C’è post@ per te

Il campionato di calcio 1995/96 fu quello in cui per la prima volta i calciatori scesero in campo avendo sulle maglie il proprio nome e un numero che non cambiava più da partita a partita. Fu il campionato in cui per la prima volta le squadre avevano a disposizione tre sostituzioni, indipendentemente dal ruolo dei giocatori. Fu il campionato (così ci facciamo tutti un’idea del tempo che è passato) nel quale esordì in serie A il giovane portiere del Parma: Gianluigi Buffon, detto Gigi.

A seguire in modo scherzoso gli eventi di quel campionato c’era anche – giunto ormai alla sua quarta stagione – Mai dire gol, il programma della Gialappa’s band che, prendendo spunto non solo dal calcio, proponeva le gag dei migliori comici del momento. Tra gli altri, Francesco Paolantoni nei panni del «nonno multimediale»: un improbabile vecchietto che parlava d’informatica con un marcato accento napoletano, mescolando – più o meno a sproposito – tutte quelle parole tecniche che all’epoca cominciavano ad andare di moda: «Capisci di Internèt tu? E allora che parli a fà!».

«Nonno, cosa sta facendo, mi scusi?».

«Attendere prego…».

«Come va il computer nuovo?».

«Questo qua? Questo è fantastico, questo è una roba veramente straordinaria… C’ha un processore di 250 megahertz, 128 megabyte di RAM, un terabyte, e il riconoscitore vocale».

«Come, scusi?».

«Capisci di riconoscitori vocali tu? E allora!».

«Allora ce lo spieghi».

«Riconosce la voce e risponde, al livello di toni multimediali e voci virtuali».

«Ma cosa sta dicendo?!?».

«Vuoi sentire? Attendere prego…».

A proposito di programmi televisivi, è molto interessante risentire oggi cosa dicevano – in quello stesso anno – Carlo Massarini e Tullio De Mauro, in una puntata della trasmissione Mediamente dedicata all’Influenza delle nuove tecnologie sul linguaggio. In apertura di puntata, Carlo Massarini sentiva il bisogno di spiegare al suo pubblico cosa fosse la posta elettronica, evidentemente ancora poco diffusa in Italia (anche se negli USA la usava già un adulto su quattro). «Grazie a Internet diventa facile scrivere messaggi e inviarli in pochi secondi dall’altra parte del mondo, lo sapete no? Ovviamente, però, bisogna avere un indirizzo di posta elettronica e un programma per la gestione della corrispondenza; poi basta digitare il messaggio sulla tastiera del pc e via».

Rispondendo alla domanda «La telematica cambierà anche il modo di scrivere e di parlare?», De Mauro tendeva a minimizzare: «non mi sembra di vedere nessuna novità di base, biologica per dir così, nelle nuove tecnologie di raccolta e fissazione e trasmissione della informazione affidata al nostro linguaggio». A un certo punto, però, veniva sollecitato su un aspetto specifico. «Le nuove tecnologie stanno riportando in primo piano la scrittura: cosa ne pensa il professor De Mauro?». La risposta era molto chiara.

Quando alcuni di noi insistevano, anche in anni recenti, sulla necessità di far crescere i livelli di alfabetizzazione primaria nei paesi sviluppati (e in Italia soprattutto), si sentivano dire che questa era una battaglia di retroguardia; che ormai la scrittura aveva fatto il suo tempo, perché c’erano le «nuove tecnologie». Devo dire che alcuni di noi linguisti e alcuni studiosi di scienze dell’educazione, come Benedetto Vertecchi, da anni insistevano sul fare attenzione al fatto che le nuove tecnologie – con la loro pervasività, anche con il fascino che portano con sé – avrebbero prodotto «un rinnovato radicamento antropologico della scrittura».

Nel 1998, la commedia sentimentale intitolata You’ve Got Mail viene proposta al pubblico italiano come C’è post@ per te. Solo che da noi quel riferimento alla posta non faceva pensare ancora alla posta elettronica.

Se si va a riguardare il film, oltretutto, ci si accorge che i due protagonisti (impersonati da Meg Ryan e Tom Hanks) non comunicano in realtà per e-mail, ma tramite un servizio di messaggeria istantanea. Un tipo di servizio che negli USA si è imposto molto prima che da noi: secondo un’inchiesta svolta da America On Line, già nel 2004 il 90% degli americani fra i 13 e i 21 anni faceva uso degli instant messages e la percentuale complessiva era aumentata – rispetto al 2000 – del 29%.

Nello stesso anno esce il film italiano Viol@. In questo caso la vicenda si basa su una serie di avvenimenti legati alla frequentazione – da parte della protagonista, impersonata da Stefania Rocca – di una chat erotica. Il che ce la dice lunga su un immaginario italiano ancora attardato dall’influenza delle chat-line telefoniche. (In Italia si cominciò a parlare di chat, infatti, a proposito di un servizio telefonico: quello offerto dai famigerati numeri che cominciavano con 144, poi identificati con le telefonate erotiche. Ma la metafora delle stanze era già attiva in un medium scritto che oramai appartiene all’archeologia telematica e telefonica. Le messaggerie del Videotel, che – esattamente come le chat telematiche – consentivano di comunicare in diretta con altre persone collegate sotto pseudonimo. Il servizio, attivato nel 1986, all’inizio del decennio successivo stava già vivendo un irreversibile declino). Un immaginario legato a chat collettive in cui si faceva conoscenza con estranei, o – per meglio dire – si comunicava tra persone virtuali nascoste dietro a pseudonimi.

«Da dove dgt?», si domandava in rete quando si entrava in contatto con un nuovo «ircatore» (IRC «Internet Relay Chat» era il programma più diffuso per la gestione delle chat line). Una domanda che oggi, nel nuovo contesto delle comunicazioni telematiche, non avrebbe più senso. Oggi non è il dove che conta, ma il chi. Realtà virtuale e realtà reale si sono molto riavvicinate, e questo ha senza dubbio indebolito gli usi gergali (abbreviazioni, grafie particolari, formule fisse) che nella prima fase della scrittura telematica si caratterizzavano come diversi rispetto all’uso quotidiano.

«Chatti con uno. Parli. E va bene. Ma quando lo conosci? Quando lo vedi?», rispondeva una diciannovenne intervistata nel volume Chat line del sociologo Antonio Roversi. Quello che ci colpisce oggi non sono tanto le domande, che aprivano questioni all’epoca molto discusse come la «relazionalità iperpersonale» o il «multitasking identitario», quanto piuttosto l’esplicita equivalenza tra chattare e parlare.

Specie nella prima fase, d’altronde, la dimensione scritta della neoepistolarità è stata spesso messa in dubbio dagli stessi linguisti. Formule molto fortunate come written speech o writing conversation (o, in italiano, parlar spedito) insistevano sull’idea di una nuova forma di espressione linguistica. Una forma ibrida, in cui un medium scritto era usato per veicolare una comunicazione molto simile – nelle funzioni, nei modi, nella percezione degli utenti – a quella parlata.

Ancora nel 1999, intitolare un saggio L’e-mail si scrive o si parla? era un modo per riassumere il dibattito di quegli anni intorno alle nuove tecnologie. Solo che anche questa domanda oggi avrebbe poco senso. Nella ristrutturazione dei generi che è andata assestandosi negli anni, infatti, le e-mail hanno via via occupato la casella del registro medio-alto, soppiantando di fatto la lettera cartacea. Già nel 2004, negli USA, il 46% degli intervistati tra i 18 e i 27 anni dichiarava di sentire l’e-mail come un mezzo vecchio, adatto alla comunicazione con gli adulti e compromesso con le mode del secolo scorso.

Proprio dagli Stati Uniti viene una vignetta che rende bene questa nuova funzione – e soprattutto percezione – della posta elettronica come mezzo formale. Il titolo della vignetta è (traduco in italiano) Tempo medio speso per la composizione di un’e-mail. Sotto, due riquadri. Quello di sinistra ha come intestazione «Professori: 1,3 secondi». Si vede un tipo un po’ avanti nell’età, barbuto e calvo, con grandi occhiali; la sua postura è estremamente rilassata e dalla sua tastiera escono frasi come Sì. (Invio), Lo faccia. (Invio), Vedi allegato. (Invio).

Il riquadro di destra dice, invece: «Studenti: 1,3 giorni». C’è un ragazzo con gli occhi strabuzzati, la mano sinistra appoggiata alla bocca storta in una smorfia, la destra che digita tremante questo testo: «Caro (?) prof. Smith, mi stavo chiedendo se forse lei potesse possibilmente avere l’occasione di, in caso, trovare del tempo per magari dare un’occhiata alla bozza di tesina che io mi starei permettendo di allegarle…».

«Sì a SMS e posta elettronica, al bando i social network: il galateo per parlare al capo», titolava il 3 febbraio 2015 un articolo del “Corriere della Sera”. Al momento, in effetti, anche in Italia sembra essersi strutturata una gerarchia che vede l’e-mail come mezzo più formale e la messaggeria Whatsapp come il più informale (gli SMS si collocano a un livello intermedio).

Soprattutto con le e-mail, dunque, bisogna stare attenti. Qualche anno fa un’azienda americana aveva lanciato un servizio in abbonamento chiamato «E-angels», che garantiva (a distanza e in automatico) la revisione grammaticale di tutta la posta elettronica in procinto di essere inviata. Oggi Gmail consente di bloccare con uno specifico tasto le e-mail appena spedite, a patto che il ripensamento avvenga entro trenta secondi dall’invio. Un modo per evitare i disastri paventati da Umberto Eco in una Bustina di Minerva del 1996.

«L’e-mail è una diavoleria telematica con cui voi potete mandare pagine e pagine, anche in Australia, al costo di una telefonata urbana, in pochi secondi», spiegava Eco. «Non solo, ma chi ha ricevuto un messaggio può subito rispondervi rinviandolo con una nota in calce, talora basta un “d’accordo” e non c’è bisogno di formule come “egregio signore ho ricevuto la sua pregiata eccetera”: si fa un clic, mittente e destinatario s’invertono, e in pochi secondi la risposta arriva in Australia».

Poi immaginava la storia di un tal Pasquale che, inviato all’estero dalla sua azienda, sapeva da un collega (per e-mail) di aver subito un torto da un altro collega. Arrabbiato, rispondeva a caldo con una mail di insulti e insinuazioni, mandata per conoscenza anche ai suoi capi. Risultato: Pasquale, in un attimo, si era rovinato la carriera.

Com’era potuto succedere? Semplice, spiegava Eco: quando «si scrive una lettera, la si rilegge prima di spedirla, la si corregge per ottenere il tono più efficace». Invece Pasquale «era solo di fronte allo schermo del computer, che aveva eccitato la parte più oscura del suo animo. E il messaggio ricevuto ha mandato in cortocircuito il suo inconscio, senza lasciargli il tempo di consultare il Superego, come di solito accade. La macchina lo metteva in contatto immediato con tutto il mondo, ma gli imponeva le sue regole di accelerazione, facendogli dimenticare che, nel corso dei secoli, il contratto sociale ha imposto tempi diversi di azione e reazione».

Ancora una volta una questione di galateo: di forma che diventa sostanza. Perché nella vita la forma non è tutto, come ama dire il mio maestro: è il 95%.