciò che fossero Libone e Sura a fare l’appello. Quando udivano i loro nomi, gli uomini della coorte urlavano «Presente», sotto gli occhi dei goti divertiti da quella procedura.

Ma quando Sura chiamò il nome di Molacus, nessuno rispose. Come il giorno precedente.

Pavone si voltò.

«Molacus?», chiamò di nuovo Sura con poca convinzione.

Con la coda dell’occhio, Pavone vide gli uomini agitarsi attorno al vuoto lasciato nella fila dall’assenza di Molacus. Il batavo era una testa calda, ma comunque un veterano, più che mai indispensabile in un momento come quello. Pavone avanzò fino al bordo meridionale dell’altopiano e salì su un masso per scrutare il bosco sottostante. Dov’era finito Molacus? A sud il Danubio luccicava serpeggiando attraverso il territorio come un nastro verde torbido.

Il batavo era ricaduto nelle sue vecchie abitudini e se l’era svignata? Un arciere goto sosteneva di avere sentito dei passi l’ultima notte che Molacus era stato visto.

«Non c’è nemmeno oggi», disse Sura avvicinandosi a Pavone.

«Ho sentito», rispose lui.

«Dobbiamo interrogare di nuovo i goti?», sussurrò Sura.

Pavone scosse la testa. «Non possiamo. Si fidano di noi e abbiamo bisogno che continuino a farlo». La notte precedente avevano condiviso di nuovo la birra e il cibo. Pavone aveva visto alcuni dei suoi soldati parlare con gli uomini di Eriulf in un goto molto approssimativo, mentre i goti gli rispondevano in un greco stentato. Alcuni avevano giocato ai dadi e un altro gruppo aveva organizzato degli incontri di lotta, goti contro romani. Opis ne era uscito piuttosto malconcio e dopo di lui nessun romano aveva voluto sfidare il campione goto. «Dimentichiamoci Molacus. Disertore una volta, disertore per sempre», mormorò.

«Era un soldato molto forte», osservò Sura. «Ma abbastanza forte e agile da scendere da solo da questo pianoro? Non ne sono sicuro, dovremmo chiederlo al suo compagno batavo. Ci sta nascondendo qualcosa».

«Posso interrogarlo io per te, tribuno», sibilò Scapula, apparendo all’improvviso al loro fianco come un’ombra.

Pavone si irrigidì e infilò una mano sotto il mantello per impugnare la spada. «Obbedirai ai miei ordini come tutti gli altri legionari».

«Come vuoi tu», rispose Scapula chinando il capo.

Pavone si chiese a quali conclusioni fosse giunto lo speculator dopo l’ispezione delle sue frecce la notte precedente. Avevano lo stesso marchio di quella che aveva cercato di lanciare contro Graziano a Sirmio. Ma la fabrica di Costantinopoli doveva averne prodotte a migliaia con quel marchio. Il cappio di Graziano era diventato improvvisamente lasco e non riusciva a stringersi attorno al suo collo, dimostrandone la colpevolezza.

«Sono indotto a credere che tu sia un condottiero forte, come il tuo predecessore», aggiunse Scapula.

Pavone sentì rizzarsi i peli del collo.

«Gallo, giusto?».

Pavone scrutò il viso di Scapula sotto l’ombra del cappuccio. C’era una strana luce nei suoi occhi. Stava giocando al gatto e al topo? Gallo disprezzava Graziano, e Graziano lo sapeva. Pavone era stato il pupillo di Gallo… Graziano sapeva anche questo? Sentì il cappio stringersi di nuovo attorno al suo collo.

I due uomini si fissarono per quella che parve loro un’eternità.

Finché una mano non diede una pacca sulla spalla a Pavone. «È tempo di versare sangue», disse Eriulf.

Il goto si era coperto la faccia con strisce di fango nero e aveva intrecciato i suoi ispidi capelli con foglie e rametti, come quando lui e i suoi uomini erano emersi dalla palude, cogliendo di sorpresa la coorte della Claudia. Indicò con un cenno del capo i gradini che dal lato meridionale dell’altopiano scendevano nel bosco. «Le nostre provviste di carne stanno finendo, le bacche sono marce e anche l’orzo è agli sgoccioli. Abbiamo bisogno di provviste. Ho già spedito giù otto gruppi di esploratori, ma ce ne servono altri. Sto per partire con i miei migliori cacciatori. Dovresti venire anche tu».

Pavone pensò ai boschi e ai temibili unni, ma poi gli tornarono in mente le sue stesse parole: «Abbiamo bisogno che si fidino di noi». Guardò gli uomini della Claudia, che confinati su quell’altopiano si sentivano come animali in gabbia. Il centurione Libone stava ingannando il tempo facendo rimbalzare il suo occhio di legno contro una roccia. Opis stava pulendo la sua armatura già scintillante. Stico stava mettendo in fila i chicchi di grano della sua razione.

Un’ora più tardi Pavone seguì Eriulf e un drappello di otto guerrieri goti lungo gli scalini scavati nella roccia. Con loro c’era anche Runa, la figlia di Arimer, con il volto dipinto di fango e in tenuta da caccia. Pavone aveva accettato i vestiti che gli aveva offerto Eriulf: indossava una tunica gota e gli stivali da legionario, ed era armato con un arco tribale e una lancia gota. Aveva scelto come suoi compagni di caccia Opis, Stico, Libone e Sura.

Attraversarono in fila indiana la palude fangosa e raggiunsero la fitta foresta. Eriulf sollevò la mano come una spada e la puntò a sinistra: «I cinghiali vanno ad abbeverarsi in quel ruscello», e poi a destra: «I cervi pascolano in quei prati. Io caccerò i cinghiali con i miei compagni, voi romani vi occuperete delle lepri e dei conigli. Runa, Siward, mostrategli dove devono andare».

Pavone si sentì sminuito, ma non disse nulla.

«E state attenti agli unni. Loro ci cacciano come se fossimo selvaggina», aggiunse Eriulf, partendo di corsa con i suoi e guardandosi attorno con circospezione, ben sapendo che erano al tempo stesso predatori e prede.

Siward guardò i romani con un sorriso sprezzante. «Muovetevi veloci, seguendo i miei passi», disse Runa. «E colpite quando sentite il canto dell’uccello». Chiuse le mani a coppa sopra le labbra ed emise un sibilo.

Pavone annuì e Runa si inoltrò nel bosco con Siward. I legionari li seguirono di corsa. La coda di cavallo bionda di Runa le ballonzolava sul collo ogni volta che saltava sopra una radice o un tronco caduto. Dopo avere superato una folta pineta, raggiunsero una radura con una cascata che cadeva a precipizio in un laghetto e dovettero aprirsi la strada in mezzo a un groviglio di ginestre spinose. A mezzogiorno sbucarono in un prato punteggiato di papaveri rossi e margherite gialle che si estendeva fino ad alcune basse colline in lontananza. Dopo l’oppressiva penombra del bosco, il calore del sole sulla pelle procurò loro una sensazione di sollievo.

Ma Runa interruppe quella pausa momentanea voltandosi di scatto verso i legionari con un’espressione tesa. «Piano!», sussurrò, fissando un punto in mezzo al prato. Pavone scorse un gruppo di piccole forme marroni. Una delle lepri aveva rizzato le orecchie e stava annusando l’aria.

Runa si infilò un dito in bocca e lo sollevò per controllare la direzione del vento, poi fece loro segno di avanzare sottovento lungo il bordo del prato. Rallentò di nuovo il passo, sfilò l’arco che portava a tracolla e incoccò una freccia. «L’importante è scoccare le frecce tutti insieme perché al primo lancio si disperderanno».

«Pensi che siccome siamo romani non abbiamo mai dovuto cacciare per procurarci da mangiare?», borbottò Pavone impugnando il suo arco.

«Non avete degli schiavi che vi imboccano con capra bollita e garum?», sbuffò Runa.

«Una volta anch’io ero uno schiavo», ribatté Pavone, «e da allora ho macinato la mia farina con i miei uomini, cacciato come voi e lavorato duramente per guadagnarmi da mangiare».

«È vero», confermò Sura, «persino quando Quadrato, per scherzo, ha scorreggiato sul suo pane, lui l’ha mangiato lo stesso».

Pavone lo fulminò con lo sguardo.

Sura si strinse nelle spalle con aria d’innocenza.

«Taci e tendi l’arco», sibilò Runa.

Sette archi scoccarono simultaneamente. Le frecce piovvero sul prato e le lepri si dispersero in ogni direzione come i cocci di una tazza caduta a terra. Tre di loro rimasero immobili, trapassate dalle frecce.

Runa e Siward si scambiarono uno sguardo compiaciuto e poi si voltarono verso i romani. «Tre colpite. Almeno uno di voi sa tirare con l’arco».

«Cosa vi fa pensare che le altre due le abbiate colpite voi?», obiettò Pavone.

«Io sono sicuro di averne centrata una», rispose Sura. «A Adrianopoli mi chiamavano “l’Arciere”. Mi guadagnavo da vivere scommettendo con i cittadini che avrei centrato una moneta in cima a un palo. Quell’anno i soldi e il vino non mi mancavano mai… finché un giorno qualcuno non mi ha distratto tossendo e ho colpito accidentalmente il didietro del cavallo del governatore, che l’ha disarcionato e si è messo a galoppare su e giù per la strada. Spero che quel tipo che ha tossito sia fiero di quello che ha provocato. Personalmente, io…».

«Runa», la interruppe Libone, «Come si dice in goto “chiudi quella cazzo di bocca”?».

Un vago accenno di sorriso arricciò le labbra di Runa. «D’accordo, basta così. Andiamo a prendere le lepri e vediamo se ce ne sono altre».

Legarono le lepri abbattute ai bastoni delle lance e continuarono ad avanzare attraverso il prato. Quando videro un paio cervi che pascolavano, si acquattarono in silenzio. Quei due animali avrebbero sfamato molte bocche. Pavone notò che le colline in fondo al prato erano basse ma ripide e pensò che avrebbero potuto intrappolarvi i cervi come in un recinto, se non fosse stato per una fenditura al centro.

«Hai l’occhio del cacciatore», disse Runa, che stava pensando la stessa cosa.

«Piazzeremo qualche uomo a bloccare quella fenditura e gli altri spingeranno i cervi verso le colline», propose Pavone.

«Allora vieni con me», disse Runa, «noi due bloccheremo la fenditura, e voi aspetterete il mio segnale e poi farete indietreggiare i cervi verso di noi».

«Sì, va’ a riempire la sua fenditura», sussurrò Libone all’orecchio di Pavone.

Ma Runa l’aveva sentito e gli rinfacciò: «Questa mattina ti ho visto mentre ti cambiavi e quello che hai tra le gambe mi ha fatto pensare a un topolino. Un minuscolo topolino di campagna».

Libone sbiancò in volto e Pavone e Runa si misero in cammino. Avanzarono attraverso l’erba alta ai margini del prato e raggiunsero la fenditura tra le colline, con i cervi che brucavano tra loro e i compagni di caccia. Runa si accucciò a un lato della fenditura, Pavone all’altro, come due sentinelle. «Pronto?», chiese lei, eccitata dalla caccia.

Pavone impugnò la lancia come un giavellotto. «Sì».

Runa posò le mani sui fianchi ed emise il suo segnale. In fondo al campo, Siward e gli altri legionari si alzarono brandendo le lance, urlando e correndo tra l’erba verso i cervi, come i denti di un gigantesco pettine. I due animali si voltarono e corsero verso la fenditura.

Pavone ammiccò a Runa e sollevò la lancia, pronto a scagliarla. Lei lo imitò prontamente. Offeso per i commenti ironici sulle sue capacità venatorie, Pavone decise di prendere l’iniziativa. «Lanciare!», urlò. Ma appena scagliò la lancia, il cervo deviò improvvisamente a sinistra, verso sud, e si arrampicò sulla collina.

«Hanno sentito il nostro odore?», chiese Runa allentando la presa sulla lancia.

Pavone sentì la terra vibrare sotto i suoi piedi. «No, hanno sentito un altro predatore», rispose voltandosi a nord, «che sta arrivando da quella direzione».

Le sue ultime parole furono sovrastate dal rombo degli zoccoli di una banda di unni che avanzava in una nuvola di polvere dal lato a nord delle colline, lanciando grida inumane.

«A terra!», urlò Pavone, vedendo Runa sbiancare in volto per il terrore. Le si scagliò addosso, come in una lotta, affondando la spalla nel suo diaframma, e caddero insieme nell’erba, appiattendosi pancia a terra.

Il rombo diventò assordante e Pavone temette di essere calpestato dagli zoccoli dei cavalli. Ma gli unni li superarono e poi si avvicinarono di nuovo. «Stanno cavalcando in cerchio», sussurrò Pavone. «Sanno che siamo qui». Si accorse soltanto in quel momento che era ancora sdraiato sopra Runa. Sentiva il suo petto alzarsi e abbassarsi e il suo respiro affannoso soffiargli sul collo. I cavalli degli unni rallentarono, adesso erano molto vicini.

«Ce n’erano almeno nove», sussurrò Runa, «non possiamo sperare di avere la meglio. Ho visto cosa fanno agli uomini… Ho visto come profanano i corpi… Ho visto…».

Pavone posò un dito sulle sue morbide labbra e la fissò negli occhi. Il battito del cuore di Runa e il suo respiro rallentarono. Gli occhi di Pavone si volsero verso la figura scura che si stava muovendo sopra di loro come una nuvola. Il pony dell’unno batté gli zoccoli a terra e si fermò a pochi centimetri dalle gambe di Pavone, con i fianchi sgocciolanti di sudore. Il cavaliere scrutò l’orizzonte senza accorgersi della loro presenza. Il fetore del cavallo e dell’unno invase le narici di Pavone e Runa, ma poi sentirono una puzza ben peggiore. Pavone riconobbe subito la fonte: due teste di goti appese alla sella e legate per i capelli. Le mosche ronzavano attorno alla carne grigia e ai lembi sanguinolenti che pendevano dai colli mozzati. Per un istante Pavone immaginò che fossero la sua testa e quella di Runa. La figlia di Arimer sollevò il capo e Pavone le spinse la faccia in giù per impedirle di vedere le due teste. Mentre la teneva stretta, ripensò alla dolce e cara Felicia, che non era riuscito a proteggere. «Sono qui con te. Non lascerò che ti facciano del male», mormorò.

Trattenendo il respiro, Pavone guardò l’unno con la coda dell’occhio. Il cavaliere posò l’arco, sollevò alle labbra un otre e bevve un lungo sorso scrutando l’erba attorno, con la pelle giallastra imperlata di sudore. In quell’istante Pavone si accorse di qualcosa che gli fece gelare il sangue nelle vene. Appeso alla sella c’era un elmo con una lunga piuma, come una coda di cavallo. Un elmo da battaglia. Quel cavaliere non era un cacciatore…

Un grido attrasse l’attenzione dell’unno, che urlò qualcosa in risposta e poi, con un grugnito, piantò i talloni nei fianchi del pony e se ne andò. Dopo un’altra serie di urla gutturali, il rombo degli zoccoli si allontanò, e questa volta non fece ritorno.

Per un po’ Pavone e Runa rimasero abbracciati a terra in silenzio. Mezzogiorno era passato da un pezzo e il sole era alto nel cielo quando si arrischiarono ad alzarsi. Gli unni erano scomparsi, e anche Siward e i compagni di caccia. Il pensiero che gli unni li avessero trovati lo fece rabbrividire. “Per Mitra, no!”, pensò.

Ma poi udì nel bosco il trillo di un uccello e dagli alberi spuntarono Libone, Opis, Stico e Siward, che corsero loro incontro sorridendo.

Quella notte Pavone mangiò voracemente e compensò con il cibo la fatica della caccia e le emozioni della giornata. La birra dei goti gli scivolava in gola come miele, sciacquando il sapore speziato della carne di lepre, e il fuoco scoppiettante riscaldava le sue membra stanche. Accanto a lui, Opis giocava a braccio di ferro con Stico. Per il pericolo condiviso durante la caccia o per l’emozione di essere sfuggiti agli unni, quella sera l’atmosfera era diversa. Si sentivano più vicini, e Pavone si rese conto che andare a caccia con loro era stata la scelta giusta. Molti goti parlavano tutti eccitati del viaggio a sud che stavano per intraprendere, sognando le nuove, opulente terre che li aspettavano. Pavone incrociò lo sguardo di Runa, seduta in disparte accanto a un piccolo fuoco. Lei distolse subito gli occhi e Pavone sentì una fitta al cuore, immaginando di stringerla tra le braccia, ma poi scosse la testa e bevve un lungo sorso di birra. «Maledetta birra, procuri più guai che benefici», disse tra sé, e poi, mentre stava per bere un altro sorso, vide Scapula in piedi accanto al fuoco, come un’ombra nella notte, e riacquistò subito la sobrietà.

«Quel serpente con il cappuccio non ti perde di vista nemmeno un attimo», disse Eriulf, avvicinandosi a Pavone, che gli rispose con un sorriso enigmatico.

«Non fa parte della vostra legione, vero?».

Pavone bevve un sorso di birra. «È uno speculator. Un agente e un assassino… un’ombra vivente».

«Perché è qui?», domandò Eriulf.

«Non certo per te. Puoi stare tranquillo», rispose Pavone.

«Vi siete portati appresso degli assassini? Voi romani siete un popolo davvero strano», commentò Eriulf ridacchiando. «Ho sentito però che sei un bravo cacciatore».

Pavone sospirò, ripensando agli eventi della giornata. Era la prima volta che aveva l’opportunità di essere da solo con Eriulf senza che qualcuno li ascoltasse. «Runa ti ha raccontato che siamo sfuggiti per un soffio agli unni?»

«Sì, anche loro stanno cacciando in quei boschi e quei prati», rispose stancamente Eriulf.

Pavone lo fissò con aria impassibile. «Non erano cacciatori. Avevano armature, elmi, asce e spade. Erano guerrieri. Li avevo già visti prima, nel Bosforo, dove avanzavano come un’armata, e vicino ai Carpazi, quando hanno guidato Fritigerno al di là del fiume e nell’impero».

Eriulf si incupì e scrutò la foresta buia. «Un’avanguardia?»

«Non lo credo», rispose pacatamente Pavone. «Se così fosse, il grosso delle loro forze dovrebbe essere a un giorno da qui. Ma non abbiamo visto nessun segno di spostamenti di massa. Probabilmente erano soltanto degli esploratori», aggiunse con un sospiro, sapendo che non era vero. «Ma gli esploratori di solito precedono le avanguardie e gli eserciti. Quanto tempo ci resta? Settimane, mesi?».

Eriulf si guardò attorno e poi attizzò le braci con un ramoscello. «Forse dovremmo metterci subito in cammino e attraversare il fiume», disse.

Pavone lo fissò negli occhi. «Partire adesso sarebbe altrettanto pericoloso che affrontare gli unni. L’inverno scorso, quando Fritigerno ha attraversato il fiume in piena, c’ero anch’io. Molti avevano usato il nostro ponte di barche, ma molti altri avevano cercato di nuotare o usato zattere improvvisate. I loro corpi sono rimasti allineati sulle sponde per settimane. Se vuoi che il tuo popolo arrivi sano e salvo nell’impero, dobbiamo aspettare la fine dell’estate».

«Ci sottovaluti», rispose Eriulf. «Il nostro popolo è ardito… molto più di Fritigerno e dei suoi tervingi. E anche le nostre donne sono molto forti», aggiunse, indicando furtivamente Runa. «Come hai avuto modo di notare».

Pavone finse indifferenza.

Eriulf rise stancamente. «E anche i nostri dèi lo sono», disse cingendo con un braccio le spalle di Pavone. «Pregate i vostri dèi e noi pregheremo i nostri affinché le acque del fiume calino prima dell’arrivo degli unni. Il mio popolo è tutto per me, tribuno».

Pavone annuì, rendendosi conto del peso della sua responsabilità.

Stico si rigirava nel letto sognando gli abusi del senatore Fabillo. Pulcher gli era stato quasi sempre accanto per distrarre o dissuadere il lascivo senatore, ma a volte Fabillo spediva la guardia del corpo a svolgere qualche commissione per avere campo libero. Stico si mise a sedere sul letto, rabbrividendo nonostante il calore della coperta di lana. Rallentò il respiro e si guardò attorno nella tenda. I suoi sette compagni stavano dormendo della grossa. Opis succhiava nel sonno il suo fagotto di lana con gemiti di passione. Stico si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. La luce arancione dei fuochi delle sentinelle gettava un alone caldo sulla tenda e il canto solitario degli uccelli notturni gli ricordò quanto erano ormai lontani quei giorni oscuri. Abbassò lo sguardo sul cuscino, l’idea di rimettersi a dormire lo allettava, ma la prospettiva di ripiombare in quegli incubi lo spaventava. Sgusciò fuori dal letto, strisciò tra i compagni addormentati, e quando uscì, una cascata di acqua piovana dal tetto della tenda gli inzuppò una gamba. La pioggerella era tiepida, e il profumo della terra e della fresca aria notturna gli invase le narici. Le sentinelle gote stavano pattugliando il lato a sud dell’altopiano – l’unica via d’accesso – e le tende e le baracche attorno a lui erano ancora immerse nel sonno. Ma oltre al ticchettio della pioggia, c’era un altro rumore. Voci?

«Il tempo dei valorosi si avvicina. L’alba di vesi è prossima…».

Stico si stropicciò gli occhi con i pugni chiusi e si voltò verso il lato a est dell’altopiano, da dove sembrava provenire quel ronzio. Nel buio non scorse nessuna sentinella. Era come se le voci salissero dalle tenebre del precipizio. Com’era possibile?

Avanzò verso il rumore e la sua schiena sentì all’improvviso i morsi del freddo. Mentre si avvicinava al bordo dell’altopiano, immaginò ogni sorta di orrore: uomini lupo, unni… Fabillo?

In quell’istante udì un altro rumore alla sua destra, molto più vicino di quelle voci lontane. Impugnò prontamente la spada e si voltò giusto in tempo per scorgere un’ombra acquattata tra due tende di legionari, come un predatore che sta per dilaniare la sua preda. Stico sgranò gli occhi e strisciò un po’ più vicino per vedere meglio.

«Cosa vuoi che facciamo, Kaeso? La scelta spetta a te», ringhiò sottovoce la figura misteriosa.

“Kaeso?”, ripeté tra sé Stico, confuso, immaginando che la strana figura avesse sbagliato tenda. Kaeso era un nome romano. Ma nessun soldato della coorte della Claudia si chiamava così. Poi si rese conto che quell’uomo stava parlando a sé stesso.

«Uccidilo…», rispose sibilando alla sua stessa domanda.

In quell’istante la luce della torcia di una sentinella illuminò brevemente le tende e Stico riconobbe la figura misteriosa: l’agente Scapula, con la bocca contratta in un ghigno e le mani serrate come se stesse stringendo una corda attorno a un collo – ma la corda e la vittima non c’erano. «Uccidilo! Uccidilo!», continuava a ripetere l’agente, con voce rotta dallo sforzo, stringendo la corda immaginaria.

«Scapula?», sussurrò Stico, arrischiando un altro passo avanti.

Silenzio. Poi vide gli occhi dello speculator che fissavano il vuoto con aria sognante.

Ripensò a Pulcher, che lo calmava quando si svegliava in preda agli incubi nella villa di Fabillo a Costantinopoli. Le sue rassicurazioni scacciavano sempre quei brutti pensieri. Si avvicinò a Scapula e si accucciò accanto a lui. Cinse le spalle contratte dell’agente con un braccio e gli sussurrò: «Gli incubi non possono farti male. Sei tu che li comandi. Dissipali come nebbia».

Le mani e le spalle di Scapula si rilassarono lentamente e i suoi occhi riacquistarono vita, come se si stesse svegliando. Sbatté le palpebre e fissò Stico con aria assente.

Stico ricordò allora come a volte Pulcher lo incoraggiava a parlare dei suoi incubi, ridendo e ridicolizzando i suoi dèmoni, e incoraggiandolo a fare lo stesso. Si umettò le labbra, si schiarì la gola e chiese a Scapula: «Chi è questo Kaeso?».

Le pupille di Scapula si ridussero a due fessure, scostò il suo braccio dalle spalle e sguainò il pugnale che teneva infilato in vita, puntandolo contro la gola di Stico. «Cosa hai detto?», chiese con voce stridula.

Stico alzò le mani e rispose ansimando: «Stavo solo cercando di calmarti … So come ci si sente quando si fa un brutto sogno».

Scapula si alzò, infilò il coltello nella cintura e lo fissò negli occhi. «Non interferire con cose che non capisci, ragazzo…». Poi sputò a terra e si allontanò con il mantello che sventolava sulle sue spalle. Dopo qualche passo si voltò e, agitando un dito in aria, aggiunse: «…Se non vuoi morire anzitempo».